Giotto: la nascita del linguaggio figurativo moderno dell’Occidente

I classici della pittura (2016)

Giotto: la nascita del linguaggio figurativo moderno dell’Occidente

Angelo Tartuferi

La formazione: Firenze, Roma, Assisi

Il luogo di nascita del fondatore della visione moderna occidentale in pittura non è certo, tuttavia appaiono entrambi plausibili, secondo gli studi più recenti, sia il borgo di Vespignano in Mugello, sia il centro della Firenze pulsante di artigiani e di commerci. Anche la data di nascita è incerta, ma il 1267 appare ancora oggi il termine cronologico più accreditato per l’avvio dell’avventura umana di Giotto di Bondone, poiché lo scrittore fiorentino Antonio Pucci, nel suo Centiloquio (1775), afferma che l’artista morì nel 1336 – in stile fiorentino, che corrisponde al 1337 in stile moderno –, all’età di settant’anni. Tutt’altro che accertato può dirsi anche l’iter del suo apprendistato artistico, che dovette essere assai precoce, come di consueto in quell’epoca. In ogni caso, pare opportuno riaffermare che la polemica ricorrente sulla formazione fiorentina o romana di Giotto è inconsistente. La stupefacente forza innovativa del suo linguaggio figurativo trae alimento dalla superba elaborazione dei fatti artistici più progressivi maturati nell’Italia centrale nel corso dell’ultimo quarto del Duecento. Recatosi nella città papale ben prima del giubileo del 1300 – sulle orme forse più ideali che dirette di Cimabue, che vi si trovava nel 1272 –, il giovane genio toscano sarà stato incantato dall’incomparabile sedimentazione più che millenaria di culture, di formule e di modelli rappresentativi riscontrabile nelle tre arti maggiori, che nel campo specifico della pittura si manifestava nei dipinti murali di Jacopo Torriti prima e di Pietro Cavallini poi, nonché nelle ‘miracolose’ icone dell’interminabile Medioevo romano. Immagini affascinanti, intrise di una solennità insieme aulica e mistica, che sembrano collocarsi in uno spazio temporale indefinito1. Il ‘nuovo’ di Giotto sta in massima parte, per l’appunto, nel conferire un tempo preciso, inequivocabile e irripetibile alla raffigurazione. E ciò si realizza per la prima volta tra Assisi – nelle Storie di Isacco e nel Compianto sul Cristo morto, nei registri alti della chiesa superiore di San Francesco – e il natio Mugello – nel frammento di una Maestà oggi nella pieve di Borgo San Lorenzo –, in un lasso di tempo che s’immagina strettissimo, pressoché coincidente, intorno al 1290. Il frammento recuperato verso la metà degli anni Ottanta del secolo scorso nei Laboratori di restauro dell’Opificio delle Pietre Dure a Firenze radica in area fiorentina la più antica attività giottesca, che inoltre si riflette intensamente nelle opere dei suoi più antichi interpreti-seguaci: il Maestro di Varlungo e il Maestro della Santa Cecilia2. Furono gli stessi contemporanei a tributare all’artista il riconoscimento del primato assoluto nel campo pittorico e l’enorme gloria terrena; intorno al 1310, dopo aver lavorato in imprese di altissimo prestigio per i francescani ad Assisi, Rimini e Padova, oltreché a Firenze e Roma, sempre per committenti di alto rango religioso e civile, Giotto era al culmine della maturità umana e artistica e il suo successo fu consacrato da Dante Alighieri nell’XI canto del Purgatorio della Divina Commedia: «Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura» (vv. 94-96).

E le ragioni del suo successo incontrastato attraverso i secoli appaiono in sostanza le stesse che erano alla base degli apprezzamenti entusiasti delle fonti letterarie della sua epoca. Giotto recupera per la pittura la funzione di medium privilegiato per l’interpretazione della realtà del proprio tempo, conquistandole una dignità prossima a quella della letteratura, mediante la riproposizione di livelli di naturalezza che trovano confronti possibili solo nella pittura antica: «Il più sovrano maestro stato in dipintura che si trovasse al suo tempo, e quegli che più trasse ogni figura e atti al naturale», così lo scrittore fiorentino Giovanni Villani (Nuova cronica, XII, 12; 1340 circa) poco dopo la morte dell’artista. Tuttavia, non sarà mai richiamata quanto dovrebbe la rilevanza primaria della componente religiosa che ispira costantemente tutte le fasi dell’attività del grande maestro, fasi profondamente diverse sul piano del linguaggio formale, ma tutte tese ad esprimere compiutamente e nella maniera più ‘popolare’ e comprensibile il messaggio cristiano. La grandezza storica di Giotto risiede, tra l’altro, nell’aver impostato e condotto alla maturazione definitiva alcune problematiche di fondamentale importanza storica, il cui avvio risale alla prima metà del Duecento. Il pittore fiorentino fu affiancato nel far ciò da altre notevoli personalità artistiche dell’epoca: in primo luogo dallo scultore Nicola Pisano, che anzi conseguì per primo il recupero della naturalezza espressiva, riallacciandosi in maniera più marcata e letterale all’arte antica. Il grande architetto e scultore Arnolfo di Cambio si mosse invece in stretta contiguità culturale e linguistica con il caposcuola fiorentino, al punto tale che un filone degli studi ha addirittura proposto di sostituirlo tout-court a lui nel ruolo di primo rinnovatore dell’arte italiana sul finire del Duecento, sostenendone perfino un’improbabile, e soprattutto del tutto infondata, attività nel campo della pittura. Tra gli aspetti basilari del linguaggio giottesco occorre includere pertanto la sintesi culturale del tutto inedita fra l’arte antica e l’arte assai vitale e sfaccettata del tardo Duecento, arricchita inoltre da apporti fondamentali derivanti dalla cultura gotica francese3. La nuova visione giottesca si diffuse con straordinaria rapidità a cavallo fra Due e Trecento in quasi tutta la penisola, giungendo ad influenzare in maniera decisiva persino le fortissime personalità artistiche che erano state attentamente considerate dallo stesso Giotto negli anni cruciali della sua formazione: da Arnolfo di Cambio a Duccio di Buoninsegna, da Giovanni Pisano a Pietro Cavallini.

La possibile formazione nell’ambito della bottega di Cimabue è stata riportata all’attenzione degli studi in anni ancora recenti da Luciano Bellosi, uno dei più autorevoli studiosi di Giotto del nostro tempo, mediante la proposta d’individuare nella Madonna col Bambino del Museo di Santa Verdiana a Castelfiorentino (Firenze) – opera di un Cimabue influenzato non poco dal giovane Duccio – l’intervento del giovanissimo Giotto, operante per l’appunto all’interno della sua bottega4. Tuttavia, per la vivacità del Bambino e per il panneggio ‘moderno’ di gusto assisiate in cui egli è avvolto, non appare convincente negare la completa autografia cimabuesca del dipinto, che resta ancora oggi per noi la classificazione critica più realistica. Questi panneggi di gusto arnolfiano, che si riscontrano peraltro in tante pitture umbro-laziali su tavola e in affresco sul finire del XIII secolo, sono uno degli stilemi più comuni del nuovo linguaggio pittorico che si andava affermando in Italia centrale: in maniera particolare nel cantiere decorativo della basilica superiore di San Francesco in Assisi, ma anche a Roma e nel Lazio, a Firenze e negli altri centri della Toscana. La centralità del cantiere assisiate per gli sviluppi della pittura italiana fra Due e Trecento è stata ribadita più volte negli studi degli ultimi decenni.

La campagna decorativa della chiesa fu iniziata dal transetto settentrionale durante il pontificato di Niccolò III Orsini (1277-1280), per opera di un grande pittore di cultura nordica (inglese o francese), che si avvalse della collaborazione di un artista di evidente matrice culturale romana, identificato da taluni studiosi con il giovane Jacopo Torriti. La fase successiva della decorazione fu condotta invece da Cimabue e dalla sua squadra di aiuti, impegnati a dipingere il presbiterio e il transetto, nonché le celebri vele della crociera con i quattro Evangelisti. Subito dopo l’artista fiorentino e i suoi passarono a decorare le fasce degli arconi della prima campata della navata a partire dal transetto, con ogni verosimiglianza ancora entro il pontificato di Niccolò IV (1288-1292), il primo papa francescano. È in questa fase dei lavori, al principio dell’ultimo decennio del Duecento, che fa la sua comparsa, nei registri più alti della navata di Assisi, la personalità autenticamente rinnovatrice del Maestro di Isacco, autore per l’appunto dei due riquadri ad affresco con Isacco benedice Giacobbe e Isacco respinge Esaù. L’identificazione del cosiddetto Maestro di Isacco con Giotto – ormai sulla trentina – appare pressoché certa alla luce della stupefacente identità che lega queste pitture murali alle opere su tavola che la critica riconosce come i più antichi esemplari autografi del maestro fiorentino a noi pervenuti: il frammento già menzionato di una grande Maestà conservato nella pieve di Borgo San Lorenzo, nel cuore del Mugello, luogo d’origine della famiglia di Giotto, e la grande Croce dipinta della basilica di Santa Maria Novella a Firenze.

La leggenda francescana

Dalle Storie di Isacco (cat. 3 a, b) e persino dall’inquadramento spaziale dell’intera decorazione della successiva Leggenda francescana (cat. 8 a-i) emerge distintamente la profonda conoscenza della cultura pittorica romana dell’epoca da parte di Giotto. Il giovane maestro, giunto al culmine della prima maturità, assume d’ora in avanti la guida delle maestranze impegnate sui ponti. Tra esse figurano ancora alcuni degli artisti di spicco che lavoravano già da tempo alla decorazione, probabilmente agli ordini di Cimabue, quali i cosiddetti Maestro della Cattura e Maestro della Pentecoste – che deriva la sua denominazione convenzionale dall’affresco di tale soggetto nella controfacciata della chiesa – cui spettano anche parte della Volta dei Dottori (cat. 5), nella prima campata dall’ingresso, e altre storie dell’Antico Testamento. Le analisi tecniche eseguite in un recente passato sulle ventotto scene della Leggenda francescana, nel registro inferiore della navata della chiesa superiore, hanno posto in evidenza anche dal punto di vista tecnico-esecutivo, oltreché stilistico, il legame di stretta continuità che intercorre fra le parti qualitativamente più alte degli affreschi veterotestamentari nei registri superiori e quelle analoghe del ciclo francescano. Quest’ultimo è riferito a Giotto già dal cronista Riccobaldo da Ferrara (Compilatio cronologica; 1312 circa), che con ogni verosimiglianza allude proprio ad esso quando parla di pitture eseguite dall’artista nella basilica di Assisi.

Se il frammento di Borgo San Lorenzo (cat. 1) risulta straordinariamente intercambiabile sul piano dello stile con le Storie di Isacco, le altre due opere fiorentine di questi anni, vale a dire la Croce dipinta (cat. 2) di Santa Maria Novella e la Maestà (cat. 7) già nella chiesa di San Giorgio alla Costa, presentano analogie non meno stringenti con le Storie di san Francesco di Assisi. La Croce di Santa Maria Novella è documentata come opera di Giotto nel 1312, nel testamento di un fiorentino suo contemporaneo di nome Ricuccio di Puccio, che doveva conoscere bene l’artista per il fatto di avergli commissionato in precedenza un’altra croce dipinta per la chiesa di San Domenico a Prato, andata perduta o fino ad oggi non identificata5. La Maestà di San Giorgio alla Costa, conservata nel Museo Diocesano di Santo Stefano al Ponte, è ai giorni nostri identificata unanimemente con la tavola di Giotto menzionata nella stessa chiesa da Lorenzo Ghiberti nei suoi preziosi Commentari (1450 circa)6. Alla luce delle ricorrenti ipotesi tendenti a negare l’intervento del grande maestro nell’esecuzione del ciclo francescano, è di fondamentale importanza sottolineare ancora una volta l’assoluta identità stilistica ed esecutiva tra la Madonna del dipinto fiorentino e quella affrescata nel tondo della controfacciata della basilica assisiate (cat. 6), sopra la porta d’ingresso. L’identificazione del Maestro di Isacco con Giotto e il dibattito attributivo e cronologico intorno alle ventotto storie della vita di san Francesco hanno costituito per lunghissimo tempo una sorta di ‘questione omerica’ della storia dell’arte italiana, che ancora oggi non può dirsi definitivamente risolta anche se su alcuni punti fermi sembrerebbe di poter registrare un generale consenso degli studiosi. In particolare, se è certamente innegabile il dato che all’esecuzione di un’impresa così vasta abbiano preso parte numerosi artisti di differente levatura e persino di varia formazione culturale, appare nel medesimo tempo difficile non riconoscere che dal ciclo pittorico emerge una fortissima unità progettuale, frutto di un’unica personalità dominante, che esercitò il suo intervento diretto, unificante e condizionante in tutte le fasi esecutive.

