CALVINO, Giovanni

Enciclopedia Italiana (1930)

CALVINO, Giovanni (Jean Calvin)

Federico CHABOD
Alberto PINCHERLE

Vita: la giovinezza. - Famiglia di battellieri sino alla fine del sec. XV, quella dei Cauvin di Pont-l'Évêque. Ma verso il 1480 Gérard Cauvin, abbandonati il villaggio e la professione famigliare, se ne va a Noyon; e nella cittadina piccarda diviene procuratore, notaio apostolico, poi notaio e promotore del capitolo. Sposa una ricca fanciulla, Jeanne Le Franc e ne ha quattro figli e due figlie: il secondogenito, che nasce il 10 luglio 1509, riceve il nome di Giovanni.

A 12 anni Giovanni ottiene in beneficio ecclesiastico una delle quattro porzioni della cappella di Gésine; ma più importavano per la giovinezza del futuro riformatore le amicizie e le relazioni di Gerardo con le principali famiglie nobili del paese, ché in grazia di ciò nel 1523 Giovanni fu inviato con i giovani Montmor a Parigi per compiere gli studî. Vi andava, dopo la prima istruzione ricevuta al collegio des Capettes, a Noyon; e con un'assidua pratica religiosa, che la madre, donna devota, gli aveva inculcato. A Parigi G. comincia col frequentare i corsi del collegio de la Marche, dove ascolta Mathurin Cordier, magnifico pedagogo, che più tardi andrà anche lui a Ginevra; poi nel 1526 passa al collegio Montaigu, roccaforte del conservatorismo cattolico, feudo di Beda: ma intanto si lega d'amicizia con i figli di Guglielmo Cop, seguace delle nuove idee, e ascolta il cugino Pietro Roberto, detto Olivetano, già conquiso dalle dottrine evangeliche; assiste alle prime controversie fra i diffonditori dell'evangelismo e la Sorbona, tra Berquin e Beda; vede suppliziare i primi martiri della riforma francese. Anche da Noyon cominciano a giungere notizie di dissensi fra il padre Gerardo e il capitolo. Vero è che giunge pure, nel 1527, la concessione a Giovanni della chiesa parrocchiale di Martheville (ch'egli scambierà poi, nel 1529, con quella di Pont-l'Évêque).

Giovanni lascia la capitale al principio del 1528. A Parigi ha approfondito filosofia e teologia, s'è impadronito bene del latino; ma seppur non è vero che vivesse nell'isolamento, si è tenuto lontano da quella vie d'estudiant, che la maggior parte dei suoi colleghi amava condurre, fra taverne e donne. Uscito da Parigi, va ad Orléans, dove rimane sino al 1529 studiando diritto (questo per volere del padre) con Pierre de l'Estoile; poi, probabilmente dal settembre 1529, si reca a Bourges, e qui ben presto entra in polemica con l'Alciato a favore del vecchio maestro d'Orléans. E già negli attacchi contro il giurista milanese si avverte quel rigore logico, unito con la passionalità del combattente deciso, che ritroveremo in ben altre proporzioni - nella lotta per la Riforma.

La conversione. - La leggenda non ha inserito nella vita del C. l'episodio drammatico della conversione operata all'improvviso per miracolo; e d'altra parte l'opera di lui non ci fa assistere al formarsi della personalità, presentandocela invece già definita quasi compiutamente. Lo stesso epistolario ci rivela l'uomo allorquando la sua evoluzione interna è, nelle linee fondamentali, terminata. C'è, è vero, la prefazione al commento ai Salmi, nella quale C. stesso, nel 1557, ci narra la sua vita (Opera, XXXI, 19 segg.): ed egli afferma allora di essere stato mosso da una subita conversione. Ma siffatta subitaneità, a cui par d'altronde contrastare quel che C. dice di sé stesso nella risposta al card. Sadoleto (Opera, V, 389), non è se non una trasposizione psicologica, per cui l'uomo ormai sicuro di aver ricevuto la grazia da Dio, di essere fra gli eletti alla gloria eterna, è tratto a vedere nella propria vita passata l'intervento della volontà divina operante il miracolo: mentre invece la conversione dovette essere frutto di un rivolgimenti) interno, fors'anche penoso, certo operatosi a grado a grado.

Quando e come il rivolgimento interiore si iniziasse è dubbio. Taluni lo fanno iniziare già nel 1526-28, sotto l'influsso dell'Olivetano; altri attendono il 1531-32, l'ultimo periodo di Bourges cioè e il nuovo soggiorno a Parigi. Per vero, fino a questo momento non v'è in C. traccia di particolari preoccupazioni religiose; e lo stesso commentario al De Clementia di Seneca, uscito nel '32, non dice nulla, a questo proposito, del suo autore. Ma a Bourges C. trova un ambiente permeato di evangelismo. Il suo amico Melchione Wolmar, che gl'insegna il greco, è luterano: e del resto c'è nell'ambiente universitario di Bourges molto spirito di fronda, nei riguardi dell'ortodossia. E cresce l'interesse dello studente, ormai forte di una solida dottrina, avido di conoscere, avido anche di gloria, per gli avvenimenti che si svolgono fuori di Bourges: in Francia l'eresia guadagna terreno, attraverso le controversie dei teologi e nonostante la brutalità della repressione, in Germania la lotta ferve in pieno. Tutto ciò dovette agire sul giovane come dovette anche agire, sotto altri rispetti, il triste spettacolo che gli si offrì a Noyon, quando vi si recò per assistere il padre morente, in vivace contrasto col capitolo (maggio 1531). Ma erano, tutti questi, motivi esterni non sufficienti a determinare una conversione così profonda e totale. Il dramma vero si svolse per opera di forze interne, che lentamente premevano sulla mente e sull'animo di C. Noi non ne conosciamo neppure approssimativamente le vicende. Si è più volte sostenuto, che C. sarebbe stato determinato a mutare dottrina e vita da motivi intellettuali più che da motivi mistici. da un convincimento teorico più che da un irrefrenabile bisogno dell'anima: ma l'ipotesi deriva dalla tradizionale convinzione che C. fosse solo intelletto. Ed invece, dovette essere anche in lui uno slancio mistico primo: quello slancio, per cui gli uomini sono attirez et enflambez (notate il verbo!) à obeyzr sciemment et voluntairement. Dovette agire in lui quella persuasion, laquelle ne requiert point de raisons: s'egli poté affermare di non dire altro que ce qu'un chascun fidele experimente en solvy (Institution Chrétienne del 1541, ed. Lefranc, p. 21), se poté definire la fede non une nue et seule cognoissance de Dieu ou intelligence de l'Ecripture, laquelle voltige au cerveau sans toucher le cueur..., ma une ferme ef solide confiance de cueur (Catéchisme del 1537, Opera, XXII, 47). Non era solo intelletto, Calvino.

Comunque, la rivelazione del nuovo C. si ha solo alla fine del 1533. Dopo un secondo soggiorno a Parigi e ad Orléans, nell'ottobre del '33 egli è di nuovo a Parigi: e questa volta fa già parte del gruppo evangelico. Il 1° novembre, avviene il colpo di scena. Il rettore dell'università, Nicola Cop, deve pronunziare nella chiesa dei Maturini l'annuale discorso: C. lo redige e ne fa il "manifesto" dei riformatori francesi. Erasmo e Lutero gli servono per il commento a Matteo, V, 3; il principio della giustificazione gratuita è affermato; infine c'è la difesa di quelli che sono chiamati eretici e che purement et sincèrement s'efforcent d'insinuer l'Évangile dans l'âme des fidèles. La Sorbona muove immediatamente al contrattacco: Cop è costretto a fuggire a Basilea e C. pure fugge; ritorna poi a Parigi grazie all'intervento di Margherita di Navarra; costretto nuovamente ad uscire dalla capitale, si reca ad Angoulême, a Nérac, a Noyon, dove il 4 maggio 1534 rinunzia ai suoi benefizî ecclesiastici, a Poitiers, a Orléans. Finalmente, di fronte all'inasprirsi della persecuzione contro i riformati, abbandona la Francia: attraversa la Lorena, va a Strasburgo e di lì a Basilea.

