VECCHIETTI, Giovanni Battista

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 98 (2020)

VECCHIETTI, Giovanni Battista

Mario Casari

– Nacque a Cosenza nel 1552, da Francesco, mercante di nazione fiorentina, e da Laura di Tarsia, nobildonna cosentina.

Fu erudito orientalista, viaggiatore e diplomatico, spesso in collaborazione con il fratello minore Girolamo (v. la voce in questo Dizionario).

Il padre apparteneva a un ramo della famiglia Vecchietti, antica casata fiorentina che aveva mantenuto importanti ruoli nell’attività diplomatica e nell’alta burocrazia sin dai tempi della Repubblica.

La principale fonte sulla vita di Vecchietti è una lunga lettera scritta dal fratello Girolamo, ad Augsburg nel marzo del 1620, a Niccolò Strozzi in Firenze (Morelli, 1776, pp. 159-191; Almagià, 1956, p. 315). Qui troviamo notizie sulla sua prima formazione a Cosenza, dove, dopo la morte del padre (1560), Giovanni Battista riuscì a frequentare studi umanistici, specialmente dedicandosi alla filosofia. Giulio Cavalcanti, suo parente, lo portò a seguire le lezioni del filosofo cosentino Bernardino Telesio, di cui divenne e restò per tutta la vita convinto seguace. Attraverso il legame con un altro parente di famiglia, Sertorio Quattromani, Vecchietti si interessò a studi di poetica, componendo anche versi in latino e in volgare.

All’inizio degli anni Settanta, Vecchietti cominciò le sue peregrinazioni. Si recò a Firenze, dove la famiglia aveva dei beni nella contrada Polverosa, poi perduti per dispute legali, e a Pisa, dove frequentò vari filosofi presso lo Studium. La sua presenza in Toscana è parallela ai contatti tra Telesio e la famiglia Medici. Con Firenze, considerata la patria, e con i Medici, Vecchietti stabilì un saldo legame lungo tutto il suo percorso di viaggiatore, diplomatico e studioso. Nel 1573 si trasferì per la prima volta a Roma, dove cominciò a frequentare la corte papale, entrando a servizio del cardinale Prospero Santacroce. Pur con saltuari rientri a Cosenza, Roma divenne la nuova base, da dove mosse anche per trascorrere un periodo a Mantova insieme a Curzio Gonzaga, e a Ferrara, presso il conte Ercole Bevilacqua. Qui conobbe Francesco Patrizi e familiarizzò con l’ambiente neoplatonico dello Studium della città. Le incertezze economiche lo spinsero però a riprendere il mestiere commerciale di famiglia, intraprendendo tra 1578 e 1584 una serie di viaggi fuori d’Italia, in Spagna (Siviglia e Cadice) e ad Alessandria in Egitto, con costanti rientri a Roma e a Firenze.

I suoi interessi intellettuali e la stima che lo circondava lo condussero all’interno di numerose accademie. Provenendo dall’ambiente dell’Accademia Telesiana (poi Cosentina), Vecchietti, nello spostarsi a Firenze, entrò nell’Accademia Fiorentina, dove discusse più volte l’amato Dante, e per la quale nel 1590 fu nominato censore, in associazione alla nomina a console di Francesco Bonciani. Al 1590 risale anche il suo ingresso nell’Accademia degli Alterati (nome accademico ‘il Vano’, in quanto «vano come una canna», Firenze, Biblioteca nazionale, Magl., VIII, 7399, c. 10), che si riuniva nella casa di Giovanni Battista Strozzi.

In ragione delle sue frequentazioni alessandrine e del suo iniziale apprendimento dell’arabo, nel 1584 Vecchietti fu chiamato a Roma, per il tramite di Prospero Colonna, dal cardinale Ferdinando de’ Medici. Sotto l’egida del cardinale, Vecchietti entrò nel circolo dei collaboratori di Giovanni Battista Raimondi, direttore della Typographia medicea, impresa di pubblicazione di libri in lingue orientali, il cui primo obiettivo era la produzione di un’edizione poliglotta della Bibbia, cui dovevano accompagnarsi volumi d’apparato, dizionari e grammatiche.

Il progetto della stamperia si inseriva nella politica di riunificazione con le Chiese cristiane d’Oriente condotta da Gregorio XIII, ed era affiancato all’investitura del cardinale de’ Medici quale protettore dei patriarcati di Antiochia e Alessandria, e del Regno di Etiopia. In un orizzonte più ampio, il progetto della Tipografia medicea univa il doppio fine della conversione dei musulmani e della conciliazione con le Chiese d’Oriente a una ricerca umanistica indirizzata al recupero di rilevanti testi classici e originali, e a una prospettiva commerciale proiettata sia in Europa sia nelle terre dell’Impero ottomano (Casari, 2016).

