Giovanni Boccaccio: Opere in versi - Corbaccio Trattatello in laude di Dante, Prose Latine, Epistole - Introduzione

I Classici Ricciardi: Introduzioni (1965)

Giovanni Boccaccio: Opere in versi - Corbaccio Trattatello in laude di Dante, Prose Latine,  Epistole - Introduzione

Pier Giorgio Ricci

Il presente volume continua e completa quello delle opere del Boccaccio contenute nell'ottavo di questa collezione; e pertanto i due volumi sono da considerare strettamente complementari. Le pagine del Sapegno che, introducendo al primo, delineano un rapi do ritratto del Boccaccio come uomo e come scrittore, sono dun que la naturale introduzione anche al presente volume; e in questo è dato l'indice dei nomi che sono citati in ambedue. Resta ch'io brevemente illustri - come già fece il Sapegno per le opere allora presentate (Decameron, Filocolo, Ameto, Fiammetta) - il gusto, la sensibilità, la cultura che si rispecchiano in quest'altro; e lo farò chiarendo le ragioni che hanno determinato la loro scelta e i criteri che sono stati adottati per il loro ordinamento.

Molti gli scritti che avevano il diritto d'essere presenti in que sto volume: vivo il rammarico nell'escludere alcuni; e tuttavia una scelta s'imponeva: ho badato che le esclusioni non ponessero ostacoli a dipanare il filo di quella coerente evoluzione che porta il Boccaccio dal Medio Evo all'Umanesimo. Ed anche ho badato che le esclusioni passassero, per quanto era possibile, inavvertite: vuoi per il minore rilievo delle opere escluse, vuoi per il frequente ricorrere, nelle note, di passi estratti da quelle, che in tal modo potevano dirsi - e sia pure di scorcio - anch'esse presenti. Dunque ho escluso soltanto quelle che più apertamente testimoniano la vocazione del Boccaccio come chiosatore: il De montibus e le Esposizioni sopra il Dante-, ma ad ambedue spesso ricorrendo per illustrare luoghi delle altre.

Più grave problema quello dell'ordine. Certo è che un criterio di raggruppamento puramente esterno, che dividesse - poniamo - le prose dai versi, oppure il latino dal volgare, non era per soddisfarmi: l'intento mio si volgeva - com'ho accennato- a seguir passo passo l'evoluzione del gusto, della sensibilità, della cultura del Boccaccio: dunque un solo criterio si palesava adatto al caso, il cronologico; ed a questo mi sono attenuto, profittando degli ac certamenti che in questi ultimi tempi hanno corretto la datazione tradizionale di parecchie opere. A lasciarsi sistemare entro tale schema cronologico non erano adatte, naturalmente, quelle che per loro natura comprendevano archi di venti, trenta e anche più anni, raccogliendo componimenti di età tra loro molto diverse: le Rime, perciò, aprono il volume, le Lettere lo concludono, ed a mezzo stan no, tra il mondo prevalentemente volgare e quello prevalentemente latino, le egloghe del Buccolicum Carmen. Fra questi tre pilastri si distende la catena delle altre opere, testimoni di una densa storia letteraria che da Napoli a Firenze a Certaldo pone il Boccaccio come attore di primissimo piano nella grande crisi del Trecento.

A dir la verità il primo anello - voglio dire il Ninfale fiesolano - è tutt'altro che sicuro. Se ancora reggesse lo schema critico tradi zionale, il Ninfale occuperebbe in questo volume tutt'altro luogo: non solo dopo il Teseida, ma anche dopo l'Amorosa visione. e sareb be il punto di arrivo di uno sviluppo artistico fattosi maturo nella naturalezza e nella semplicità; ma si tratta di uno schema romantico che ha ben poche probabilità di restare in piedi: palesando motivi culturali e atteggiamenti linguistici del tutto diversi dalle opere che immediatamente dovrebbero precederlo e seguirlo nell'immaginato sviluppo, il Ninfale è oggi in attesa di studi che, diversamente definendolo e inquadrandolo, ne chiariscano la posizione e l'im portanza. Nell'imbarazzo attuale la sede cronologica nella quale io l'ho sistemato - insieme, cioè, con le altre due opere (Caccia di Diana e Filostrato) che, al pari d'esso, ignorano Fiammetta - non ha altro valore che di semplice suggerimento, senza alcuna pretesa di conclusive sistemazioni.