Le indagini tecniche condotte sugli affreschi hanno consentito di appurare alcuni dati materiali molto importanti. Grazie alla rilevazione completa della sovrapposizione degli intonaci corrispondenti alle ‘giornate’ di lavoro, si è potuto stabilire ad esempio che la prima storia del ciclo, raffigurante L’omaggio di un uomo semplice a san Francesco (cat. 8 a.1), fu in realtà l’ultima a essere dipinta. L’analisi dello stile ha permesso poi di riconoscere le caratteristiche assai individuali dell’artista che ha eseguito questa scena anche nei tre ultimi episodi della serie. Si tratta con ogni probabilità del grande fiorentino denominato Maestro della Santa Cecilia dal dossale conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze raffigurante Santa Cecilia in trono e otto storie della sua vita, proveniente in origine dalla chiesa del capoluogo toscano dedicata alla santa. Questo anonimo fu uno dei maggiori artisti della città nella prima metà del Trecento e, specialmente nella fase più antica della sua attività, si presenta come un interprete attento e assai puntuale del caposcuola fiorentino. Le indagini tecniche hanno confermato inoltre l’assoluta identità e continuità di esecuzione, e quindi di autografia giottesca, tra le Storie di Isacco e gli altri affreschi del Vecchio Testamento nei registri più alti della prima campata e le storie del ciclo francescano che furono dipinte per prime (cat. 8 a.2-c.3). La data di esecuzione del ciclo dovrebbe essere compresa molto probabilmente tra la fine del pontificato di Niccolò IV (1292) e la metà dell’ultimo decennio del secolo, o poco dopo. Nel quadro della polemica fra Roma e Firenze sul primato del rinnovamento della pittura italiana, gli affreschi sono stati riferiti nel tempo ad anonimi maestri romani, oppure allo stesso Pietro Cavallini, con datazioni molto più tarde del vero. Tuttavia, ben più seria della polemica sul presunto panfiorentinismo filogiottesco della storia dell’arte, appare a nostro giudizio la considerazione relativa alle innegabili, pronunciate differenze stilistiche riscontrabili nelle diverse fasi dell’attività giottesca. Ad Assisi risulta immediatamente evidente l’importanza fondamentale dell’impianto compositivo in cui sono inseriti i ventotto riquadri che, lungi dall’essere qualcosa di sovrapposto o di estraneo alle scene, s’impone come uno degli elementi portanti dell’intera decorazione. I numerosi personaggi che animano gli episodi della Leggenda francescana appaiono sempre molto convincenti sul piano plastico e, soprattutto, ospitati in maniera perfettamente coerente nel contesto architettonico o paesaggistico. In ogni caso, il dato più rilevante consiste nel forte spessore emotivo della narrazione, di taglio ‘moderno’, che sembra preludere alla Commedia dantesca.

Gli affreschi della cappella degli Scrovegni a Padova, eseguiti all’incirca un decennio dopo quelli di Assisi, sembrano in effetti a una prima occhiata opera di una personalità artistica affatto diversa. Eppure, se si ha la pazienza di andare oltre questa prima impressione, si possono riscontrare agevolmente numerosi elementi di continuità fra i due cicli, non soltanto sotto il profilo morfologico, ma anche per ciò che concerne la concezione naturalistica. Lo stacco innegabile che separa nel complesso le pitture murali di Assisi, ancora largamente legate alla tecnica esecutiva duecentesca, dagli affreschi pienamente trecenteschi dell’Arena di Padova – senza parlare poi della profonda diversità della concezione e dello stile – può rientrare tranquillamente nella stupefacente e incessante propensione al rinnovamento stilistico che caratterizza tutto il percorso di Giotto.

L’attribuzione al maestro del ciclo assisiate è fortemente avallata anche dal fondamentale Polittico di Badia (cat. 11) conservato alla Galleria degli Uffizi a Firenze, specialmente dopo l’intervento di restauro concluso nel 2009, che ha sollecitato una puntualizzazione sulla data di esecuzione dell’opera, da restringere probabilmente entro l’ultimo lustro del Duecento7.

Giotto dovrebbe essersi recato a Roma sul finire del secolo in più di un’occasione per lavori connessi alla preparazione del giubileo del 1300 indetto da papa Bonifacio VIII ed aver eseguito, tra le altre cose, il celebre mosaico della Navicella per l’atrio dell’antica basilica di San Pietro in Vaticano, attribuitogli da alcune autorevoli fonti pressoché contemporanee, e oggi collocato, profondamente rimaneggiato, nel portico della chiesa che, come è noto, ha subito un completo rifacimento nel passato. I due angeli superstiti dell’incorniciatura non possono essere invece riferiti all’artista fiorentino, poiché riflettono in maniera assai puntuale la cultura pittorica romana di fine secolo. È stata ormai giustamente accantonata l’ascrizione a Giotto del celebre frammento d’affresco della basilica di San Giovanni in Laterano raffigurante con ogni probabilità L’insediamento di Bonifacio VIII al Laterano dopo l’elezione al soglio pontificio, opera evidente di un seguace romano di Pietro Cavallini. Del tutto insostenibile risulta peraltro il riferimento a Giotto per gli affreschi superstiti della cappella di San Pasquale Baylón nella chiesa di Santa Maria in Aracoeli a Roma, che spettano invece ad un nobile artista romano situabile sul piano stilistico fra Torriti e Pietro Cavallini8.

Ritornato a Firenze entro la fine del secolo XIII, Giotto avrebbe messo mano al polittico per l’altare principale della chiesa di Badia, la cui esecuzione dovette essere portata a termine in un tempo assai breve, presumibilmente cinque o sei mesi, secondo quanto è emerso nel corso dell’intervento di restauro in base all’analisi delle modalità con cui è stata realizzata l’opera. Vale la pena riaffermare che il polittico è una delle opere più affascinanti e ‘fiorentine’ del pittore, che esercitò un’influenza decisiva sia sugli artisti suoi coetanei (il Maestro della Santa Cecilia e Lippo di Benivieni), sia sulla prima generazione dei pittori giotteschi, da Bernardo Daddi a Taddeo Gaddi, dal Maestro della Cappella Medici al giovane Jacopo del Casentino. Quest’opera straordinaria riveste, sul piano stilistico e su quello tipologico, un valore innovativo e discriminante identico a quello solitamente riconosciuto alla Croce dipinta di Santa Maria Novella.

Giotto dovette recarsi subito dopo ad Assisi per impostare e avviare di persona la decorazione della cappella di San Nicola (cat. 12 a, b), nella testata destra del transetto della basilica inferiore di San Francesco. Appare assai plausibile l’ipotesi che l’esecuzione di tale impresa sia da riportare agli anni della legazione umbra del cardinale Napoleone Orsini, vale a dire tra il 1300 e il 13019. Questa datazione sembrerebbe attagliarsi molto bene al timbro maggiormente trecentesco della decorazione nel suo complesso rispetto al linguaggio solenne e arcaico del polittico fiorentino, ma non ai brani autografi di Giotto, perfettamente allineati a esso sul piano dello stile. Come è stato rilevato giustamente da più di uno studioso, le parti autografe di Giotto appaiono oggi piuttosto marginali poiché furono le prime ad essere dipinte dal grande artista, che poi lasciò l’esecuzione del lavoro nelle mani di due fedeli collaboratori, i cosiddetti Maestro di San Nicola e Maestro Espressionista di Santa Chiara, alias Palmerino di Guido. Come ho già avuto occasione di sostenere, ritengo che l’ipotesi più plausibile sia quella che vede il Polittico di Badia precedere di pochissimo i santi ad affresco assisiati, poiché questi ultimi sembrerebbero pittoricamente appena più fusi e ‘moderni’ rispetto ai tipi universali e senza tempo incarnati dai loro colleghi fiorentini10.

Nel brevissimo spazio cronologico posto a cavallo fra XIII e XIV secolo Giotto dovette dipingere anche la grande tavola cuspidata con San Francesco riceve le stimmate e tre storie della sua vita (cat. 9), proveniente dalla chiesa di San Francesco a Pisa e oggi al Musée du Louvre di Parigi, firmata in basso al centro «opus iocti florentini». L’opera costituisce una delle conferme più concrete e clamorose della paternità giottesca degli affreschi della Leggenda francescana ad Assisi: le tre scene della predella sono puntuali reinterpretazioni di quelle di analogo soggetto colà affrescate, con alcune significative varianti. A questo periodo dovrebbe risalire anche la tavola con Sant’Antonio da Padova (cat. 10) in mezza figura della Collezione Berenson a Firenze, laterale di un polittico disperso, ancora fortemente connessa al momento stilistico assisiate. A una fase immediatamente seguente sembra spettare la piccola Madonna col Bambino (cat. 13) dell’Ashmolean Museum di Oxford, caratterizzata soprattutto dalla spiccata raffinatezza gotica e dall’intenso, tenero legame affettuoso tra Madre e Figlio.

A Rimini e a Padova

Subito dopo aver realizzato queste opere Giotto dovrebbe essersi recato a Rimini, secondo alcuni ancora entro il fatidico anno 1300, come sarebbe provato dalla presunta derivazione diretta dalla cimasa del Crocifisso del Tempio Malatestiano, identificata a suo tempo da Federico Zeri, della miniatura di Neri da Rimini conservata presso la Fondazione Cini a Venezia, firmata e datata 130011. Su questo punto, tuttavia, nutro da tempo una sostanziale perplessità, poiché il rapporto di desunzione diretta della miniatura dalla cimasa della croce giottesca appare tutt’altro che indiscutibile. Pertanto, ammettendo che gli affreschi della cappella di San Nicola – o, per essere più precisi, le ridotte porzioni di autografia giottesca in essi riscontrabili – siano databili indicativamente al volgere del secolo, il fondamentale, fruttuoso soggiorno riminese dovrebbe cadere nel biennio 1300-1302. Ancora una volta, è opportuno sottolineare qui l’intima vicinanza stilistica del Crocifisso (cat. 14) del Tempio Malatestiano a Rimini – il più bello fra quelli di Giotto arrivati fino a noi – al Polittico di Badia. La compostezza classica ed elegante del corpo di Gesù, costruita attraverso infiniti passaggi di delicatissime ombreggiature, che nelle prime stesure si fondono mirabilmente con la preparazione verde di base e si apprezzano ancora oggi a dispetto della drammatica consunzione della superficie pittorica, si ritrova pressoché identica nei santi del polittico fiorentino. Rispetto all’evidenza plastico-strutturale di timbro fortemente innovativo delle opere più antiche – quali la Croce dipinta di Santa Maria Novella o la Maestà di San Giorgio alla Costa – nel Polittico di Badia e nel Crocifisso di Rimini affiorano stupendamente i caratteri del primo classicismo giottesco.

Inequivocabile appare l’appartenenza a un diverso momento del percorso del pittore dei frammenti di affreschi superstiti della cappella maggiore della chiesa di Badia (cat. 39 a-c), menzionati anch’essi dal Ghiberti e dalle fonti prevasariane come opera di Giotto, che oggi ritengo possano riferirsi alla consacrazione dell’altare maggiore avvenuta nel 131012.

