GIOVANNI da Vicenza

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 56 (2001)

GIOVANNI da Vicenza

Luigi Canetti

Nacque a Vicenza, verosimilmente intorno all'anno 1200, figlio del causidicus Manelino, già tesoriere dell'amministrazione cittadina. La famiglia, contrariamente a quanto preteso soprattutto a partire dal secolo XVII da locali tradizioni erudite che volevano G. appartenente alla casata nobiliare dei conti da Schio, non era di estrazione aristocratica, e nelle lotte interne e intercomunali di quei decenni si sarebbe altresì schierata con la fazione dei populares, che in quegli anni acquisì il controllo delle istituzioni cittadine.

Gli anni della giovinezza e della formazione di G. sono avvolti da un alone d'ombra da cui è possibile trarre solo pochissime informazioni relativamente scevre da successivi rimaneggiamenti semileggendari.

Secondo le tradizioni accolte e divulgate dall'Ordine domenicano, G. si avviò agli studi giuridici a Padova, dove, nel 1217 o forse nel 1220, dopo aver ascoltato una predica di Domenico di Caleruega, maturò la decisione di prendere i voti nell'istituendo convento dei frati predicatori. L'affermazione di cronisti seriori, secondo cui G. si sarebbe recato quasi immediatamente presso il convento di Bologna, sorta di casa madre del nuovo Ordine, non risulta suffragata da documenti di sorta.

Nel 1231, dopo la morte di Antonio da Padova (13 giugno), G., in qualità di priore del convento padovano di S. Agostino, fu incaricato da papa Gregorio IX di far parte, insieme con il vescovo Giacomo Corrado e con il priore benedettino Giordano Forzatè, della commissione deputata a istruire la causa di canonizzazione del grande predicatore lusitano. Il vero ingresso di G. sulla scena pubblica del mondo politico-ecclesiastico italiano avvenne però poco dopo, nel 1233, in coincidenza con la nascita e la repentina diffusione in alcune tra le maggiori città padane del movimento devozionale noto sotto il nome di Alleluia.

A tale moto l'attività di predicazione dei frati dei due grandi Ordini mendicanti, minori e predicatori - che agirono in linea di massima di conserva rispetto alle direttive di "pacificazione" e repressione del dissenso ereticale impartite dal papato di Gregorio IX - diede un impulso decisivo nella fase di promozione e nella conduzione disciplinata secondo gli schemi di un severo ethos penitenziale, anche con l'ausilio di forme innovative di oralità e gestualità che, per il tramite dell'oratoria civile dei concionatores comunali, attingevano alla matrice ludica della teatralità folklorica, mutuando altresì dal prestigioso filone dell'itineranza ascetico-apostolica bassomedievale quel carisma che garantiva il frequente ricorso a spettacolari interventi taumaturgici.

Non è possibile accertare con assoluta precisione le circostanze che, nella quaresima del 1233 (tra il 9 febbraio e il 24 marzo), spinsero G. a recarsi a Bologna, dove sembra sia stato preceduto da una fama di predicatore già piuttosto consolidata. È in ogni caso poco probabile che sia stato il Comune cittadino a convocarlo direttamente, mentre rimane assai verosimile, nonostante i ripetuti tentativi di confutazione, la possibilità che a chiamare G. nella città sia stato un appello specifico del maestro generale dei domenicani, Giordano di Sassonia, che, pur trovandosi in quei frangenti a Reggio Emilia per promuovere la fondazione di un nuovo convento, fu a Bologna sin dal maggio seguente per l'annuale celebrazione del capitolo generale e la traslazione delle spoglie di Domenico di Caleruega.

Indipendentemente dalle ragioni del suo arrivo a Bologna, è certo che già i primi sermoni di G. dovettero consolidarne la fama non soltanto di predicatore di riconciliazione e di penitenza, ma anche di profeta e taumaturgo, capace di adattare il suo messaggio e i suoi propositi ai bisogni specifici di una città dilaniata da qualche anno da gravi conflitti sociali e giurisdizionali e ormai strangolata dalla carestia conseguente al rigidissimo inverno, che le fonti attestano per i mesi a cavallo tra 1232 e il 1233.

