GIOTTO di Bondone

Enciclopedia Italiana (1933)

GIOTTO di Bondone

Pietro Toesca

Pittore, architetto e plastico. Nacque (è incerto se presso Vespignano, in Mugello, o a Firenze) nel 1266, come s'induce dai versi del banditore e cronista fiorentino Antonio Pucci, che lo vide e lo ricorda settantenne nel 1336 (stile comune: 1337), anno di sua morte in Firenze. Meno autorevole, e forse per errore tipografico, il Vasari ne riportò la nascita al 1276: data meno probabile perché lascia minor spazio di tempo alla formazione del maestro prima dei capolavori di Padova (circa 1305).

Pochi documenti d'archivio, e non tutti con notizie rilevanti per l'arte, ricordano G.: a Firenze (1311, 1312, 1314, 1320), dove nel 1312 si trova iscritto all'arte dei medici e speziali; a Roma, dove operò per il cardinal I. Stefaneschi, e donde nel 1313 recuperava masserizie che vi aveva lasciato. Ma scrittori contemporanei ne accennarono la figura o ne indicarono almeno in parte le opere (Dante; Riccobaldo da Ferrara; Benvenuto da Imola; il Pucci); poi altri, ben presto, ne tramandarono in aneddoti lo spirito arguto (il Sacchetti, ecc.), dimostrato dalla canzone sopra la Povertà, a lui attribuita. Dal Quattrocento gli storiografi d'arte, specialmente fiorentini (F. Villani; L. Ghiberti; G. Vasari, ecc.), cercando di elencarne le opere, seguirono l'inevitabile processo di agglomerare alle cose più certe le incerte. La critica moderna, da G. B. Cavalcaselle in qua, si è industriata a ricercarne le opere genuine e a ricomporne le vicende dell'arte, dando all'indagine stilistica sempre maggior peso che alla tradizione: ma è riuscita a risultati diversissimi, che ancora si contendono il campo. Sta da un lato, con apparenza più strettamente scientifica, ma con tutti i difetti originati dall'applicazione rigida di un metodo scolastico, la dottrina - ribadita dal Rintelen, accettata dal Carrà, ripetuta dal Weigelt - che vuol riconoscere a G. soltanto le opere identiche in ogni qualità ai certissimi suoi affreschi nell'Arena di Padova; dall'altro lato si oppone una concezione più larga del problema critico, intenta a cogliere nel suo divenire, come una conquista e non come un'improvvisa apparizione in sé immanente, l'innovamento che G. operò nella pittura di fronte al passato che incombeva col peso di solenni tradizioni secolari. Essenziale per questa concezione forse destinata a prevalere, l'apprezzamento dei caratteri fondamentali dell'individualità di G., necessariamente insiti fin nelle sue origini, e moventi dello sviluppo della sua arte, tali da dover permanere anche sotto possibili mutazioni superficiali.

Negli affreschi dell'Arena di Padova, è qualità sovrana nella forma la forza di rappresentazione della profondità e delle masse, tutto riuscendo subordinato e rivolto all'impressione netta dei valori plastici; nell'intimo, che determina quella forma e ne è espresso, qualità sovrana è l'intuizione profonda dei moti psichici, in aspetti non accidentali eppure fermamente distinti: e sono qualità in tale reciproco temperamento che individuano G. fra tutti. Ora, quei caratteri affermandosi tutti, ma non così spiegatamente, in altri dipinti, ne attestano autore G. nel periodo in cui liberava la sua individualità nell'arte.

Il periodo giovanile. - Dante (Purg., XI, 94-96), affermando che G. oscurò Cimabue, non disse che gli fosse discepolo, come poi dichiarò un suo commentatore de principio del sec. XV, e poco dopo ripeté L. Ghiberti (Commentari, II, 1) che da tradizioni degli artisti fiorentini poté raccogliere anche l'aneddoto del pastorello disegnatore trovato e preso con sé da Cimabue: "nacque un fanciullo di mirabile ingegno il quale si ritraeva dal naturale una pecora...". Cimabue (v.), pur ancora bizantineggiante, si distingueva per un suo vigore plastico nel contornare: era allora l'artista che meglio poteva confermare in G., sugl'inizî, il nativo temperamento. D'altronde, a guardare intorno, non dalla pittura gotica, che attenuava all'estremo o sopprimeva ogni valore plastico, e nemmeno dalla scultura - troppo diversa nei suoi mezzi - poteva G. avere avviamento, ma sì dalla pittura bizantina, o bizantineggiante, che insisteva nella modellazione, anche se mediante formule. Giovanni Pisano (v.), l'impetuoso scultore gotico, ebbe qualche influenza su G., ma superficiale, e in periodo più tardo: di natura e d'arte troppo diverso, non fu tra gl'iniziatori del maestro che doveva rifuggire dalla sua gotica sommarietà impressionistica per trovare una precisa e statica definizione della forma e dell'intimo.