Tra il 1302 e il 1303 Giotto partì da Rimini per recarsi a Padova, chiamatovi probabilmente dai francescani per lavorare ad affresco nella loro chiesa. Della sua attività all’interno della basilica del Santo restano nella cappella delle Benedizioni alcuni Busti di sante (cat. 15 a-b), purtroppo abrasi e quasi illeggibili, mentre ben più importanti si rivelano i vasti brani pittorici superstiti nella sala capitolare della stessa basilica, la cui decorazione è stata attribuita a Giotto dallo scrittore Michele Savonarola verso la metà del Quattrocento. Nonostante il pessimo stato di conservazione, emerge con chiarezza l’altissima qualità di questa tappa ulteriore dell’inarrestabile sviluppo artistico del caposcuola fiorentino. In particolare i resti della Crocifissione (cat. 16 a), che doveva essere caratterizzata da notevole grandiosità, lasciano trasparire ancora oggi una stupefacente ricchezza di stesura e d’impasto cromatico. Non meno impressionante risulta la parata di Santi e profeti (cat. 16 b-p) che si dispiega sulla parete settentrionale, per la solennità arcana e aulica al tempo stesso che ispira i personaggi. In essa è da riconoscere verosimilmente l’importanza di quella componente ravennate, derivata dall’incontro con gli stupendi cicli musivi della civiltà bizantina, di cui hanno discusso gli studiosi a proposito di questa fase del percorso giottesco. Bellissima la figura di Santa Chiara (cat. 16 f) dipinta all’estremità sinistra: colpisce per la concentratissima espressione del volto che sembra conferirle un affascinante carattere visionario. È uno fra i brani più alti di tutta la produzione giottesca, rispetto anche all’interpretazione normalizzata e in un certo senso rassicurante fornita per la santa medesima (cat. 72 a) molti anni più tardi sulla parete di fondo della cappella Bardi, nella basilica di Santa Croce a Firenze.

Gli affreschi superstiti della basilica del Santo di Padova assumono particolare importanza poiché risultano intermedi fra la decorazione della cappella di San Nicola nella basilica inferiore di Assisi e quella della cappella dell’Arena a Padova. Ai giorni nostri appare quasi incredibile che questi brani pittorici siano stati considerati fino a un recente passato solo di seguaci di Giotto, neppure troppo vicini a lui. Di un’altra grande impresa padovana del pittore toscano, il ciclo di argomento astrologico eseguito nel Palazzo della Ragione, non rimane purtroppo alcuna testimonianza13.

Il soggiorno padovano di Giotto è noto universalmente soprattutto per la decorazione ad affresco della cappella privata del ricco banchiere Enrico Scrovegni, uno dei segni più alti della pittura trecentesca in Italia e, inoltre, ulteriore svolta cruciale nell’ininterrotta evoluzione dell’arte del Maestro. La cappella fu edificata nell’Arena di Padova a partire dal 1303, secondo alcuni studiosi su disegno dello stesso Giotto, e consacrata il 25 marzo 1305, quando la decorazione doveva essere con ogni probabilità già ultimata. Quest’ultima comprende trentasei scene con Storie di Gioacchino e Anna (cat. 17 a-f), della Vergine (cat. 18 a-i) e di Cristo (cat. 19 a-y) sulle pareti della navata; la grande, relativamente rara, raffigurazione della Missione di Gabriele e l’Annunciazione sopra l’arco trionfale (cat. 18 g-i); il Giudizio finale (cat. 21) nella controfacciata; dieci tondi sulla volta nei quali sono raffigurati la Madonna col Bambino, Cristo e busti di Santi e Profeti (cat. 22 a-l); medaglioni nelle ampie fasce ornamentali con busti di Santi (cat. 23 a-u, 24 a-n) e Storie dell’Antico Testamento (cat. 25 a-l). Negli zoccoli di base sono dipinte a monocromo quattordici figure dei Vizi (cat. 26 a-g) e delle Virtù (cat. 27 a-g). Il programma iconografico dell’intera decorazione fu completato una decina d’anni dopo l’intervento di Giotto con le scene della Morte e assunzione della Vergine ad opera di un pittore locale, che in maniera assai interessante cercò in ogni modo di intonare il suo lavoro a quello del pittore più famoso e celebrato della sua epoca, pur essendo di levatura tutto sommato modesta. La diversità degli affreschi Scrovegni rispetto alla Leggenda francescana di Assisi è innegabile ed è stata da sempre sottolineata con enfasi, specialmente da coloro che negano in varia misura la responsabilità del maestro fiorentino in relazione al ciclo umbro. Ma tale diversità rientra pienamente nel contesto dell’attività di un inesauribile genio innovatore, anche nei confronti di se stesso, considerando soprattutto il fatto che l’esecuzione dei due cicli è comunque separata all’incirca da un decennio. La poderosa, onnicomprensiva incorniciatura illusiva che caratterizza la decorazione assisiate lascia il posto nella cappella dell’Arena a una raffinata ‘griglia’ d’impronta più decorativa e meno aggettante, forse non soltanto a motivo delle dimensioni notevolmente più ridotte dell’ambiente. Essa si sovrappone alle figurazioni in maniera molto discreta senza appesantirle, conferendo anzi all’ambiente un timbro delicatamente raffinato.

A Padova le composizioni presentano una struttura semplice e chiara, ma la diversità che risulta più evidente rispetto ad Assisi è relativa al tono espressivo e alla caratterizzazione emotiva dei personaggi. Questi ultimi sembrano richiamare alla mente gli attori del teatro classico per la solennità dell’impostazione e la capacità sublime di restituire in pittura gli stati d’animo. Brani di altissima intonazione narrativa – che hanno giustificato con piena ragione l’introduzione da parte della critica del concetto di «classicismo padovano» – sono affiancati da particolari icastici, talvolta improntati a crudo realismo, tra il satirico e il drammatico, che compaiono soprattutto nel Giudizio finale della controfacciata. Non mancano tuttavia figure di struggente umanità, quale ad esempio la celebre fantesca intenta a filare sotto la scala nella scena con l’Annuncio a sant’Anna (cat. 17 c), indimenticabile per la concretezza fisica che trasmette. Il tono generale della narrazione è ispirato a un equilibrio che ha affascinato i critici di tutte le epoche, affannatisi a indagarne e spiegarne l’essenza più intima. Una delle risposte possibili risiede forse nella formidabile sintesi culturale operata dall’artista: alcune figure sembrano sospese tra la solennità inarrivabile di certa statuaria antica e la delicatezza estenuata e ‘moderna’ del gotico francese. Se appare innegabile il fatto che rispetto agli affreschi delle Storie di san Francesco ad Assisi, quelli della cappella degli Scrovegni presentano una minore ricerca e restituzione dei concetti spaziali, è altrettanto incontrovertibile l’affermazione che i celeberrimi Coretti prospettici (cat. 20 a, b) posti sulle pareti laterali dell’arco trionfale della cappella segnino il vertice assoluto dell’illusionismo spaziale per l’epoca prerinascimentale. Di straordinaria valenza illusiva e spaziale si rivela poi lo splendido basamento di marmi misti che termina in alto con un’elegante cornice in lieve aggetto sostenuta da innumerevoli mensolette. Anche le bellissime allegorie dei Vizi e delle Virtù dipinte a monocromo sono inserite fra finte specchiature marmoree, quasi fossero anch’esse dei bassorilievi. L’intera serie allegorica è contraddistinta da un’alta qualità esecutiva, sebbene sia opportuno indicare quali vertici creativi e di realizzazione le raffigurazioni della Giustizia (cat. 27 d) e dell’Ingiustizia (cat. 26 d), dell’Ira e dell’Incostanza (cat. 26 e, f).

Per quanto riguarda la tecnica pittorica, bisogna rimarcare che la stesura rispetto ad Assisi appare molto più accurata, morbida e fusa. Nei confronti dell’impresa corale di Assisi, colpisce soprattutto l’assoluta omogeneità stilistica dei murali padovani. In questo progetto, di dimensioni più ridotte e destinazione privata, Giotto sembra aver esercitato un controllo ferreo, anzi assoluto, sui pochi aiuti che dovettero affiancarlo sui ponteggi: anzi, entrando in questo ambiente relativamente piccolo sembra di vedere il maestro fiorentino intento a lavorare in splendida solitudine, impegnato perfino a macinarsi i colori! L’arco trionfale era dominato dalla tavola raffigurante Cristo in trono (cat. 28) che fungeva da sportello di una finestra; essa è giunta fino a noi in precarie condizioni di conservazione ed è oggi custodita nei Musei Civici agli Eremitani. La solenne impostazione scultorea dell’immagine sembra riferirsi ancora alle recenti esperienze romane, legate soprattutto all’acuta interpretazione della plastica arnolfiana che interessò la parabola del grande maestro fino alla sua prima maturità14. Un’ulteriore indicazione spaziale di grande rilievo fornita ampiamente per la prima volta a Padova consiste nel presentare in scorcio prospettico le aureole delle figure viste di profilo. Meritatamente famosa è la grandiosa raffigurazione del Giudizio finale (cat. 21) nella controfacciata della cappella, dove si dispiega in tutta la sua efficacia la sublime maestria del grande artista nell’esprimersi contemporaneamente in brani di timbro narrativo completamente diverso. Giotto si attiene ai canoni figurativi tradizionali per questa rappresentazione particolarmente cara all’uomo medievale, tuttavia egli ne propone per la prima volta un’interpretazione fondata sull’unità visiva. La figura di Enrico Scrovegni che presenta alla Vergine e a due santi il modello dell’edificio ci offre il primo vero ritratto della pittura occidentale moderna, oltre a prefigurare stupendamente con almeno un secolo di anticipo il canone visivo caro alla pittura del primo Rinascimento, con un facoltoso committente rivestito di un’altissima dignità laica e borghese, restituito con i medesimi occhi e le medesime proporzioni dei sacri personaggi al cospetto dei quali s’inginocchia15. Della decorazione della cappella faceva parte integrante pure il Crocifisso (cat. 29), anch’esso conservato nei Musei Civici, l’esemplare di dimensioni più ridotte fra quelli realizzati dall’artista e arrivati fino a noi16. I dubbi consistenti avanzati in passato dai critici sulla completa autografia giottesca dell’opera, nonché sulla sua strettissima dipendenza stilistico-cronologica dagli affreschi Scrovegni si sono oggi del tutto dissipati, soprattutto a seguito del restauro a opera di Pinin Brambilla Barcilon (1995). La croce padovana documenta un ulteriore, ravvicinato aggiornamento in senso gotico rispetto all’affascinante Crocifisso di Rimini anche sul piano della tecnica pittorica. In quest’ultima opera l’impostazione cromatica appare livida e con effetti di trasparenza che rinviano ancora al fondamentale Crocifisso di Santa Maria Novella a Firenze, oppure ad alcune parti degli affreschi di Assisi, ma nel dipinto padovano il colore risulta di timbro più acceso e luminoso, preannunciando da questo punto di vista le opere riferibili alla nuova fase fiorentina immediatamente successiva. La straordinaria valenza dell’illusionismo plastico e architettonico che traspare dal tergo del crocifisso padovano, con la mirabile raffigurazione dell’agnello mistico centrale e i quattro simboli degli evangelisti contro un intenso e indefinito fondo blu, è uno dei tratti più caratteristici dell’attività giottesca, segnatamente in questi anni. Alla sensibile consonanza con le cornici degli affreschi Scrovegni e con il finto marmo dello zoccolo già segnalata, mi pare di poter aggiungere il chiaro preannuncio nei confronti della faccia posteriore del Polittico di Santa Reparata.

