BOCCACCIO, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 10 (1968)

BOCCACCIO, Giovanni

Natalino Sapegno

Frutto di una libera relazione di Boccaccio, o Boccaccino, di Chellino con una donna di cui nulla sappiamo, nacque, forse a Certaldo, ma più probabilmente a Firenze, fra il giugno e il luglio del 1313. La data si deduce, con relativa certezza, da un accenno dello scrittore (Epist., XX) e da un luogo del Petrarca (Sen., VIII, 1); più incerta, per le discordanti attestazioni dell'autore stesso e dei suoi primi biografi, la determinazione del luogo, anche se debba considerarsi quasi sicura la nascita toscana (pur contraddetta ancora, a favore di Parigi, da qualche studioso moderno).

Fino a non molti anni or sono la critica erudita si sforzava di rimpolpare le scarse notizie documentate, attingendo alle sezioni pseudo-autobiografiche dei romanzi giovanili dello scrittore. Si venne così a costruire, per il contributo di critici come il Crescini, l'Hauvette, il Torraca, un'arbitraria linea biografica che aveva per momenti salienti la nascita dello scrittore a Parigi (seppur contraddetta dallo stesso B. e dai suoi biografi più antichi) e la sua relazione a Napoli con Fiammetta, identificata con una Maria, figlia naturale di Roberto d'Angiò e maritata nella casa dei conti d'Aquino, che è figura del tutto ignota ai genealogisti di quella pur illustre casata. Sì che facile è stato il compito dei nuovi eruditi (a cominciare dal Billanovich) inteso a smontare il fragile castello delle congetture e a sceverare le poche notizie certe.

Il padre, originario di Certaldo, s'era fin dagli ultimi anni del Duecento trasferito a Firenze insieme con il fratello Vanni, prendendo dimora dapprima nel popolo di S. Frediano e poi, intorno al 1314 appunto, nel quartiere di S. Pier Maggiore: esercitavano la mercatura con notevole fortuna, inserendosi nel quadro di un traffico internazionale (la loro presenza a Parigi è già attestata nella prima metà del 1313) e in un giro d'affari di ampia portata finanziaria. Legittimato assai presto dal padre, prima ad ogni modo che questi sposasse intorno al '19 una Margherita de' Mardoli, il B. trascorse l'infanzia a Firenze nella casa paterna e vi ricevette i primi rudimenti dell'istruzione dal grammatico Giovanni Mazzuoli da Strada, padre del più noto Zanobi. Ancora ragazzo, fu inviato a far pratica mercantile a Napoli, forse nell'autunno del '27, allorché anche il padre vi si trasferiva come socio e rappresentante della potente compagnia dei Bardi con l'incarico di dirigere quella filiale diventata importantissima in una fase di stretti rapporti politici ed economici tra Firenze e la corte angioina. Dopo alcuni anni di un esercizio, che più tardi doveva parergli tutto tempo perduto, il B. abbandonava il discepolato commerciale e intraprendeva per volontà del padre, altrettanto svogliatamente ed inutilmente, lo studio del diritto canonico.

In un luogo famoso della Genealogia deorum (XV, 10) egli denunzierà il dissidio, apertosi ben presto in lui, tra una esclusiva vocazione letteraria e l'obbligo di adempiere a impegni tediosi, non congeniali e non disinteressati ("natura me ad poeticas meditationes dispositum ex utero matris eduxit et meo iudicio in hoc natus sum... In poesim animus totis pendebat pedibus"); mentre sarà da pensare che questo segreto culto della poesia potesse conciliargli l'amicizia dei dotti favoriti dalla corte angioina (quali l'astronomo Andalò di Negro, il bibliotecario Paolo di Perugia, il teologo e letterato Dionigi di Borgo San Sepolcro, nonché i giuristi Barbato da Sulmona e Giovanni Barrili, già in contatto con la Curia avignonese e in corrispondenza col Petrarca) e garantirgli la familiarità delle nobili brigate non aliene dal gusto per la brillante letteratura.

Più tardi poteva vantarsi d'esser vissuto, lui borghese, "a Napoli... intra nobili giovini", i quali non si vergognavano di visitarlo e di frequentare la casa "splendida assai" dove egli viveva "assai dilicatamente" (Epist., XII). La rappresentazione, più o meno stilizzata, di questo mondo aristocratico, e della corte stessa (dove è probabile l'introducesse l'amicizia allora contratta con Nicola Acciaiuoli), riempie di sé i romanzi giovanili, e affiorerà anche in certe sezioni del Decameròn, mentre in altre parti del capolavoro si muove un mondo vivace e pittoresco di esperti mercanti, cambiatori, corrieri, quelli stessi che lo scrittore aveva dovuto assiduamente frequentare nei primi anni del suo apprendistato. Poco più tardi, allo Studio, sappiamo che egli seguì le lezioni di Cino da Pistoia e ne prese nota, e i rapporti con l'illustre giurista-poeta, ultimo superstite dello "stil novo", amico di Dante e del Petrarca, dovettero forse confermarlo nel culto di una grande tradizione letteraria e alimentare la nascente vocazione poetica. Sempre alla corte napoletana è possibile che allora incontrasse Graziolo de' Bambaglioli, commentatore della Commedia, nonché l'erudito vescovo veneziano Paolo Minorita, della cui sapienza mitologica è consacrato il ricordo nella Genealogia (XIV, 8). Le grosse e numerose lacune che si aprono fra le scarse e un po' eterogenee tessere di questo mosaico di notizie possono e debbono essere integrate con gli elementi autobiografici che si ricavano da una lettura cauta degli scritti di questo periodo napoletano: solo in essi infatti - nella Caccia e nel Filostrato e nel Teseida, in alcune rime e lettere - si può rintracciare l'eco, sia pure stilizzata, di un appassionato tirocinio mondano e rendersi conto della preminente importanza di questa prima fase della formazione del Boccaccio. La quale, a parte le illazioni romanzesche, di cui si compiacerà lo stesso B., appare realmente improntata a una vivacissima esperienza sentimentale, articolata in una intensa trama di rapporti che lo scrittore stabilisce con la società elegante e cortigiana del suo tempo. Lungi dal risolversi in rivivescenze di modelli libreschi, la produzione giovanile del B. rivela, in maniera anche troppo immediata e invadente, una sostanza di affetti che determina non soltanto la materia, ma l'indirizzo della sua arte. Ed è questa stessa esperienza che variamente condiziona le simpatie del letterato e le sue scelte culturali, orientate in un orizzonte affatto diverso, per esempio, da quello in cui si costringe il suo coetaneo Petrarca: una cultura che segue dinamicamente le curiosità del poeta e rifiuta ogni preclusione di ordine erudito; non classicheggiante, ma aperta alle più varie suggestioni della tradizione romanza, dalla lirica d'amore e da Dante fino alle traduzioni e ai rimaneggiamenti dei racconti francesi e dei favolelli, fino ai cantari, alle ballate, ai rispetti popolari, e avida, anche nell'ambito delle letterature classiche, di cogliere le voci più appassionate e fantasiose (dall'Ovidio delle Metamorfosi e delle Eroidi), più drammatiche (da Seneca tragico) o più spregiudicate e pittoresche (da Apuleio).

Da Napoli s'allontanava il B. per rientrare a Firenze nella casa del padre (che frattanto si era trasferito nel rione di S. Felicita), nell'inverno del 1341. Non sono ben chiare le ragioni di questo ritorno in patria, ma certo dovettero concorrervi i mutati rapporti politici, e la conseguente difficoltà ed incertezza anche delle relazioni commerciali, tra Firenze e la corte angioina. È probabile anche che Boccaccino, che intanto si era staccato dai Bardi, attraversasse un periodo di strettezze, come appare da taluni documenti, forse risentendo già della generale crisi dell'ambiente commerciale e finanziario fiorentino, allora incipiente ma destinata ad aggravarsi paurosamente in un breve giro di anni. Le lettere all'Acciaiuoli, certi accenni dell'Ameto e della Fiammetta mostrano quanto il B. soffrisse di questo distacco da un mondo di care consuetudini e con quanta amarezza contrapponesse il ricordo di quelle "delizie mondane" all'uggia della nuova dimora "oscura e muta e molto trista". Scrivendo all'Acciaiuoli, lasciava trasparire il vivissimo desiderio di tornare a Napoli mercé l'aiuto dell'amico diventato assai potente in quella corte (e non dimetterà mai del tutto, anche in seguito, questa speranza).

Tra il '45 e il '46 il B. dimorò a Ravenna, alla corte di Ostasio da Polenta (come attesta un'epistola del Petrarca: Famil., XXIII, 39), e subito dopo, nel '47, si recò presso Francesco Ordelaffi, a Forlì, donde inviava una lettera (Epist., VI) a Zanobi da Strada e intrecciava una corrispondenza poetica in latino con il grammatico Checco di Meletto Rossi: in quelle corti romagnole raccoglieva notizie preziose e testimonianze di prima mano sugli ultimi anni della vita di Dante e stringeva nuove amicizie letterarie, tra cui quella, a cui rimarrà fino alla fine fedele, di Donato degli Albanzani.

Nel '48 - l'anno della peste - era di nuovo a Firenze, ove si stabiliva dopo la morte del padre per assolvere alla tutela del fratellastro Iacopo e provvedere all'amministrazione del modesto patrimonio familiare. Se nei primi anni l'allontanamento da Napoli dové essere avvertito dal B. come una separazione dolorosa dalla fase più incantata della sua giovinezza, certo è che non costituì una frattura nello sviluppo della sua personalità letteraria. Il mondo della spensierata e sognante giovinezza sarà d'ora in avanti quello della nostalgia e dell'invenzione fantastica, ma a sostenerlo, e anche a garantirlo dal pericolo di un elegante quanto vacuo dilettantismo, interverrà una più dura e virilmente accettata esperienza, la trama dei nuovi impegni che a Firenze lo avvincono con l'ambiente familiare e cittadino, in un quadro di gran lunga più vasto di interessi e di affetti.

Le amicizie allora contratte con gli epigoni della lirica dugentesca, Franceschino degli Albizzi e Sennuccio del Bene, e con gli umanisti Mainardo Accursio e Bruno Casini, i contatti con i rappresentanti della letteratura minore, dal Villani al Pucci e al Sacchetti, dovevano rinsaldare i suoi legami con la tradizione stilnovistica e dantesca, e confermare al tempo stesso la sua apertura verso le audaci esplorazioni di un nuovo mondo intellettuale, quello che aveva il suo centro nel Petrarca, di cui alcuni di quei poeti e letterati erano amici e corrispondenti. La situazione politica e sociale di Firenze, in un periodo di aspre lotte interne ed esterne, proponeva alla sua mente nuovi problemi di vita civile, di moralità, di costume.

Diversi avvenimenti attestano in quegli anni il nuovo rilievo assunto dalla personalità del B. nell'ambiente fiorentino. Egli era ormai in cordiali rapporti con gli uomini più influenti del Comune, da Niccolò del Buono a Pino de' Rossi, a Niccolò Frescobaldi; tra l'agosto e il settembre del '50 era inviato ambasciatore "ad partes Romandiole", non sappiamo con quale incarico; e in quell'occasione assolverà anche il compito di consegnare a nome della compagnia di Or' San Michele 10 fiorinid'oro a suor Beatrice, figlia di Dante, in Ravenna. Nell'ottobre dello stesso anno realizzava finalmente il sogno lungamente vagheggiato di conoscere di persona il Petrarca: si costituiva allora il gruppo degli amici fiorentini dell'aretino, che comprendeva, insieme con il B., Francesco Nelli, Zanobi da Strada, Lapo da Castiglionchio, e avrà grande peso nella vicenda locale del rinnovamento della cultura in senso umanistico; poco dopo il Petrarca scriveva da Roma ringraziando tutti per le accoglienze ricevute e indirizzava la sua epistola (Famil., XI, 1) "Iohanni Boccaccii de Certaldo discipulo suo". Nel marzo del '51 il B. gli restituiva la visita a Padova, latore di lettere ufficiali dei Priori che offrivano al poeta una cattedra nello Studio fiorentino da poco costituito: la proposta non ebbe esito, ma il B. poté per alquanti giorni godere dell'ospitalità del Petrarca, conversare con lui, entrare nei segreti di quell'operosa officina letteraria, e prender copia avidamente delle composizioni più recenti dell'amico in latino e in volgare. Il frutto di quest'incontro e delle reciproche confidenze letterarie si avverte abbastanza bene nelle opere composte o ideate dall'uno e dall'altro negli anni immediatamente successivi. Tali incontri si ripeteranno anche in seguito, a Milano nel marzo del '59, a Venezia nella primavera del '63, a Padova nell'estate del '68; e negli intervalli fra una visita e l'altra prende posto una fitta corrispondenza epistolare, che è continuo scambio di acquisizioni dottrinali, ma anche di riflessioni morali e di vivi affetti, documento prezioso di un sodalizio, che è un fatto di grande rilievo nella storia della nostra cultura. Nella imponente trama delle relazioni intellettuali, che l'aretino veniva pazientemente tessendo in quegli anni, il B. occupò senza dubbio un posto di primo piano, anche se nella sua modestia egli amava considerarsi rispetto all'amico non più che un umile discepolo ("inclitus preceptor meus Franciscus Petrarca cui quantum valeo debeo", come scriverà nel '72 a Niccolò Orsini). Da parte sua il Petrarca lo sorresse in molte occasioni con i suoi consigli, lo guidò a superare le crisi di un temperamento impulsivo e altrettanto facile alle esaltazioni come agli abbattimenti, e soprattutto gli fu di sprone e di esempio nel processo di ripiegamento riflessivo e di conversione morale e religiosa iniziato dopo il '53 e più risolutamente definitosi nell'ultimo decennio della sua vita. In questi rapporti di affettuosa assistenza si colloca un episodio, che non ebbe certo l'importanza assegnatagli dai tardi biografi del certaldese, come di causa determinante del suo rinnovamento spirituale, ma che è pure abbastanza significativo. Nella primavera del '62 si presentava al B. un monaco, con un messagio per lui del certosino senese Pietro Petroni, morto poco prima in fama di santità: veniva a ricordargli la morte incombente e a consigliargli di abbandonare gli studi profani. Il monito s'inseriva, come sembra probabile, nel quadro della polemica allora incipiente e proseguita poi anche nel Quattrocento, dei teologi contro i letterati umanisti, polemica nella quale il B. prenderà assai presto il suo posto tra i più coraggiosi e fermi difensori della nuova cultura. In un primo momento, profondamente turbato, avrebbe voluto bruciare subito tutti i suoi scritti e proponeva al Petrarca di vendergli la sua biblioteca. Questi gli rispose distogliendolo da decisioni troppo affrettate: il monaco latore del messaggio poteva essere anche un impostore; del resto l'ostilità contro gli studi poetici era solo un riflesso di vieti pregiudizi; assurdo era infine il proposito di rinunciare a quella ricerca della sapienza che è il miglior presidio e conforto dell'animo nella vecchiaia (Sen., I, 5).