Dalla pubblicazione dell'"Institutio Christianae Religionis" al periodo di Strasburgo (1535-1538). - Certo, non questa era la via che sognava lo studente in diritto di Orléans e di Bourges, l'uomo che riconosceva di essere per natura timide, mol et pusillanime, di amare requoy et tranquillité (Opera, XXXI, 22 e 26). Ma questo stesso uomo, d'altronde animato da una coscienza esatta della propria capacità, era ormai trasformato: la natura sua poteva non essere quella di un martire, ma la fede in Dio ne sorreggeva ormai i passi. A Basilea, sotto il nome di Martianus Lucanius, si butta al lavoro: ed ecco la prefazione per la traduzione della Bibbia di Olivetano; poi, nel marzo del 1536, esce alla luce l'Institutio Christianae Religionis, già cominciata probabilmente ad Angoulême nel '34. La prefazione è l'appello a Francesco I di Francia, invitato a farsi difensore dei riformati; l'opera è il sistema teologico-morale di C.

Ma è appena uscita, che C. è già lontano da Basilea. Nel marzo del 1536 infatti passa in Italia; attraverso i Grigioni, Coira e Chiavenna, scende nella valle padana e si reca a Ferrara, alla corte di Ercole II d'Este e di Renata di Francia, dove si trattiene probabilmente dal 23 marzo al 14 aprile. Renata deve subire decisamente l'influsso dell'ospite di pochi giorni, se da allora ella gli richiederà costantemente consiglio, a Strasburgo come a Ginevra. Ma a Ferrara spira anche, per opera del duca, aura di reazione: fra la fine di aprile e la fine di maggio C. esce dalla città e torna in Svizzera. Poi, approfittando dell'editto di Lione che concede agli eretici di rientrare in Francia a sistemare i loro affari, va a Parigi. Nel luglio è a Ginevra di passaggio per Basilea e Strasburgo.

A Ginevra, già dal maggio 1536 la Riforma è stata ufficialmente adottata dal consiglio generale; ma tuttora incerta è la situazione, tanto politica quanto religiosa. Ed ecco Farel che da anni predica la Riforma nella Svizzera francese, corre a lui, lo supplica di trattenersi nella città per lavorare al consolidamento della causa evangelica. C. si spaventa, si schermisce, adduce a pretesto i suoi studî: sinché Farel scatta e invoca su di lui la maledizione di Dio. L'animo dello studioso, quieto, riluttante a cacciarsi in una situazione critica, ad assumersi souci ne melanconie, è sconvolto dalla biblica apostrofe: C. rimane non pas tant par conseil et exhortation, que par une adiuration espovantable, comme si Dieu eust d'enhauit estendu sa main sur moy pour m'arrester (Opera, XXXI, 26). Verso la fine di agosto comincia la sua opera di sacrarum literarum in ecclesia Genevensi professor. Sennonché lo stesso uomo che non voleva sobbarcarsi a un incarico, è poi di natura tale da non potersi più limitare a una funzione specifica sola. C'è in lui, e forse egli stesso non ne è ancora pienamente consapevole, una potente volontà di dominio, un bisogno quasi irrefrenabile di essere padrone, di far sentire il peso della sua decisione, che si completa a perfezione con le esigenze del suo pensiero, che vuole il trionfo di Dio in ogni campo che gl'impone quindi di batailler per Dio su ogni questione. Ed eccolo quindi a Losanna (primi d'ottobre) per una disputa contro i cattolici e a Berna; ed accettare le funzioni pastorali, quasi subito; e scrivere febbrilmente gli Articuli de regimine ecclesiae (novembre 1536) e compilare il Catéchisme (1537) per i cittadini di Ginevra. Energica, anzi, troppo energica e prematura azione.

Gli Articuli imponevano infatti alla popolazione un controllo morale continuo e minuto affidato a persone scelte fra i fedeli, d'accordo coi pastori (armi contro i trasgressori, l'ammonizione prima e la scomunica poi); e con la Confession de Foy, scritta forse da Farel ma certo in accordo con C., si andava ancora più in là: ché tutti i cittadini dovevano giurarla, pena l'esilio. Regime quindi di assoluta e intransigente confessionalità che non tutti i Ginevrini erano disposti ad accettare. V'erano ancora parecchi cattolici o appena tiepidamente evangelici; e soprattutto, poiché l'avvento della Riforma era stato dovuto in prevalenza a motivi politici (desiderio d'indipendenza dal vescovo e dal duca di Savoia), anche tra i riformati molti erano poco disposti a rimettere la direzione effettiva della vita comune in mano ai pastori. S'accendono quindi contrasti, lunghi ed acri. Berna, che aspira al dominio su Ginevra, chiede nei primi mesi del 1538 la conformità del culto ginevrino col suo; C. si oppone, ma le elezioni del 3 e del 5 febbraio 1538 a Ginevra hanno dato il potere al partito avverso a lui e l'invito-ordine di Berna viene accolto. Il Consiglio proibisce a C. e a Farel di predicare; poi, siccome i due riformatori hanno infranto l'ordine, li esilia (22-23 aprile). Il 23 o il 24 C. abbandona la città; e, svanita ogni possibilità di accordo, il 3 giugno da Berna parte per Basilea. Vorrebbe ora vivere tranquillo, senza incarichi di sorta; ma Butzer lo sollecita a recarsi a Strasburgo: e ancora una volta, spaventato dalla biblica minaccia di Butzer, C. cede e ai primi di settembre è nella città alsaziana.

A Strasburgo (1538-1541). - Il primo esperimento d'instaurare il regno di Dio in terra era fallito; ma il sentimento di C., anziché di tristezza era stato di gioia. La natura timide riprendeva un istante il sopravvento: non era stato forse egli già tentato durante la permanenza nella città di abbandonare il grave fardello? ora la liberazione era venuta ed egli se ne rallegrava plus qu'il ne faloit. A Strasburgo ebbe accoglienze fraterne da parte dei capi dei riformati: Capitone, Butzer, Giacomo e Giovanni Sturm. Ché Strasburgo era allora uno dei massimi centri delle nuove idee; e C. stesso vi foggiò definitivamente il suo pensiero sotto l'influsso di Butzer. C'erano anche parecchi Francesi fuggiti alle persecuzioni di Francesco I; comunità piccola di numero, ma grande per l'importanza morale e politica che assume, per l'influsso che avrà sull'organizzazione dei riformati francesi, di cui C. diviene pastore, mentre dà lezioni pubbliche sulle Sacre Scritture.

Due anni operosi ma, in confronto del periodo ginevrino abbastanza quieti, il 1539 e il 1540. Tanto quieti anzi che C. sposa nell'agosto del 1540 Idelette de Bure. E intanto lavora: scrive nel '39 la celebre risposta al cardinale Sadoleto; partecipa ai colloquî di Haguenau, di Worms, di Ratisbona (1540-4t); conosce Melantone, di cui diviene amico. Gli muore, è vero, ancora in fasce il figlio; ma egli accetta la volontà del Signore (Opera, XI, 430).