Nella cornice della collaborazione con la stamperia, Vecchietti iniziò la sua carriera diplomatica, incaricato di due missioni pontificie di rilievo: la prima presso il patriarca d’Alessandria, con l’obiettivo di spingere i copti all’unione con la Chiesa cattolica; la seconda presso il re di Persia, per trattare un’alleanza contro il comune nemico ottomano. Nel primo tratto lo accompagnava Giovanni Battista Britti, anch’egli cosentino e collaboratore di Raimondi, che dall’Egitto avrebbe dovuto proseguire per l’Etiopia. Inviando a Roma notizie sulla disponibilità del patriarca a discutere le relazioni, Vecchietti rimase in Egitto fino alla morte di questi, quindi fu sollecitato dal nuovo papa, Sisto V, a partire per la Persia. Dal giugno del 1586 risiedette per circa un anno presso la corte reale, dapprima a Tabriz, e quindi – dopo l’occupazione turca di questa città – a Qazvin. Giunto a Hormuz senza più risorse, riuscì a partire nuovamente e trovare ospitalità a Goa presso Filippo Sassetti, mercante e studioso di cose indiane, e suo compagno di accademie, per il quale – morto nel settembre del 1588 quando Vecchietti era già ripartito – pronunciò al rientro l’orazione funebre presso l’Accademia Fiorentina, l’8 febbraio 1589.

Da Goa Vecchietti era infatti rientrato via mare fino a Lisbona, presentando al re di Spagna Filippo II, a Madrid, su ordine del papa, una relazione sullo stato della Persia, il suo potenziale appoggio nella guerra contro i turchi, e la peculiare situazione della colonia portoghese di Hormuz (Tucci, 1955; Piemontese, 2007). A Roma, Vecchietti portava inoltre una missiva di risposta dello scià safavide Solṭān Moḥammad Khodābande indirizzata a papa Sisto V, al quale fu presentata nel giugno del 1589, insieme alla traduzione («ad sensum») fatta da Vecchietti stesso; una seconda traduzione «ad verbum» fu fatta fare in Roma (Archivio apostolico Vaticano, A.A., Arm. I-XVIII, 773). Essa confermava l’interesse dello scià alla stipula di trattati bilaterali.

Alla partenza da Roma, Vecchietti e Britti avevano ricevuto da parte di Raimondi istruzioni sulla ricerca di libri in scritture orientali, di tema religioso, linguistico, scientifico e anche letterario: «Habbino in memoria in tutti i paesi dove capiteranno, che tra li negotij che hanno a trattare, quello della stampa arabica non tiene l’ultimo luogo» (Archivio di Stato di Firenze, Miscellanea medicea, 719, n. 2). Britti scomparve sulla via per l’Etiopia, in circostanze imprecisate. Vecchietti, che nel frattempo aveva sviluppato anche competenza della lingua persiana, reperì notevoli codici arabi, persiani, e turchi.

Vecchietti tornò a viaggiare con nuovi incarichi. Nel 1590 fu di nuovo in Egitto per proseguire il dialogo con il patriarca per l’unione della Chiesa copta di Alessandria alla Chiesa di Roma. Questa volta lo accompagnava il fratello Girolamo, che avrebbe poi condotto il negoziato negli anni successivi. Rientrati a Roma, infatti, Giovanni Battista fu incaricato di una differente missione in Spagna, per conto del nuovo papa Clemente VIII. Qui presentò al re Filippo II una memoria nella quale suggeriva che i correnti impegni militari dei turchi potevano consentire una facile conquista dell’Egitto: «Preso lo Egitto ne viene per conseguenza anche presa tutta l’Arabia e tutto lo Iemen fino all’ultima foce del mare Rosso» (Almagià, 1956, p. 320; Donazzolo, 1925). La memoria di Vecchietti – includente numerosi dettagli strategici che dimostrano notevole conoscenza del Paese – si inseriva nel fermento di progetti tesi a rinnovare un’impresa militare contro i turchi, a più di due decenni di distanza dalla vittoria di Lepanto, ma non trovò riscontro da parte del re cattolico. Nel contesto di questa missione, su incarico di Raimondi, Vecchietti tentò di convincere Filippo II ad acquistare la Tipografia medicea, all’epoca in seria crisi finanziaria, conseguenza progressiva della morte del primo patrono Gregorio XIII (1585), dell’ascesa del cardinale Ferdinando al seggio granducale di Toscana (1587), e altre circostanze avverse: il lungo scambio di lettere non condusse però ad alcuna risoluzione, e nel 1596 Raimondi si vide costretto ad acquistare la Tipografia dal granduca, indebitandosi fortemente.