Dopo il 1353, ad ogni modo, si apre nella vita del B. una nuova fase: all'avventuroso inventore di favole poetiche, che per altro già nel Decameròn s'erano complicate di profonde ragioni culturali, civili e morali, succede il dotto, lo scrittore illustre maestro di sapienza umanistica, il cittadino autorevole insignito di incarichi importanti: alla missione ricordata in Romagna e a quella nel Tirolo presso il marchese Ludovico di Brandeburgo (1351) seguono quella ad Avignone presso il papa Innocenzo VI (maggio-giugno 1354), l'ambasceria alla corte di Bernabò Visconti (giugno 1359), e più tardi nel '65 ancora ad Avignone e nel '67 a Roma dal papa Urbano V. Anche nella pausa, che intercede fra i primi e gli ultimi incarichi diplomatici e che corrisponde alla grave crisi del Comune dilaniato dalle fazioni e alla congiura che coinvolse alcuni fra i maggiori amici del poeta e che portò alla condanna a morte di Niccolò del Buono e all'esilio di Pino de' Rossi, egli fa sentire nell'Epistola consolatoria indirizzata a quest'ultimo la sua voce severa e accorata, non ostile al governo popolare, ma irritata contro le turbolenze partigiane, contro "le ambizioni e le spiacevolezze e i fastidi" dei cittadini dell'infima plebe ovvero di recente inurbati, "tolti dalla cazzuola o dall'aratro e sublimati al nostro magistrato maggiore". Sempre difficili sono le sue condizioni economiche e scarsamente fruttuosi i tentativi per migliorarle e renderle più stabili. Accarezza sogni di sistemazione al servizio dell'Acciaiuoli e per due volte, nel '55 e nel '62, si reca a Napoli, ma ogni volta ne ritorna amaramente deluso, e dà sfogo alla sua irritazione, rispettivamente, negli oscuri accenni dell'ecloga VIII e nelle pagine di violenta e caricata polemica della epistola XII al Nelli. Intanto ottiene gli ordini sacri e nel 1360 anche l'autorizzazione a ricevere benefici con cura d'anime. Sempre più spesso si rifugia nella solitudine di Certaldo e comincia a prender gusto ai "grossi panni" e alle "contadine vivande" e a dilettarsi di quell'ambiente naturale, dove può ritrarsi "sanza alcuno impaccio" a "liberamente ragionare... co' suoi libricciuoli".

La letteratura, come invenzione e analisi di umane esperienze, sembra ormai sempre più lontana dal suo interesse, in cui campeggia invece il culto umanistico della sapienza e della moralità degli antichi. Quando scende a Firenze, cerca la compagnia dei nuovi dotti discepoli del Petrarca e suoi: Filippo Villani, Coluccio Salutati, Tedaldo della Casa, Benvenuto da Imola, gli agostiniani Luigi Marsili e Martino da Signa: da questi pacati colloqui, nel cenacolo che si raccolse presso il convento di S. Spirito, prenderà l'avvio il grande moto umanistico fiorentino del secolo seguente. E tuttavia, anche in questa disposizione nuova, qualcosa dell'animo antico pur sopravvive. L'umanesimo del certaldese più curioso di fatti e di nozioni che d'insegnamenti, la sua dottrina un po' avventurosa e sempre aperta alle voci più varie, il suo moralismo stesso più inquieto e polemico e intimamente tormentato sono assai diversi da quelli del Petrarca: nella storia della cultura egli rappresenta una posizione meno rigorosa, ma per certi aspetti più complessa, e non meno feconda. Anche se gli è venuto meno con gli anni il gusto appassionato e libero, quella capacità di partecipazione piena che animava il suo fervore creativo, non si è però spento il gusto della poesia in cui quel mondo di avventura e dipassioni si riflette pacato in forme di classica armonia. Tutte le scritture volgari e latine degli ultimi decenni possono infatti ricondursi ad un solo intento: ritrovare il valore e la funzione morale ed educativa della cultura e della poesia; ma, nella generica concezione derivata dal Petrarca, s'insinua appunto un entusiasmo, che è tutto del B., per la poesia considerata nel suo contenuto umano e nelle sue forme fantastiche. È questo entusiasmo che gli fa patrocinare l'impresa della traduzione dei poemi omerici, chiamando a Firenze a sue spese nel 1360 il calabrese Leonzio Pilato; impresa di cui rivendicherà più tardi il merito con ben legittimo orgoglio: "Ipse fui qui primus meis sumptibus Homeri libros et alios quosdam Grecos in Etruriam revocavi, ... nec in Etruriam tantum sed in patriam, deduxi" (Geneal., XV, 7). È lo stesso entusiamo che detta al B., se non propriogli argomenti dottrinali, certamente il tono delle sue commosse apologie della poesia, negli ultimi due libri della Genealogia deorum; e la fitta materia aneddotica e il gusto narrativo dei suoi tardi repertori eruditi; e l'ininterrotto culto del nome di Dante, dal Trattatello fino alla stanca fatica delle lezioni sull'Inferno svolte pubblicamente nella chiesa di S. Stefano della Badia tra gli ultimi mesi del '73 e i primi del '74. Questo senso vivo della poesia, e proprio della poesia come narrazione di casi umani, ritratto di caratteri, rappresentazione di cose e descrizione psicologica, doveva rimanere fino alla fine al centro della sua personalità e della sua cultura. Quando la morte lo colse, nel suo rifugio di Certaldo, il 21 dic. 1375, i contemporanei, per bocca di Franco Sacchetti, avvertirono che con la sua dipartita si era spenta l'ultima, la più schietta e calda voce del grande Trecento: "Ora è mancata ogni poesia E vòte son le case di Parnaso" (Rime, CLXXXI). Lo stesso Sacchetti esprimerà più tardi, nel proemio al Trecentonovelle, il sentimento diffuso di ammirazione verso il capolavoro narrativo del certaldese, "divulgato e richiesto" tanto "che infino in Francia e in Inghilterra l'hanno ridotto alla loro lingua": parole che son tra i primi segni della singolare fortuna popolare di un libro, tra i più letti imitati e tradotti della nostra letteratura in ogni nazione e in ogni tempo.

Opere. Caccia di Diana. Questo poemetto, in diciotto brevi canti in terza rima, inserisce in una fragile inquadratura (descrizione della caccia, ribellione delle donne alla legge di castità imposta da Diana e loro passaggio al servizio di Venere) un proposito di omaggio cortese alle dame della corte napoletana, che sono elencate e ritratte nelle loro fattezze e nei loro costumi. Per questo aspetto, l'opera si colloca in una tradizione di consimili "cataloghi", che va dal perduto serventese di Dante citato nella Vita Nova a quello dettato dal Pucci "per ricordo delle belle donne ch'erano in Firenze nel 1335" e ad un altro del B. stesso nel '42, e include, tra l'altro, la Battaglia delle belle donne del Sacchetti; mentre nello schema compositivo si rifà a un tema simbolico vivo nella letteratura latina e romanza del Medioevo, e in taluni spunti descrittivi e idillici prelude alle "cacce" dell'ars nova fiorentina. Gli elementi interni portano a fissare il termine ante quem per la composizione del poemetto al più tardi al 1338, e molto probabilmente al 1334, e anche lo stile sembra alludere alla prova di un esordiente, già inserito per altro in una precisa atmosfera letteraria cortese, con echi danteschi e stilnovistici. Non per nulla il componimento si conclude con un caldo elogio dell'Amore "che ingentilisce ciascuna vil mente" e riempie i cuori di ogni virtù espellendo da essi "superbia, accidia ed avarizia ed ira".

Filocolo. È probabilmente la prima prova in senso risolutamente narrativo dello scrittore (databile verso il 1336-1338), quella che accoglie in nucetutti i motivi e le sollecitazioni che si svolgeranno nelle opere successive. Il romanzo narra i contrastati amori di Florio e Biancofiore: figlio il primo del re di Spagna, discendente l'altra senza saperlo da nobile famiglia romana, i due sono educati insieme e si innamorano l'uno dell'altro fin da fanciulli; ma i parenti di Florio cercano di ostacolare il progresso di questa passione e allontanano Biancofiore vendendola a certi mercanti, che la portano in Oriente e la cedono all'ammiraglio di Alessandria; colà la raggiunge dopo molte avventure Florio, che è partito a ricercarla assumendo il falso nome di Filocolo ("fatica d'Amore", secondo la capricciosa etimologia del B.); egli penetra di soppiatto, nascosto in una cesta di rose, nella torre dove la donna è rinchiusa, ma è sorpreso con lei dalle guardie e entrambi sono dannati al rogo; senonché all'ultimo momento l'ammiraglio scopre che Florio è suo nipote, e nello stesso tempo si viene a conoscere la nobile origine di Biancofiore; i due amanti si sposano, e il libro si chiude con una generale conversione di tutti i personaggi pagani alla fede cristiana. Questa materia, che si complica di una fitta trama di episodi secondari, deriva da una leggenda diffusissima nell'Europa medioevale e di cui le più importanti redazioni, fra quelle giunte fino a noi, sono due poemetti francesi del sec. XII, mentre quasi sicuramente dipende a sua volta dal romanzo boccaccesco il cantare trecentesco italiano che svolge lo stesso argomento. Nel proemio al suo libro il B. dichiara d'aver voluto riproporre la vicenda di Florio e Biancofiore affinché "la memoria degli amorosi giovani" e "la grande costanza de' loro animi" fosse finalmente "esaltata da' versi d'alcun poeta", mentre fino a quel momento era stata "lasciata solamente ne' fabulosi parlari degli ignoranti": ciò che bene illumina l'atteggiamento bivalente dello scrittore rispetto alla materia del racconto, per un verso attratto dal fondo sentimentale, immediatamente perspicuo della vicenda, per l'altro impegnato a riscattare questa materia con un'arte assolutamente consapevole. È il proposito che presiederà alla composizione di tutte le opere giovanili: ritrascrizione dotta di un materiale cortese decaduto a popolaresco. Vi confluiscono, da un lato, i temi romanzeschi, il gusto dell'avventuroso, del meraviglioso, dell'esotico, che tengono gran posto nella letteratura minore delle civiltà romanze, appassionatamente rivissuti nel fervore di un'esperienza giovanile; dall'altra, la tradizione dell'ars dictandi e della prosa d'arte, il linguaggio illustre della lirica, gli schemi del trattato d'amore di Andrea Cappellano, i moduli elegiaci di Arrigo da Settimello, gli apporti infine di alcune sezioni più congeniali delle prime letture preumanistiche: Ovidio, Virgilio, Seneca, Apuleio, Valerio Massimo. Tutti questi elementi si incontrano e si affollano nelle pagine del Filocolo e concorrono a determinare l'andamento dispersivo e episodico della trama, la prolissità degli svolgimenti e l'intemperanza della decorazione, l'impressione insomma di una scarsa organicità strutturale. In ciò si individua il limite, ma anche la novità del libro, che rappresenta come in sintesi tutta l'esperienza futura dello scrittore: l'acuta psicologia amorosa, il senso dell'avventura e del fasto, i temi descrittivi, idillici, il caldo lirismo autobiografico, danno vita di volta in volta a pagine singolarmente felici; l'episodio della corte amorosa di Fiammetta, che Florio incontra nei pressi di Napoli, con la lunga digressione delle tredici questioni d'amore, modellate sugli schemi della trattatistica cortese ma sempre pronte a risolvere le situazioni astratte in figure e movimenti drammatici, prepara da lontano il motivo della cornice e abbozza addirittura precise trame narrative che rifioriranno nel Decameròn. Le molteplici componenti dell'ispirazione trovano la loro relativa unità in una sorta di compromesso, sempre rinascente e sempre precario, tra un atteggiamento di virtuale realismo e le ricorrenti intrusioni di un lirismo prepotente e sovrabbondante, tra la verità del sentimento e il massiccio apparato ornamentale di derivazione libresca. Strumento di questo compromesso è la prosa poetica del Filocolo, espressione di un lirismo tramato di verità psicologica, di una psicologia intrisa di emozione lirica. Il vicino modello stilistico della Vita nova incomincia a farsi qui, almeno a tratti, più mosso e sciolto, e il ritmo si piega all'esigenza del raccontare, senza perdere quell'alone lirico che è come il segno della presenza partecipe dello scrittore.