Non che l'uomo sia insensibile e gelido, è anzi un passionale; di una passionalità violenta, che si estrinseca in espressioni di una forza talora anche plebea, ma sempre impressionante. Anche fuor di polemica ìl pensiero si traduce spesso in parole sensuose che dànno al ragionamento la vivezza di un'immagine corporea; e più volte ancora il ricordo biblico si presenta spontaneo all'immaginazione fervidissima dell'uomo, che lo butta nel suo discorso d'un subito echeggiante l'ira del Signore e la trepida attesa del popolo d'Israele. Potenti pagine, quelle di C.; alla incisività dell'immagine s'unisce l'incisività di uno stile sicuro, chiaro, robusto. Soltanto, la passione di C. ha ora un supremo oggetto: la gloria del Signore, di fronte a cui cadono tutti gli affetti umani. Per questo egli non perdona a nessuno, per questo devono cessare pazienza e moderazione, per questo cessi la carità cristiana. C. è il cane che serve il suo padrone, Dio, un cane fedele e pericoloso a toccare. Pericoloso veramente non solo in quanto concernesse il suo Signore: ché C. non era uomo di umore facile e lui stesso lo confessa, quando la crisi di cattivo umore è passata. Allora si riavvicina all'amico che ha prima rimproverato; riconosce d'essere andato troppo oltre, diviene affettuoso e fraterno. Ma basta che lo stesso più caro amico (e l'amicizia egli sentiva intensamente) non gli scriva per qualche tempo: la sua ombrosa suscettibilità è scossa, e son rimproveri e minacce, e il tono diviene quello del padrone che comanda (cfr., per es., Opera, XI, 30 e 52). Con i nemici, poi, sono tempeste, durante le quali l'uomo perde il controllo su sé stesso e si slancia fuor d'una stanza, in preda ad accessi di pianto e di gemiti. Vero è che si riprende subito: e nel riesaminare una situazione, apporta una nuova lucidità e freddezza di mente, non prevedibili dopo la violenta collera. E vero è anche che l'intransigenza nei principî, la severità della rampogna sono non solo per i deboli, ma anche per i grandi della terra; e ch'egli non esita a rimproverare coloro stessi per cui prova ammirazione e rispetto, un Butzer per es. o un Melantone, quando la loro azione non gli paia pienamente consona al comandamento di Dio. Eppure l'armatura di ferro aveva le sue incrinature; e la chair tendrette non era ancora del tutto domata. Lo si vede bene nell'atteggiamento di C. di fronte alle insistenti richieste dei Ginevrini per riaverlo fra loro.

A Ginevra le cose andavano assai male: la cacciata di C. e di Farel aveva significato la sottomissione della città a Berna, donde nuovi contrasti fra amici ed avversarî del riformatore, sinché nelle elezioni del 1540, il partito di C., i Guillermins, va al potere. E dal giugno del 1540 cominciano gl'inviti al ritorno che si fanno sempre più pressanti, continui. Farel, Viret, altre comunità riformate della Svizzera si uniscono nella preghiera. Ma C. non ne vuole sapere. Il solo ricordo dei giorni passati a Ginevra lo fa inorridire; e s'egli sa bene che dovunque vada, dovrà lottare con infinite molestie, pure Ginevra è troppo per lui, né egli vuole riprendere daccapo sulle proprie spalle un fardeau si pesant (Opera, XXXI, 28) e rimettersi a contatto con persone che non può soffrire. Sennonché le pressioni son troppo forti: egli esita a pronunziare un no schietto, e finisce, questo condottiero di uomini, col rimettersi alla decisione degli amici, non partecipando neppure ai loro conversari acciò essi siano più liberi nel decidere.

La faccenda si trascina a lungo. Poco disposti gli Strasburghesi a lasciar partire il loro ospite, meno ancora disposto C. a ritornare nella bolgia. Ma poi, ancora una volta, di fronte all'appello che gli ricorda la sua vocazione, C. piega la testa; e il 13 settembre 1541 rientra a Ginevra.

Calvino a Ginevra. - Tornava assai forte. Già il fatto solo del suo richiamo gli dava un'autorità prima non avuta; di poi il soggiorno a Strasburgo, ponendolo a contatto diretto con la Riforma germanica ne aveva accresciuta la fama e l'influenza, ne aveva temprato maggiormente l'ingegno, dandogli un'esperienza larga di uomini e di cose, di questioni politiche e teologiche che nel '36 non aveva. Poté così riprendere l'opera interrotta nel '38 e condurla a termine col trionfare, sia pure attraverso contrasti religiosi-politici; e questo senza aver altra carica che quella di pastore.

L'azione fu rapida. Appena arrivato, C. si presenta al Consiglio e impone che si redigano le ordinanze destinate a regolare l'organizzazione della chiesa in Ginevra (le Ordonnances ecclésiastiques); il 20 novembre il lavoro è finito. Poi, una commissione, di cui C. fa parte, riassesta la legislazione della città, in gran parte sulla base delle leggi e usanze già esistenti, ma non senza modificazioni e più introducendo nuove norme; e così nel gennaio 1543 anche l'assetto costituzionale di Ginevra è compiuto.

Istituite da Dio sono le cariche dei pastori, dei dottori, degli anziani, dei diaconi. I primi, che costituiscono l'elemento essenziale della chiesa calvinista, devono attendere al culto: al loro reclutamento C. attende con cure strettissime, sorvegliandone da presso la moralità e il pensiero, smrtando inflessibilmente quelli che non gli paiano adatti al ministero evangelico. Solo così gli sarà possibile organizzare un clero fortemente inquadrato, bene addestrato nelle questioni teologiche e pronto alla controversia: qualità che indubbiamente si ritrovano nella massima parte dei pastori usciti dalla scuola di Ginevra in quel torno di tempo. I dottori invece attendono all'insegnamento; gli anziani alla disciplina e sorveglianza dei costumi; i diaconi alla cura dei poveri. Ma al disopra di questi ordini della chiesa C. pone il concistoro: formato da sei pastori e da dodici anziani, laici, esso deve vigilare strettissimamente la vita dei cittadini, convocando ogni settimana dinnanzi a sé e punendo i peccatori, scomunicando quelli che rifiutano di sottomettersi, facendo esiliare i più ostinati nel male, visitando almeno una volta all'anno le case dei privati per controllare la vita intima dei cittadini. Supremo tribunale per i costumi, custode geloso delle ordinanze, in realtà il concistoro, che per il suo reclutamento (pastori da una parte; laici eletti dal piccolo consiglio cittadino dall'altra) costituisce come un organo di collegamento fra Stato e Chiesa, diviene il centro vero del governo in Ginevra: poiché l'autorità civile deve eseguirne le decisioni; poiché ad esso spetta persino il diritto di censura sui magistrati che dimostrino poca cura dello spirito del Vangelo nell'amministrare la città. La vita civile, come quella religiosa, non ha che uno scopo solo: la gloria del Signore, l'esaltazione della sua parola. Quindi, anche se l'autorità civile è indipendente da quella ecclesiastica, e anzi formalmente rimane suprema regolatrice della vita del piccolo stato, in realtà nel centro spirituale di esso stato sta la parola dei pastori e del concistoro.

Fu un giogo formidahile imposto alla cittadinanza: ché le ordinanze non rimasero lettera morta, ma vennero applicate con spietata rigidità, e centinaia di persone furono processate e condannate. E se apparentemente la costituzione, sia civile sia ecclesiastica, era democratica, in realtà il regime fu nettamente "aristocratico", con una forte concentrazione dei poteri nelle mani dei maggiorenti.

Ma non tutti i Ginevrini erano disposti a diventare i guerrieri di Dio. Già i due pastori, primi colleghi di C., Henry de la Mare e Jacques Bernard, non dimostravano soverchio entusiasmo per l'azione del nuovo venuto; e più tardi, fra i quattro pastori allora al suo fianco scoppiano liti tali, che C. ne è scoraggiato; e ancora, nel '49, deve insorgere contro la vita immorale di un altro pastore, Ferron, e prima di vincere la partita è costretto a multas indignitates devorare (Opera, XIII, 294). Più gravi ancora le lotte per salvare l'integrità della dottrina, non solo contro gli anabattisti, ma anche contro un Castellion prima, un Bolsec più tardi. E poi c'è la situazione interna di Ginevra, tutt'altro che rosea. La bibliocrazia è instaurata, nella legge; nella pratica l'autorità civile non vuol saperne di essere semplice esecutrice del verbo dei pastori. Se mai, preferisce invertire il rapporto. L'opposizione cresce, reclutandosi fra quelli che non intendono abbandonare a un francese il dominio effettivo della città e quelli che non sono disposti a dimenticare le gioiose tradizioni borghesi, balli, ubriacature e amorosi traffici. Berna intanto, sempre incline a ingerirsi nelle cose di Ginevra e a far da padrona, soffia nel fuoco. Nel '46 l'urto si precisa: Pierre Ameaux accusa pubblicamente C. di essere un impostore, di voler diventare vescovo della città, di voler dominare, lui e i Francesi. Nel '47 il programma dei cosiddetti Libertini, è formulato: "né concistoro né Francesi". L'aver fatto tagliar la testa a Jacques Gruet, che ha affisso un placard contro il riformatore, non basta. I Libertini, spalleggiati da Berna, ingrossano di numero e di audacia: nel 1553 il governo passa nelle loro mani, ed essi escludono i pastori dal consiglio generale, e accusano C. di voler sottomettere Ginevra alla Francia. In quel momento Serveto, l'antitrinitario a cui C. ha giurato odio implacabile, giunge a Ginevra. Potrebbe essere un prezioso aiuto per i nemici del riformatore: ma questa volta C., spalleggiato anche dalle altre comunità evangeliche svizzere, la spunta, e Serveto è preso, processato e mandato al rogo. Un momento minacciato da presso, il riformatore riprende forze; e quando nelle elezioni del 1555 il partito di C. trionfa completamente, i Libertini passano all'azione armata, provocando la rivolta del 16 maggio. È il loro crollo: represso il movimento, i più devono cercare la salvezza nella fuga, sessanta fra loro sono condannati a morte, due, rimasti a Ginevra, salgono il patibolo. Da allora il dominio di C. sulla città è pieno e intero.