Il ritorno a Firenze

Al rientro in patria da Padova, Giotto importa nel capoluogo toscano il linguaggio aulico, solenne e fortemente plastico che contraddistingue gli affreschi della cappella degli Scrovegni. Ciò è attestato in maniera evidente dal bel Crocifisso (cat. 31) della chiesa di San Felice in Piazza a Firenze, per lunghissimo tempo incomprensibilmente misconosciuto e trascurato dalla critica. Eppure l’opera presenta dei brani di superba bellezza, quali ad esempio la straordinaria restituzione naturalistica del legno della croce, analizzato fino nelle venature, oppure la plasticità compatta del corpo di Cristo. Dal punto di vista dello stile, il rimando più stringente agli affreschi padovani si coglie senza dubbio nel san Giovanni dolente della tabella destra. La Croce di San Felice in Piazza s’impose come uno dei prototipi fondamentali del tema per gli artisti fiorentini fino allo scadere del secolo. Da essa sembra derivare in via piuttosto diretta anche il Crocifisso del Louvre di Parigi, il cui recente restauro consente ora di escludere, a nostro modo di vedere, l’autografia giottesca17. Tuttavia, l’opera cruciale di questo momento, la seconda metà del primo decennio del Trecento, è senza dubbio l’imponente Maestà (cat. 30) conservata dal 1919 nella Galleria degli Uffizi e proveniente dalla chiesa di Ognissanti a Firenze, di proprietà degli umiliati. L’opera è attestata come di Giotto nei Commentari (1450 circa) di Lorenzo Ghiberti e quindi il riferimento al caposcuola fiorentino non è mai stato posto in discussione, mentre è stata a lungo dibattuta la questione se essa sia stata realizzata prima o dopo il soggiorno padovano: l’ipotesi oggi prevalente è che sia successiva al rientro in patria da Padova. Ancora oscura resta pure la collocazione originaria di questo dipinto di dimensioni eccezionalmente grandi: scartando l’ipotesi tradizionale, invalsa soprattutto in passato, di una sistemazione sull’altar maggiore o sopra il tramezzo, appare plausibile che, al pari di altre tavole consimili dipinte fra il Due e il Trecento, dovette essere realizzato per l’altare di una confraternita annessa alla chiesa, di solito in posizione relativamente appartata o in prossimità della controfacciata18. La grandiosa e solenne raffigurazione è ricca di numerose implicazioni teologiche più o meno scoperte, per le quali pare legittimo immaginare la consulenza di un dotto rappresentante della fiorente comunità monastica degli umiliati. Come si riscontra in maniera significativa nella cappella degli Scrovegni, e più raramente nella pittura fiorentina del tempo, la Madonna indossa una veste bianca, chiaramente allusiva alla sua verginità. I due angeli con le vesti di colore verde che si accostano al gruppo divino centrale esprimono concetti spirituali assai rilevanti: quello di sinistra reca una corona, attributo di Maria, regina del cielo, mentre l’altro offre a Gesù una pisside eucaristica per le ostie, con un’evidente allusione alla futura Passione di Cristo. La complessità dei concetti teologici affrontati in questo capolavoro non rende sempre facile l’esatta identificazione iconografica dei personaggi. Ad esempio, le figure che s’intravedono dalle due aperture laterali del trono dovrebbero essere san Paolo, a sinistra, e san Benedetto (o san Bernardo di Chiaravalle), a destra. La pronunciata dedicazione mariana della tavola può rendere ragione, almeno in parte, dell’assenza di san Pietro. Se l’impostazione complessiva dell’opera appare ancora fortemente in debito nei confronti degli schemi compositivi e iconografici del tardo Duecento, la realizzazione pittorica è fondata su modelli visivi del tutto nuovi, specialmente sul piano della concezione spirituale e devozionale, ma anche dal punto di vista dell’espressione artistica: la Madonna si presenta come un’accostante e benevola matrona, forse ispirata all’antico, poiché in essa sembra ormai superato il riferimento ‘moderno’ ad Arnolfo, che aveva ispirato in prevalenza l’operare di Giotto negli anni della formazione. Così come era accaduto con la Croce di Santa Maria Novella, anche la Maestà di Ognissanti rappresentò per gli artisti fiorentini dell’epoca e fino al Trecento inoltrato un modello imprescindibile. Taddeo Gaddi, l’allievo ufficiale di Giotto che, secondo quanto riferito da Giorgio Vasari nelle Vite, si formò nella sua bottega per ben ventiquattro anni, ne offrì verso il 1320 una delle derivazioni più precoci e puntuali nella Maestà frammentaria conservata nel Museo di Santa Verdiana a Castelfiorentino (Firenze), dipinta per la locale chiesa francescana. L’opera è giunta fino a noi in condizioni di conservazione che possono dirsi nel complesso soddisfacenti, pur tenendo conto delle acute osservazioni proposte da Miklós Boskovits nel suo ultimo intervento sul grande artista, denso come sempre di preziosi spunti di ricerca anche per gli anni a venire19. Sempre riprendendosi all’indicazione di Boskovits, è probabile che sia da restringere entro il primo decennio del Trecento, ancora in sensibile contiguità stilistica con gli affreschi padovani, la datazione del polittico con il Cristo benedicente con san Giovanni Evangelista, la Vergine Maria, san Giovanni Battista e san Francesco (cat. 33), del North Carolina Museum of Art a Raleigh, identificato oggi in prevalenza con la tavola d’altare della cappella Peruzzi in Santa Croce a Firenze. Tale ipotesi si fonda essenzialmente sulla base della presenza dei due san Giovanni – il precursore di Cristo e l’Evangelista – cui sono dedicate per l’appunto le rovinatissime storie della cappella della basilica fiorentina, che per quanto è dato di giudicare dovrebbero appartenere a un momento un po’ più inoltrato nel percorso giottesco, verso il 131520.

Assisi: la cappella della Maddalena

In ogni caso, la parentesi fiorentina dopo il soggiorno padovano dovette essere abbastanza breve poiché, secondo un noto documento del 1309, il pittore assisano Palmerino di Guido – ora identificato perlopiù con il cosiddetto Maestro Espressionista di Santa Chiara – restituisce un prestito in nome di Giotto, evidentemente ormai assente dalla città umbra, che tuttavia doveva aver lasciato da poco21. Oggi si ritiene che questo soggiorno assisiate di Giotto fosse dedicato alla decorazione della cappella della Maddalena con le Storie (cat. 34 a-i) della santa omonima, nella basilica inferiore di San Francesco, su commissione di Teobaldo Pontano, vescovo di Assisi, i cui stemmi sono dipinti all’interno della cappella stessa. In questa raffinata impresa pittorica del maestro – relegata incredibilmente in passato al rango di lavoro di scuola – si avverte ancora molto forte il legame con gli affreschi della cappella degli Scrovegni, sebbene il linguaggio stilistico risulti più ampio e dilatato sul piano dell’impostazione complessiva e, soprattutto, più brillante e raffinato dal punto di vista cromatico. Le due scene che compaiono anche nella cappella dell’Arena, la Resurrezione di Lazzaro e il Noli me tangere (cat. 19 j-w; cat. 34 b, c), assumono qui un aspetto più spazioso, sebbene siano dipendenti in maniera palese da quella prima redazione. Di grande rilievo è la possente struttura architettonica illusiva, che riveste e inquadra le scene e recupera aspetti sia della Leggenda francescana della soprastante chiesa superiore, sia della cappella degli Scrovegni. All’interno del ciclo non sono rari i brani pittorici di altissima qualità: tra gli altri, l’indimenticabile busto di Lazzaro (cat. 35 c) in uno dei tondi della volta, oppure la scena con Maddalena portata in cielo dagli angeli (cat. 34 e), caratterizzata da una tenerezza pittorica che prelude a Giottino. Alcune scene, quali per esempio il Noli me tangere e la Maddalena comunicata da san Massimino e assunta in cielo (cat. 34 c, g), rivelano una straordinaria sapienza compositiva. Non impressiona di meno la ricchezza profusa nella decorazione, con gli sfondi color lapislazzuli e le copiose dorature nelle aureole e nel fondo dei quadrilobi con angeli. La cappella della Maddalena segna una tappa importante negli sviluppi del linguaggio giottesco, in cui l’artista pone le premesse – soprattutto sotto il profilo cromatico e della stesura pittorica – per la vasta decorazione del transetto e delle vele della crociera della basilica inferiore di San Francesco.

Firenze: gli affreschi Peruzzi e le opere di quel tempo

Nel 1311 Giotto è attestato di nuovo a Firenze, mentre nel 1313 nomina una persona di fiducia per recuperare alcuni oggetti personali rimasti a Roma, durante un soggiorno che dovette svolgersi probabilmente dopo la decorazione della cappella della Maddalena ad Assisi. Si colloca giusto al principio del secondo decennio del secolo l’avvio di una nuova fase del percorso giottesco, caratterizzata da una fondamentale evoluzione del linguaggio gotico che avrà conseguenze assai rilevanti per la pittura italiana trecentesca. Questa fase segna il superamento dell’austero «classicismo padovano», dopo il quale l’artista sembra interessato ad approfondire le possibilità espressive offerte da un disegno più accurato ed elegante, da un modellato più morbido, nel quadro di una ricerca tendente a conferire una maggiore raffinatezza naturale alle scene rappresentate. La Dormitio Virginis (cat. 37) della Gemäldegalerie di Berlino, databile probabilmente tra il 1310 e il 1313 circa, illustra molto bene questo momento. Proveniente in origine dalla chiesa fiorentina di Ognissanti, l’opera è stata ritenuta per lungo tempo coeva della celebre Maestà degli Uffizi, se non addirittura legata strutturalmente a essa, tuttavia senza ragioni sufficienti. La composizione assai raffinata, le figure esili e allungate e l’acuta definizione delle caratterizzazioni fisionomiche sono alcune delle componenti fondamentali del dipinto che si ritroveranno in quasi tutti gli artisti fiorentini più importanti operosi nella prima metà del secolo. Caratteri stilistici assai simili si riscontrano in quello che pare essere l’unico disegno seriamente accostabile a Giotto, vale a dire il foglio (inv. n. 2664) del Département des Arts graphiques del Louvre raffigurante Due figure maschili sedute 22.

Le rovinatissime pitture murali della cappella Peruzzi (cat. 40-45) – la seconda a destra di quella maggiore – nella chiesa di Santa Croce a Firenze, sono ai giorni nostri collocate in prevalenza dalla critica verso la metà del secondo decennio del Trecento. Le fonti antiche, da Ghiberti al Vasari, attestano che Giotto aveva dipinto in Santa Croce quattro pale d’altare e affrescato altrettante cappelle. I murali Peruzzi furono scialbati nella seconda metà del XVIII secolo, ma fino al Cinquecento furono una delle opere più ammirate e studiate di Giotto, come dimostrano i disegni che da essi trassero Masaccio e Michelangelo Buonarroti. La decorazione consiste nelle storie parallele di san Giovanni Battista (sulla parete sinistra; cat. 40 a-c) e di san Giovanni Evangelista (sulla parete destra; cat. 41 a-c). Lo stato larvale di queste pitture costringe a concentrare l’attenzione soprattutto sugli aspetti relativi all’impostazione compositiva e ai concetti spaziali, piuttosto che sull’analisi squisitamente stilistica o sulle modalità di stesura. Tuttavia, alcuni particolari in migliori condizioni di conservazione, quale ad esempio la mano di san Giovanni Evangelista protesa a risuscitare Drusiana (cat. 41 b) – uno dei gesti più celebri della pittura italiana di ogni tempo – riescono a trasmettere ancora oggi la superba qualità dell’esecuzione che in origine doveva contraddistinguere il ciclo. Quest’ultimo assume all’interno del percorso giottesco un’importanza primaria, in modo particolare per quanto riguarda i concetti spaziali proposti dall’artista. Il punto di vista delle scene risulta fortemente obliquo, posto in maniera assai naturalistica all’ingresso del vano altissimo e stretto della cappella. Le complesse architetture dipinte si presentano quindi molto scorciate e tuttavia lucidamente definite nella loro articolazione spaziale, corroborando ulteriormente l’ipotesi ripresa più volte dagli studiosi di un Giotto architetto, oltreché pittore23. Per lunghissimo tempo è stata considerata valida l’idea della sostanziale prossimità cronologica degli affreschi della contigua cappella Bardi, dove Giotto ripropone in estrema sintesi la storia di san Francesco d’Assisi, che invece è oggi perlopiù accantonata, come vedremo più avanti. Sostanzialmente coevo agli affreschi Peruzzi appare piuttosto, sulla base dello stile, il cosiddetto Polittico di Santa Reparata (cat. 38 a, b), dipinto su entrambi i lati per l’altare maggiore dell’antica cattedrale fiorentina. Eppure, nonostante la destinazione di altissimo prestigio, anche quest’opera è stata ritenuta per lunghissimo tempo soltanto della scuola o di seguaci del maestro24. Di grande interesse per ricostruire il catalogo giottesco sono anche i tre frammenti di una grande vetrata dipinta che si trovava al termine della navata destra della basilica di Santa Croce a Firenze, evidentemente uno dei luoghi privilegiati in cui si dispiegò l’attività di Giotto nel capoluogo toscano. Si tratta di un tondo che raffigura probabilmente Aronne (cat. 46 a) e due lunette con Santi diaconi martiri (cat. 46 b, c), conservati nel Museo dell’Opera di Santa Croce. Come è stato riconosciuto ormai molti anni or sono da Boskovits, la vetrata fu disegnata e in parte anche dipinta da Giotto in persona. Nel Libro dell’Arte (1400 circa), Cennino Cennini illustra chiaramente che il maestro vetraio dovette rivolgersi al pittore non solo per avere il cartone preparatorio, ma anche per un intervento diretto sui pezzi di vetro25.