Filostrato. Il poemetto, in nove "parti", di disuguale lunghezza, in ottava rima, è stato composto forse contemporaneamente al Filocolo; secondo qualche studioso anche prima, intorno al '35, perché nella dedica non si fa cenno al mito di Fiammetta, sempre presente nelle altre opere giovanili; d'altra parte, rispetto al Filocolo, segna un progresso di semplificazione e concentrazione della struttura. Il Filostrato deriva l'argomento da un episodio del Roman de Troie di Bénoît de Sainte-More, conosciuto direttamente o per il tramite del volgarizzamento di Binduccio dello Scelto, non senza qualche eco anche dell'Historia troiana di Guido delle Colonne: Troiolo, figlio del re Priamo, ama la bella vedova Criseida, figlia di Calcante, indovino troiano passato al campo dei Greci, e per mezzo di Pandaro, suo amico e cugino di lei, riesce facilmente a farsi riamare; nell'occasione però di uno scambio di prigionieri, Criseida viene richiesta dal padre e parte per il campo greco, dopo aver giurato all'amante eterna fedeltà; subito invece lo tradisce concedendosi a Diomede; quando Troiolo è fatto certo del tradimento, si getta disperato nella battaglia col proposito di uccidere il rivale, ma è ucciso da Achille. La trama dichiaratamente allusiva, come si ricava dalla dedica, a una situazione autobiografica di passione e di gelosia, è di gran lunga più compatta ed organica, a paragone del Filocolo; notevole il grado di abilità raggiunto nella delineazione abbastanza precisa e coerente dei caratteri. Soprattutto nella delineazione di certi personaggi minori e nella grande abilità dell'intreccio il B. rasenta quel grado estremo di distacco nei confronti dell'invenzione che caratterizza il narratore puro (di qui la grande fortuna del libro nella letteratura europea, in Inghilterra particolarmente, attraverso Chaucer, fino a Shakespeare), anche se poi l'oggettività dei dettagli serve a sottolineare, per contrasto, la dimensione eminentemente lirica in cui vive il protagonista, sorretto dalla personale adesione dell'autore attraverso le svolte patetiche, tragiche, elegiache della vicenda. Formalmente il Filostrato si inserisce, non solo per la scelta del metro, nella tradizione dei cantari narrativi popolareschi, ne costituisce anzi uno dei momenti salienti ed esemplari, insieme con il Teseida, largamente ripreso e imitato nel tardo Trecento e per tutto il Quattrocento. Nei moduli dei canterini lo scrittore cerca lo strumento di una sintassi più sciolta e conversevole, di un lessico più concreto e realistico, conforme all'ambientazione tutta moderna e napoletana dei particolari della sceneggiatura e del costume; nel contempo egli non rinuncia al suo proposito d'arte e si adopera a introdurre una misura di compostezza e d'ordine, sia pure al livello dello stile "mediocre", nei modi sciatti e pedestri dei suoi modelli, con echi frequenti del linguaggio lirico (nella parte quinta è, addirittura, l'inserzione quasi letterale di una intera canzone di Cino da Pistoia).

Teseida. Il poema, in dodici libri in ottave, preceduti dalla dedica in prosa a Fiammetta e da un sonetto proemiale e seguiti da due sonetti conclusivi, pur rifacendosi anch'esso formalmente alla tradizione dei cantari, risponde a un proposito letterario assai più ambizioso e complesso che non sia quello del Filostrato, e rispecchia una fase più matura della cultura dello scrittore (forse intorno al 1339-1341). Già dalla forma del titolo (esemplato sui tipi medioevali di Eneida,Tebaida e simili) appare evidente il tentativo dell'autore di rinnovare in volgare il genere epico. Riproponendo nell'epilogo dell'opera la distinzione dantesca degli argomenti poetici - armi, amore e virtù - egli si vanta infatti d'essere il primo a cantare in rima, "con bello stilo... di Marte gli affanni... nel volgar lazio più mai non veduti". Senonché Virgilio e Stazio offrono solo le indicazioni di massima per una generica prospettiva epica, mentre la sostanza del racconto rimane ancorata agli schemi del romanzo cortese medievale (anche se non è possibile, in questo caso, indicare una precisa fonte, e si può soltanto supporla come probabile). La trama prende le mosse dalla narrazione delle guerre vittoriose di Teseo, signore di Atene, contro le Amazzoni e contro Creonte re di Tebe; ma ben presto si accentra intorno agli amori di due prigionieri tebani, Arcita e Palemone, per la giovinetta Emilia, sorella della moglie dell'eroe, Ippolita. I due giovani, da una finestra del carcere dove sono insieme rinchiusi, vedono un giorno nel giardino sottostante la fanciulla che canta e intreccia ghirlande e se ne innamorano entrambi. Arcita viene poi liberato, col patto di rimanere sempre lontano dalla città; senonché, dopo un anno, non reggendo alla pena del distacco, vi ritorna travestito e con falso nome e riesce a farsi assumere nella corte in qualità di valletto. Emilia lo riconosce, e tace; ma viene a saperlo anche Palemone, che smania di gelosia. Evaso dalla prigione, piomba sull'amico che dorme in un bosco e lo aggredisce; ma sopraggiunge Teseo, con Emilia e il loro seguito. I due amici-nemici sono costretti a desistere dal loro furioso duello; per ordine del duca d'Atene, risolveranno la loro lite in un regolare torneo, accompagnati ciascuno da cento cavalieri, e Emilia toccherà in premio al vincitore. Vince Arcita; ma Venere, che protegge Palemone, suscita una furia contro l'eroe e lo fa cadere da cavallo. Sebbene ferito gravemente, Arcita è proclamato sposo di Emilia; non può godere a lungo tuttavia della sua felicità, ed egli stesso, prima di morire, fa promettere alla donna che essa accetterà di buon grado la mano del più fortunato rivale. Le pagine più felici (prima apparizione di Emilia, colloquio estremo fra la donna e Arcita morente) sono ancora una volta quelle più liriche, dense di commozione autobiografica, nei vari registri del sentimento amoroso, dove anche i molteplici ricordi letterari aderiscono naturalmente alla sensibilità idillica e patetica del giovane scrittore.

Comedia delle Ninfe fiorentine. Èl'opera che fin dalle prime stampe (ma non nella tradizione manoscritta) ebbe il titolo di Ameto. Composta fra il '41 e il '42, è la prima ideata dopo il ritorno a Firenze e riflette, insieme con la pena del distacco da Napoli, anche il gusto del nuovo paesaggio: inviandola all'amico Niccolò del Buono, il B. la definisce come una "rosa tra le spine della sua avversità nata, la quale a forza fuori de' rigidi pruni tirò la florentina bellezza". È presente nell'opera un problema di struttura che si salda da un lato al tentativo abbozzato nell'episodio delle questioni d'amore del Filocolo, dall'altro al risultato del Decameròn. Anche qui sette racconti sono inquadrati in una cornice narrativa: solo che la inquadratura schiaccia, in un certo senso, l'autonomia delle singole storie, mentre il sovrapporsi di richiami culturali diversi, l'urgenza di varie esigenze fantastiche rende precario il rapporto fra cornice e racconti.

L'incontro ravvicinato con la cultura letteraria fiorentina porta lo scrittore ad accogliere e sottolineare motivi allegorici e moralistici, nella scia dello "stil novo" e di Dante; d'altra parte, l'innata disposizione a inserirsi in un quadro di concreti rapporti sociali sollecita la sua attenzione curiosa alla cronaca mondana locale; infine l'esigenza rettorica e dotta, sempre presente, influisce nella scelta dei moduli inventivi e stilistici, nel folto apparato ornamentale erudito, nella struttura stessa prosimetrica (di lontana ascendenza boeziana) del libro. Da queste diverse e talora discordi componenti derivano la scarsa omogeneità dell'opera e la macchinosità dell'impianto. Ameto, rozzo pastore e cacciatore, che frequenta i boschi fra Arno e Mugnone, s'imbatte un giorno in una schiera di ninfe che si bagnano nel flume e si innamora di una di esse, Lia. La nuova gentilezza, che a poco a poco germoglia nel suo animo, lo costringe a tralasciare le sue predilette occupazioni e a ricercare i luoghi dove spera di incontrarsi con l'amata. Nel giorno della festa di Venere si trova con Lia, con altre sei ninfe e tre pastori, presso il tempio della dea, e ascolta dalle sette donne il dettagliato racconto dei loro amori, mentre egli si esalta nel contemplarle e si strugge di sensuale desiderio. Terminate le narrazioni, e dopo essere stato immerso da Lia in una fonte purificatrice, gli si rivela la luce di Venere in tutto il suo splendore. Secondo il significato simbolico trasparente dalla lettera della favola, le ninfe - Mopsa, Emilia, Adiona, Acrimonia, Agapes, Fiammetta e la stessa Lia - rappresentano le quattro virtù cardinali e le tre teologali; gli uomini amati da ciascuna di esse, i vizi che si contrappongono a quelle virtù. La figura di Ameto sta a simboleggiare l'umanità ingentilita da amore e purificata dalla virtù. E la dea che presiede al rito è, naturalmente, "non quella Venere che gli stolti alle loro disordinate concupiscenzie chiamano dea, ma quella dalla quale i veri e giusti santi amori discendono intra' mortali", "luce del cielo unica e trina, principio e fine di ciascuna cosa", dietro la cui guida l'uomo ascende alle gioie del paradiso. Lo schema allegorico rimane per altro quasi del tutto estrinseco: il quadro ambientale, i compiaciuti e minuziosi ritratti delle ninfe, il vario atteggiarsi dello stato d'animo del protagonista e soprattutto le storie d'amore si caricano di forti colori realistici, sensuali o addirittura lascivi oppure caricaturali (come nel profilo del marito di Agapes), certo non facilmente riducibili al concetto edificante che regola la struttura del libro. La quale ha piuttosto la funzione di stabilire un distacco fra il sentimento dello scrittore e la materia dei racconti, attenuando l'autobiografismo e accentuando invece l'oggettività e la fermezza anche stilistica della rappresentazione. Oltre che nei toni lirici e idillici, schiettamente rivissuti, dell'episodio iniziale dell'innamoramento di Ameto, il meglio è da cercare nelle novelle e in alcune pagine descrittive della cornice. Liberato il libro dal peso degli elementi decorativi sovrabbondanti, nonché dalla sciatteria delle parti verseggiate (ecloghe in terzine, che riprendono stancamente moduli bucolici e ovidiani), resta soprattutto il senso di una prosa nuova, più matura, più robusta e compatta, modellata sui prosatori classici (nella scia della contemporanea esperienza dei volgarizzamenti liviani).

Amorosa Visione. Poema in cinquanta canti in terzine, la cui composizione si colloca fra l'Ameto e la Fiammetta, è la scrittura più povera, scolorita e prosaica del B. e conferma le sue deboli qualità di verseggiatore. Riprende ed esaurisce le superstiti scorie della vena allegorica e didattica, presente, come si è visto, nella cultura, ma non nel sentimento dell'autore. Egli narra d'essersi trovato in sogno in un luogo deserto, dal quale lo trae con sé una "donna lucente in vista e bella", che lo conduce alle soglie di un nobile castello. Vi si accede per due porte, una bassa e stretta che "mena a via di vita", l'altra aperta e facile che promette "ricchezza, dignità... gloria mondana". Il poeta sceglie la seconda e viene introdotto in una splendida sala, con affreschi che celebrano i trionfi della scienza, della gloria, della ricchezza e dell'amore; in altra stanza contempla l'immagine della Fortuna tra le sue vittime; infine in un giardino incontra Fiammetta e si rallegra nell'amore di lei, ma quando è sul punto di cogliere l'ultimo frutto di questo amore, si sveglia; e allora si abbandona docile alla volontà della sua misteriosa guida, seguendola per il cammino stretto e arduo della virtù che conduce a "riposo eterno". Tutto il poema è costruito come un enorme acrostico: le lettere iniziali di ciascuna terzina formano infatti tre sonetti di dedica, i primi due indirizzati a "madama Maria", cioè a Fiammetta, il terzo ai lettori.