Gli è che nonostante la forza del partito avverso, C. aveva avuto dalla sua elementi formidabili di successo: soprattutto l'afflusso continuo d'immigrati francesi, che venivano a poco a poco sovrapponendosi alla stessa popolazione indigena e che costituivano il vero esercito del riformatore. Ginevra, centro della predicazione di C., perde le antiche caratteristiche; diviene città internazionale, ove il vecchio elemento finisce col perdere la prerogativa del potere.

Contribuì nell'ultimo periodo al trionfo del sistema calviniano la speciale situazione in cui Ginevra si trovava di fronte ai vicini, specialmente di fronte al duca di Savoia che anelava al ricupero della bella città perduta. Che se il pericolo non si fece avvertire fino alla pace di Cateau Cambrésis, per essere il duca in altre faccende affaccendato, subito dopo il riacquisto delle sue terre Emanuele Filiberto vagheggiò un colpo grosso: la formazione di una lega contro gli eretici, per sopprimere in Ginevra e in C. il centro più pericoloso della Riforma. Il che per il duca sabaudo significava l'acquisto della città. Le trattative andarono a rilento; fallì un tentativo di Claudio Alardet, antico precettore del duca, che recatosi a Ginevra propose a due fiduciarî del consiglio di tornare sotto il dominio sabaudo: ma fino al '62 il duca continuò a progettare la grande lega contro la città di C., e solo l'accordo di Losanna (30 ottobre 1564) fra il sabaudo e i cantoni svizzeri valse ad assicurare maggior tranquillità. Ora la politica di Emanuele Filiberto non poteva aver per effetto che un rafforzamento dell'autorità del riformatore della città: ché trionfo della lega contro l'eresia voleva dire chiaramente per Ginevra perdita della propria indipendenza politica, conquistata prima che C. venisse a predicare, ma difesa ora soprattutto da lui. Non aveva egli più di ogni altro respinto con veemenza le proposte dell'Alardet? La formazione di un nuovo ceto di bourgeois ginevrini, immigrati da altre regioni e decisi sostenitori del riformatore, e la delicata situazione di Ginevra di fronte al suo antico signore permisero a C. di trionfare dell'opposizione e di assicurare il successo al proprio sistema.

Ma furono anni di estenuanti fatiche. L'uomo era da tempo indebolito fisicamente; fortissime emicranie, dolori di stomaco specialmente lo prostravano a tratti, ne rendevano penosa l'esistenza. Nel'49 gli moriva la moglie; e sempre c'erano accuse, ingiurie a tormentarlo. Undique me canes allatrant... Denique me invidi et malevoli ex grege nostro infestius oppugnant, quam aperti hostes ex papatu (Opera, XV, 271). La stanchezza lo coglie così, a tratti; ma subito si riprende e se da un lato si occupa fin nei minimi dettagli della vita politica e morale e spirituale della sua città (ad es., sempre preoccupato del problema educativo, fonda nel '59 l'Accademia di Ginevra), dall'altro scrive: fra il '46 e il '55 escono i Commentarî al Nuovo Testamento, alle Epistole di Paolo, di Giacomo, di Giovanni, di Giuda, seguiti dai commentarî al Vecchio Testamento. E poi sono le questioni religiose di mezza Europa che ormai richiedono l'intervento del riformatore.

L'azione di C. fuori di Ginevra. - Da tutte le parti ci si rivolge da tempo a lui, e a tutte le parti egli si rivolge. Vuole l'unione delle chiese protestanti, a cominciare dalla Svizzera: nel '48 va a Zurigo con Farel e si rappacifica con Bullinger; nel '49 stipula il Consensus Tigurinus che attesta l'accordo della teologia calvinista e di quella zwingliana, e prepara l'accordo di queste due con quella luterana; interviene nei contrasti interni che dividono i riformatori germanici dopo la morte di Lutero e in tutte le questioni grandi e piccole delle chiese vicine, di Losanna e di Neuchâtel specialmente; scrive a lord Somerset quelques advertissements, acciò continui la saincte et noble entreprinse della Riforma in Inghilterra (Opera, XIII, 65 segg.); scrive a Edoardo VI d'Inghilterra, a Cristiano di Danimarca, a Gustavo di Svezia, a Sigismondo Augusto di Polonia, così come a un signore piemontese, a Pietro Martire.... E soprattutto si occupa della Francia. Era la vecchia patria che C. non dimenticava: lui che nel '40, pur cacciato in esilio dall'azione di Francesco I, nella lotta fra Carlo V e Francesco I svolgeva azione a vantaggio di quest'ultimo (cfr. Opera, XI, 62). Ma è ora soprattutto la terra in cui la dottrina di lui, C., più profondamente s'è propagandata; dove per contro la Riforma è più aspramente combattuta dalla politica regia. Scoppia la guerra civile: e C., che ha disapprovato la congiura di Amboise, e che ha cercato d'impedire l'appello alle armi almeno in un primo momento, nel '62 cerca di sostenere, come può, la lotta dei suoi correligionarî. Ma sono molti i giorni amari per lui; molte le delusioni sul conto degli uomini. Ché anche lui si abbandonava talora a ingenua fiducia, in un Antonio di Borbone, per esempio, o in un Luigi di Condé di cui doveva poi bollare, al momento dell'editto di Amboise, la dominandi libido e la levitas (Opera, XIX, 690 e 693).

La morte. - Sennonché l'uomo era fisicamente finito. Alle sofferenze di testa e di stomaco s'erano aggiunte le febbri, e dal dicembre del '59 gli sbocchi di sangue; dal '63 il tracollo fu rapido. La mente rimaneva lucida; ma il corpo piegava, i dolori non cessavano più. Il 6 febbraio 1564, mentre predicava, uno sbocco di sangue lo costrinse a scendere dal pulpito; il 2 aprile ricevette ancora la Cena dalle mani di Teodoro di Beza; il 25 aprile fece testamento; il 27 e il 28 fece venire presso di sé i magistrati e i pastori e diede loro gli ultimi consigli; il 27 maggio, a sera, rese l'ultimo respiro.