I temi della sua predicazione e gli ambiti del suo operato sono comuni a quelli di tutti i predicatori di tale movimento devozionale, quali Gherardo Boccabadati da Modena, Iacopino da Reggio, Leone da Perego, incentrandosi sui motivi ideali e gli strumenti politici e giurisdizionali per conseguire la pacificazione, la penitenza e la riconciliazione tra persone, istituzioni e partiti variamente coinvolti in annose situazioni di ostilità o di aperto conflitto. In particolare, G. scagliò i suoi strali contro gli usurai reclamando l'immediata liberazione di coloro che erano stati imprigionati a causa di debiti dei quali auspicava la remissione; predicò inoltre contro la vanità e l'eccessivo sfarzo nell'abbigliamento, femminile in specie, recando parole di consolazione a tutti i poveri e diseredati della città, sostenuto da una fama crescente di visionario e taumaturgo sulla quale, però, alcuni testimoni disincantati, come l'astronomo Guido Bonatti, non lesinarono valutazioni sarcastiche; e seriori cronisti, in primis Ognibene (Salimbene) de Adam, riferiscono episodi non sempre in linea con il canone edificante della vulgata agiografica, che veniva in tal modo argutamente parodizzato.

Ai sermoni di G., all'apice della sua fama, confluivano vere e proprie schiere organizzate in forma processionale dei principali organismi corporativi della città, recanti vessilli, croci, ceri e gonfaloni, nonché vere e proprie bande di iuvenes armati costituitesi, a un certo punto, in una sorta di guardia personale del focoso predicatore. È rimasta celebre al riguardo una grande processione penitenziale organizzata dallo stesso G. il 14 maggio 1233, la vigilia di Pentecoste, a cui presero parte, stando alle fonti, quasi tutti i cittadini di Bologna, scalzi e levanti al cielo grida di supplica.

Frattanto G., entrato a pieno titolo nella sfera dei rapporti politici, era stato l'artefice e il mediatore di numerose riconciliazioni tra persone e famiglie in conflitto nella città e nel contado. In particolare, già il 19 aprile di quell'anno il vescovo Enrico Della Fratta e il Comune cittadino gli affidarono formalmente la funzione di arbitro nella disputa che li divideva da qualche anno riguardo l'esercizio della giurisdizione comitatina e la riscossione delle decime: cassata una prima sentenza favorevole al vescovo (31 maggio), il definitivo lodo arbitrale, dal tenore largamente filocomunale, fu pronunciato da G. il successivo 20 giugno, quando i rappresentanti del governo cittadino gli avevano già affidato da qualche tempo la revisione degli statuti comunali conformemente a quegli obiettivi di stabilizzazione sociale e moralizzazione della vita pubblica che erano perseguiti dai predicatori della "rinascita" come piattaforma consensuale per l'ulteriore e cruciale motivo propagandistico, la repressione cruenta del dissenso ereticale.

Come sappiamo da testimoni oculari, uno dei temi più efficaci e clamorosi della predicazione di G. fu l'annuncio al popolo, per divina rivelazione, della vita, conversatio e santità di frate Domenico, la cui memoria sino ad allora era stata largamente obliterata dai frati predicatori bolognesi (e non solo), negligenti custodi del suo stesso sepolcro. È molto probabile che tale iniziativa, culminata il 24 maggio nella solenne traslazione della salma, con veglia d'armi e formale rappresentanza di illustri prelati e istituzioni civili, preludio all'assunzione del pater praedicatorum a compatrono bolognese, rispondesse innanzitutto agli auspici dei vertici dell'Ordine, e forse, ancor più, di papa Gregorio IX che, dopo la formale apertura e il buon esito della inquisitio in partibus, il 3 luglio 1234, iscrisse Domenico al catalogo dei santi.

Il 26 maggio 1233 una lettera dello stesso Gregorio partecipava a G. il formale compiacimento papale per i brillanti risultati conseguiti dal predicatore: nella nutrita serie di missive inviategli nel corso dei mesi successivi - dove fra l'altro veniva esortato invano, complice, forse, la resistenza degli stessi cives bolognesi a un suo trasferimento, a impiegare le sue risorse oratorie e carismatiche a servizio della pace tra le città belligeranti di Firenze e Siena - il pontefice, malgrado qualche comprensibile perplessità per l'esuberante intraprendenza di G., non giunse mai a privarlo del suo sostegno formale.