Elegia di madonna Fiammetta. Composto prima del 1345, questo romanzo è il punto d'approdo di un'esperienza decennale umana e letteraria: "una pagina di storia intima dell'anima, colta in una forma seria e diretta", per ripetere il lucido giudizio del De Sanctis, che fu il primo a riconoscerne l'importanza e la novità. La storia è quella stessa del Filostrato, salvo l'inversione delle parti. Fiammetta, nobildonna napoletana, vi narra in prima persona, rivolgendosi alle innamorate donne, la vicenda del suo amore adultero con il fiorentino Panfilo: come lo conobbe e visse con lui una breve stagione di felice abbandono, e come poi egli l'abbandonò per recarsi a Firenze chiamatovi dal vecchio padre; donde un affannoso periodo di attesa impaziente, di nostalgia, di alterne angosce e speranze, finché, avendo saputo ch'egli l'aveva dimenticata e tradita, ella precipitò nella disperazione e giunse a meditare e tentare il suicidio. Questa trama si affida formalmente al genere dell'"elegia", ripristinato sull'esempio delle Eroidi ovidiane, e viene arricchita da numerosi prestiti classici: Virgilio, Lucano, Stazio, Valerio Massimo, Seneca tragico sono non di rado letteralmente tradotti per rendere più preziosa l'esercitazione oratoria. La quale, tuttavia, contiene la linea di un romanzo, sul filo di una ininterrotta tradizione medievale, ed è proprio tale adesione ad una sostanza umana viva e sofferta che può garantire l'unità strutturale del libro, qualora esso si sfrondi del pesante apparato rettorico ed erudito. La concreta evidenza con cui sono rappresentate le passioni pervade interamente il racconto, dà rilievo realistico ai personaggi minori (dall'amante scaltro e volubile al marito tenero e premuroso, dall'amorosa nutrice alle amiche della protagonista) e soprattutto esalta il personaggio di Fiammetta, che è la prima grande anticipazione delle figure tragiche del capolavoro. E poi vero e coerente al sentimento spregiudicatamente umanistico del B. appare il motivo che informa tutta la vicenda fantastica: quella forza d'amore che non conosce limiti morali o razionali, e "sì come più forte, l'altrui leggi non curando annullisce, e dà le sue".

Anche la prosa, pur non rinunciando alle esperienze scolastiche dell'ars dictandi e a quelle successive dei volgarizzatori, pur non affrancandosi del tutto dagli obblighi di una rettorica classicheggiante, assume una cifra più ampia e comprensiva aderendo al ritmo interno della narrazione, obbedendo alla psicologia dei personaggi. A questo ritmo specificatamente prosastico vengono ormai assoggettati tutti i tradizionali espedienti di un discorso musicale - simmetria, parallelismi, clausole endecasillabiche - senza peraltro che a nessuno di essi sia garantita una sostanziale autonomia, ma piegandoli alla necessità di una mimesi realistica.

Ninfale fiesolano. Questo poemetto, in quattrocentosettantatre ottave raggruppate in episodi per mezzo di didascalie, è da considerarsi quasi certamente come l'ultima delle opere minori composte prima del Decameròn; una recente proposta, che tende a retrodatarlo al periodo napoletano, anteriormente al Filocolo, non persuade, contraddetta com'è dalla scelta del tema stesso eziologico, così chiaramente fiorentino e ancor più dalla maturità dell'invenzione e dell'arte. Il Ninfale rappresenta infatti il punto d'arrivo del narratore in versi, come la Fiammetta del prosatore: come tale, ha anche un significato storico rilevante, imponendosi come modello alla produzione idillico-mitologica e a quella rusticale, fino all'Ambra e alla Nencia del Medici, alle Stanze del Poliziano. La partitura metrica, pur risentendo dei difetti connaturati alla produzione in rima del B., accoglie adesso una gamma più vasta di suggestioni, che include i modi della lirica aulica e l'espressivo colorismo lessicale dei giocosi, il grezzo recitativo dei canterini e il morbido, sostenuto andamento della poesia per musica. Tuttavia quel che rende il libro un'esperienza nuova nell'attività dello scrittore è il taglio dell'"amorosa storia", che qui procede con una sicurezza inventiva inusitata nel B. rimatore. Fortunatamente il pretesto eziologico del poema (circa l'origine dei torrenti Africo e Mensola), rapportato al modello delle Metamorfosi ovidiane e connesso alle fortunate leggende di Fiesole e di Roma, rimane nella struttura del libro poco più che uno schema, mentre constituisce lo sfondo necessario, letterariamente idillico e fiabesco, per filtrare una materia di genuine e irrompenti passioni, quando non rappresenta addirittura l'alternativa mitica di certa pronunzia realistica che orienta personaggi e situazioni nel senso di una maliziosa cronaca borghese. Il pastore Africo, assistendo non visto a un raduno di ninfe consacrate alle leggi di Diana, è preso d'amore per una di esse, la quindicenne Mensola; nei giorni seguenti erra inquieto, ricercandola, per i colli e le selve; quando alfine la ritrova, l'insegue con amorosa preghiera, ma quella, spaventata, gli lancia un dardo senza colpirlo, e subito, volgendosi a guardare il nemico, si pente del suo gesto, e lascia penetrare nel suo animo una pietà che è già inconsapevole preludio di un più tenero affetto; consigliato da Venere, Africo si veste da donna e si mescola alle ninfe che si bagnano in un laghetto; quando anche lui si denuda, quelle fuggono atterrite, ma egli riesce a trattenere Mensola fra le sue braccia, a vincerne le ultime resistenze e a farla sua in un amplesso, dapprima subito e poi accolto e partecipato con un crescente abbandono dei sensi e dell'animo; in seguito, la fanciulla, pentita del suo errore e pavida dell'ira della dea, risolve di non lasciarsi più rivedere dall'amante, che, disperato, si uccide (e il cadavere, caduto in un torrente, ne tinge le acque di sangue); Mensola dà alla luce un bambino, ma poi, scoperta e maledetta da Diana, precipita fuggendo in un ruscello e si discioglie nel suo corso; il piccolo Pruneo, amorosamente allevato dai genitori di Africo, diventerà più tardi siniscalco di Attalante, fondatore di Fiesole e estirpatore delle crudeli costumanze imposte da Diana alle ninfe, finalmente sciolte dai loro voti e riportate all'umana legge dell'amore e delle nozze.

Si intuiscono facilmente i momenti di più intensa adesione sentimentale dello scrittore: la vicenda della passione di Africo, dal suo primo nascere alla finale disperazione; la grazia ingenua di Mensola, colta nelle diverse fasi di un'esperienza, che l'investe e la travolge nel suo turbine, ignara, e la fa donna senza intaccare il velo di una sensibilità adolescente, timida e pudica; la semplice affettuosa umanità dei genitori di Africo, trattata con mano delicata e con fine intuito di verità psicologica; talune pause descrittive e idilliche e certi momenti di colma e non volgare sensualità.

Decameròn. Il B. scrisse il suo capolavoro in breve giro di anni, fra il 1349 e il '53, secondo l'ipotesi più attendibile. L'ampia tradizione manoscritta permette di riconoscere, come mostrò fin dal 1927 il Barbi, diverse fasi e stratificazioni del testo, con varianti talora cospicue, aggiunte e soppressioni di singole frasi, fino alla redazione definitiva, attestata da un gruppo numeroso di codici, fra cui è da ricordare il berlinese Hamilton 90, che già nel secolo scorso il Tobler e lo Hecker e di nuovo recentemente il Branca e il Ricci hanno segnalato come autografo, con buone argomentazioni, non tali tuttavia da consentire un'assoluta sicurezza.

Il Decameròn conclude l'esperienza giovanile, e cioè la fase propriamente inventiva e fantastica, dell'attività dello scrittore, e ne riprende la ricca materia sentimentale, liberata ormai dal peso di un prepotente autobiografismo, e le varie sperimentazioni formali, spoglie alfine di ogni pedanteria e ostentazione, perfettamente assimilate e fuse nel pieno possesso di un linguaggio e di uno stile. Al tempo stesso l'opera s'innalza, incomparabilmente superiore ai poemi e romanzi precedenti, per l'ampiezza del disegno, la complessità e l'ordine della struttura, la varietà e la ricchezza dei motivi d'ispirazione: non più strumento di un appassionato sfogo individuale, ma specchio di una società, espressione di un momento storico del sentimento e del costume. C'è evidentemente alla radice del mondo poetico del B., quale appare dal capolavoro, una concezione coerente della vita, che definisce e armonizza i molteplici aspetti della personalità dello scrittore, reperibili, in varia misura, in ciascuna delle opere minori: e l'occasione di questa sintesi si può ravvisare nel ritorno a Firenze del B., nel conseguente accostarsi allo spirito della civiltà borghese del Comune, nella partecipazione, sempre più piena e cosciente, ai costumi di tale società, che ha raggiunto un grado altissimo di sviluppo ed è già in fase di lenta discesa. I cardini di questo sostrato ideale, che costituisce il terreno d'incontro tra lo scrittore e la società fiorentina del suo. tempo, si individuano in una schietta e spregiudicata considerazione degli umani affetti, accettati nella loro oggettiva validità, disancorati da qualsiasi pregiudiziale di ordine trascendente, e nel riconoscimento più aperto e sincero dell'intelligenza, operante nel campo di concrete esperienze e non di sterile dottrina, audacemente impegnata per piegare le resistenze della natura e della fortuna. Su una base siffatta di concrete corrispondenze poteva essere accolto e riproposto dal B. quanto di più originale era stato prodotto dalla cultura borghese (non soltanto quella consegnata alle pagine dei trattati e delle cronache o espressa nella varia letteratura dell'età comunale, ma quella radicata nella pratica di mercanti e di pubblici funzionari, di tecnici e di giuristi, viva nel costume degli ingegni più disincantati e polemici), e poteva ordinarsi in una struttura che non trova paragone, per vastità e ricchezza di motivi, se non con la Commedia di Dante. Alla quaIe tuttavia si contrappone, più che affiancarsi, ché, mentre il libro dell'Alighieri suggella secoli di cultura, il Decameròn è piuttosto l'anticipazione di un nuovo senso della realtà, improntato ad un decoro che si modella ancora sugli ideali cavallereschi della sfarzosa civiltà feudale, ma libero e aperto, indulgente verso le passioni e aspro contro ogni forma di ipocrisia e di corruzione. L'opera, che è passata nel ricordo dei più come un repertorio di situazioni comiche e licenziose, vuole essere invece un messaggio profondamente serio, il richiamo ad un concetto sereno e coraggioso della vita tutt'altro che sordo ai valori morali e religiosi, pur senza concedere in nessun punto al fideismo e al moralismo filisteo. Sotto questo aspetto si giustifica la tragica cornice del libro: la descrizione della peste, che avvolge entro schemi narrativi dichiaratamente impersonali le reazioni del sentimento offeso dallo spettacolo della strage, include anche una lezione morale, prendendo le mosse dall'immagine di un disfacimento fisico ed etico-sociale, onde risultino annientati, nella corruzione di ogni norma di vivere civile e nel trionfo del più cieco egoismo, persino i vincoli dell'amicizia e del sangue, e fra i superstiti si impongano "quasi di necessità, cose contrarie a' primi costumi de' cittadini".

Su questo sfondo di morte, di disordine morale e quasi di rinnovata barbarie, si delinea per contrasto la condizione volontariamente attuata, e per dir così costruita artificiosamente, di alcuni giovani - sette fanciulle e tre uomini - che, incontratisi per caso nella chiesa di S. Maria Novella, decidono di ritirarsi a vivere insieme per qualche tempo in una villa in collina, dove si sforzeranno di evadere da quell'atmosfera di lutto e di incubo, alternando agli svaghi, alle danze, ai giochi, alle piacevoli conversazioni, ai banchetti, alle gite, anche il racconto di novelle piacevoli e interessanti: quelle stesse che costituiscono la sostanza del libro, cento in tutto, recitate in dieci giorni dai dieci novellatori, sul tema proposto di volta in volta da quello di loro cui spetta in quel giorno di reggere la brigata. In tale proposito di evasione si scopre un'antitesi tra il medievale trionfo della morte e un trionfo della vita che si realizza nell'esaltazione di valori mondani, degli istinti e della ragione, laddove il primo si determinava come negazione ascetica. Valga a questo riguardo l'immagine felicissima dei dieci giovani "tutti di fronde di quercia inghirlandati, con le mani piene o d'erbe odorifere o di fiori", tali che "chi scontrati gli avesse, niun'altra cosa avrebbe potuto dire se non: 0 costor non saranno dalla morte vinti, o ella gli ucciderà lieti": un emblema di sapore rinascimentale, il quale deve essere comunque interpretato nel senso che l'arte dello scrittore trascende ed unifica entrambi i termini dell'antitesi, e sarà quindi la sua opera commedia e tragedia, includerà luci ed ombre, comprenderà la virtù dell'uomo e la resistenza formidabile del caso. Perciò la cornice del Decameròn si inserisce in una prospettiva coerente dell'opera anche se, per altro verso, assolve una funzione decorativa, sottolineata dalle elaborate scenografie, dalle deboli invenzioni poetiche che segnano il trapasso da una giornata all'altra. E mentre la descrizione del contagio giustifica, su un piano di assoluta eccezionalità, la spregiudicatezza di alcune novelle, il ricorso inventivo ad un eremo appartato e felice come paesaggio naturale delle gaie conversazioni rappresenta lo stato di distacco con cui i racconti sono stati concepiti e vogliono essere intesi.