E appunto tra le opere di Cimabue e dei suoi aiuti si ritrovano i primordî di G. mentre egli piega quelle formule bizantineggianti a esprimere il suo senso plastico - ricostituitosi "dal naturale" - prima di rifiutarle del tutto per modi più adatti al suo scopo. Il primo apparire di G. è nella chiesa superiore di S. Francesco ad Assisi, negli ultimi affreschi del Vecchio e del Nuovo Testamento eseguiti probabilmente a principio dell'ultimo decennio del sec. XIII: le Benedizioni di Isacco, Giuseppe calato nella cisterna, Giuseppe e i fratelli, il Battesimo, il Pianto sul Cristo, la Resurrezione per quanto ancora se ne può scorgere, i clipei dei Ss. Pietro e Paolo, la Pentecoste, l'Ascensione.

Persistono, in questi affreschi certi caratteri esterni che dimostrano la discendenza da Cimabue, nel piegare stirato dei panni, nei tipi faciali, nel lumeggiare; ma l'intimo dell'arte si muta, e prima di rimuovere quei manierismi secondarî modifica la forma pittorica in cose ben più essenziali per la propria espressione: nel grado di evidenza della profondità, di forza nel rilievo. In Giuseppe supplicato dai suoi fratelli lo studio di definire la profondità dello spazio primeggia su tutto, e precorre composizioni di sfondi nei sottostanti affreschi della vita di S. Francesco. In Esaù respinto da Isacco non è meno netto il senso dello spazio entro cui le figure hanno volume; il colore arido e rossastro dei visi, senza dolcezza, è mezzo violento per modellare più saldamente; con nuova varietà sono accennati gli affetti, nell'incerto Isacco, in Rebecca sorridente, in Esaù che sta per accigliarsi.

Dall'uno all'altro di quegli affreschi, di passo in passo, cresce il distacco da Cimabue, così nella forma ognor più plastica, come nell'intimo sempre più drammatico. E se ad accelerare quell'allontanarsi da Cimabue poté contribuire l'influsso del Cavallini, specie nel colorire, G. andava anche spiegando sempre più risolutamente il proprio carattere di plastico. Poi lo stesso pittore delle Benedizioni d'Isacco compì la decorazione della navata del santuario francescano di Assisi con la Vita di S. Francesco: lo dimostrano, fino al superfluo, le identità di caratteri formali esterni, mentre le qualità salienti di quei primi affreschi vi si ritrovano in un grado assai più alto. Certo tra il compimento degli affreschi superiori e il principio della Vita di S. Francesco vi fu un breve intervallo di tempo: ed è probabile che in quell'intermezzo G. si recasse nuovamente a Roma, e vi conoscesse sempre meglio le opere del Cavallini. A Roma, nel transetto di S. Maria Maggiore i grandi tondi con figure di profeti, forse coevi al mosaico del Torriti nella vicina abside (1295), sembrano opera di G. in quel momento.