L'inclinazione narrativa del Boccaccio trovò nella prosa il suo sfogo più naturale; ma anche in versi egli fece, fin oltre la trentina, prove di grande impegno. La tradizione poetica italiana gli proponeva due metri narrativi: l'ottava e la terzina, popolareggiante la prima, aristocratica la seconda; e in ambedue si provò il Boccaccio, nobilitando la materia dei cantari attraverso una verità psicologica, una sapienza narrativa, un'apertura culturale ignote ai modelli dai quali prendeva le mosse, e alla terzina affidando complesse figura zioni allegoriche, nel tentativo di ricalcare la strada di una poesia dotta, gravida di arcani sensi. In quest'ordine di propositi, la poesia narrativa del Boccaccio muove dall'elementare verso il complesso, dal culturalmente povero all'addottrinato, secondo una linea di sviluppo che lo porta, dopo il ritorno a Firenze, alle prove sue più complesse: il Teseida e l'Amorosa visione. Nel primo il cantare campagnolo e indòtto è finalmente divenuto alto poema epico, primo a cantar le armi in «latino volgare», modellandosi sopra un classico esempio: la Tebaide di Stazio; nel secondo poema narrando con «chiuso parlare» le esperienze essenziali della sua vita giovanile pel contrastato cammino verso la gloria poetica, tra amore, studio, necessità pratiche, costanti ideali, e tutto sotto l'imperio della Fortuna.

Il Boccaccio esaurisce nelle terzine dell'Amorosa visione il suo sogno di un'alta poesia allegorica in volgare, secondo lo schema medievale consacrato da Dante; le esperienze che di lì a poco lo impegnano, sono dirette da un identico ideale di poesia allegorica, densa di significati nascosti, ma in esametri latini, secondo l'esem pio di Dante e del Petrarca. Appena egli ha superato il mezzo della vita, questa è la grande novità della sua nascente conversione umanistica; ed alla poesia latina resterà poi costantemente fedele, quando l'impegno sempre crescente nella cosa pubblica, l'alta di gnità raggiunta, l'incontro con il Petrarca, svilupparono in lui la concezione del poeta come vate dalla vasta dottrina, dalla religiosa e arcana ispirazione, dal profondo impegno morale. Tale il ritratto ch'egli disegnò dell'Alighieri quando l'entusiasmo per la lettura della Pro Archia ciceroniana, gli suggerì un Trattatello in lande di Dante. Fu tuttavia un elogio in volgare; e non soltanto per pratiche necessità, ma per la persuasione che la prosa italiana potesse ri serbare alta gloria e che vi si potessero tentare le più varie espe rienze: dal comico al tragico, dal suasivo all'encomiastico, dal sem plice all'allegorico. Siffatte convinzioni giustificano appunto il Trattatello, il Decameron, e di lì a poco il Corbaccio, estrema prova in volgare quando una grande crisi psicologica gli farà mutare e remi e vele. Per intanto questo disperato sforzo di eccellere nella prosa volgare era anche la confessione di un sogno perduto: quello di riuscire un grande lirico, come gli Stilnovisti, come il Petrarca. Con la coscienza che mai sarebbe riuscito ad imprimere alle sue poesie una forte nota personale, rinunciò a cercarvi la gloria, ma volle tenerle accanto per l'intera vita come fioretti di poca apparen za e di poco profumo, eppure testimoni fedeli delle sue sofferenze più segrete e del suo amore per la poesia.