Gli stessi nomi dei novellatori rievocano le figure dei romanzi giovanili, ma il loro carattere si è come smorzato in un tono di reminiscenza lontana: Panfilo, il fortunato amante; Filostrato, l'amante tradito e disperato; Dioneo, il gaudente spregiudicato, rappresentano tre facce, tre momenti ideali dell'uomo B., ma trasportati in una luce immobile e diafana. Né dissimile è il compito e il carattere delle donne: Pampinea, nel pieno rigoglio della sua gioventù, saggia e serena, amante riamata; Filomena, anch'essa savia e discreta e pur piena di "desio focoso"; Elissa, acerba adolescente, schiava di un violento e doloroso amore; Neifile, giovanissima anch'essa, ma lieta e pronta al canto e ingenuamente lasciva; Emilia, innamorata di sé come Narciso; Lauretta, amante gelosa; Fiaminetta, lieta di un ricambiato amore e pur sempre trepidante che non le sia tolto: altrettante proiezioni del remoto mondo poetico dei romanzi giovanili. Le novelle si raccolgono secondo un disegno sapiente, tra quelle raccolte nella prima giornata, dedicata agli esempi di potenti che vengono meno alla prerogativa dell'autorità, a quelle incluse nella decima giornata, vertenti sull'apologia di personaggi illustri per magnanimità e cortesia. Entro questi limiti si svolge una vastissima descrizione di casi umani, che sarebbe difficile ridurre ad un tema fondamentale. Per dimostrare la tensione tragica del libro basterebbe la rigorosa coerenza espressiva che caratterizza alcune tra le più celebri novelle: quella della moglie di Guglielmo Rossiglione (IV, 9), che, costretta dal marito a mangiare il cuore del suo amante, delibera di gettarsi dalla finestra del castello; o quella di Ghismonda da Salerno (IV, 1), che rinuncia alla vita poiché il padre le ha fatto uccidere il valletto di cui era innamorata, ove la fermezza della risoluzione ben si addice alla nobiltà del lignaggio e alla distinzione intellettuale. Su un piano di esperienze più accessibili e quotidiane il medesimo valore comporta nobiltà di costumi, finezza di consuetudini, riservatezza e disprezzo di fronte a tutto ciò che può essere giudicato volgare. È il segno che distingue l'eroica gentilezza di Federico degli Alberighi (V, 9), la cortesia di Natan (X, 3), la malinconica saggezza di Carlo d'Angiò (X, 6), la splendida regalità di Pietro d'Aragona (X, 7); ma può anche far risaltare figure meno appariscenti di poeti e artisti, come Giotto (VI, 5) e Guido Cavalcanti (VI, 9), brillare nel contegnoso decoro di un uomo di corte come Bergamino (I, 7), nella chiusa e struggente passione di una semplice fanciulla come Isabetta messinese (IV, 5), nella pronta finezza dell'ebreo Melchisedech (I, 3), nella signorilità istintiva del fornaio Cisti (VI, 2). Il limite di alcune di queste storie di virtù e di cortesia, come per esempio quella di Griselda (X, 10), o di Tito e Gisippo (X, 8), è costituito forse da un eccesso di stilizzazione: si tratta però di un limite quasi sempre superato dalle risorse inventive dello scrittore, dalla sua estrema apertura anche verso le forme più sottili e complesse di una raffinata psicologia.

Se la fortuna dispone capricciosamente dei destini umani e sembra eludere ogni saggio accorgimento inteso a piegarla entro i confini della volontà individuale, l'intelligenza consiste nel sapersi abbandonare ad essa, onde cogliere a tempo debito l'occasione propizia o rendere anche le sventure fonte d'esperienza. Tale disposizione dinamica nei confonti della fortuna, svincolata da ogni tentativo di teorizzazione metafisica e precorritrice di un concetto umanistico che sarà sviluppato dall'Alberti e poi dal Machiavelli, si unisce nel B. con il gusto per l'avventuroso (corretto però, quasi sempre, a differenza di quanto avveniva nei romanzi, da una forte esigenza di realismo), per il ben congegnato gioco di peripezie, cui deve assoggettarsi, con esito incerto, il protagonista: Andreuccio da Perugia (II, 5), Landolfo Ruffolo (II, 4) o Alatiel (II, 7). In altri casi la persistente vocazione romanzesca diventa gusto della sorpresa, come nella bellissima novella di Pietro Boccamazza e dell'Agnolella (V, 3); piega al divertimento e allo scherzo, come nel racconto di Rinaldo d'Esti (II, 2), a cui il gioco mutevole del caso riserba inaspettatamente una meravigliosa notte d'amore; o si traduce in spunto di beffa e di commedia in quello di Salabaetto e della donna siciliana (VIII, 10). Il comico occupa una parte preponderante nel Decameròn, e non solo quantitativamente, se si pensa alla felicità inventiva di alcune novelle che sono tra le più famose del libro. Bisogna tuttavia rapportare questa materia a temi ben presenti e attivi nelle intenzioni dell'autore (quello dell'umana intelligenza, ad esempio, nella novella di Pinuccio e Adriano: IX, 6) o ricondurla a motivi polemici evidentissimi, in senso antiascetico, nelle vicende di Madonna Filippa (VI, 7), della moglie di Ricciardo da Chinzica (II, 10), di Alibech romita (III, 10), e non valutarla in maniera del tutto superficiale come gioco di equivoci e di lascivie.

Altrove la materia maliziosa del racconto sottolinea la spietata rappresentazione di un ambiente (nella novella della monaca e della badessa: IX, 2), permette una acuta penetrazione psicologica, come nella storia di Masetto da Lamporecchio (III, 1); infine il motivo della beffa può sublimarsi in una sincera ammirazione per l'astuzia che trionfa non soltanto sulla sciocchezza, ma anche sul più scaltrito pregiudizio (nella novella di Ferondo: III, 8). Va inoltre considerato che il tema dell'intelligenza, o della scaltrezza, nella sua versione più immediata ed estemporanea, non si isola mai in un modulo rigido di rappresentazione, ma si inserisce in una più fitta trama di motivi, che include, da un lato, la polemica contro le viventi negazioni dell'ideologia borghese dello scrittore - monaci e chierici ipocriti, come frate Cipolla (VI, 10) o il prete di Varlungo (VIII, 2), ma anche imbroglioni come ser Ciappelletto (I, 1) - e contempla, dall'altro, una sorta di pietà e di rispetto per il mondo degli ingenui che sono vittime, non esclusivamente comiche, dell'astuzia e dello scherno: come è il caso dei racconti che si imperniano sul ridicolo e spregiato ma anche patetico e umanissimo personaggio di Calandrino (VIII, 3 e 6; IX, 3 e 5). Forse proprio questa complessità di implicazioni ideali e fantastiche ha determinato la maggior fortuna popolare di talune novelle comiche.

A questa grande varietà di temi il B. giunge in virtù di una inesauribile facoltà inventiva, che utilizza le cosiddette fonti, classiche mediolatine e romanze, popolari e illustri, come meri spunti narrativi (sotto questo aspetto è tipica la novella di Nastagio degli Onesti, V, 8, che ripropone trasformandola la trama di un exemplum già usufruito, nel suo stretto senso religioso. da Iacopo Passavanti). E la ricca gamma dei moduli narrativi trova la sua unità in una intelligenza profondamente comprensiva dei vizi e delle virtù umane, tesa verso un tipo di rappresentazione mai astratta, bensì articolata in una trama di concrete passioni; tale prospettiva invade anche le svolte più tragiche o patetiche o elegiache, condiziona le più sublimi esaltazioni della libertà morale e dell'ingegno, limita il gusto per l'avventuroso e il fiabesco, stempera il comico in una dimensione di più alta umanità e di saggezza. Sempre perfetta è l'ambientazione storica dei personaggi, rigoroso il nesso logico che determina gli avvenimenti, sì che persino le situazioni più lontane dalla realtà presentate dalle fonti acquistano una connotazione verisimile.

Alla ricchezza della materia e all'equilibrio raggiunto dalla concezione ideale dello scrittore si adegua dappertutto la pienezza e maturità dello stile. Sintassi e lessico si distendono con inusitata libertà di movenze nelle direzioni più varie. Ai modi alti e modulati, alle strutture complesse della prosa d'arte, si affiancano ora e si alternano nuove invenzioni formali, attingendo quando occorre all'arguto motteggiare e alla vivacità ellittica del parlato cittadinesco, non respingendo neppure in taluni casi le risorse espressionistiche del dialetto o, come nella novella di Belcolore (VIII, 2), le forti coloriture della satira villanesca. Nasce così la meravigliosa prosa del Decameròn (che non può esser valutata in astratto, come pure troppo spesso si fece nel corso dei secoli, ora lodandola come un modello infallibile, ora deprezzandola come una norma artificiosa, ma sempre fuori del suo contesto storico): quella prosa insieme riposata e scorrevole, sostenuta senza inutili lentezze, robusta e agile, artisticamente elaborata ma in nessun punto scolastica, flessibile varia e pronta ad assecondare le diverse intonazioni comiche o drammatiche, elegiache o patetiche, umili o solenni del racconto. Così ricca ed intensa era stata nell'autore del Decameròn la ricreazione poetica di una civiltà, la quale contiene in germe tutto lo sviluppo della storia moderna, che l'Europa intera (da Chaucer a Margherita di Navarra, da Hans Sachs all'Ariosto e al Bandello, da Shakespeare a La Fontaine) poté lungamente riconoscersi in essa e muoversi a suo agio in quell'orizzonte di idee e di sentimenti e ricavarne infiniti spunti per nuove creazioni fantastiche.

Corbaccio. Questo romanzo in prosa, che è l'ultima delle opere d'invenzione del B., già rispecchia il mutamento delle sue posizioni ideali e il nuovo orientamento della sua cultura, che caratterizzano l'ultimo ventennio della sua vita. La data della composizione sembra da assegnare al 1355; mentre non persuade la recente proposta di spostarla addirittura al '66 e anche più in là. All'esaltazione spregiudicata dell'amore e della donna si sostituisce qui un acre spirito misogino (che riprende gli argomenti di una lunga tradizione, da Giovenale a s. Girolamo) e la condanna risoluta della passione: a ciò allude, secondo una recente e suggestiva ipotesi, il titolo stesso, per altro oscuro e variamente interpretato, del libro: nei bestiari, il corvo, che toglie alle carogne di cui si nutre prima gli occhi e poi il cervello, è simbolo dell'amore che accieca l'uomo e lo fa impazzire. Il protagonista, che parla in prima persona, racconta d'essersi innamorato di una bella vedova, la quale non solo ha respinto le sue profferte, ma si è fatta beffe di lui anche in pubblico, schernendo la sua età ormai matura e la sua origine plebea. Dapprima disperato, fino al punto di meditare il suicidio, ha poi lasciato a poco a poco prevalere nel suo animo il risentimento, l'orgoglio della sua dignità oltraggiata e il desiderio della vendetta. In sogno gli è apparso il defanto marito della donna, e gli ha svelato la natura reale di lei, corrotta e disonesta sotto una falsa parvenza di nobiltà, laida e ripugnante dietro una maschera di bellezza. Il libro si conclude in un proposito di distacco dalla travagliata esperienza amorosa, nella scelta di una vita nuova, tutta dedita al culto degli studi che perfezionano l'uomo. Notevole è ancora l'attenzione dedicata allo stile, cui l'acredine polemica e l'intento moralistico forniscono di volta in volta accenti di crudo e vigoroso realismo ovvero di amara eloquenza. Ma il libro resta soprattutto importante come documento di una conversione: mentre ancora nel proemio alla quarta giornata del Decameròn le muse sono ragguagliate alle donne, qui le "Ninfe Castalidi" sono contrapposte alle "malvagie femmine".