Gli affreschi della Vita di S. Franceseo, ad Assisi, sono la piena rivelazione di un'arte nuova. Affermati di G. già dal Vasari; ma a lui contesi da altri (Rintelen; Carrà; Weigelt), e spartiti fra minori; negati perfino alla scuola fiorentina (Wickhoff, ecc.), sono la pietra di saggio, e di scandalo, nel comprendere G. e anche nel ricostruirne l'opera, mentre soltanto per essi, quando siano collocati nel lor giusto posto, e non al vertice dell'attività del maestro (Supino), si possono riconoscere i principî e intendere il seguito dell'artista. Nella navata della chiesa superiore di S. Francesco, le ventotto Storie del santo, al disopra dello zoccolo dipinto a velario, formano l'ordine inferiore di tutta la decorazione, certamente eseguito per ultimo. È incerta la loro data: ma si può indicare con approssimazione, sia per la necessaria continuità dei lavori di decorazione, sia per il loro stile, ché gli elementi bizantineggianti, senza paragone più forti che negli affreschi dell'Arena di Padova (circa 1305), sono già attenuati in rispetto agli affreschi superiori della navata. G. poté lavorarvi negli ultimi anni del sec. XIII. Era allora trentenne, ma circondato già di discepoli, poiché fin dal suo primo affermarsi aveva richiamato seguaci e imitatori (affreschi dei Quattro Dottori della chiesa nella vòlta e Santi nell'arcone, sull'entrare della basilica superiore di Assisi): e, ideato l'insieme dell'opera, che in tutti gli affreschi ha l'impronta di un solo maestro, condusse largamente il lavoro, sebbene in, molte parti sia evidente l'intervento dei discepoli troppo a lui inferiori, e negli ultimi tre riquadri egli sia stato del tutto assente.

I diversi elementi formativi dei precedenti dipinti sussistono ancora chiari nella Vita di S. Francesco quantunque più soverchiati e fusi dall'individualità di G.: tratti derivati da Cimabue nel piegare i panni; quelli derivati dal Cavallini, specie nei tipi faciali, liberi dalla torva impronta bizantina; le qualità nuove - la forte rappresentazione della profondità, la rivelazione definita dei moti e dei caratteri psichici - ma elevate a una maggior potenza. Su tutto, nella forrma pittorica, predomina il senso della profondità e del rilievo; e dà un valore nuovo, volgendoli al proprio scopo, ai residui della vecchia maniera, o alle millenarie formule che l'artista ancora non rifiuti: al frastagliato lumeggiare nella maniera bizantineggiante, che ora serve a staccare con violenza i piani; al contornare risentito e al contrasto di ombre verdi e di chiari rossastri nelle carni, rivolti a quello stesso fine; alla semplificazione del paesaggio e dei particolari, all'oltremare unito del cielo, senza atmosfera, che giovano a un più netto impianto dei profondi scenarî. Né più, in altre opere, G. conseguì tanta evidenza plastica quanto in questi affreschi dove tutto, anche il colore, converge alla profondità e al rilievo. Era l'opera in cui G. si affermava in opposizione alla vecchia maniera, benché ne conservasse i residui: e in quel momento, nel contrasto col vago plasticismo dei pittori bizantineggianti, il suo carattere di modellatore si manifestò con violenza e con asprezza giovanile, più tardi temperate. Ma il contrasto col passato non era soltanto nelle forme pittoriche, era nell'intimo: di fronte alle convenzionali idealizzazioni persistenti all'intorno nella pittura, era un senso nuovo, profondo, della vita e dello spirito. La leggenda e la figura del santo che i pittori precedenti, e Cimabue stesso, avevano costretto entro i vecchi stampi dell'ascetismo bizantino, incapaci di esprimerne il fuoco interiore, da G. nella Vita di S. Francesco furono non soltanto evocate come attuali e presenti al senso, ma vennero rivelate nel recondito essere, inteso e interpretato da un artefice di genio, che improntò negli atti e nella persona del santo la sua virile fortezza.