Le Storie dell’infanzia di Cristo e le Vele della crociera nella chiesa inferiore di San Francesco ad Assisi

Il restauro condotto dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze tra il 2002 e il 2010 sull’imponente Crocifisso (cat. 53) della chiesa di Ognissanti, menzionato come opera di Giotto sin dai Commentari del Ghiberti, ha significato sul piano degli studi giotteschi il dissolvimento del teorema critico che aveva condotto negli anni ad attribuire una porzione consistente del catalogo dell’artista ad un fantomatico ‘Parente di Giotto’. Quest’ultimo si era materializzato a tal punto nella fervida immaginazione di alcuni critici, da imporsi come una sorta di misterioso alter ego del concreto e instancabile maestro fiorentino, che difficilmente avrebbe potuto sopportare nella realtà un concorrente così vicino e affatto simile a lui, glorificato in vita dai contemporanei come il vero, unico rinnovatore della pittura del suo tempo. Sulla splendida Croce dipinta di Ognissanti e per la sua collocazione all’interno del percorso giottesco non si può che rinviare all’ultimo, fondamentale contributo di Miklós Boskovits più volte citato, affiancandosi a lui nel rimarcare che essa costituisce un precedente immediato degli affreschi del transetto destro e delle vele della chiesa inferiore di San Francesco di Assisi26.

L’analisi tecnica della sequenza degli intonaci ha dimostrato che le Storie dell’infanzia di Cristo (cat. 47 a-h) e i Miracoli post mortem di san Francesco (cat. 49 a-c) nel transetto destro e le Allegorie francescane (cat. 50 a-d) nelle vele della crociera sopra l’altar maggiore furono dipinti nella basilica inferiore di Assisi in quest’ordine. Gli indizi storici convergono nell’individuare come periodo più probabile per la loro esecuzione quello tra il settembre 1314 e l’ottobre 1320, quando Giotto non risulta documentato a Firenze. L’attribuzione all’artista fiorentino, già affermata dalle fonti (Vasari; Fra Ludovico da Pietralunga) e accolta in genere dalla vecchia storiografia, è stata progressivamente accantonata dalla maggior parte degli studiosi a partire dall’inizio del Novecento, ma anche in seguito alla riconsiderazione critica dell’arte di Giotto nel suo complesso derivata dalla mostra fiorentina del 2000, con particolare riferimento al concetto della produzione di bottega, l’inserimento della vasta decorazione nel catalogo del maestro appare senza dubbio maggiormente accreditato.

La stupenda Crocifissione (cat. 48) del transetto destro e numerose altre parti di questi affreschi si rivelano fra i brani più alti della produzione giottesca. Naturalmente, come accadde per il ciclo della Leggenda francescana, Giotto dovette avvalersi di un’affiatata squadra di collaboratori che operò sotto la sua attenta e assidua direzione. Le ipotizzate distinzioni di mani tanto dibattute dai critici possono risultare esaltate dalla diversa articolazione del registro espressivo adottata dall’unica, potente personalità creatrice che ha progettato e perlopiù eseguito l’intera decorazione. Non è probabilmente casuale, come ho già avuto occasione di notare, se tali presunte distinzioni coincidono spesso con il mutamento dell’iconografia e del significato più profondo dei soggetti rappresentati. Nelle Storie dell’infanzia di Cristo (cat. 47 a-h) l’esecuzione è stupefacente sotto ogni aspetto, tuttavia colpiscono in maniera particolare la preziosità cromatica e la qualità della stesura pittorica, che fanno assumere alla volta del transetto l’aspetto di una superficie incrostata di pietre preziose. Dopo gli esperimenti cromatici realizzati negli affreschi della cappella degli Scrovegni e in quella della Maddalena, il linguaggio giottesco raggiunge in queste pitture i suoi vertici, rivelando per la prima volta, come è stato osservato, un «Giotto colorista». Di non minore portata risultano gli aspetti spaziali, che in scene quali la Presentazione di Gesù al Tempio (cat. 47 d) o la Disputa di Gesù fra i dottori nel Tempio (cat. 47 g) raggiungono esiti di prospettiva empirica che certamente sono da riconoscere fra i più avanzati di tutto il secolo. Nei Miracoli post mortem di san Francesco (cat. 49 a-c), giudicati da qualcuno come «amorfi», le qualità disegnative, plastiche e, soprattutto, la concezione della spazialità, non sono per nulla inferiori a quelle riscontrabili nelle contigue Storie dell’infanzia di Cristo. In essi prevale semmai un tono narrativo più moderno, che potremmo definire da ‘commedia’, adatto a rappresentare le vicende del poverello di Assisi, che i pellegrini di allora percepivano come di grande attualità e moderne, mentre nelle Storie dell’infanzia di Cristo domina, com’è naturale, un timbro narrativo elegiaco e simbolico. Considerazioni analoghe dovrebbero valere in maniera particolare nel caso delle bellissime vele nella volta della crociera. Queste ultime, dipinte sopra l’altare eretto sulla tomba del Serafico, sono forse il ciclo pittorico più sfavillante e sontuoso di tutto il Trecento italiano: gli ampi sfondi sono completamente dorati, in maniera piuttosto inconsueta, se si considera il costo elevatissimo che tale operazione comportava. Nelle vele sono affrescati le allegorie dell’Obbedienza, della Castità, della Povertà e, in conclusione, San Francesco in gloria (cat. 49 a-d). Il timbro narrativo che prevale è comprensibilmente spinto ai massimi livelli visionari, apocalittici e didascalici, al punto da condizionare, fin quasi a stravolgerle, le consuete categorie formali e persino fisionomiche. Si pensi, per esempio, ai caratteristici occhi spalancati, sovente sottolineati dai critici, che potrebbero essere interpretati come un espediente visivo per rimarcare il carattere estatico e visionario delle raffigurazioni. In passato alcuni hanno indicato per le Storie dell’infanzia di Cristo l’attribuzione al cosiddetto Parente di Giotto e per le vele quella a un non meno misterioso Maestro delle Vele. Abbiamo già accennato all’inconsistenza critica del problema relativo al primo, mentre per quanto riguarda l’ipotetico Maestro delle Vele occorre riconoscere che gli inequivocabili tratti stilistici di questa parte della decorazione assisiate si ritrovano in altre opere inserite più o meno concordemente nel catalogo giottesco: per esempio, nel Polittico Stefaneschi (cat. 57 a-b) o nella Madonna col Bambino in trono fra santi e figure allegoriche delle Virtù (cat. 51) di collezione privata. In ogni caso, anche ammettendo l’esistenza di una vera e propria personalità autonoma, essa risulterebbe operante esclusivamente all’interno della bottega giottesca e legata da ogni punto di vista al più stretto controllo del capobottega, vale a dire di Giotto. In altre parole, la decorazione del transetto destro e della crociera della basilica inferiore di San Francesco di Assisi, lungi dal rappresentare un mero riflesso dell’arte giottesca ad opera di suoi collaboratori o seguaci, è una tappa cruciale nello svolgimento del linguaggio di Giotto medesimo e apre alcuni filoni di ricerca che conosceranno sviluppi straordinari fino a Stefano, Giottino e Giovanni da Milano.

Dal punto di vista dell’intonazione stilistica, sembrerebbe di poter indicare – specialmente riguardo alle vele della crociera – un singolare anticipo sul linguaggio caratteristico dell’affascinante Maestro di Figline, i cui esordi in pittura si collocano giusto nella contigua sacrestia della basilica inferiore, nell’affresco raffigurante la Madonna col Bambino in trono fra due angeli, san Francesco e santa Chiara. Particolarmente vicino agli affreschi assisiati sul piano dello stile risulta il bel dittico composto dalla Madonna col Bambino fra santi e sette figure allegoriche delle Virtù (cat. 51) di collezione privata e la Crocifissione (cat. 52) del Musée des Beaux-Arts di Strasburgo27.

L’opera più importante uscita dalla bottega di Giotto che riflette gli affreschi della basilica inferiore di Assisi è tuttavia il cosiddetto Polittico Stefaneschi (cat. 57 a, b) conservato nella Pinacoteca vaticana. In questa tavola di grande fascino, al tempo stesso solennemente arcaizzante e raffinatissima, il maestro sembra preludere al linguaggio stilistico caratteristico del suo periodo napoletano e della fase tarda di attività. Capolavoro di assoluto prestigio, dipinto su due facce ed eseguito per l’altare maggiore della vecchia basilica di San Pietro in Vaticano, è attestato come opera di Giotto nel necrologio del cardinale Jacopo Stefaneschi (Roma, 1261 circa - Avignone, 1341), che glielo aveva commissionato. Quest’ultimo era uno dei membri più influenti della curia pontificia, oltreché fine letterato, e mantenne contatti con gli artisti più in vista del tempo: da Pietro Cavallini a Giotto e, presso la corte di Avignone, con il Maestro del Codice di San Giorgio e Simone Martini. Si ritiene che la faccia anteriore, destinata a essere rivolta verso la navata della basilica, sia quella che presenta al centro san Pietro in cattedra tra due angeli, san Giorgio con il cardinal Stefaneschi e un altro santo papa (Celestino V?), che presenta un santo vescovo (Agostino?) con un libro. Nell’elemento laterale a sinistra di chi guarda sono dipinti san Giacomo Maggiore e san Paolo, con un Profeta nel tondo superiore, in quello a destra sant’Andrea e san Giovanni Evangelista con il bastone coronato dalla croce. Nell’unico elemento superstite della predella sono raffigurati i santi Stefano, Luca e Giacomo Minore. Nella faccia posteriore, al centro, è il Cristo benedicente in trono fra diciassette angeli e il cardinal Stefaneschi, nel tondo superiore, l’Eterno. Nel laterale sinistro, la Crocifissione di san Pietro e, nel tondo della cuspide, il Sacrificio di Isacco; nel laterale destro, la Decapitazione di san Paolo e Mosè nel tondo. Nello scomparto centrale della predella, la Madonna col Bambino in trono fra due angeli e i santi Pietro e Giacomo Maggiore; in ognuno dei due pannelli laterali sono raffigurati cinque Apostoli. La tavola è citata in una nota del Liber Anniversariorum della basilica vaticana, riferibile al 1361, da cui risulta che a Giotto furono pagati per essa 800 fiorini d’oro. Il polittico vaticano è un’opera chiave nello svolgimento del linguaggio giottesco intorno al 1320. La notizia dell’iscrizione recante la data del 1320 riportata intorno al 1600 da Jacopo Grimaldi, peraltro sconosciuta agli altri scrittori antichi, non è certamente risolutiva, tuttavia essa contribuisce a orientare la datazione del dipinto nella prima metà del terzo decennio del Trecento, secondo l’ipotesi che appare più attendibile. Anche per questa prestigiosa impresa romana sono stati fatti in passato dagli storici dell’arte alcuni nomi di possibili collaboratori: Taddeo Gaddi e Maso di Banco, oppure il cosiddetto Maestro di Giovanni Barrile (o Barrese) – il più importante e stretto seguace napoletano di Giotto –, ma soprattutto quello ‘virtuale’ e inesistente del già menzionato Parente di Giotto. Tuttavia, così come si riscontra in tutte le fasi dell’attività del maestro, non è agevole indicare brani pittorici all’interno delle sue opere che possano essere inequivocabilmente assegnati ad altri artisti conosciuti. È verosimile quindi che le differenze tra le varie fasi siano da attribuire anziché all’intervento più o meno importante dei collaboratori, all’incessante sperimentazione stilistica che caratterizza tutto l’arco dell’attività di Giotto. Quindi, sebbene generazioni di studiosi si siano industriate a porre in risalto la varietà di accenti riscontrabile nella stesura dell’opera, quest’ultima sembra rinviare alla sola personalità di Giotto, soprattutto a motivo dell’altissima qualità dell’esecuzione.

Il maestro fiorentino ebbe anche l’incarico di affrescare la tribuna absidale dell’antica basilica vaticana, secondo quanto confermato dal Ghiberti, mentre dal Vasari apprendiamo che tali pitture raffiguravano cinque storie di Cristo. Di questi affreschi è arrivato fino a noi soltanto un frammento staccato con due intense e bellissime Teste di santi (cat. 58), in una collezione privata italiana, recante un’iscrizione sul tergo datata 1625, che ne conferma la provenienza dalla vecchia chiesa petriana28.