Rime. Un'attività di poeta lirico fu coltivata dal B. lungo tutto il corso della sua vita, dalla prima giovinezza agli ultimi anni; ma rimase marginale. Lo scrittore non pensò mai a fare una scelta e una raccolta delle sue rime; e la tradizione manoscritta che ce le ha conservate parzialmente è, almeno in taluni settori, tarda ed infida: nelle sillogi più copiose si sono infiltrati abbastanza presto componimenti sicuramente apocrifi; e per un gruppo numeroso di sonetti le indicazioni dei codici lasciano persistere il dubbio se si debba considerarli del B. o accoglierli invece tra le "extravaganti" del Petrarca: ne deriva in molti casi un problema grave di attribuzioni, difficilmente risolubile in base a criteri soltanto oggettivi. Del resto, anche per le rime di più certa autenticità, il valore letterario non è grande. Nelle più antiche si avverte l'imitazione degli epigoni dello "stil novo" e delle "petrose" di Dante; più tardi prende il sopravvento il modello del Petrarca; ma dovunque persistono scorie prosaiche, un certo impaccio formale, una riluttanza non mai del tutto vinta alle strutture metriche, una fastidiosa contaminazione di modi aulici e mediocri. Di ciò s'erano accorti già i letterati del Cinquecento, e il Salviati, per esempio, avvertiva che il B. "non fece mai verso che avesse verso nel verso". La materia, che, nelle prime e più numerose rime, è amorosa o galante, si volge nelle ultime a temi morali e polemici; ma i risultati migliori son da cercare nelle sezioni idilliche e descrittive: nei sonetti sui diporti di Baia (che per altro cedono, per vigore rappresentativo, alle pagine di analogo argomento della Fiammetta); in certe ballate e madrigali per musica, che ci riportano ai modi leggeri e preziosi dell'ars nova fiorentina, e furono di fatto intonati dai più celebri maestri di quella scuola, da Lorenzo di Firenze a Niccolò da Perugia. In siffatte poesie è da rintracciare un primo avvio a quello che è il momento più felice del B. lirico, rappresentato dalle ballate incluse nel Decameròn.

Buccolicum carmen. Le sedici ecloghe del B. prendono posto nell'effimera rifioritura della tradizione bucolica, iniziata nel primo Trecento con le prove di Dante e di Giovanni del Virgilio e proseguita più tardi dal Petrarca e da alcuni minori, e del genere serbano la caratteristica essenziale, che è la rappresentazione di eventi autobiografici e storici in modi allegorici e allusivi. Composte in diversi tempi e per diverse occasioni, dal 1351 in poi, le ecloghe furono corrette e ordinate solo nel 1367 in un libro, dedicato a Donato degli Albanzani. I riferimenti e le allusioni inerenti al testo restano spesso oscuri e difficilmente decifrabili, specie nei componimenti che toccano delle vicende del Regno e della corte angioina dopo la morte di Roberto e durante il governo di Giovanna I (III-VI), o delle condizioni di Firenze (VII, IX): né a diradare tali oscurità giova molto la tarda epistola esegetica dell'autore a fra' Martino da Signa. Notevoli sono le ecloghe XII, XIII e XV, che documentano il nuovo avviamento della cultura e della spiritualità dello scrittore in senso umanistico, sotto lo stimolo e con il soccorso dell'esempio petrarchesco. Ma la sola che si distingua per un certo fervore sentimentale, se non proprio poetico, è la XIV (Olympia), che è un lamento e una meditazione ispirata dalla morte precoce della prediletta figlia Violante.

De casibus virorum illustrium. Di questa opera la tradizione manoscritta ci ha conservato due redazioni ben distinte, di cui la prima risale agli anni 1356-1360; la seconda, più ampia e tutta rielaborata e dedicata all'amico Mainardo Cavalcanti, è del 1373. In nove libri l'autore vi raccoglie, con evidente intento morale, biografie di personaggi illustri, da Adamo ai suoi contemporanei, che, dopo esser stati singolarmente favoriti dalla fortuna, furono alla fine precipitati per la loro follia e il loro orgoglio in un abisso di miseria. L'impianto erudito-moralistico dell'opera ne giustifica la straordinaria fortuna negli ambienti umanistici e paraumanistici europei durante tutto il Rinascimento e fino alle soglie del XVIII secolo, fortuna attestata dalle numerose edizioni e dalle versioni italiane, francesi, inglesi, spagnole, tedesche. Le notizie storiche sono attinte a cronache e repertori medievali, da Paolo Diacono a Paolino Minorita, e trovano un preciso riscontro negli abbondanti materiali raccolti in alcune sezioni del cosiddetto Zibaldone autografo magliabechiano. Per il lettore moderno sono di maggiore interesse i capitoli dedicati a fatti e persone degli ultimi tempi, come la descrizione della persecuzione dei Templari, il ricordo di Carlo I d'Angiò, la tragica fine di Filippa di Catania favorita della regina Giovanna, il quadro dell'esecrata tirannide del duca d'Atene: sono pagine in cui sopravvive, e si fa strada faticosamente fra i pesanti paludamenti di una pur sincera eloquenza moralistica, almeno un'ombra dell'antico gusto narrativo e aneddotico.

De mulieribus claris. La prima stesura di quest'opera è da assegnare al 1361; la seconda, riveduta e ampliata per dedicarla ad Andrea Acciaiuoli, sorella del siniscalco Nicola e contessa di Altavilla, è del 1362; qualche aggiunta più tarda e i segni di una successiva revisione formale sono registrati in un tardo autografo dello scrittore, oggi alla Laurenziana. Il libro è dunque pressoché contemporaneo al De casibus nell'ideazione, come gli è affine nell'impianto e nello spirito, e ne condivise in parte la fortuna. Comprende, da Eva alla regina Giovanna (incluse anche le figure mitiche e poetiche, ma escluse quelle bibliche e le sante cristiane), centoquattro biografie di donne famose per le loro virtù o anche tristemente note per le loro scelleratezze. Gli storici (da Livio a Tacito, a Valerio Massimo), i poeti (soprattutto Ovidio), i tardi compilatori e i cronisti medievali, in qualche caso anche i ricordi personali dell'autore, forniscono la materia ai racconti. L'intento moralistico si affaccia qua e là, in forma di chiosa o di riflessione in margine ai fatti narrati, ma sarebbe arduo attribuire un proposito edificante al libro nel suo complesso; che è piuttosto da considerare come una fiorita di novelle, o meglio di schemi e abbozzi di novelle, dove, ancor più che nel De casibus, sopravvive l'inclinazione fantastica del primo Boccaccio. Qualche biografia, come quella della sciocca Paolina romana che crede di giacere con il dio Anubi, ha proprio il taglio e l'andatura della novella; altre sono riprese di favole poetiche, come quelle di Europa, di Tisbe, di Jole; altre ancora, brani di storia mossa e pittoresca, come i ritratti dell'eloquente e fiera Camiola, della "buona Gualdrada", della papessa Giovanna, dell'imperatrice Costanza.

Genealogia deorum gentilium. Anche di questa, che è la più importante fra le scritture erudite del B., esistono più redazioni: la composizione, ideata e intrapresa già prima del '50, approdò, fra il '63 e il '66, ad una prima stesura, testimoniata da un autografo laurenziano; ma fu poi ripresa, corretta e arricchita fra il '71 e il '74 e condotta alla sua forma definitiva, quale risulta da alcuni manoscritti e dalle prime stampe. In quindici libri vi è raccolto, con ordine e con metodo, un immenso repertorio di notizie sui miti antichi, attingendo alle fonti più diverse, talune anche rare, allineando le testimonianze e sforzandosi di classificarle e di accordarle dove divergono o si contraddicono, spesso anche tentando di offrire delle varie leggende una interpretazione, che può essere di volta in volta storica, o naturalistica, od allegorica. Il trattato fornì per parecchi secoli un prezioso sussidio agli studiosi della poesia e dell'arte antica e godette, come tale, di una lunga e vasta fortuna. Per il lettore moderno sono importanti specialmente i due ultimi libri, di contenuto più personale e di intonazione vivacemente polemica. Il XIV spiega che cosa sia la poesia e la difende contro i suoi detrattori: poesia è un certo fervore di immaginare ed esprimere le cose immaginate in forma alta e squisita; è ispirazione che viene da Dio ed è anima del mondo, perché essa arma e stimola gli eroi, descrive cielo terra e mari, inghirlanda le vergini, rianima i fiacchi e modera gli audaci, perseguita i rei ed esalta i virtuosi; considerata nei suoi mezzi è arte e perfezione rettorica, nell'intimo è verità esposta sotto il velame delle immagini e delle parabole di cui si serve. Gli ignoranti la disprezzano, ma il biasimo sulla loro bocca si risolve in lode; i giuristi la condannano perché non arreca lucro, ma in ciò appunto è il suo merito, di non rivolgersi all'acquisto dei beni caduchi, sì all'eterno e al divino; i teologi la giudicano pericolosa e bugiarda, e non s'accorgono che essa fa tutt'uno con la teologia: nacque con Mosè, vive nel linguaggio dei profeti e nelle parabole bibliche, negli autori stessi della paganità divenne strumento per un intendimento più alto e più vero delle cose, e come tale fu apprezzata e citata anche dai padri della Chiesa. Il B. riprende, ordina ed amplia gli argomenti già adoperati nelle loro polemiche contro i teologi e i giuristi dal Mussato e poi dal Petrarca; soprattutto li anima di un caldo fervore, li illumina alla luce di una convinzione profonda del valore e della funzione educativa e religiosa della poesia, e li trasmette, con tutta la carica umana e combattiva del suo entusiasmo, al Salutati e agli altri trattatisti dell'umanesimo quattrocentesco. Nel XV libro si difende contro l'accusa d'aver rivolto la sua attenzione a una materia frivola e vana: proprio per merito delle sue ricerche, si rivelerà in tutta la sua grandezza la sapienza degli antichi poeti, in cui risplende una visione precorritrice della verità cristiana. Accanto agli antichi, esalta gli scritti dei moderni letterati e poeti, in particolare di Dante e del Petrarca; e si vanta d'aver accresciuto il patrimonio della cultura classica, introducendo per primo nell'Occidente la conoscenza diretta degli autori greci.

Scritti danteschi. Il culto dell'opera dell'Alighieri riempì di sé tutta la vita del B., e si coglie non tanto nella costante presenza nelle sue opere di moduli e invenzioni di stampo dantesco, quanto soprattutto nella sua attività indefessa di trascrittore paziente della Commedia, della Vita nova, delle rime e dei testi latini del poeta: per alcune sezioni del corpus dell'Alighieri - le ecloghe, certe epistole - egli è il solo ad averle trasmesse fino a noi. Frutto della sua estrema vecchiaia sono le Esposizioni sopra la Commedia, che non vanno oltre il XVII dell'Inferno: opera prolissa e diseguale, che alterna pagine vivaci e penetranti con digressioni scolastiche e pedantesche, e dà spesso l'impressione di una raccolta provvisoria di materiali, che attendano di essere rifiniti ed elaborati. Più importante è il Trattatello in laude di Dante, di cui ci son giunte tre redazioni: una più ampia, composta fra il '57 e il '62; le altre due (assai vicine fra loro), adattate posteriormente in forma più breve e compendiosa. Più che una raccolta di fatti, è una biografia spirituale, in cui Dante è assunto a simbolo della poesia stessa, immagine incarnata del concetto di poesia-teologia, già esposto nella Genealogia e qui ripreso in pagine eloquenti. Il criterio d'interpretazione è fornito dallo spirito della nascente civiltà umanistica: e perciò, mentre dell'Alighieri si esaltano lo spirito magnanimo e gli assidui studi dei classici, gli si rimprovera invece la soverchia passione politica e la faziosità partigiana, e si sente il bisogno di avanzare valide giustificazioni per non aver scritto il suo poema in metro latino.

Epistole e altri scritti minori. Come delle rime, il B. non volle curare la raccolta delle sue lettere: i manoscritti ce le hanno conservate solo in piccola parte, meno di trenta, di cui alcune frammentarie e due tradotte in volgare. Le più antiche sono mere esercitazioni letterarie, compilate secondo le norme dell'ars dictandi, contutti gli artifici che essa comportava e l'uso del cursus, sulla traccia degli ammirati esempi di Dante, complicati dall'imitazione di Apuleio. In seguito, nelle epistole vere e proprie, sottentra, sul modello del Petrarca, un modo di espressione più sciolta e moderna. Fra le altre acquistano rilievo le poche dirette appunto all'amico aretino, piccolo relitto di una corrispondenza che dovette essere senza dubbio ben altrimenti ricca ed assidua. Notevole per la sua violenza espressiva, ai limiti della caricatura, le lettera al Nelli contro l'Acciaiuoli. A parte sta la citata consolatoria a Pino de' Rossi, che è un vero e proprio trattato ampiamente svolto in forme di vigorosa ed elaborata eloquenza.