La dottrina. - Si è avuto occasione di segnalare più sopra quanto noi sappiamo in realtà dell'evoluzione spirituale di C., delle esperienze o delle ragioni che possono averlo indotto ad abbracciare la dottrina - caratteristica in generale della Riforma - della giustistificazione per la sola fede, mediante l'attribuzione dei meriti del Cristo all'anima del credente. Non mancano, come si è visto, motivi per indurre che non sia stata estranea a C. una forte esperienza mistica; perciò, oltre che all'Olivetano e al Lefèvre d'Étaples, potremmo essere indotti a ricongiungerlo idealmente a Gersone, le cui opere lo Staupitz metteva in mano, affinché lo consolassero, nel convento di Erfurt, al giovane monaco tormentato dagli scrupoli, Martin Lutero. Dal quale si ripete generalmente che C. prese senz'altro quella che è la dottrina centrale della Riforma, solo modificandola in alcuni punti (però d'importanza fondamentale); del quale si disse anzi che C. comprese la predicazione come nessun altro dei riformatori; mentre al francese, ingegno chiaro e metodico, sistematico e pratico, formatosi in un ambiente di cultura umanistica, si riconoscono soprattutto due meriti: di aver dato la più vasta ed organica esposizione delle dottrine riformatrici, superiore a quella di Melantone, e di aver organizzato quella che si poté chiamare "la Roma del protestantesimo". Studî recenti conducono altresì ad attribuire sempre maggiore importanza all'ambiente di Strasburgo e all'influsso che su C. esercitò senza dubbio la teologia del Butzer. Da Strasburgo C. portò in sostanza a Ginevra il tipo di organizzazione ecclesiastica che egli riuscì a far prevalere, con gli anziani, le magistrature collegiali ecclesiastiche e il modo dell'elezione dei pastori, soprattutto la dottrina che i quattro uffici ecclesiastici sono di diritto divino. Nella teologia del Butzer si trovano anche altri concetti fondamentali per C.: che alla vocazione si accompagni nei chiamati la coscienza della loro elezione, la dottrina di una doppia predestinazione (perché anche i cattivi hanno la loro funzione e il loro posto nell'ordine dell'universo), l'importanza data all'onnipotenza di Dio, l'attenuazione del contrasto tra Legge e Vangelo, la sostanza di quelle che furono l'ecclesiologia e la dottrina politica di C. Dobbiamo dunque vedere nel riformatore piccardo soltanto l'uomo pratico, l'organizzatore abile e tenace, l'espositore dotato di quelle qualità, logica, ordine e chiarezza, che si sogliono ritenere come eminentemente caratteristiche dello spirito francese? Ciò spiegherebbe male e soltanto in parte l'enorme influenza esercitata in condizioni tanto difficili e su mezza Europa dall'uomo che a soli 26 anni era già riconosciuto come un capo, una guida spirituale.

Per quanto fondamentalmente non errato il giudizio che - pur senza voler menomare la sua potente personalità - nega a C. la profonda originalità teologica che si vuol ravvisare in Lutero e non gli riconosce il merito di aver scoperto un nuovo mondo spirituale, occorre rifarsi a quello che è il concetto fondamentale, il centro e il cardine di tutta la sua teologia, l'onnipotenza, la grandezza, la provvidenza di Dio, l'efficacia assoluta e incontrastabile dell'azione divina nel governo del mondo. Dietro e al disotto di questa, esposta con rigore dialettico che ha poco da invidiare a quello degli scolastici, sta, con ogni verosimiglianza, un'esperienza mistica intensa. Anche C. ha cercato di realizzare la propria unione immediata con Dio, che egli ha trovato nella coscienza della propria piccolezza e impotenza d'uomo, dalla natura irrimediabilmente corrotta; cui giustizia e santificazione non potevano essere che attribuite, donate da un Dio misericordioso, ma forse meno benigno nella sua pietà che terribile nella sua rigida e severa giustizia e nella sua ira. Di tale santificazione e predestinazione alla gloria celeste, che faceva di lui il servo unicamente votato a procurare, in tutto, la gloria del suo Signore, C. ha avuto la medesima e precisa consapevolezza che il mistico ha della sua unione con Dio. Dal concetto di questo abisso tra Dio operante nel mondo, per cui letteralmente non cade foglia che Dio non voglia, e la radicale, insanabile incapacità dell'uomo a realizzare da solo la propria salvezza, abisso colmato solo dalla bontà di Dio, che ad alcuni, nella profondità del suo giudizio imperscrutabile, ha deliberato eternamente di tendere la sua mano pietosa, mentre altri ha condannato, discende la catena dei corollari che costituiscono tutta la teologia calvinista.

Dio e l'uomo. - Ogni vera sapienza umana consiste, dichiara C., nella conoscenza di Dio e di noi stessi; di Dio, esiste nel cuore di ogni uomo una conoscenza, ancorché vaga, sicché nessuno può allegare a giustificazione la propria ignoranza. La conoscenza di Dio deve servire premierement pour nous instruire à une crainte et reverence de Dieu; en aprez pour nous aprendre que c'est en luy qu'il fault chercher tout bien et à luy auquel en est deuë la recongnoissance (Inst., p. 6). Di fronte a lui il credente si comporta come di fronte al proprio padre, signore e giudice. Di tale conoscenza è fonte, in primo luogo, lo spettacolo del creato, in tutte le sue manifestazioni, e della provvidenza che lo governa. Ma l'uomo è cieco; per di più nella sua superbia e stoltezza è sempre disposto a collocare la creatura al posto del Creatore: delaissant le vray Dieu, au lieu d'iceluy, nous dressons les songes et imaginations de nostre cerveau (p. 17). Perciò Dio si è manifestato altresì mediante la sua parola: la Sacra Scrittura. A questa, una volta riconosciuta come divina, nessuno oserebbe derogare. Ma chi ci assicura che questa parola è divina? Ricorrere al criterio del consenso della Chiesa è in realtà un subordinare la parola di Dio all'approvazione degli uomini. E allora que deviendroient les paovres consciences; qui cherchent certaine asseurance de la vie eternelle, quand elles verroient toutes les promesses d'icelle consister et estre appuyées sur le seul jugement des hommes? (p. 20). C. ricorre dunque a quello ch'egli e con lui la Confession des églises de France chiamano témoignage et persuasion intérieure du Saint-Esprit: una conoscenza d'ordine extra-razionale e affatto mistica e soggettiva, che s'identifica poi con il convincimento della propria predestinazione alla gloria e santificazione. La conoscenza di Dio che si ricava dalla Scrittura e la stessa che si trae dalla contemplazione del creato; da una parte vediamo l'amore, la pazienza, la clemenza paterna di Dio verso gli uomini e dall'altra la rigueur de sa vengeance sur les pecheurs; l'una e l'altra via non conducono che a uno scopo: nous inciter premierement à la crainte de Dieu: en apres que nous ayons fiance en luy: à fin que nous apprenions de le servir et honorer par innocence de vie, et obeyssance non faincte: et du tout nous reposer en sa bonté (p. 29).

Ma, quanto all'uomo, il "conosci te stesso" va considerato, secondo C., come l'equivalente d'un altro precetto: "sii umile", ché la natura umana, creata partecipe delle virtù di Dio, a immagine e somiglianza di lui in Adamo, è ora totalmente viziata e contaminata dal peccato originale, trasmesso di padre in figlio. Il peccato originale non è una semplice mancanza di giustizia originale: car nostre nature n'est seulement vuide et destituée de tous biens: mais elle est tellement fertille en toute espece de mal, qu'elle ne peut estre oysive (p. 37). Il peccato ha soppresso anche la libertà umana? C. introduce, a proposito dell'imputabilità delle azioni umane, una distinzione la quale mira, come altre cautele, a evitare che si attribuisca a Dio l'origine del male: l'uomo è necessitato, ma non costretto. E poiché la definizione della libertà data da Sant'Agostino è riferita in questi termini: une faculté de raison et volunté, par laquelle on eslist le bien, quand la grace de Dieu assiste: et le mal, quand icelle desiste (pag. 46), converrà ammettere che C. accolga veramente quel concetto, per cui il libero arbitrio di cui l'uomo è dotato abitualmente è solo la facoltà di scegliere il male, mentre l'autentica libertas è la tendenza della volonta, sorretta dalla grazia, al bene: tendenza necessaria, ma insieme vera libertà, giacché anche Dio è libero, benché necessariamente buono. E C. fa propria anche quest'argomentazione (cfr. Aug., Op. imperf. in Iul., I, 100).

A questa debolezza della volontà umana viziata porge un rimedio la grazia di Dio: lo stesso volere il bene è dono di Dio, e non c'è merito umano, che derivi dalle opere. Dio suscita in noi l'obbedienza alla sua volontà e non si può pensare che si possa resistere alla grazia, senza bestemmiare.