Di nuovo in patria

Nell’ottobre del 1320, nel gennaio del 1322 e tra il 1325 e l’anno seguente Giotto è documentato a Firenze. Ormai sulla cinquantina, la sua fama era a quel tempo sconfinata: omaggiato da pontefici, grandi ordini mendicanti e facoltosi committenti privati. Se si considera questa straordinaria celebrità, certificata anche da una lunga serie d’imprese artistiche, tutte di grande rilievo, desta ancora più meraviglia la quasi totale assenza di opere sicuramente databili. Queste sono infatti solo due: la decorazione della cappella degli Scrovegni a Padova (1303-1305) e quella della cappella del Podestà nel Palazzo del Bargello a Firenze (1337). Alla luce di questa constatazione fondamentale non stupirà allora più di tanto il fatto che alcuni lavori dell’artista, ad esempio gli affreschi della cappella Bardi in Santa Croce a Firenze, abbiano beneficiato di datazioni oscillanti addirittura entro il quarto di secolo. Grazie alla preziosa testimonianza di Lorenzo Ghiberti sappiamo che Giotto dipinse per la basilica francescana di Santa Croce a Firenze ben quattro polittici e quattro cappelle. Uno di questi polittici era con ogni probabilità quello che recava al centro la Madonna col Bambino (cat. 54) della National Gallery of Art di Washington (Kress Collection) e per scomparti laterali le tavole con San Giovanni Evangelista e San Lorenzo (cat. 55, 56), entrambe con un angelo a mezzo busto nelle cuspidi triangolari, del Musée Jacquemart-André di Châalis. Persino la datazione di questo complesso è del tutto ipotetica e in ogni caso fondata soltanto sull’analisi dei dati dello stile. La vicinanza dei due santi agli affreschi della cappella Peruzzi potrebbe indicare la collocazione cronologica nella prima metà del secondo decennio, mentre alla Madonna di Washington sembrerebbe spettare meglio una collocazione intorno al 1320 o poco oltre. Accertamenti tecnici relativi agli strati preparatori hanno indotto a escludere – contrariamente a quanto ritenuto generalmente da molti anni –, che lo splendido Santo Stefano (cat. 75) del Museo Horne a Firenze fosse davvero in origine appartenente al medesimo polittico. E tale esclusione appare peraltro confermata dalla sensibile diversità del momento stilistico, nonché dalla qualità dell’esecuzione, di gran lunga superiore rispetto ai due santi del museo di Châalis29.

L’affollata Crocifissione (cat. 59), oggi alla Gemäldegalerie di Berlino, si ricollega in via abbastanza stretta al linguaggio degli affreschi del transetto destro e delle vele della chiesa inferiore di Assisi e dovrebbe risalire alla prima metà degli anni Venti. Bellissima la profondità dello spazio restituita dall’impeccabile e plausibile collocazione dei dolenti e dei soldati quasi esclusivamente sullo sfondo dorato30. La figura del Cristo crocifisso è replicata quasi alla lettera nella piccola Crocifissione del Musée des Beaux-Arts di Troyes, uscita certamente dalla bottega di Giotto nel medesimo momento e, con ogni verosimiglianza, valva di un dittico appartenente a un membro dell’ordine francescano, data la presenza del Serafico ai piedi della croce31.

Intorno alla metà del terzo decennio del secolo dovrebbe situarsi la ben nota serie di sette tavolette di forma pressoché quadrata con scene della vita di Cristo: l’Adorazione dei Magi del Metropolitan Museum of Art a New York, la Presentazione di Gesù al Tempio dell’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston, l’Ultima cena e la Crocifissione dell’Alte Pinakothek di Monaco, la Deposizione nel sepolcro della Collezione Berenson a Firenze, la Discesa nel Limbo, anch’essa all’Alte Pinakothek di Monaco, e infine la Pentecoste della National Gallery di Londra (cat. 60-66). La presenza di san Francesco inginocchiato ai piedi della croce insieme ai committenti nella Crocifissione di Monaco indica la provenienza da una chiesa dell’ordine francescano, ma ignoriamo il numero originale dei dipinti che costituivano il complesso, la loro collocazione e persino il momento esatto del percorso di Giotto nel quale furono realizzati. L’unico dato incontrovertibile è rappresentato dalla qualità esecutiva della serie, che è molto alta. Le analisi tecniche condotte hanno accertato che in origine le tavole si trovavano una accanto all’altra, formando un gradino di oltre tre metri di lunghezza. Sono state avanzate molte ipotesi circa la destinazione di quest’opera: l’altare della cappella Bardi in Santa Croce a Firenze, oppure l’altar maggiore della chiesa di San Francesco a Rimini, ma l’ipotesi più allettante sembrerebbe quella dell’appartenenza al complesso d’altare citato da Giorgio Vasari per la chiesa di San Francesco a Sansepolcro. I sette dipinti presentano composizioni ispirate a una sobria essenzialità, che contribuisce a esaltare maggiormente i brani di pittura sublime di cui sono ricche: ad esempio, la suprema raffinatezza e la straordinaria plausibilità spaziale del ciborio nella Presentazione al Tempio, oppure la spazialità stupefacente esibita nell’Ultima cena e nella Pentecoste, nonché il superbo pathos espressivo delle figure umane e divine nella Crocifissione 32. In prossimità di questo momento del percorso giottesco sono state giudicate – tra gli altri, anche da chi scrive – le due poco più che minuscole tavolette raffiguranti rispettivamente San Francesco e San Giovanni Battista, paragonate stupendamente da Luciano Bellosi a una fetta biscottata, che appartennero nell’ultimo quarto del Novecento al grande antiquario-collezionista Carlo De Carlo e sono oggi di proprietà dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze. La qualità dell’esecuzione vi appare assai alta, nonostante alcune abrasioni della superficie pittorica che è stata trasferita su un nuovo supporto, ma da un po’ di tempo nutro qualche perplessità circa l’inserimento dei piccoli dipinti nel catalogo autografo delle opere di Giotto. Lo spirito incredibilmente icastico del san Francesco, con la barbetta ispida e gli occhi vivacissimi, oppure la capigliatura e la barba del Battista, non paiono trovare per la verità riscontri davvero puntuali nel vasto repertorio giottesco. E se ne rendeva perfettamente conto anche un conoscitore del calibro di Bellosi, che pure rese note le tavolette con il riferimento a Giotto, quando tra le righe evocava comunque sottili tangenze con il Maestro del Codice di San Giorgio. Per parte mia vorrei far notare che l’impostazione e il taglio visivo dei due tondi rinvia in maniera piuttosto esplicita alle figure di santi all’interno dei polilobi che affiancano il corpo di Gesù nell’affascinante Croce dipinta del Maestro di Figline in Santa Croce a Firenze. La mano sinistra del Battista che reca il cartiglio indurito e ripiegato è peraltro una citazione letterale del Battista che figura per l’appunto nella bellissima croce dipinta fiorentina. Mi domando, quindi, se non si debba prendere in considerazione l’ipotesi suggestiva che le due tavolette siano da ricollegare a un’impresa di questo stupendo e inafferrabile protagonista del Trecento italiano, che certamente fu vicino alla bottega giottesca a partire dall’esecuzione degli affreschi del transetto destro e delle vele della chiesa inferiore di San Francesco in Assisi: potrebbe trattarsi, quindi, della testimonianza preziosa di una fase di minore incisività disegnativa e di maggiore fusione e sensibilità pittorica del Maestro di Figline33.

Delle opere su tavola eseguite da Giotto per la chiesa di Santa Croce a Firenze menzionate dalle fonti, l’unica che si trova ancora in loco è il Polittico Baroncelli (cat. 68), collocato sull’altare della cappella omonima affrescata da Taddeo Gaddi, l’erede fiorentino ufficiale del grande maestro. È una delle tre opere che recano la firma del pittore e delle quali, com’è noto, in passato è stata paradossalmente messa in dubbio la reale autografia giottesca: la dimostrazione più clamorosa di quanto gli storici dell’arte riescano talvolta a complicare persino le questioni più chiare e indubitabili! Sul finire del Quattrocento il complesso fu adeguato al gusto rinascimentale mediante l’inserimento in un’imponente cornice modanata d’ispirazione classica, che comportò però l’asportazione delle cuspidi originali. Nel 1957 la cuspide centrale del polittico fu identificata da Federico Zeri con il frammento raffigurante l’Apparizione del Padre Eterno (cat. 67) appartenente dal 1945 al Museum of Art di San Diego, in California: negli anni più recenti, gli studiosi ne hanno sottolineato l’autografia giottesca, ipotizzando tuttavia in varia misura l’intervento della bottega, con particolare riferimento a Taddeo Gaddi. Anche per il Polittico Baroncelli sono state proposte le datazioni più diverse e il dibattito si è concentrato in maniera particolare sulla precedenza o meno rispetto al documentato soggiorno napoletano degli anni 1328-1333. L’ipotesi più attendibile risulta quella che ritiene ultimata la sua esecuzione a ridosso della fondazione della cappella Baroncelli, risalente al febbraio 1327 (stile moderno 1328), secondo quanto attestato dall’iscrizione posta all’esterno. Sul piano dello stile, l’opera si colloca nella linea di sviluppo dei temi formali proposti nel Polittico Stefaneschi, in maniera particolare per il gusto solenne e raffinato, caratterizzato dalla stesura brillante del colore. A riprova inequivocabile dell’inesausta predisposizione al rinnovamento del grande artista, sin qui sempre incline alle suggestioni spaziali, è al contrario l’assenza di qualsiasi indicazione di spazialità concreta, al punto che le tavole con schiere di santi che affiancano l’Incoronazione della Vergine al centro potrebbero essere moltiplicate a piacimento senza che ciò si rifletta in maniera significativa nell’aspetto complessivo34.

Alla corte di Roberto d’Angiò

Dall’8 dicembre 1328 fino al 1333 una serie di documenti registra ogni anno la presenza di Giotto a Napoli, al servizio di Roberto d’Angiò, che lo nomina «suo familiare» secondo una consuetudine invalsa anche per altri artisti in precedenza. La maggior parte delle attestazioni documentarie si riferisce alla decorazione delle varie cappelle della reggia di Castel Nuovo, condotta dalla squadra al tempo stesso affiatata ed eterogenea che dovette essere attiva nella capitale angioina sotto la direzione del maestro fiorentino. Purtroppo, gli unici brani pittorici di questa vastissima impresa giunti fino a noi sono soltanto quelli recuperati negli strombi delle finestre della cappella Palatina. Si tratta di una serie di teste virili entro i polilobi delle fasce decorative che presentano, in effetti, anche una certa varietà di esecuzione e di livello qualitativo. Tra le personalità artistiche riconoscibili concretamente emerge quella del cosiddetto Maestro di Giovanni Barrile – così denominato per la decorazione dell’omonima cappella nella chiesa di San Lorenzo Maggiore a Napoli –, uno dei maggiori esponenti della pittura trecentesca nell’Italia meridionale, cui si deve tra l’altro il bel Crocifisso del Duomo di Teano, che riesce a coniugare la saldezza volumetrica e d’impianto spaziale appresa da Giotto, con il gusto narrativo e coloristico derivante da Simone Martini. La testimonianza superstite più importante del periodo napoletano di Giotto è costituita tuttavia dal bellissimo frammento d’affresco con il Compianto sul Cristo morto (cat. 69 a) nel coro delle monache della basilica di Santa Chiara – un brano sicuramente autografo del pittore –, cui si possono accostare anche gli stalli prospettici (cat. 69 b), dipinti illusionisticamente nello stesso coro.

Le fonti parlano anche di Storie dell’Apocalisse affrescate da Giotto in Santa Chiara, delle quali nulla è arrivato ai giorni nostri; un riflesso preciso di questa impresa potrebbe esserci stato però tramandato dalle due spettacolari tavole della Staatsgalerie di Stoccarda con Quarantaquattro episodi dell’Apocalisse, che furono tra i dipinti più ammirati nella mostra giottesca fiorentina del 2000 e che Boskovits ritiene essere i modelli preparatori per la perduta decorazione di Santa Chiara. Se questa ipotesi dovesse essere confermata, Giotto si rivelerebbe – in maniera perfettamente ammissibile per un artista del suo calibro – anche in possesso di una sensibilità da straordinario miniatore. Tuttavia, secondo il parere di chi scrive, questi dipinti di finissima qualità miniaturistica si possono ascrivere più verosimilmente all’ambiente artistico locale, sebbene sia innegabile il riflesso puntuale dalla perduta decorazione giottesca. La presenza di Giotto a Napoli, infatti, ebbe naturalmente conseguenze decisive sugli sviluppi dell’ambiente artistico cittadino (Maestro delle Tempere Francescane; Maestro di Giovanni Barrile; Roberto d’Oderisio) e, più in generale, sulla pittura dell’Italia meridionale35.