Scarso rilievo hanno le altre minori scritture del certaldese. Agli anni delle prinie esercitazioni rettoriche, accanto alle prime epistole, appartengono il centone ovidiano in prosa noto sotto il titolo di Allegoria mitologica, nonché il carme più antico, la cosiddetta Elegia di Costanza, pallido ricalco del famoso epitaffio, di Omonea. Accanto al quale saranno da ricordare gli altri carmi più tardi a Checco di Meletto Rossi, al Petrarca, a Zanobi; e le prose minori: De vita et moribus domini Francisci Petracchi,Vita sanctissimi patris Petri Damiani eremite; e i cenni su Tito Livio. Più importanti, se non altro per l'influsso che poterono avere sulla formazione del prosatore, sono i "volgarizzamenti", ormai attribuiti con sicurezza al B., della terza e della quarta deca di Livio; mentre non è sorretta da argomenti veramente persuasivi la più recente proposta di attribuirgli anche il volgarizzamento trecentesco di Valerio Massimo. Da citare infine il De montibus,lacubus, fluminibus, stagnis et paludibus, et de nominibus maris, sorta di dizionario dei nomi geografici che s'incontrano negli scrittori classici e moderni.

Edizioni. Notizie sulle fonti manoscritte delle opere boccaccesche si trovano soprattutto in V. Branca, Tradizione delle opere giovanili del Boccaccio, Roma 1958 (con le aggiunte in Studi sul Boccaccio, I [1963], pp. 15-36; IV [1967], pp. 1-8. Vedi anche il capitolo sul Boccaccio di A. E. Quaglio nel volume miscellaneo Ueberlieferungsgeschichte der altitalienischen Literatur, Zürich 1964); e sulle antiche edizioni nel repertorio di F. Zambrini e A. Bacchi della Lega, Bibliografia boccaccesca: serie delle edizioni delle opere di G. Boccaccio latine, volgari, tradotte e trasformate, Bologna 1875.

Dell'accurata edizione critica di Tutte le opere pubblicate, sotto la direzione di V. Branca, nei "Classici Mondadori" sono apparsi a Milano il I volume (Caccia di Diana, a cura di V. Branca; Filocolo, a cura di A. E. Quaglio); il II (Filostrato, a cura di V. Branca; Teseida, a cura di A. E. Quaglio) e il VI (Esposizioni sopra la Comedia di Dante, a cura di G. Padoan). Più completa, ma assai meno sicura in taluni casi nella ricostruzione del testo, è la raccolta edita a Bari e inclusa negli "Scrittori d'Italia" (Filocolo, a cura di S. Battaglia, 1938; Filostrato e Ninfale fiesolano, a cura di V. Pernicone, 1937; Teseida, a cura di A. Roncaglia, 1941; Fiammetta, a cura di V. Pernicone, 1939; Ameto, Corbaccio e Lettere, a cura di N. Bruscoli, 1940; Rime, Amorosa Visione e Caccia di Diana, a cura di V. Branca, 1939; Commento alla Commedia e altri scritti intorno a Dante, a cura di D. Guerri, 1918; Opere latine minori, a cura di A. F. Massera, 1928; Genealogia deorum gentilium, a cura di V. Romano, 1951; Decameròn, a cura prima di A. F. Massera, 1927, e poi di C. S. Singleton, 1955). Fondamentali sono le edizioni critiche nei classici della Crusca, pubblicate a Firenze con ampio discorso sul testo, del Teseida, a cura di S. Battaglia, 1938; dell'Amorosa Visione, a cura di V. Branca, 1945, e della Comedia delle Ninfe fiorentine, a cura di A. E. Quaglio, 1963; meno attendibile, ma ancora utile per la consultazione dell'apparato, quella delle Rime, a cura di A. F. Massera, Bologna 1914; da ricordare inoltre la ristampa annotata delle Rime, a cura di V. Branca, Padova 1958; e quella della Fiammetta, a cura di F. Ageno e A. Schiaffini, Parigi 1955.

Un'ampia e accurata antologia di tutti gli scritti nei due volumi delle Opere della collana Ricciardi (Decameròn, Filocolo, Ameto, Fiammetta, a cura di E. Bianchi, C. Salinari e N. Sapegno, Milano-Napoli 1952; Opere in versi, Corbaccio, Trattatello in laude di Dante, Prose latine, Epistole, a cura di P. G. Ricci, ibid. 1965).

La miglior edizione del testo definitivo del capolavoro è nel Decameròn, a cura di V. Branca, Firenze 1960, con ampio commento (senza dubbio da preferire a quelle citate del Massera e del Singleton).

Il settore meno esplorato dal punto di vista editoriale resta ancora quello delle maggiori opere erudite in latino (per cui si veda O. Hecker, Boccaccio-Funde, Braunschweig 1902), ma è già in corso un vasto lavoro filologico, i cui frutti, come pure tutti gli altri contributi di analisi testuale, saranno citati via via nella bibliografia alle singole opere.

Bibl.: Oltre al vecchio, ma ancora utile, repertorio di G. Traversari, Bibliografia boccaccesca. Scritti intorno al B. e alla fortuna delle sue opere, Città di Castello 1907, si potrà consultare, per una scelta ragionata della bibliografia, N. Sapegno, Il Trecento, Milano 1966, pp. 361-73, e Storia letteraria del Trecento, Milano-Napoli 1963, pp. 334-38; E. H. Wilkins, An Introductory Boccaccio's Bibliography, in Philological Quarterly, VI (1927), pp. 111-22; L. Caretti, Guida al B., in Studi urbinati, n. s., XXVI (1952), pp. 87-94; il profilo di V. Branca, nel volume miscellaneo I maggiori Milano 1956, e quello di G. Petronio, nel Diz. encicl. della lett. ital., I, Bari 1966, pp. 389-402; per gli studi più recenti, le rassegne di F. Ageno, in Giorn. stor. della lett. ital., CXXXI (1954), pp. 227-38; CXXXV (1958), pp. 116-26, e di A. E. Quaglio, ibid., CXLII (1965), pp. 581-613; nonché il ricchissimo bollett. bibliografico e le recensioni della rivista speciale Studi sul Boccaccio, che si pubblica, diretta da V. Branca, a Firenze dal 1963. Visioni panoramiche dello svolgimento degli studi critici, dal Trecento ai giorni nostri, in V. Branca, Linee di una storia della critica al Decameròn, con bibliografia boccaccesca, Roma 1939, e in G. Petronio, B., nei Classici italiani nella storia della critica, a cura di W. Binni, I, Firenze 1954, pp. 167-228.

La ricostruzione della biografia dello scrittore si è sviluppata essenzialmente attraverso l'analisi e l'interpretazione degli spunti di coperta confessione contenuti negli scritti minori: su questa via hanno dato notevoli contributi V. Crescini, Contributo agli studi sul B., Torino 1887; A. Della Torre, La giovinezza di G. B., Città di Castello 1905; F. Torraca, Per la biografia di G. B., Milano-Roma 1912; e al termine di essa si colloca la limpida e vivace monografia di H. Hauvette, B. Etude biographique et littéraire, Paris 1914. La critica di questo metodo di ricostruzione troppo fiduciosamente congetturale è stata successivamente impostata da S. Battaglia, Elementi autobiografici nell'arte del B., in La Cultura, IX (1930), pp. 241-254; proseguita da V. Branca, Schemi letterari e schemi autobiografici nell'opera del B., in La Bibliofilia, XLIX (1946), pp. 1-40, e portata a fondo da G. Billanovich, Restauri boccacceschi, Roma 1945. La più ampia e accurata narrazione della vita è oggi il Profilo biografico di V. Branca, premesso al primo volume di Tutte le opere, pp. 3-203.

Sulla Caccia di Diana: V. Branca, Per l'attribuzione della Caccia di Diana, in Ann. della Scuola Norm. Sup. di Pisa, s. 2, VII (1938), pp. 287-301.

Sul Filocolo: per la ricostruzione del testo e del suo sostrato letterario, gli studi fondamentali di A. E. Quaglio, Tra fonti e testo del Filocolo, in Giorn. stor. della lett. ital., CXXXIX(1962), pp. 321-69, 513-40; CXL (1963), pp. 321-63, 489-551; Valerio Massimo e il Filocolo, in Cultura neolatina, XX (1960), pp. 45-77; B. e Lucano,ibid., XXIII (1963), pp. 153-71; Prime correzioni al Filocolo, in Studi sul Baccaccio, I (1963), pp. 27-252; La tradizione del testo del Filocolo,ibid., III (1965), pp. 55-102; per gli aspetti letterari, A. Schiaffini, Tradizione e poesia nella prosa d'arte italiana, Roma 1945; L. Malagoli, Timbro della prosa e motivi dell'arte del B. nel Filocolo, in Studi mediolatini e volgari, VI-VII (1959), pp. 97-111.

Sul Filostrato: per il testo, V. Pernicone, I manoscritti del Filostrato, in Studi di filologia italiana, V (1938), pp. 41-82; G. Contini, Rassegna bibliografica, in Giorn. stor. della lett. ital., CXII (1938), pp. 86-103; per gli aspetti culturali e letterari del poemetto, P. Savi-Lopez, Il Filostrato…, in Romania, XXVII (1898), pp. 442 ss.; G. Volpi, Una canzone di Cino da Pistoia nel Filostrato, in Bull. stor. pistoiese, I (1899), pp. 116-18; S. Debenedetti, Troilo cantore, in Giorn. stor. della lett. ital., LXVI (1915), pp. 414-425; V. Pernicone, Il Filostrato, in Studi di filologia italiana, II (1929), pp. 77-128; V. Branca, Il cantare trecentesco e il B. del Filostrato e del Teseida, Firenze 1936; P. G. Ricci, Per la dedica e la datazione del Filostrato, in Studi sul Boccaccio, I (1963), pp. 333-348.

Sul Teseida: per il testo, l'introduzione del Battaglia e la nota del Roncaglia alle loro rispettive edizioni, e G. Contini, cit., in Giorn. stor. della lett. ital., CXII (1938), pp. 86 ss.; A. Limentani, Alcuni ritocchi al testo del Teseida, in Cultura neolatina, XIX (1959), pp. 91 ss.; per le fonti, P. Savi-Lopez, Sulle fonti della Teseida, in Giorn. stor. della lett. ital., XXXVI (1900), pp. 57 ss., e Storie tebane in Italia, Bergamo 1905; H. e R. Kahane, Akritas and Arcita,A Byzantin Source of Boccaccio's Teseida, in Speculum, XX (1945), pp. 415-25; inoltre S. Debenedetti, Per la fortuna della Teseida e del Ninfale fiesolano, in Giorn. stor. della lett. ital., LX (1912), pp. 259-64; A. Limentani, Tendenze della prosa del B. ai margini del Teseida,ibid., CXXV (1958), pp. 524-51, e B. traduttore di Stazio, in La Rassegna, VII (1960), pp. 231-42; V. Branca, La morte di Tristano e la morte di Arcita, in Studi sul Boccaccio, IV (1967), pp. 254-64.

Sulla Commedia delle Ninfe: per il testo, oltre all'introduzione premessa dal Quaglio alla citata edizione critica, vedi P. G. Ricci, rec. in Studi sul Boccaccio, III (1965), pp. 377-84; per gli aspetti letterari e culturali, G. De Robertis, L'Ameto, in Studi, Firenze 1944, pp. 17-30, 154-174; R. Ramat, B. 1340-44, in Belfagor, XIX (1964), pp. 1730, 154-74.

Sull'Amorosa Visione: per il testo, l'introduzione del Branca alla citata edizione critica, e G. Contini, Rassegna bibliografica, in Giorn. storico della letteratura italiana, CXXIII(1946), pp. 78 ss.; per la questione della presunta duplice redazione, vedi lo scambio di note polemiche fra V. Branca e V. Pernicone, in Belfagor, I-II (1946-47), e inoltre V. Branca, L'editio princeps dell'Amorosa Visione, in La Bibliofilia, XI, (1938), pp. 460-468; E. Raimondi, Il Claricio: metodo di un filologo umanista, in Convivium, n.s., II (1948), pp. 108-34, 258-311, 436-59; C. Dionisotti, G. Claricio, in Studi sul Boccaccio, II (1964), pp. 291-341; sui caratteri generali del poema, V. Branca, L'Amorosa Visione, in Annali della Scuola Norm. Sup. di Pisa, XI (1942), pp. 20-47; sui rapporti con i Trionfi, V. Branca, Per la genesi dei Trionfi, in Rinascita, IV (1941), pp. 681-708; G. Billanovich, Dalla "Commedia" e dall'"Amorosa Visione" ai "Trionfi", in Giorn. stor. della lett. ital., CXXIII (1946), pp. 1-52.

Sulla Fiammetta: per il testo, oltre alla nota del Pernicone alla sua edizione, F. Ageno, Per il testo della Fiammetta, in Lettere italiane, VI (1954), pp. 152-64; A. E. Quaglio, Per il testo della Fiammetta, in Studi di filologia italiana, XV (1957), pp. 5-206, e dello stesso Le Chiose all'Elegia di madonna Fiammetta, Padova 1957; Per gli aspetti letterari, G. De Robertis, La Fiammetta, in Studi, Firenze 1944; D. Rastelli, L'Elegia di Fiammetta, in Studia Ghisleriana, I (1950), pp. 151-74, e in Lettere italiane, III (1951), pp. 85-98, e, dello stesso, Not. stor. e bibl. sulla composizione e sulla fortuna della Fiammetta e del Ninfale flesolano, in Annali della Biblioteca di Cremona, IV (1951), pp. 3-22.