La salvezza è data dunque dalla misericordia di Dio, moyennant que nous la recevions en jerme Foy, et reponsions en icelle de certaine esperance (p. 187). E che cos'è la fede? Non ciò che C. chiama credulité, una forma cioè di assenso più o meno razionale, per cui si crede che Dio esiste, o anche si crede alla parola divina, ammettendone la veridicità. Et voilà pourquoi auiourd'huy il y a un combat entre nous et les papistes. La fede che salva è definita da C. une ferme et certaine congnoyssance de la bonne volunté de Dieu envers nous: laquelle estant fondée sur la promesse gratuite donnée en Jesus Christ, est revelée à nostre entendement, et scellée en nostre cøur par le Sainct Esprit. Ma questa "conoscenza" è una forma di certezza assolutamente extra-razionale e mistica, è una completa e assoluta fiducia in Dio, per cui acquistiamo la certezza che les promesses de misericorde, qui nous sont offertes du Seigneur, non sono vere soltanto in generale; o per gli altri; mais plustost qu'en les recevant en nostre cøur, nous le" facions nostres. Con ciò si acquista una sicurezza, che dà all'anima la pace. E a Dio noi siamo riconciliati per mezzo della morte del Cristo in quanto il Cristo ci presenta a Dio, allorché siamo fatti membra del suo corpo. Or quand nous avons une telle foy, il est bien certain que nous obtenons salut par icelle, et pourquoi? Car en quoi est-ce que nostre salut consiste? car quand Dieu nous accepte pour Justes et qu'il ne nous impute point nos pechez, car voilà quelle est la beatitude et felicité des hommes (p. 191 segg.; Serm. X in Dan. VI, in Corp. Reform., 41, col. 419 segg.).

E la fede è un dono di Dio; essa implica necessariamente, o genera, la presenza della salvezza: giacché la speranza non è altro che l'attesa dei beni, che la fede ha creduto veridicamente promessi da Dio. E la fede genera la penitenza. Ma C. non vede nella penitenza solo i due momenti della contrizione e della vivificazione: la penitenza è per lui la teshubā dell'Antico Testamento, la μετάνοια del Nuovo. È une vraye convasion de nostre vie à suyvre Dieu et la voye qu'il nous monstre, procedante d'une crainte de Dieu droicte et non feincte: laquelle consiste en la mortification de nostre chair, et nostre vieil homme,et vivification de l'Esprit (p. 303). Così è abolita in noi la corruzione prodotta dal peccato originale. Ma questa corruzione non cessa mai totalmente: i più santi possono cadere, e nessun uomo può resistere alle tentazioni, se la grazia di Dio lo abbandona. San Pietro ha rinnegato per tre volte il Signore: exemple epouvantable et qui nous doit faire dresser à tous les cheveux en la teste (Serm. IV sur la Passion, in Corp. Ref., 46, p. 877). Non vi sono dunque opere umane che si possano dire buone, tanto da indurre Dio a ritenerci giusti. Non v'è altra giustificazione se non quella che Dio fa, ritenendoci giusti, imputandoci cioè, non i nostri peccati, ma i meriti del Cristo.

Escluso così qualunque merito umano, qual è la causa della giustificazione? Siamo al punto centrale della dottrina di C., alla teoria della predestinazione. E chiaro che per lui la rigenerazione è propria degli eletti: e poiché essa si compie attraverso la fede, che è un dono gratuito di Dio, poiché gli uomini non hanno alcun merito proprio, non resta se non attribuire anche l'elezione a un atto della volontà divina, manifestazione dell'onnipotenza di Dio: atto che è del tutto indipendente da ogni previsione che Dio possa fate dei meriti dell'uomo, poiché questi non sono nulla. Ma C. ammette, ed è questo il punto che ha più attirato l'attenzione, una doppia predestinazione; degli eletti all'eterna gloria, e dei reprobi alla dannazione: Selon donc que l'Escriture monstre clairement nous disons que le Seigneur a une fois constitué en son conseil eternel et immuable, lesquelz íl vouloit prendre à salut et lesquelz il vouloit laisser en ruine (p. 471).

Questa dottrina può sembrar dura e pericolosa, osserva lo stesso C. Ma essa non rende Dio ingiusto: in primo luogo perché in stretta giustizia Dio non deve all'uomo se non la dannazione, e se alcuni son salvati, è effetto della sua misericordia. In secondo luogo i reprobi si perdono per colpa loro, in quanto Dio o les prive de la faculté d'ouyr sa parolle, ou par la predication d'icelle, il les aveugle et endurcist d'avantage (p. 497). Dio vuole dunque che i malvagi facciano il male, così come ha previsto e giudicato utile il fallo di Adamo. C. cerca in tutti i modi di sottrarsi alla conseguenza, che pare inevitabile, di attribuire a Dio l'origine del male e di rendere gli uomini irresponsabili del male che fanno. Ma la Genesi (I, 31) dice chiaro che Dio trovò buone le opere da lui create. D'altra parte, C. ammette che con la sua parola Dio si rivolge anche ai reprobi, affine di mostrar loro più chiaramente la loro ingiustizia e renderli inescusabili. Ed egli rifiuta di distinguere tra un permesso di Dio a che il male si compia, e la sua volontà: gli pare di menomare con ciò l'onnipotenza divina. Fra prescienza e volontà divina è vano introdurre distinzioni (C. si rilì a Lorenzo Valla): ...ce que je dy...c'est que Dieu non seulement a preveu la cheute du premier homme, et en icelle la ruine de toute sa posterité: mais qu'il l'a ainsi voulu. Car comme il appartient a sa sagesse, d'avoir la prescience de toutes choses futures: aussi il appartient à sa puissance, de regir et gouverner tout par sa main. Occorre notare come C., dicendo che i reprobi n'estoient pas indignes d'estre predestinéz à telle fin (p. 482), non vuol dire, evidentemente, altro se non quello ch'egli afferma ripetutamente e che toglie alla sua predestinazione - una volta che si accettino i presupposti del sistema - ogni carattere d'arbitrarietà: che cioè questa predestinazione è giusta, per definizione, anche se gli uomini non arrivino a comprenderlo, appunto perché voluta da Dio. Car la volunté de Dieu est tellement la reigle supreme et souveraine de justice: que tout ce qu'il veult, il le fault tenir pour juste, d'autant qu'il le veult (p. 478). Siamo di nuovo all'affermazione della necessità per l'uomo d'umiliarsi, di fronte alla maestà e all'onnipotenza divina: la stessa dottrina della predestinazione non è, per C., che una conseguenza di questo principio. E nella santificazione degli eletti, come nella condanna dei reprobi, predestinati entrambi, si manifesta e si attua ugualmente la gloria di Dio: quel Dio, il cui "onore" noi dobbiamo aver di mira pregando.

I sacramenti, la Chiesa, lo Stato. - Questo dovere verso Dio ci è imposto in primo luogo dalla coscienza, la quale ci mostra altresì, precisamente in conseguenza dell'idea innata che abbiamo di Dio, la differenza fra il bene e il male e ci accusa, quando non facciamo il nostro dovere. Ma l'ignoranza che avvolge l'uomo è tale, ch'esso non può avere di questo se non una pallidissima idea; ed è tanto gonfio di superbia e d'ambizione e amor proprio, che non è capace di esaminarsi e confessare la sua miseria. Perciò Dio ha dato all'uomo la Legge scritta. Questa ci mostra qual è la giustizia che Dio richiede da noi, e ci dà al tempo stesso la coscienza della nostra debolezza, sicché l'uomo è indotto a invocare aiuto: con le promesse e le minacce comporta i giusti e atterrisce i peccatori e soprattutto fa vedere che Dio n'a rien plus aggreable qu' obeysscence (non esistono opere supererogatorie, né c'è differenza di peccati veniali e mortali) e induce coloro che non sono indotti al bene se non dal timore, per lo meno a non manifestare tutta la loro malvagità. In terzo luogo essa mostra ai fedeli, agli eletti, qual è la volontà di Dio e li incita a ubbidirgli. C. non ha verso l'Antico Testamento la ripugnanza di altri riformatori; il Cristo, egli insiste, è venuto per compiere la Legge, non per abolirla. I santi dell'Antico Testamento hanno avuto la stessa grazia dei cristiani, attraverso il Cristo quelle che sono abolite, sono dunque le osservanze e le cerimonie dell'Antico Testamento, non la sostanza di esso.