La grande, profonda crisi del Boccaccio è quella che egli soffrì negli anni immediatamente precedenti alla «vecchiaia»: cioè poco prima dei quarantacinque, secondo le convinzioni sue e di tanti al suo tempo. La propiziarono alcune acerbissime esperienze: lo sdegno per l'incoronazione poetica toccata senza merito a Zanobi da Strada, la grave delusione patita dopo che aveva creduto di poter finalmente stabilirsi di nuovo a Napoli, il dolore per la morte della figlia, l'unica rimastagli, la mortificazione patita nelle cose d'amore, quand'egli, onorando cittadino d'alto rispetto, si vide oggetto di scherno e segnato a dito. L'ombra della vecchiaia im minente ammoniva lui, precocemente invecchiato, ch'era ormai tempo di posare le cose d'amore tanto nella vita come nella let teratura, orientandosi in tutt'altra direzione: lo fece prendendo a modello ciò che Dante raccomandava nel Convivio: esser «la senetta» quell'età nella quale l'uomo deve mostrarsi di natura prudente, giusta, larga e «allegra di dir bene in prode d'altrui..., ché, sì come Aristotile dice, l'uomo è animale civile, per che a lui si richiede non pur a sé ma altrui essere utile». Tempo era venuto, dunque dei buoni consigli, offerti con liberalità, senza attendere d'averne richiesta. Al tempo medesimo l'esempio del Petrarca gli si poneva come modello di vita e di inclinazioni letterarie, ammonen do, correggendo, incitando. Dal gusto medievale all'umanistico, lungo un cammino che sempre più si allontanava dall'originaria impronta napoletana, sotto la guida del nuovo precettore, il Boc caccio cerca di conciliare la sua ancor viva inclinazione narrativa con il moraleggiare per l'utile comune e con l'uso del latino, il mezzo espressivo di più alta nobiltà. Nascono da questo incontro di antiche e nuove tendenze il De casibus virorum illustrium e il De mulieribus claris: testimonianze di un nuovo gusto, di una diversa sensibilità, di più estese e meglio ordinate cognizioni. E largo posto trovano, nel nuovo orientamento, gli studi grammaticali, per la preoccupazione di adeguare il possesso del latino alla nuova esi genza compositiva; e s'infittiscono le letture d'opere filosofiche e teologiche per inseguire l'ideale di una dottrina molteplice, capace di volgersi a studiare ogni aspetto della natura e dell'uomo. In questo nuovo clima di cultura e di moralità non v'è più luogo per il volgare: solamente piegando al bisogno di farsi intendere da uo mini senza lettere il Boccaccio s'acconcerà d'ora in poi a scrivere qualche rara volta in italiano.

In una natura come la sua, fantastica e pregna d'impetuosi entu siasmi, la fedeltà ai nuovi precetti non venne meno mai più, anzi si spiegò in un'esatta intuizione del nuovo ideale umanistico che mi rava alla piena ricostruzione della classicità attraverso la conoscenza del mondo greco; ma neppur venne meno l'antica disposizione alla poesia. Nessun pericolo perciò che i nuovi studi conducessero solamente a disquisizioni grammaticali, o a meccanica schedatura di nozioni peregrine, o ad un arcigno moraleggiare, o ad un sottile esercitarsi in questioni filosofiche e teologiche; al contrario sempre restava dominante l'impegno più strettamente letterario: non più sfogato nei versi - è vero - o nelle prose d'immaginazione, ma nell'orazione, che si richiamava ai modelli della grande retorica: Seneca e Cicerone. Nascono da tale vocazione la consolatìo a Pino de' Rossi, l'invettiva nel violento dettato della lettera al Nelli, l'ar dente difesa della poesia e della propria opera negli ultimi due libri della Genealogìa.

Sul cadere della vita, la disciplina retorica lo confinava in quest'opera scientificamente espositiva, ed alla pacata, disadorna esposizione piegava l'antica fantasia; la quale talvolta uscivagli di mano e prorompeva in un'ampia corsa libera, come ai bei tempi del dolce novellare; ma egli, per un attimo dimentico, tornava subito all'arida disciplina, e con tagli e correzioni riconduceva la sua prosa allo schema retorico che doveva governare l'intero libro. Nacque così dopo lunghissima preparazione la Genealogia deorum gentilium: grosso volume di scientia, come espressione del recte scire, e di facultas, come espressione del recte facere: alta moralità conclusiva di una vita cominciata con un'apparizione folgorante e maravigliosa in riva al mare, tra i ruderi di una solenne classicità, e poi con piena coerenza svoltasi intera come devozione indeflettibile all'alma poesia.