Secondo ipotesi recenti, è possibile che appena terminato il soggiorno napoletano Giotto abbia trovato tempo e modo per recarsi a Bologna intorno al 1333-1334, chiamatovi dal legato pontificio, il cardinale Bertrando del Poggetto, per dipingere ad affresco la cappella all’interno del Castello di Galliera, completamente distrutto nel 1334, dopo la partenza del cardinale francese, a eccezione della chiesa, che ancora si poteva ammirare al principio del Quattrocento. Purtroppo, la scomparsa di queste pitture ci priva di un elemento fondamentale per la conoscenza della fase finale dell’attività giottesca, perdita compensata almeno in parte dal polittico raffigurante la Madonna con il Bambino e santi (cat. 74) della Pinacoteca Nazionale di Bologna, firmato «op(us) magistri iocti d(e) flor(enti)a». Non sappiamo tuttavia se quest’ultimo fu realizzato a Firenze, oppure a Napoli, e poi inviato a Bologna. Il complesso d’altare bolognese colpisce per il piglio singolarmente scultoreo dei sacri personaggi e per la squisita raffinatezza gotica delle decorazioni e delle dorature. Il soggiorno napoletano, il confronto a distanza con l’arte di Simone Martini e il contatto ravvicinato con lo scultore Giovanni di Balduccio possono contribuire a spiegare questo sviluppo del pittore al culmine della sua fama36. Assai affine al polittico bolognese è generalmente riconosciuta a ragione la frammentaria Madonna col Bambino in trono tra angeli (cat. 70) della chiesa di Santa Maria di Ricorboli a Firenze, spesso fin troppo declassata nel giudizio critico, in maniera solo in parte giustificabile a motivo del precario stato conservativo; essa potrebbe testimoniare invece un ulteriore complesso d’altare uscito dalla bottega di Giotto in questi anni37.

Gli ultimi anni

Il 12 aprile 1334 il Comune di Firenze nomina Giotto capomastro dell’Opera del Duomo e responsabile delle fortificazioni a difesa della città. Il 18 luglio dello stesso anno prende avvio la costruzione del campanile del Duomo –universalmente noto come ‘campanile di Giotto’ – del quale, sulla base della testimonianza del Ghiberti, si ritiene il maestro abbia seguito i lavori in maniera diretta solo fino al completamento dello zoccolo di base per essere portato a termine, dopo la sua morte, da Andrea Pisano e Francesco Talenti tra il 1348 e il 1359 circa. Il Ghiberti afferma: «Le prime storie sono nello edificio il quale da lui fu edificato, del campanile di sancta Reparata, furono di sua mano scolpite e disegnate; nella mia età vidi provedimenti di sua mano di dette istorie egregiissimamente disegnati». In genere, la critica ammette che le formelle esagonali dello zoccolo del campanile raffiguranti Storie bibliche e Le attività dell’uomo, scolpite da Andrea Pisano, siano state disegnate da Giotto.

Anche la fase finale dell’attività del maestro, dopo il rientro da Napoli, rappresenta un periodo di grande vitalità creativa, cui dovrebbe spettare un ulteriore vertice assoluto quale la decorazione ad affresco della cappella Bardi in Santa Croce a Firenze, sensibilmente legata dal punto di vista stilistico agli affreschi superstiti della cappella del Podestà al Bargello. Anche le pitture della cappella Bardi – come quelle della cappella Peruzzi – furono riscoperte nel 1852 da una completa scialbatura, ma subirono poi un classico intervento di restauro ottocentesco ad opera di Gaetano Bianchi, che consistette soprattutto in pesanti integrazioni e rifacimenti. Nel 1937 tornò in luce l’affresco con le Stimmate di san Francesco (cat. 71 g) sopra l’arco d’ingresso alla cappella, mentre tra il 1958 e il 1959 Leonetto Tintori, sotto la direzione di Ugo Procacci, effettuò la pulitura del ciclo che ha portato a un soddisfacente recupero delle parti superstiti. La decorazione illustra alcuni episodi salienti della vita di san Francesco e si articola principalmente su un lunettone in alto e due grandi riquadri rettangolari su ognuna delle due pareti (cat. 71 a-g). Se il riconoscimento dell’autografia giottesca è stato sempre fuori discussione, non altrettanto può dirsi per la collocazione cronologica, a supporto della quale esiste un unico punto di riferimento certo: la presenza sulla parete di fondo di san Ludovico di Tolosa (cat. 72 b), canonizzato nel 1317, che fornisce un termine post quem per gli affreschi. Gli studiosi non hanno mancato di suggerire, anche in questa impresa di dimensioni relativamente ridotte, l’intervento di più di un collaboratore, in particolare Taddeo Gaddi e Maso di Banco. In realtà gli affreschi Bardi appaiono caratterizzati soprattutto da una fortissima omogeneità stilistica, superiore perfino a quella riscontrabile nella decorazione della cappella degli Scrovegni a Padova. Unanime e indiscutibile il riconoscimento dell’altissimo vertice qualitativo rappresentato da questi dipinti, ritenuti oggi tra i capolavori dell’arte giottesca. Ho già avuto occasione di sottolineare come rispetto alla bruciante attualità delle Storie di san Francesco ad Assisi, le scene fiorentine sembrino ‘senza tempo’, come bloccate in un irripetibile equilibrio fra un astratto naturalismo metafisico e una solenne semplicità quotidiana, che nei brani più alti si rivelano quasi un preludio ideale a certe atmosfere di Piero della Francesca.

Il dipinto su tavola di Giotto stilisticamente più prossimo agli affreschi della cappella Bardi è senza dubbio il bellissimo Santo Stefano (cat. 75) del Museo Horne a Firenze, ormai considerato appartenente a un diverso complesso d’altare rispetto a quello che recava al centro la Madonna col Bambino (cat. 54) della National Gallery of Art di Washington. Vale la pena di riaffermare in questa occasione che il Santo Stefano Horne rappresenta uno dei vertici tra le opere di Giotto, sia dal punto di vista pittorico, sia sul piano della naturalezza espressiva. Il dipinto riveste un valore paradigmatico come testo di riferimento primario nell’ambito dell’interpretazione dell’arte del Maestro offerta da alcuni dei seguaci fiorentini più diretti: da Taddeo Gaddi a Bernardo Daddi, fino a Maso di Banco38.

Nel Palazzo del Bargello, costruito nel 1250 per il podestà e ora sede del Museo Nazionale, Giotto lasciò preziose testimonianze dell’ultimo periodo della sua attività, purtroppo andate distrutte o arrivate fino a noi in condizioni molto frammentarie. Perduto è l’affresco con la raffigurazione allegorica del Comune avvilito dalle ruberie dei cittadini tramandatoci dal Ghiberti, mentre quello nella Sala d’armi, che rappresenta la Madonna col Bambino in trono e Allegorie dei sestieri (cat. 76), le zone in cui era divisa la città, seppure molto frammentario, appare in condizioni abbastanza buone di conservazione dopo il restauro eseguito in anni relativamente recenti. La pittura fu probabilmente staccata nell’Ottocento dalla nicchia centrale della parete di fondo della cappella del Podestà (cat. 77 a-c) posta al piano superiore. La decorazione ad affresco di questo vasto e altissimo ambiente fu ultimata verso la fine del 1337, quindi dopo la morte di Giotto. Gli affreschi sono riferiti al pittore da Villani, Ghiberti e Vasari, che ricorda il celebre Ritratto di Dante dipintovi da Giotto.

L’importante intervento di restauro portato a termine dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze nel dicembre 2004 ha consentito il recupero della piena autenticità delle poche parti rimaste tuttavia, nello stato attuale, non è facile rendersi conto dell’importanza che dovette rivestire questo ciclo. Esso rappresentò probabilmente una delle maggiori imprese pittoriche del grande artista, progettata e almeno in parte anche diretta alla fine della sua esistenza. Alcuni brani superstiti della raffigurazione del Paradiso (cat. 77 a) presentano particolari di superba qualità, dove pare di riscontrare la presenza diretta del vecchio maestro, affiancato dai collaboratori attivi nella sua bottega; brani autografi dell’ultimo Giotto si possono indicare forse anche nelle scene della Resurrezione di Lazzaro e della Morte della Maddalena39.

L’attività per il signore di Milano Azzone Visconti è menzionata subito dopo la morte dell’artista nella Nuova cronica di Giovanni Villani e ripresa poi dal Vasari, il quale precisa che una volta rientrato in patria dal capoluogo lombardo «non passò molto che […] rendé l’anima a Dio». Giotto è documentato ancora a Firenze il 12 dicembre 1335, quindi è verosimile che abbia raggiunto Milano entro la fine dell’anno, oppure all’inizio del 1336. Nel palazzo di Azzone dipinse una complessa allegoria della Gloria mondana con una serie di Uomini illustri che fu distrutta appena una ventina d’anni dopo insieme a tutto l’edificio. La presenza in Lombardia del maestro non passò certamente inosservata e comunque si lega a quella di poco successiva di Stefano, uno dei suoi seguaci più grandi e indipendenti40.

Poco tempo dopo il rientro da Milano, l’8 gennaio del 1337 (stile moderno) Giotto morì «e fu seppellito per lo Comune a Santa Reparata con grande onore» (Giovanni Villani, Nuova cronica, XII, 12). Nel 1490, in pieno Rinascimento, la sua fama era talmente stabile e storicizzata che fu decisa la costruzione di un monumento celebrativo all’interno del Duomo fiorentino, con l’effigie dell’artista scolpita da Benedetto da Maiano e accompagnata da un’epigrafe di Agnolo Poliziano.

Le ricerche condotte in questi ultimi anni indicano in due dei figli di Giotto i continuatori dell’illustre bottega paterna. Francesco, già menzionato nei documenti come amministratore di terreni in Mugello per conto del padre, pur essendo un religioso, risulta iscritto all’Arte dei Medici e degli Speziali tra il 1336 e il 1338. Il fratello Donato è invece menzionato esplicitamente come pittore nel 1347 nel Libro dei creditori del Monte Comune. Gli studiosi hanno riunito un piccolo gruppo di dipinti legati da un’indiscutibile omogeneità stilistica che lasciano intravedere una variante pittorica caratterizzata da un linguaggio di gran lunga più aspro e popolareggiante di quello giottesco. L’opera più intrigante del gruppo è il piccolo Crocifisso dipinto conservato nel convento di Santa Maria Novella a Firenze – presentato nella mostra fiorentina tenutasi alla Galleria dell’Accademia nel 2000 – in cui sono stati riscontrati due punzoni identici a quelli impiegati in due opere firmate da Giotto: il Polittico Baroncelli in Santa Croce a Firenze e il polittico della Pinacoteca Nazionale di Bologna, nonché nella frammentaria Madonna col Bambino e angeli della chiesa di Santa Maria di Ricorboli a Firenze. Ben più importante e, soprattutto, incommensurabile appare l’eredità ideale del grande pittore, che difficilmente può essere attribuita a un artista in particolare. Torna alla mente dunque lo straordinario paradosso critico di Roberto Longhi, secondo cui: «di giotteschi nel Trecento non vi fu che Giotto stesso». Ciò che ancora oggi appare un assunto innegabile è che all’origine dei fatti pittorici più importanti nel corso del Trecento, in ogni angolo della penisola italiana e perfino Oltralpe, si rileva uno spunto, una ripresa più o meno diretta e consapevole dall’arte di Giotto.

NOTE

1 Per il punto critico sugli aspetti biografici relativi all’artista si veda M.V. Schwarz, Poesia e verità: una biografia critica di Giotto, in Giotto e il Trecento: “il più Sovrano Maestro stato in dipintura”, a cura di A. Tomei, catalogo della mostra (Roma), 2 voll., Milano 2009, I, pp. 9-29. Si vedano poi: Dipinti romani tra Giotto e Cavallini, a cura di T. Strinati, A. Tartuferi, catalogo della mostra (Roma), Milano 2004; Tavole miracolose. Le icone medioevali di Roma e del Lazio del Fondo Edifici di Culto, a cura di G. Leone, catalogo della mostra, Roma 2012; M. Boskovits, Giotto a Roma, in «Arte cristiana», LXXXVIII, 2000, pp. 171-180. Per considerazioni equilibrate sul rapporto dell’artista con Roma, cfr. S. Romano, La O di Giotto, Milano 2008.