Le differenze principali fra la legge antica e la nuova sono che la legge antica è la lettera, la nuova è lo spirito; quindi la prima rappresenta la servitù, la seconda la libertà, infine la prima si rivolge esclusivamente il popolo d'Israele, la seconda all'intera umanità. Ma non è da credere che ogni manifestazione esteriore sia stata abolita: sacramento è appunto un signe exterieur, par lequel nostre Seigneur nous represente et testifie sa bonne volunté envers nous, pour soustenir et confermer l'imbecillité de nostre Foy. Autrement il se peut aussi diffinir, et appeller tesmoignage de la grace de Dieu, declaré par signe exterieur (p. 565). Il sacramento ha dunque la sua virtù da Dio, e non vi sono altri sacramenti se non quelli ai quali la Parola di Dio allude chiaramente. C. non ne trova, e pertanto non ne conserva. se non due, il battesimo e la Cena. Come ogni sacramento, il battesimo vale come mezzo per accrescere la fede; inoltre come mezzo offerto al credente per confessarla. Il suo valore dipende esclusivamente dalla fede con cui è ricevuto dal credente, non dalla persona di chi lo somministra. Ma cosa ancor più importante, il battesimo è unico, anche perché la sua efficacia non si estende soltanto al passato, bensì a tutta la vita. Pourtant toutes les fois que nous serons recheuz en pechez, il nous fault recourir à la memoire du Baptesme et par icelle nous confirmer en celle Foy, que nous soyons tousjours certains et asseurez de la remission de nos pechez (p. 583). È una conseguenza della giustificazione per la fede, e a sua volta implica il ripudio del sacramento della penitenza, qual è inteso e disciplinato nella Chiesa cattolica. Quanto alla Cena C. non respinge soltanto la transunstanziazione, ma anche la presenza reale nel senso cattolico: egli non vuol sentir parlare di presenza locale del corpo di Cristo. Tale presenza tuttavia non è per lui meno "reale", perché il pane est un symbole, soubz lequel, nostre Seigneur nous offre la vraye manducation de son corps (p. 632). La Cena serve altresì a confessare la fede; essa esorta inoltre all'unione e alla carità. È utile che la comunione sia ripetuta di frequente. C. naturalmente, poste le sue premesse, respinge la messa come sacrificio e ritiene legittima la comunione sotto le due specie per tutti: è una conseguenza della dottrina, generale nella Riforma, del sacerdozio universale dei credenti. I quali, non come moltitudine, ma in quanto membra dell'unico corpo del Cristo, costituiscono la Chiesa: che è cattolica ossia universale, cioè unica, e santa, perché tutti gli eletti sono santificati. Essa costituisce la comunione dei santi, alla quale, chi ha fede, ha anche fiducia di appartenere. Au reste, pour se tenir en l'unité d'icelle Eglise: il n'est ja mestier que nous voyons une Eglis à l'øeil, ou que nous la touchions à la main (p. 269).

La Chiesa visibile è invece anch'essa una, in quanto costituita dall'unité de Religion, ma composta delle singole chiese locali, ciascuna delle quali ha una certa autonomia: ché segni della Chiesa sono la Parola di Dio predicata e ascoltata fedelmente e l'amministrazione dei sacramenti in conformità di questa. Nella Chiesa visibile sono, accanto ai buoni, i malvagi, la cui presenza dobbiamo tollerare pazientemente, finché il luogo che hanno nel popolo di Dio non sia tolto loro par voye legitime (p. 271). C. infatti riconosce e ribadisce la disciplina della scomunica. Questo quando si tratta di singoli, o di differenze minori: ma là dove la Parola di Dio è violata, e si sostituiscono ad essa leggi fatte dagli uomini; dove l'amministrazione dei sacramenti è corrotta, ivi non è più vera Chiesa, ma piuttosto la rovina e le reliquie d'una Chiesa. Ma anche queste vanno rispettate e perciò C. riconosce il battesimo cattolico.

Ogni ordinamento ecclesiastico, ogni osservanza, dev'essere per C. contenuta nella Parola di Dio. Ciò non significa che non debba esistere una disciplina: e si è mostrato con quanto rigore C. facesse rispettare la sua. Ma questa disciplina dev'essere per lui fondata sulla Parola di Dio. Allo stesso modo C. riconosce nella Chiesa ministri che sono d'istituzione divina: questi sono i preti o vescovi (i termini πρεσβύτερος e ἐπίσκοπος nel Nuovo Testamento sono considerati da C. come sinonimi) e i diaconi, per la cura dei poveri.

C. afferma la necessità del governo civile: egli riprende anche la distinzione aristotelica fra le varie forme di governo. Ma riconosce che la Scrittura parla soprattutto dei re. D'altronde, determinare quale sia la forma di governo preferibile dipende dalle circostanze. Tre sono in ogni modo gli elementi del governo civile: i magistrati sovrani, la cui missione è d'origine divina - ciò che impone loro anche dei doveri speciali. Carceste cogitation faict un vray Roy: s'il se recongnoit estre vray ministre de Dieu, au gouvernement de son Royaume. Et au contraire celuy n'exerce point Regne, mais briganderie: qui ne regne point à ceste fin, de servir à la gloire de Dieu (Ep. au Roy, p. x; efr. Aug., De civ. Dei, IV, 4; con la sostituzione della gloire de Dieu alla iustitia). Gli altri due elementi sono le leggi e il popolo. C. ammette anche la pena di morte, non vuole che il cristiano ricorra alla giustizia terrena se non avendo spento in sé ogni sentimento di odio verso l'avversario, ma non riconosce neppur una indefinita non-resistenza ai malvagi. Del resto, ai superiori è dovuta ubbidienza: è Dio che innalza i re e, quando vuole, li deprime. Un governo tirannico è un castigo di Dio, e va subìto come tale. Ma l'ubbidienza a Dio è dovere più importante che l'ubbidienza ai sovrani. Del resto, questa sottomissione non ha a che fare con la libertà del cristiano, che è tutta interiore: C. distingue nettamente: il y a double regime en l'homme. L'un est spirituel: par lequel la conscience est instruicte et enseignée des choses de Dieu, et de ce qui appartient à pieté. L'autre est politic ou civil, par lequel l'homme est apprins des offices d'humanité et civilité, qu'il faut garder entre les hommes (p. 719). La libertà del cristiano consiste nel non attendere la propria giustificazione dalla Legge, adempiendola tuttavia scrupolosamente per rendersi accetto a Dio, e nell'avere una tale fiducia nella santificazione operata da Dio, da non lasciarsi invescare in scrupoli a proposito di cose indifferenti. Occorre ben conoscere questa libertà ché, se tale conoscenza ci viene meno, noz consciences jamais n'auront repoz, et sans fin seront en superstition (p. 711). Insomma, la libertà cristiana ha questa regola fondamentale: occorre essere nel mondo come se non vi fossimo, usare delle cose del mondo come se non ci appartenessero: ogni bene che ci vien dato è un deposito di cui dovremo rendere conto. Un'altra regola è il rispetto della propria vocazione in ogni atto della vita. Dove Dio ci ha collocati, dobbiamo rimanere, rispettando la sua volontà, per cui ha ordinato a ciascuno quel che doveva fare. Et à fin que nul n'oultrepassast legerement ses limites, il a appellé telles manieres de vivre, vocations. Accettandole e rispettandole con umiltà, avremo questa consolazione, qu'il n'y aura øuvre si vile ne sordide, laquelle ne reluyse devant Dieu, et ne soit fort precieuse (p. 822). La virtù più necessaria è l'abnegazione. Ma chi la possiede, è certo di avere il dono divino della giustizia, dell'elezione, della santità, della salvezza. E nelle traversie inevitabili, si sottometterà ad esse con pazienza, sarà umile, si pentirà delle colpe passate. Mais la souveraine consolation est, quand nous endurons persecution pour la justice (Excuse, p. 224). La voce di C. si alza, per consolare i suoi nell'afflizione, ma insieme riehiamarli all'adempimento di ciò ch'egli ritiene il loro dovere, per imporre ai trepidi, agli indecisi, a Mestieurs les Nicodémites, di risolversi. Egli ha la ferma coscienza di essere la bocca, attraverso la quale parla Dio. E nello stesso tempo, apre loro il rifugio di Ginevra; ma vuole che agiscano, e che abbiano la stessa incrollabile fiducia che è in lui: e questa fiducia incrollabile, questo abbandono tutto mistico in Dio, del quale egli si sente istrumento, e pertanto invincibile, dà anche a lui una serenità assoluta.