Il 28 maggio G. si recò tuttavia per qualche giorno nei territori di Modena, Parma e Cremona, città nemiche di Bologna, e con successo esortò alla pace gli eserciti già schierati sul campo di battaglia. Rientrò rapidamente a Bologna il 31 di quel mese a promulgarvi il suo primo arbitrato: quando, il 20 giugno, pronunciò quello finale, egli, ormai da qualche settimana, aveva intrapreso la sua opera di pacificazione nelle terre del Veneto, anche se Bologna, come sembrano attestare i numerosi rientri che vi fece nel corso di quell'estate per vegliare sul rispetto degli accordi da lui promossi, rimase in un certo senso la sua base operativa. Già verso i primi di giugno G. aveva infatti dovuto lasciare Bologna nottetempo e fuggire a Modena: in compagnia del vescovo Guglielmo, suo amico e sostenitore, che più volte lo avrebbe difeso dai detrattori presso la Curia papale, si imbarcò sul Panaro e poi, attraverso il Po, approdò a Ferrara e da lì, oltrepassata Rovigo, raggiunse la fortezza di Monselice, nel territorio di Padova, dove fu accolto trionfalmente dai rappresentanti ufficiali del Comune, forse già preventivamente accordatisi con lui per avviare i negoziati con i nemici della Marca trevigiana. Gli fu inoltre affidato l'incarico di mediatore nei conflitti cittadini. Ma nel giro di pochi giorni era già diretto a Treviso, nelle terre dominate dalla potente famiglia di Ezzelino da Romano, predicando la pace a cittadini e signori dei centri di Feltre e Treviso e nelle campagne circostanti.

Anche nel Trevigiano G. assunse incarichi formali di mediazione nelle dispute tra le fazioni e di revisione degli statuti cittadini, adoperandosi inoltre per il rilascio dei numerosi prigionieri catturati durante le guerre degli ultimi anni. Opera analoga intraprese di lì a qualche tempo a Vicenza. Andava frattanto maturando in lui il grandioso progetto di un'assemblea generale di pace che avrebbe dovuto coinvolgere tutti i grandi potentati del Veneto e della "Lombardia", e ne diede un primo annuncio nel corso di un sermone tenuto a Padova, in data non precisabile, al Prato della Valle. Verso la metà di luglio, mentre si dirigeva verso il centro della potenza dei da Romano, la città di Verona, passando per Mantova e San Bonifacio, G. fu preceduto da una solenne lettera papale, che garantiva un'indulgenza di venti giorni a tutti quelli che nel giro di una settimana avessero assistito ad almeno tre suoi sermoni ordinari ovvero a uno solenne.

A Verona G. gettò le premesse per la grande assemblea di pace: ottenne dapprima i giuramenti di Ezzelino da Romano, del podestà e dei rappresentanti delle due fazioni cittadine in lizza, giuramenti con i quali essi si impegnavano a prestargli obbedienza sottomettendosi alla Chiesa romana; analogo giuramento pretese poi e ottenne dai rappresentanti delle città di Padova, Vicenza e Treviso e dai grandi signori della fazione estense o "lombarda" (Riccardo di San Bonifacio, i da Camino, il Comune di Mantova), costringendoli inoltre a restituire a Verona il carroccio catturato l'anno precedente nel corso della guerra, e sul quale G. stesso fu portato in trionfo per le vie sino alla piazza del Mercato, dove il popolo, su proposta di lui, lo acclamò dux e rector della città atesina. Tra i pochi dissenzienti alla richieste di incondizionata obbedienza giurata ai suoi decreti arbitrali, una sessantina di cittadini "quos ipsos condemnavit de heretica pravitate", come ricorda il cronista Parisio da Cerea, membri di illustri famiglie cittadine, che tra il 21 e 23 luglio furono arsi vivi "in foro et glara de Verona".