2 A. Tartuferi, Dipinti del Due e Trecento alla mostra ‘Capolavori & Restauri’, in «Paragone», XXXVIII, 1987, 445, pp. 45-60; Id., I giotteschi, supplemento ad «Art e Dossier», 283, Firenze 2011, pp. 11-12, 16-17.

3 A.C. Quintavalle, Giotto architetto, l’antico e l’Île de France, in Giotto e il Trecento, cit. alla nota 1, I, pp. 389-437.

4 L. Bellosi, cat. 1, in Giotto. Bilancio critico di sessant’anni di studi e ricerche, a cura di A. Tartuferi, catalogo della mostra, Firenze 2000, pp. 98-100.

5 Giotto. La Croce di Santa Maria Novella, a cura di M. Ciatti, M. Seidel, Firenze 2001.

6 La Madonna di San Giorgio alla Costa di Giotto. Studi e Restauro, a cura di M. Ciatti, C. Frosinini, Firenze 1995; A. Tartuferi, cat. 1, in Giotto e il Trecento, cit. alla nota 1, II, pp. 158-159, dove tuttavia si attribuisce a Giorgio Bonsanti un’opinione in merito alla collocazione cronologica dell’opera non corrispondente al vero, errore del quale sono lieto di poter fare ammenda in questa sede.

7 A. Tartuferi, Il restauro del Polittico di Badia: Giotto 1295-1300, in Giotto. Il restauro del Polittico di Badia, a cura di A. Tartuferi, Firenze 2012, pp. 13-29; A. De Marchi, Geometria e naturalezza, modulo e ritmo: un’opera fondativa alle origini del concetto illusionistico del polittico gotico, ibid., pp. 31-51.

8 Per gli affreschi dell’Aracoeli si veda T. Strinati, Aracoeli. Gli affreschi ritrovati, Milano 2004; l’insostenibile attribuzione a Giotto si deve a F. Flores d’Arcais, La Cappella degli Scrovegni, in Giotto e il Trecento, cit. alla nota 1, I, pp. 101-111.

9 S. Romano, Le botteghe di Giotto. Qualche novità sulla cappella di San Nicola nella basilica inferiore di Assisi, in Medioevo: le officine, Atti del Convegno internazionale di studi (Parma 2009), a cura di A.C. Quintavalle, Milano 2010, pp. 584-596.

10 A. Tartuferi, Il restauro del Polittico di Badia, cit. alla nota 7, p. 27.

11 Per la cimasa del crocifisso si veda F. Zeri, Due appunti su Giotto, in «Paragone», VIII, 1957, 85, pp. 75-87. Per Giotto e i Riminesi si veda A. Volpe, Giotto e i Riminesi: il gotico e l’antico nella pittura di primo Trecento, Milano 2002, pp. 21, 24, 67-68, note 5-6.

12 Per questi frammenti d’affresco staccati raffiguranti Gioacchino fra i pastori, l’Annunciazione e la Presentazione di Maria al Tempio, si vedano: A. Tartuferi, cat. 10 a, b, in Giotto. Bilancio critico, cit. alla nota 4, pp. 130-132; Id., cat. 13, in Dipinti, Cataloghi della Galleria dell’Accademia di Firenze, I, a cura di M. Boskovits, A. Tartuferi, Firenze 2003, pp. 85-88.

13 Per questi affreschi padovani e la bibliografia relativa si veda A. Volpe, Giotto e i Riminesi, cit. alla nota 11, pp. 56-67.

14 Sul dipinto si veda D. Banzato, cat. 3, in Giotto e il Trecento, cit. alla nota 1, II, pp. 160-161.

15 Sugli affreschi degli Scrovegni e, più in generale, sul soggiorno padovano di Giotto, nonché per l’amplissima bibliografia relativa, si vedano i saggi e le schede in Giotto e il suo tempo, a cura di V. Sgarbi, catalogo della mostra (Padova), Milano 2000; si vedano inoltre: F. Flores d’Arcais, La Cappella degli Scrovegni, in Giotto e il Trecento, cit. alla nota 1, I, pp. 101-111; G. Pisani, Il programma della Cappella degli Scrovegni, ibid., pp. 113-127; A. Derbes, M. Sandona, Enrico Scrovegni: i ritratti del mecenate, ibid., pp. 129-141; D. Banzato, L’impronta di Giotto e lo sviluppo della pittura del Trecento a Padova, ibid., pp. 143-155; V. Pace, Ingiustizia, lussuria e disordine sociale: la condanna della sessualità nel Giudizio Universale della Cappella dell’Arena a Padova, in «Iconographica», VIII, 2009, pp. 42-46.

16 Per la Croce di Padova e la bibliografia relativa si veda A. Tartuferi, cat. 1, in Giotto e il suo tempo, cit. alla nota 15, pp. 296-300.

17 Sulla Croce di San Felice in Piazza si veda il volume pubblicato in occasione del restauro, La croce giottesca di San Felice in Piazza. Storia e restauro, a cura di M. Scudieri, Venezia 1992; e inoltre: M. Boskovits, Il Crocifisso di Giotto della chiesa di Ognissanti: riflessioni dopo il restauro, in L’officina di Giotto. Il restauro della Croce di Ognissanti, a cura di M. Ciatti, Firenze 2010, pp. 50-53, 60, note 19-21; per il Crocifisso del Louvre, ibid., pp. 53-54, 61, nota 23 e A. Tartuferi, Intorno a Giotto: una mostra, un libro e una proposta di attribuzione, in «Commentari», in corso di pubblicazione.

18 M. Boskovits, Maestà monumentali su tavola tra XIII e XIV secolo. Funzione e posizione nello spazio sacro, in «Arte cristiana», XCIX, 2011, 862, pp. 13-14, 22-23.

19 M. Boskovits, Il Crocifisso di Giotto, cit. alla nota 17, pp. 57, 58, 62, nota 40, figg. 27-28, sottolinea il divario «sconcertante» fra il volto dell’angelo di destra recante la pisside, raffigurato in una foto dell’inizio del Novecento, e lo stato attuale, frutto degli interventi di ‘restauro’ condotti da allora ad oggi.

20 M. Boskovits, Il Crocifisso di Giotto, cit. alla nota 17, pp. 52, 61, nota 27; sull’opera si veda ora la scheda di D. Steel in Florence at the Dawn of the Renaissance. Painting and Illumination 1300-1350, a cura di C. Sciacca, catalogo della mostra, Los Angeles 2012, pp. 24-28.

21 V. Martinelli, Un documento per Giotto ad Assisi, in «Storia dell’Arte», XIX, 1973, pp. 193-208.

22 G. Ragionieri, cat. 11, in Giotto. Bilancio critico, cit. alla nota 4, pp. 133-134; A. Tomei, cat. 4, in Giotto e il Trecento, cit. alla nota 1, II, pp. 161-162.

23 Sui murali Peruzzi si vedano: A. Monciatti, La cappella Peruzzi in Santa Croce a Firenze, in Medioevo: i committenti, Atti del Convegno internazionale di studi (Parma 2010), a cura di A.C. Quintavalle, Milano 2011, pp. 607-617; C. Frosinini, Giotto “svelato”: la cappella Peruzzi di Giotto alla luce dell’illuminazione in ultravioletto riflesso, ibid., pp. 618-622.

24 Sul Polittico di Santa Reparata, cfr. A. Tartuferi, cat. 5, in Giotto e il Trecento, cit. alla nota 1, II, pp. 162-163.

25 Sui frammenti della vetrata e la bibliografia relativa, si vedano: M. Boskovits, Una vetrata e un frammento d’affresco di Giotto nel Museo di Santa Croce, in Scritti di storia dell’arte in onore di Federico Zeri, a cura di M. Natale, Milano 1984, pp. 39-45; A. Tartuferi, cat. 13, in Giotto e il Trecento, cit. alla nota 1, II, pp. 171-172.

26 M. Boskovits, Il Crocifisso di Giotto, cit. alla nota 17, passim.

27 Per il dittico e la bibliografia relativa, cfr. A. Tartuferi, cat. 25, in Florence at the Dawn of the Renaissance, cit. alla nota 20, pp. 116-119.

28 Sul Polittico Stefaneschi e il frammento d’affresco, cfr. G. Ragionieri, cat. 17, in Giotto. Bilancio critico, cit. alla nota 4, pp. 151-156; A. Tomei, cat. 9, in Giotto e il Trecento, cit. alla nota 1, II, pp. 167-169.

29 Cfr. M. Boskovits, cat. 26, in Giotto. Bilancio critico, cit. alla nota 4, pp. 182-186; per la tavola di Washington, si veda A. Suda, cat. 2, in Florence at the Dawn of the Renaissance, cit. alla nota 20, pp. 28-30. Sulla questione si vedano inoltre le osservazioni di D. Thiébaut, cat. 15, in Giotto e compagni, a cura di D. Thiébaut, catalogo della mostra, Paris-Milan 2013, pp. 142-151; e di A. Tartuferi, Intorno a Giotto: una mostra, un libro e una proposta di attribuzione, cit. alla nota 17.

30 M. Boskovits, Frühe italienische Malerei, Berlin 1988, pp. 62-64.

31 Per il dipinto, cfr. A. Tartuferi, cat. 20, in Giotto. Bilancio critico, cit. alla nota 4, pp. 164-165; P. Di Simone, cat. 18, in Giotto e il Trecento, cit. alla nota 1, II, p. 176; T. Bohl, cat. 18, in Giotto e compagni, cit. alla nota 29, pp. 164-165.

32 Per la serie e la bibliografia relativa vedi ora A. Tartuferi, in Florence at the Dawn of the Renaissance, cit. alla nota 20, pp. 170-177.

33 Per i piccoli dipinti si vedano: L. Bellosi, Due tavolette di Giotto, in Scritti per l’Istituto Germanico di storia dell’Arte di Firenze. Settanta studiosi italiani, a cura di C. Acidini Luchinat, L. Bellosi, M. Boskovits, P.P. Donati, B. Santi, Firenze 1997, pp. 35-42; C. D’Alberto, cat. 12, in Giotto e il Trecento, cit. alla nota 1, II, p. 171.

34 Per il Polittico Baroncelli e la cuspide del Museum of Art di San Diego, si vedano: G. Corso, cat. 16, in Giotto e il Trecento, cit. alla nota 1, II, pp. 173-175; e A. Tartuferi, cat. 23, in Florence at the Dawn of the Renaissance, cit. alla nota 20, pp. 110-113.

35 Per le Storie dell’Apocalisse di Stoccarda, cfr. M. Boskovits, cat. 28 a, b, in Giotto. Bilancio critico, cit. alla nota 4, pp. 192-197; per il soggiorno napoletano di Giotto in generale si vedano: P. Leone de Castris, Giotto a Napoli, Napoli 2006; S. Paone, Giotto a Napoli. Un percorso indiziario tra fonti, collaboratori e seguaci, in Giotto e il Trecento, cit. alla nota 1, I, pp. 179-195; C. Bologna, L’abito nuovo del re. Giotto e Petrarca all’ombra di Dante nel circolo “umanistico” di re Roberto a Napoli, ibid., pp. 197-223.

36 Giotto e le arti a Bologna al tempo di Bertrando del Poggetto, a cura di M. Medica, catalogo della mostra (Bologna 2006), Milano 2005; M. Medica, Giotto e Bologna, in Giotto e il Trecento, cit. alla nota 1, I, pp. 225-239; Il polittico di Giotto nella Pinacoteca Nazionale di Bologna. Nuove letture, a cura di D. Cauzzi, C. Seccaroni, Firenze 2009.

37 A. Tartuferi, cat. 22, in Giotto e le arti a Bologna, cit. alla nota 36, p. 172; P. Di Simone, cat. 17, in Giotto e il Trecento, cit. alla nota 1, II, p. 175.

38 Per il Santo Stefano Horne si veda A. Tartuferi, cat. 7, in Giotto e il Trecento, cit. alla nota 1, II, pp. 165-166.

39 Per gli affreschi del Bargello e i restauri eseguiti nel 2004 si veda ora E. Neri Lusanna, La bottega nel cantiere: il ciclo giottesco della cappella della Maddalena e il Palazzo del Podestà a Firenze, in Medioevo: le officine, cit. alla nota 9, pp. 609-622.

40 Per il soggiorno milanese di Giotto cfr. C. Travi, Giotto e la sua bottega a Milano, in Giotto e il Trecento, cit. alla nota 1, I, pp. 241-251.

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