Opere: L'edizione fondamentale delle opere di C. è quella data da G. Baum, E. Cunitz, E. Reuss nel Corpus Reformatorum (di cui formano i volumi XXIX-LXXXVII) sotto il titolo Joannis Calvini opera quae supersunt omnia, voll. 59, Brunswick 1863-1900 (ivi, LIX, pp. 438-511, il catalogo delle opere di C.). Per l'Institution chrétienne si deve però oggi tener presente l'edizione che A. Lefranc, H. Chatelain e J. Pannier hanno dato del testo della prima edizione francese (1541), Parigi 1911 (nella Bibliothèque de l'École des Hautes Études, fasc. 176 e 177), da cui abbiamo tolto le citazioni. Di altre edizioni ricordiamo quella del Catéchisme français de Calvin, a cura di Rilliet e Dufour, Ginevra 1878, e quella del Traité des reliques suivi de l'excuse à messieurs les Nicodémites, a cura di A. Autin, Parigi 1921 (pure da noi seguita).

La corrispondenza di C. è edita nelle Opera omnia (voll. X-XX). V. però anche le Lettres françaises de C., pubbl. da J. Bonnet, voll. 2, 1854, e soprattutto Herminjard, Correspondance des réformateurs dans les pays de langue française, voll. 9, Ginevra e Parigi, 1866-1897 (precisamente i voll. IV-IX).

Bibl.: Delle più antiche biografie di C. meritano speciale rilievo la Vie de Calvin di Teodoro di Beza e quella di Nicola Colladon, entrambe ripubblicate nel vol. XXI delle Opere Omnia di Calvino (di Beza occorre inoltre tener presente l'Histoire ecclésiastique des Églises réformées au royaume de France, ed. Baum e Cunitz, voll. 3, Parigi 1883-1889); Florimond de Raemond, Histoire de la naissance, progrez et décadence de l'hérésie de ce siècle, Parigi 1605 (opera scritta dal punto di vista cattolico, ma di valore). Estremamente partigiana, in senso contrario a. C., e quindi di scarso valore è invece la nota Histoire de la vie de C., del Bolsec.

Dei lavori moderni, fondamentale, per la ricchezza e la minuzia delle notizie, seppur di tendenza troppo apologetica, è l'opera di E. Doumergue, Jean Calvin. Les hommes et les choses de son temps, voll. 7, Losanna e Parigi 1899-1927. Di spirito cattolico, invece, è l'altra opera tuttora fondamentale per l'azione di C. a Ginevra, di W. Kampschulte, Johann Calvin, seine Kirche und seine Staat in Genf, voll. 2, Lipsia 1869-1889 (il II è stato edito da W. Goetz). Importanti pure gli studî di A. Pierson, Studien over Johannes Calvin (1527-1536), 1881; Nieuwe Studien over J. C. (1536-1547), 1883; Studien over J. C. derde Reecks (1540-1542), Amsterdam 1891. Di carattere succinto e divulgativo: A. Lang, Calvin, 1909; G. Gangale, Calvino, Roma 1926; H. Hofmann, J. Calvin, Lipsia 1929.

Lavori particolari: A. Lefranc, La jeunesse de Calvin, Parigi 1888; A. Lang, Die Bekehrung Calvins, 1897; P. Wernle, Calvins Bekehrung, in Zeitschrift für Kirchengeschichte, 1906 e 1909; id., Calvin und Rasel, 1909; Sieffert, Calvins religiöse Entwicklung, 1909; J. Pannier, L'évolution religieuse de Calvin jusqu'à sa conversion, Strasburgo 1924; id., Calvin à Strasbourg, Strasburgo 1925.

Per l'azione politica a Ginevra, oltre il Doumergue e lo Kampschulte cit., C. V. Cornelius, Historische Arbeiten, vornehmlich zur Reformationzeit, Lipsia 1899; E. Choisy, La théocratie à Gènève au temps de Calvin, 1898; H. Haussherr, Der Staat in Calvins Gedankenwelt, in Schriften des Vereins f. Reformationsgeschichte, XLI (1923); e le storie di Ginevra, soprattutto A. Roget, Histoire du peuple de Genève depuis la Réforme jusqu'à l'escalade, voll. 7, Ginevra 1870-1883; F. de Crue, L'action politique de C. hors de Genève d'après sa correspondance, Ginevra 1909.

Sul pensiero di C., in particolare, oltre a R. Seeberg, Lehrbuch der Dogmengeschichte, 2ª e 3ª ed., IV, Erlangen-Lipsia 1920, p. 551 segg., a W. Dilthey, Gesammelte Schriften, II, Lipsia 1921 (trad. ital. L'analisi dell'uomo e l'intuizione della natura, I, Venezia 1927, p. 291 segg.), a K. Rieker, Grundsätze reformierter Kirchenverfassung, Lipsia 1899; E. Troeltsch, in Protestantische Christentum u. Kirche in der Neuzeit, in Kultur der Gegenwart, 2ª ed., Lipsia 1922; K. Holl, Calvin, Tubinga 1909; A. Ritschl, Dogmengeschichte des Protestantismum, II, Gottinga 1926; cfr. M. Scheibe, Calvin Prädestinationslehre, Halle 1897; M. Lütge, Die Rechtfertinguslehre Calvins, 1909; L. Goumaz, La doctrine du Salut d'après les commentaires de J. C., Parigi-Losanna 1917; P. Wernle, Der evangelische Glaube nach den Hauptschriften der Reformatoren, III, Tubinga 1919; P. Brunner, Vom Glauben bei C., Tubinga 1925; J. Beckmann, Vom Sakrament bei C., Tubinga 1926.

Sul pensiero politico e sociale di C., fondamentale E. Troeltsch, Die Soziallehren der christlichen Kirchen, Tubinga 1912 (ora in Gesammelte Schriften, I, Tubinga 1922; cfr. anche IV, passim). Importanti inoltre G. Beyerhaus, Studien zur Staatsanschauung Calvins, in Neue Studienz. Gesch. der Theologie u. Kirche, VII, Berlino 1910; H. Baron, Calvins Staatsanschauung und das konfessionelle Zeitalter, Monaco-Berlino 1924; G. de Lagarde, Recherches sur l'esprit politique de la Réforme, Parigi 1926. V. anche H. v. Schubert, Calvin, 1921.

Sull'atteggiamento di C. di fronte alla vita economica, oltre a M. Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, in Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, I, Tubinga 1920, e E. Troeltsch, op. cit., (ma cfr. F. Rachfahl, Calvinismus u. Kapitalismus, in Internat. Wochenschrift, III, 1909); K. Holl, Die Frage des Zinsnehmens und des Wuchers in der reformierten Kirche, in Gesammelte Aufsätze zur Kirchengeschichte, III, Tubinga 1928; H. Hauser, A propos des idées économiques de Calvin, in Mélanges d'histoire offerts à Henri Pirenne, I, Bruxelles 1926, pp. 211-224.

Su C. scrittore v. specialmente E. Faguet, Études sur le XVIe siècle, Parigi 1894; F. Brunetière, Histoire de la littérature française classique, I, Parigi 1904, pp. 193-230. V. inoltre la bibl. degli scritti su C., fino al 1900, in Opera, Brunswick-Berlino 1863-1900, LIX, pp. 518-575; e i numerosi articoli sparsi nel Bullettin de l'histoire du protestantisme français (vedi la Table alphabétique dei primi 50 voll., 1852-1902, Parigi 1928).

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