Dopo un breve rientro a Bologna, verso il 20 agosto G. era già di ritorno a Verona, ormai pronto alla celebrazione dell'agognata assemblea generale per la pace di tutto il Veneto e della "Lombardia". Presso il campo di Paquara, circa quattro miglia a sud di Verona, sulle rive dell'Adige domenica 28 ag. 1233 convenne una folla enorme, forse decine di migliaia di persone (secondo le fonti cronachistiche, tutte a piedi nudi, per il dovuto rispetto al "profeta"), presenti i maggiori prelati della regione padana, i più stretti collaboratori di G. e tutti i grandi signori e dignitari laici coinvolti nelle trattative di pace, oltre alle delegazioni ufficiali delle città. G. era al culmine della celebrità e della gloria. Dopo un sermone e la rituale benedizione, promulgò i suoi decreti di pace e invitò i contendenti a scambiarsi quel bacio che avrebbe ritualmente sancito l'avvenuta e perpetua riconciliazione.

Quel miracolo, tuttavia, sarebbe durato soltanto pochi giorni. Già prima e durante l'assemblea serpeggiavano perplessità e malumori, specialmente alimentati dalla comprensibile diffidenza dei Padovani - guidati dal priore benedettino Giordano Forzatè - verso l'accresciuta influenza della fazione dei da Romano, che ritenevano favorita dall'operato di Giovanni da Vicenza. Egli, frattanto, si era recato a Vicenza, alleata di Padova, dove ottenne dal Comune i pieni poteri e intraprese la revisione degli statuti, adoperandosi per la riammissione degli esuli favorevoli ai da Romano: ma sembra che il suo operato riuscisse di fatto a scontentare tutte le parti. Abbandonato ormai al sostegno delle esigue e terrorizzate milizie veronesi, G. fu catturato nel palazzo episcopale dalle guardie del trionfante governo filopadovano di Uguccione di Pilo, e il 3 settembre, appena una settimana dopo il tripudio di Paquara, fu gettato in carcere. Dopo due giorni, nella piazza antistante l'episcopio vicentino, i suoi nemici, in testa Giordano Forzatè e il vescovo di Padova, lo umiliarono pubblicamente appellandosi al papa contro i suoi decreti, tacciati di iniquità e di illegalità. G. rifiutò ostinatamente di ripudiare le sue decisioni e, richiesto a sua volta un aiuto al papa, ne ottenne, il 22 settembre, quando era già stato liberato, una formale lettera di commiserazione. Non è dato precisare le circostanze della sua liberazione, probabilmente avvenuta per timore di rappresaglie da parte veronese. Malgrado ricoprisse ancora ufficialmente la carica di rector di Verona, G. aveva ormai di fatto perso tutti i poteri, e il 24 settembre successivo dovette presenziare all'insediamento dei due nuovi podestà. Anche il suo grande progetto di pace andò velocemente franando come un castello di carta, e la logica dei governi delle fazioni riprese così il sopravvento in tutta la regione.

Prima del 24 novembre G. aveva già lasciato il Veneto. Abbiamo poche notizie sugli anni seguenti, fino alla morte, in singolare contrasto con la fama e la gloria dei mesi estivi del 1233. Forse predicò ancora in Veneto, nel 1236, contro Federico II, come attesta una stizzita lettera dell'imperatore a Gregorio IX, che rispose ipocritamente di non sapere nulla a riguardo. Dopo undici anni, il 13 giugno 1247, il successore Innocenzo IV indirizzava a G., allora e fino al 1251 inquisitore nella provincia di Lombardia, una lettera riguardante la riconciliazione degli eretici e le indulgenze per gli auditori dei suoi sermoni: dalla missiva trapela un certo isolamento di G. all'interno del proprio Ordine, dal momento che i superiori vengono esortati dal papa a non ostacolarne l'operato.

Il cronista Rolandino da Padova parla ancora di un frate Giovanni, dell'Ordine dei predicatori, presente nelle file dell'esercito papale, sotto la guida del vescovo Filippo di Ravenna nella battaglia contro i da Romano, nei pressi di Padova, l'anno 1257: ma è assai dubbio che si tratti di G., che in tal caso avrebbe clamorosamente tradito il suo tradizionale orientamento politico. Al di là di menzioni incidentali e relative a fatti dalle fonti ritenuti miracolosi, G. morì nelle Puglie, dove si sarebbe recato sin dal 1259 a predicare la crociata contro Manfredi di Svevia, probabilmente entro la metà degli anni Sessanta.

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