Avendo come base principale Roma nel corso degli anni Novanta, Vecchietti fu parte della ‘familia’ e del circolo intellettuale che si riuniva intorno al cardinale Cinzio Aldobrandini, nipote di Clemente VIII e suo segretario di Stato, che includeva, oltre al fratello Girolamo e a Raimondi, personaggi come Antonio Querenghi, Gian Vincenzo Pinelli, Gabriello Chiabrera, Francesco Patrizi e Torquato Tasso. In questo ambiente accademico fervente di pulsioni neoplatoniche trovavano spazio le idee telesiane di Vecchietti, che nel 1592 conobbe anche Tommaso Campanella, tra i principali sostenitori e prosecutori del pensiero del filosofo cosentino.

Nella seconda metà degli anni Novanta, Vecchietti soffriva di inattività: tornò in Egitto a trovare Girolamo (fine 1596-maggio 1597) e, di ritorno, presenziò alla solenne cerimonia della effimera unione della Chiesa copta di Alessandria con la Chiesa cattolica, tenutasi a Roma il 25 giugno 1597 – frutto delle fatiche sue e soprattutto del fratello –, ma per ragioni di salute non riuscì a finalizzare una missione a Costantinopoli per gestire il delicato passaggio del patriarcato di lì. Privo di incarichi, e patendo anche l’instabile situazione finanziaria personale, Vecchietti decise di partire di nuovo per l’Asia, questa volta per moto personale, con la prospettiva di intraprendere vantaggiosi commerci e al contempo raccogliere manoscritti per la Medicea e per i propri interessi.

Raggiunto ancora una volta l’Egitto, nel 1599 partì per la Siria, per giungere poi, via Baghdad e Basra, nuovamente a Hormuz. Tra l’ottobre del 1600 e l’aprile del 1603, Hormuz fu la sua base primaria, ma in questo periodo per circa un anno fu in Persia, senz’altro a Shiraz, a Yazd e Hamadan. Dopo una prima fase di difficili relazioni, a Hormuz svolse anche funzioni di consigliere dei governatori portoghesi che vi si succedettero. Nel 1603 passò in India, accolto con grande stima e interesse alla corte del gran mogol Akbar (1556-1605), ad Agra. Raggiunto qui dal fratello Girolamo all’inizio del 1605, i due ripartirono in aprile, giungendo di nuovo a Hormuz nel gennaio dell’anno seguente. Il rientro via terra verso il Mediterraneo, sostando in Lar, Shiraz, Isfahan, Hamadan, Baghdad e Aleppo, si rivelò particolarmente pericoloso e costellato di incidenti, tra cui per Giovanni Battista anche una brutta frattura al braccio le cui conseguenze si trascinarono per anni. Separatisi i due fratelli ad Aleppo, Giovanni Battista fu catturato da corsari turchi nel porto di Alessandretta. Riscattato con difficoltà, fu catturato di nuovo da corsari barbareschi in prossimità della Sicilia, e condotto schiavo prima a Tunisi e poi a Biserta. Questa prigionia durò molti mesi e solo le insistenti pressioni di Girolamo, giunto a Trapani nel gennaio del 1608, presso cardinali e lo stesso papa, riuscirono a portare a un secondo riscatto, nel giugno di quell’anno. A ottobre del 1608, Vecchietti fu finalmente di nuovo a Roma, ospite, insieme al fratello, del cardinale Aldobrandini.