Sul Ninfale fiesolano: A. Balduino, Tradizione canterina e tonalità popolareggianti nel Ninfale, in Studi sul Boccaccio, II (1964), pp. 25-80; Id., Per il testo del Ninfale fiesolano,ibid., III (1965), pp. 103-84; IV (1967), pp. 35-201.

Sul Decameròn: per la questione del testo e delle sue stratificazioni redazionali, oltre alle note del Massera, del Branca e del Singleton alle rispettive edizioni, M. Barbi, Sul testo del Decameròn (1927), in La nuova filologia e l'edizione dei nostri scrittori, Firenze 1938; M. Sampoli Simonelli, Il Decameròn. Problemi e discussioni di critica testuale, in Annali della Scuola Norm. Sup. di Pisa, XVIII (1949), pp. 129-72; V. Branca, Per il testo del Decameròn, in Studi di filologia italiana, VIII (1950), p. 12. 29-143, e XI (1953), pp. 163-243; F. Ageno, Rassegna bibliografica, in Giorn. stor. della lett. ital., CXXXI(1954), pp. 227-48; N. Sapegno, A proposito di una nuova ediz. del Decameròn,ibid., CXXXIII (1956), pp. 48-66; A. E. Quaglio, in Paideia, X (1955), pp. 449-72; N. Vianello, Una nuova edizione del Decameròn, in Convivium, s. 3, VI (1956), pp. 735-42; V. Romano, Ancora del testo del "Decameròn" ricostruito da Charles S. Singleton, in Belfagor, XII (1957), pp. 303-12; P. G. Ricci, Problemi di metodo per un'edizione critica del Decameròn, in Rinascimento, VIII (1957), pp. 159-76; V. Branca e P. G. Ricci, Un autografo del Decamerón, Padova 1962; per il problema delle fonti, G. Gröber, Ueber die Quellen von B. Decameròn, Strassburg 1913; sui moduli strutturali, F. Neri, Il disegno ideale del Decameròn, in Storia e poesia, Torino 1936; sui valori letterari, oltre alle pagine classiche del Foscolo, del De Sanctis e del Carducci, E. G. Parodi, Lingua e letteratura, II, Venezia 1957; U. Bosco, Il Decameròn, Rieti 1929; M. Bonfantini, B. e il Decamerone, in Pegaso, II (1930), pp. 13-28; B. Croce, Poesia popolare e poesia d'arte, Bari 1933; G. Petronio, Il Decameròn, Bari 1935; L. Russo, Ritratti e disegni storici, III, Bari 1951, e Letture critiche del Decameròn, ibid. 1956, E. De Negri, The Legendary Style of the Decameron, in Romanic Review, XLIII (1952), pp. 166-89; G. Di Pino, La polemica del B., Firenze 1953; F. Tateo, Il realismo del Decameròn nella storia della critica, in Dialoghi, X (1957), pp. 18-36; V. Branca, B. medievale, Firenze 1956; G. Getto, Vita di forme e forme di vita nel Decameròn, Torino 1958; G. Petronio, La posizione del Decameròn, in Rassegna, VII (1957), pp. 189-207; E. Auerbach, Mimesis, Torino 1956; N. Sapegno, Prefazione al B., in Pagine di storia letteraria, Palermo 1960; L. Malagoli, Decameròn e primo B., Pisa 1961; M. Marti, Interpretazione del Decameròn, in Dal certo al vero, Roma 1962; A. S. Scaglione, Nature and Love in the Late Middle Age. An Essay on the Cultural Context of the Decameròn, Berkeley-Los Angeles 1963; S. Battaglia, La coscienza letteraria del Medioevo, Napoli 1965; G. Padoan, Mondo aristocratico e mondo comunale nell'ideologia e nell'arte di G. B. in Studi sul Boccaccio, II (1964), pp. 81-216; sulla lingua, F. Ageno, Annotazioni sintattiche sul Decameròn,ibid., pp. 217-234; A. E. Quaglio, Parole del B., in Lingua nostra, XIX-XXVIII (1958-1967), pp. 105-110.

Sul Corbaccio: per il testo, T. Nurmela, Manuscrits et éditions du Corbaccio, in Neuphilologische Mittheilungen (Helsinki), LIV (1953), pp. 102-34; inoltre H. Hauvette, Une confession de B., in Bulletin italien, I (1901), pp. 3-21; G. I. Lopriore, Il Corbaccio, in Rassegna, VI (1956), pp. 483-89; A. Rossi, Proposta per un titolo: il Corbaccio, in Studi di filologia italiana, XX (1962), pp. 383-90; W. M. Jeffery, B.'s Titles and Meaning of Corbaccio, in Modern Language Review, XXVIII (1933), pp. 194-204; G. Padoan, Sulla datazione del Corbaccio, in Lettere italiane, XV (1963), pp. 1-27.

Sul B. umanista: A. Pertusi, Leonzio Pilato fra Petrarca e B., Venezia 1964; R. R. Bolgar, The Classical Heritage and its Beneficiaries, Cambridge 1954.

Sulle rime: V. Branca, Note sulla tradizione e il testo delle rime, in Tradizione delle opere di G. B.; inoltre H. Hauvette, Les poésies lyriques de B., in Bulletin italien, XVI (1916), pp. 10-26, 57-70; G. R. Silber, The Influence of Dante and Petrarch on certain of Boccaccio's Lyrics, Menasha, Wisc., 1940.

Sulle lettere: Lettere edite e inedite, a cura di F. Corazzini, Firenze 1877; Lettere autografe, a cura di G. Traversari, Castelfiorentino 1905, R. Sabbadini, Sul testo delle lettere autogr., in Rend. dell'Ist. lombardo, s. 2, XLVIII (1915), pp. 322-27; G. Billanovich, Pietro Piccolo da Monteforte tra il Petrarca e il B., in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di B. Nardi, Firenze 1955; R. Abbondanza, Una lettera autografa del B., nell'Arch. di Stato di Perugia, in Studi sul Boccaccio, I (1963), pp. 5-13; P. G. Ricci, Cento e più correzioni al testo di alcune lettere del B., ibid., III (1965), pp. 185-228; G. Auzias, Studi sulle epistole,ibid., IV (1967), pp. 203-40.

Sulle ecloghe: G. Lidonnici, Il Buccolicum Carmen, Città di Castello 1914; H. Hauvette, Sulla cronologia delle ecloghe latine del B., in Giorn. stor. della letter. ital., XXVIII (1896), pp. 154 ss.; A. Foresti, L'ecloga VIII di G. B., ibid., LXXVIII (1921), pp. 325-43.

Sul De mulieribus: L. Torretta, Il Liber de claris mulieribus di G. B., in Giorn. stor. della letter. ital., XXXIX (1902), pp. 252 ss.; XI, (1903), pp. 35 ss.; G. Traversari, App. sulle redazioni del De claris mulieribus, in Misc. in onore di G. Mazzoni, Firenze 1907; P. G. Ricci, Studi sulle opere latine e volgari del B., in Rinascimento, X (1959), pp. 3-21; V. Zaccaria, Le fasi redazionali del De mulieribus claris, in Studi sul Boccaccio, I (1963), pp. 253-332, e Appunti sul latino del B. nel De mul. claris,ibid., pp. 229-46.

Sul De casibus: H. Hauvette, Recherches sur le De casibus, in Entre camarades, Paris 1901; P. G. Ricci, Studi sulle opere latine e volgari del B., in Rinascimento, s. 2, II (1962), pp. 11-20.

Sulla Genealogia deorum: per il testo, oltre alla nota di V. Romano alla sua edizione, G. Martellotti, Le due redazioni della Genealogia del B., Roma 1951; P. G. Ricci, Contributo per un'edizione critica della Genealogia..., in Rinascimento, II (1951), pp. 99-144, 195-208; inoltre E. Garin, Le favole antiche, in Medioevo e Rinascimento, Bari 1954; F. Tateo, Retorica e poetica fra Medioevo e Rinascimento, Bari 1960; E. Gilson, Poésie et vérité dans la Genealogia de Boccace, in Studi sul Boccaccio, II (1964), pp. 253-82.

Sugli scritti danteschi: M. Barbi, Qual è la seconda redazione del Trattatello in laude di Dante?, in Misc. stor. della Valdelsa, XXI (1913) pp. 101-41; E. G. Parodi, Il B. in laude di Dante, in Poeti antichi e moderni, Firenze 1923; G. Vandelli, G. B. editore di Dante, Firenze 1921, D. Guerri, Il commento del B. a Dante, Bari 1923; G. Billanovich, La leggenda dantesca del B., in Studi danteschi, XXVIII (1949), pp. 45-144; G. I. Lopriore, Le due redazioni del Trattatello, in Studi mediolatini e volgari, III (1955), pp. 35-60; G. Padoan, Per una nuova edizione del Commento, in Studi danteschi, XXXV (1958), pp. 129-249, e L'ultima opera di G. B.: le Esposizioni sopra il Dante, Padova 1959; A. Rossi, Dante nella prospettiva del B., in Studi danteschi, XXXVII (1960), pp. 63-139.

Sui volgarizzamenti e su altre cose minori: F. Maggini, I primi volgarizzamenti dei classici latini, Firenze 1952; G. Billanovich, Petrarch and the textual tradition of Livy, in Journal of the Warburg and Courtauld Istitutes, XIV (1951), pp. 137-208; Id., Il B., il Petrarca e le più antiche traduzioni in italiano delle Decadi di Tito Livio, in Giorn. stor. della lett. ital., CXXX (1953), pp. 311-37; M. T. Casella, Nuovi appunti intorno al B. traduttore di Livio, in Italia medievale e umanistica, IV (1961), pp. 77-129, e Il Valerio Massimo in volgare dal Lancia al B., ibid., VI (1963), pp. 49-136; G. Biagi, Lo Zibaldone boccaccesco Mediceo-Laurenziano, Firenze 1915; F. Macrì-Leone, Il Zibaldone boccaccesco della Magliabechiana, in Giorn. stor. della lett. ital., X (1887), pp. 1-41; G. Vandelli, Lo Zibaldone Magliabechiano è veramente autografo del B., in Studi di filologia italiana, I (1927), pp. 68-86; G. Velli, Sull'Elegia di Costanza, in Studi sul Boccaccio, IV (1967), pp. 241-54; G. Padoan, Petrarca,B. e la scoperta delle Canarie, in Italia medievale e umanistica, VII (1964), pp. 263-277; M. Pastore Stocchi, Tradizione medievale e gusto umanistico nel De montibus, Padova 1963.

Numerosissimi gli studi sulla fortuna dello scrittore nel mondo, dei quali citeremo soltanto: H. Hauvette, Les plus anciennes traductions françaises de B., in Bulletin italien, VII-IX(1907-1909), pp. 281-383 ss.; F. Neri, Gli studi franco-ital. nel primo quarto del sec. XX, Roma 1928; A. Roncaglia, B. e la critica francese dell'ultimo secolo, in Libro ital. nel mondo, I (1940), pp. 21-26; V. L. Saulnier, Boccace et la nouvelle franç. de la Renaissance, in Revue de littér. comparée, XXI (1947), pp. 404-413; E. Ornato, Per la fortuna del B. in Francia, in Studi francesi, IV (1960), pp. 260-67; G. Mombello, Per la fortuna del B. in Francia, in Studi sul Boccaccio, I (1963), pp. 415-44; M. Praz, Chaucer and the great Italian Writers of the Trecento, in Machiavelli in Inghilterra, Roma 1945; G. Schleich, Die mittelenglische Umdichtung von B.: De claris mulieribus, Leipzig 1924; W. F. Brayn-G. Dempster, Sources and Analogues of Chaucher's Canterbury Tales, Chicago 1941; A. Obertello, Traduttori inglesi del Decameron, in Studium, L (1954), pp. 612-15; A. Lytton Seus, The Italian Influence in English Poetry from Chaucer to Southwell, London 1955; W. Farnham, The Medieval Heritage of Elizabethan Tragedy, Berkeley 1956; R. C. Simonini, Italian Scholarship in Renaissance England, Chapel Hill 1952; H. G. Wright, B. in England from Chaucer to Tennyson, London 1957; K. Laserstein, Der Griseldisstof in der Weltliteratur, Weimar 1926; H. Hatzfeld, Boccacciostil in Don Quixote, in Festschrift für O. Welzel, Postdam 1924; G. Dempster, Some Old Dutch and Flemish Narratives and their Relation to Analogues in the Decameron, in Public. of Modern language Assoc., XLVII (1932), pp. 923-48; A. Cronia, La fortuna del B. nella letteratura ceca, in Lettere italiane, VI (1954), pp. 296-309; F. Cale, G. B. in Jugoslavia, in Lettere italiane, IX (1957), pp. 81-84; J. Zarebski, Il B. nel primo umanesimo polacco, in Studi sul Boccaccio, III (1965), pp. 247-94.

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