La lunga permanenza in Persia in questa seconda spedizione consentì a Vecchietti di approfondire vari aspetti della società e cultura locali. In particolare, fu in grado di osservare con attenzione i costumi degli zoroastriani e familiarizzò con la comunità degli ebrei, soprattutto nella città di Lar, dove erano numerosi e attivi. Tra Hormuz e Lar Vecchietti studiò anche l’ebraico, e tra i risultati scientifici più rilevanti di questa seconda missione in Persia e India vi fu proprio la raccolta di una importante collezione di manoscritti ebraici e giudeo-persiani. Vecchietti voleva riportare a Clemente VIII testimonianze della versione persiana della Bibbia, ritenuta preziosa, in quanto possibilmente detentrice di lezioni molto antiche, utili a integrare e correggere passi discussi delle versioni correnti. Nella cornice del progetto della Tipografia medicea, l’indagine di Vecchietti si inseriva nel fervido dibattito corrente sulla rilettura delle Scritture. Il suo lavoro fu influente anche presso Akbar, interessato alle relazioni interreligiose del suo Impero, tanto da richiedere, in una lettera a Filippo II, copie del Pentateuco, dei Vangeli e dei Salmi, nelle lingue originali o tradotte in arabo e persiano (Fischel, 1952; Bernardini, 2011). Vecchietti può essere considerato come il primo studioso europeo del giudeo-persiano, ossia il persiano scritto in caratteri ebraici. Oltre ad acquisirne vari manoscritti, Vecchietti si fece aiutare da studiosi locali nella trascrizione dei testi biblici dal giudeo-persiano al persiano scritto in caratteri arabi. Contestualmente ne intraprese la versione latina, ma questa parte del lavoro pare incompiuta e dispersa. Informato della morte di Clemente VIII – per il quale aveva fatto realizzare un frontespizio illuminato con il suo stemma su un manoscritto di trascrizione arabo-persiana di sei libri dell’Antico Testamento (Parigi, Bibliothèque nationale de France, Suppl. Pers., 2) –, in una lettera del luglio del 1606 da Isfahan Vecchietti illustrava dettagliatamente il proprio progetto a Paolo V. Una volta rientrato a Roma, malgrado l’apprezzamento formale della ricerca, il papa non ne supportò però il prosieguo e la pubblicazione. I manoscritti giudeo-persiani raccolti o trascritti da Vecchietti rappresentano una preziosa salvaguardia, date le successive distruzioni avvenute in Persia nel corso di persecuzioni antigiudaiche (Piemontese, 2010-2011).

Con la morte del loro protettore cardinale Aldobrandini (gennaio 1610), per il quale Vecchietti compose dei sonetti, la situazione dei due fratelli si fece precaria. Dal rientro in Italia, Giovanni Battista non riuscì più a collocarsi in posizione di fiducia presso il papa. Già Clemente VIII, nella sua assenza, aveva inviato due portoghesi come ambasciatori presso lo scià ‘Abbās I (1601); Paolo V stava ora trovando nuovi interlocutori riguardo agli affari di Persia, ricevendo tra agosto e settembre del 1609 due ambasciate dello scià, una guidata da ‘Alī-Qolī Beg, l’altra da sir Robert Shirley. Vecchietti era a Firenze, quale interprete al servizio del granduca, quando Shirley vi sostò, sulla via per Roma, presentando le sue missive. Nel frattempo, grazie anche alla mediazione di Vecchietti con Belisario Vinta, nel 1610 l’amico Raimondi riuscì ad affrancarsi dal peso economico della Tipografia medicea: il granduca Cosimo II annullò l’acquisto, lasciandola in gestione a Raimondi a Roma, con una pensione mensile. Nel 1611 Vecchietti fu di nuovo in Spagna, in cerca di supporto finanziario con un breve papale di raccomandazione a Filippo III, ma tornò in Italia poco dopo, senza risultati. Morto Raimondi nel 1614, dal 1616 Vecchietti si trasferì stabilmente a Napoli, dove trascorse gli ultimi anni, afflitto da una misera condizione economica e una lunga malattia, ma sognando ancora spedizioni e progetti intellettuali, in particolare con Campanella, che sperava poter liberare dal carcere.

A Napoli Vecchietti morì l’8 dicembre 1619, lasciando suo erede universale, in assenza del fratello Girolamo, l’amico fiorentino Orazio Tedeschi.

Menzioni piene di stima nei confronti di Vecchietti si rintracciano nella corrispondenza e nelle opere di molti intellettuali e diplomatici dell’epoca. L’arabista francese Jean-Baptiste Duval, in visita a Raimondi nel dicembre del 1608, ne traccia l’unico ritratto fisico che abbiamo: «a la mesme heure que je l’entratenois, arriva un aultre sien amy, interprète de la langue persiene, homme grand de corps, noir de visage, lequel porte perpétuellement des lunettes attachés sur le nez. Il s’appelle encore Joan Baptista Vecchietti, a faict plusieurs beaux voyages, ayant été mesmement esclave» (Parigi, Bibliothèque nationale de France, Ms. français 13977, c. 223v; Piemontese, 2010-2011, p. 488). L’amico Gabriello Chiabrera ne fece l’interlocutore di Giovanni Battista Strozzi nel suo trattato poetico Il Vecchietti. Dialogo intorno al verso eroico, gli dedicò una canzone morale, e ne scrisse l’epitaffio poetico, in cui è ripercorso l’avventuroso cammino di Vecchietti: «[...] Io mi nacqui in Cosenza in riva al Crate, / Ma fu la nostra stirpe entro Firenze / Originata, e sovra i sette colli / Hebbe à fiorir mia giovenile etate; / Quinci il Pastor che’n Vatican corregge / Messaggero m’eresse al re de Persi; / Ed io valsi a fornir la lunga strada; / Poi di peregrinar tanta vaghezza / Il cor mi prese, che trascorsi agli Indi, / E vidi il Gange; indi sotto alte antenne / D’Arabia corsi, e d’Etiopia i negri [...]» (Epitaffio XXI; G. Chiabrera, Poesie liriche, III, Londra 1781, p. 110).

L’opera, i progetti, e la dimensione intellettuale di Vecchietti si collocano in un denso crocevia della storia culturale europea ed extraeuropea a cavallo tra XVI e XVII secolo, che ancora necessita di essere esplorato in tutte le sue diramazioni e implicazioni, tra evangelizzazione, politica internazionale eurasiatica e l’emergere di conoscenze e istanze originali nel contatto con le lingue e culture dell’Africa e dell’Asia.

Fonti e Bibl.: Dell’ampia raccolta di manoscritti arabi, copti, persiani, giudeo-persiani, ebraici, turchi, dei fratelli Vecchietti, una buona parte finì nella biblioteca della Tipografia medicea, seguendone le sorti. Altri rimasero tra i loro beni personali o furono ceduti ad altri interlocutori. Oggi se ne trovano presso la Biblioteca Laurenziana di Firenze, la Bibliothèque nationale de France, la Biblioteca apostolica Vaticana e alcune altre biblioteche. Lettere e documenti autografi o pertinenti a Vecchietti si trovano in Città del Vaticano, Biblioteca apostolica Vaticana, vari fondi; Archivio di Stato di Firenze, Miscellanea medicea, filze 717-722; Firenze, Biblioteca nazionale, Magliabechi e Mediceo Palatino; Archivio di Stato di Torino, Raccolta Mongardino.

G. Morelli, I codici manoscritti volgari della libreria Naniana, Venezia 1776, pp. 105 s., 159-191; P. Donazzolo, Di una relazione inedita di G.B. V. intorno all’Egitto, in Ateneo veneto. Rivista di scienze, lettere ed arti. Atti e memorie dell’Ateneo veneto, 1925, n. 1, pp. 157-163; V. Buri, S.J., L’unione della chiesa copta con Roma sotto Clemente VIII, Roma 1931, passim; W.J. Fischel, The Bible in persian translation, in Harvard theological Review, XLV (1952), pp. 3-45; U. Tucci, Una relazione di G.B. V. sulla Persia e sul Regno di Hormuz (1587), in Oriente moderno, XXXV (1955), 4, pp. 149-160; R. Almagià, G.B. e Girolamo V. viaggiatori in Oriente, in Atti della Accademia nazionale dei Lincei. Rendiconti. Classe di scienze morali, s. 8, XI (1956), pp. 313-345; F. Richard, Les manuscripts persans rapportés par les frères Vecchietti et conservés aujourd’hui à la Bibliothèque nationale, in Studia iranica, IX (1980), pp. 291-300; A.M. Piemontese, Catalogo dei manoscritti persiani conservati nelle Biblioteche d’Italia, Roma 1989, ad ind.; F. Richard, Les frères Vecchietti, diplomates, érudits et aventuriers, in The Republic of letters and the Levant, a cura di A. Hamilton - M.H. van den Boogert - B. Westerweel, Leiden-Boston 2005, pp. 11-26: A.M. Piemontese, La diplomazia di Gregorio XIII e la lettera del re di Persia a Sisto V, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XIV, Città del Vaticano 2007, pp. 363-410; Id., G.B. V. e la letteratura giudeo-persiana, in Materia giudaica, XV-XVI (2010-2011), pp. 483-500; M. Bernardini, G.B. and Girolamo V. in Hormuz, in Portugal, the Persian Gulf and Safavid Persia, a cura di R. Matthee - J. Flores, Leuven 2011, pp. 265-281; La via delle lettere. La Tipografia medicea tra Roma e l’Oriente (catal.), a cura di S. Fani - M. Farina, Firenze 2012 (con ampia bibliografia), passim; M. Casari, Raimondi, Giovanni Battista, in Dizionario biografico degli Italiani, LXXXVI, Roma 2016, pp. 221-224; A.M. Piemontese, Persica Vaticana. Roma e Persia tra codici e testi, Città del Vaticano 2017, pp. 199-238; M. Yousefzadeh, The Sea of Oman: Ferdinand I, G.B. V., and the armour of Shah ‘Abbās I, in Rivista degli studi orientali, XC (2017), pp. 52-74.

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