Non rifuggì G. dal rappresentare alcuni degli episodî più semplici della leggenda di S. Franceseo, né altri dei più mistici, e quasi inadatti a segni esteriori di commozione: e dimostrò anche in questo il proprio carattere, poi persistente nelle altre sue opere. Non egli - in piena antitesi con Giovanni Pisano - cercò concitazione di atti e di affetti: amò invece compostezza di azione; e se riuscì a dar figura plastica alle passioni più veementi, la sua arte si compiacque soprattutto delle profondità calme dello spirito, seppe esprimerne i moti più tenui, quasi inafferrabili. In qualcuno di quegli episodî egli sembra insistere nella pura rappresentazione plastica, tanto è semplice o comune il contenuto emotivo della narrazione: nell'Elemosina del mantello al gentiluomo povero, nel Sogno di Innocenzo III, nella Predica del santo dinanzi a papa Onorio; e sono questi tra gli affreschi che meglio dimostrano la potenza del maestro nel definire spazio e masse. Nel Rapimento del santo sul carro di fuoco l'azione è ugualmente semplice, ristretta a pochi tenui tratti; il pittore sembra intento soltanto a esprimere il rilievo: né si potrebbero costruire di più solida materia la biga e i bronzei cavalli, o trovare più grosse e materiali figure di frati. E nondimeno, come in ogni altro riquadro, la leggenda è interpretata profondamente, con maschio vigore: alla inerte gravità dei lenti frati, al gesto composto di colui che li desta in atto di meraviglia indicando la visione, contrasta la spirituale veglia del santo, assorto in cielo. Quando, in altri passi, la leggenda diventa più commossa o più lirica, G. entro salde e semplici forme rivela ora moti quasi inesprimibili, ora lo slancio dell'animo. Nella Predica del santo agli uccelli, azione drammatica non c'è; lo scenario è un nulla: un albero sull'azzurro basta a suggerire tutta la solitudine campestre; soltanto il gesto del frate accompagna di silenzio e di ammirazione il santo che si china con atto cauto per non intimorire il raccolto uditorio mentre sembrano velarsi di dolcezza il suo sguardo e la persona che nelle Stimmate si esaltano invece d'ardore e di dolore. Anche se il racconto debba essere più concitato G. gli dà sempre un ritegno di atti e di affetti che lo rende quasi religioso. Non è guidato dal tono popolare della leggenda, facilmente voglioso di accenti forti e di accessorî aneddotici; ricompone egli il racconto, improntandovi il suo vigoroso senso fisico, il suo spirito grave, la mente che vuole semplicità e chiarezza. Nel Miracolo della fonte si vede chiarissimo il sapiente semplificare ch'è proprio a G., sia nella composizione sia nei particolari, e come per esso riescano più forti le impressioni essenziali. Nulla di accidentale nello sfondo: anzi, ricorre ancora l'artista ai modi convenzionali e astratti di rappresentare le rocce a scheggioni e a fratture, la luce a falde; ma, per una nuova tempra, queste forme tradizionali acquistano altro valore: e la luce bianca balzando di scheggia in scheggia suscita forte in noi il senso della profondità e dei rigidi piani della rupe. Nulla di aneddotico nell'azione: il santo nella preghiera cerca fermamente il cielo; e già l'assetato si sazia, due frati si guardano gravi quasi per prendersi l'un l'altro a testimone del fatto: e anche più del miracolo è esaltata la fede ardente di Francesco.

Dove l'azione è più complessa, G. la compone con varietà di raggruppamenti e di particolari, ma liberandone le linee principali in una unità drammatica che rende semplici anche le scene più affollate: così nella Rinunzia ai beni paterni, nel Presepe di Greccio, nella Morte del conte di Celano. Di affresco in affresco, pur senza rinunziare a ricordi dell'antecedente pittura, egli compone con libertà illimitata: va da linee riunite in grandioso ordine, quali nelle Esequie del Santo, che dànno il senso religioso del raccoglimento, a linee spezzate in apparente disordine, che esprimono l'istantaneità dell'azione, come nel Pianto di S. Chiara sul corpo di S. Francesco tra il soffermarsi e affollarsi del corteo funebre.

Hanno quei capolavori il comporre largo, semplice nell'effetto totale anche se complesso nei particolari, che la pittura fiorentina doveva riprendere più tardi con Masaccio, rivolgendosi ancora a G.

Largamente i discepoli aiutarono il maestro nell'eseguire i suoi concetti, sì che in un medesimo affresco - come nella Morte del conte di Celano, oppure nel Santo dinanzi al Soldano - si avvertono divarî molto forti nelle qualità di forma plastica e di espressione psichica; ma, in genere, l'opera loro fu tutta sommessa a quella di G. Soltanto nei tre ultimi affreschi della serie, tutti di una medesima mano - forse dell'anonimo detto "maestro della S. Cecilia" -, il divario è tale da escludere che G. vi abbia avuto parte: le composizioni non hanno movimento; la prospettiva è incertissima; le figure, di proporzioni esili, mancano della solida struttura consueta; il modellato è debole al paragone degli altri affreschi: appariscono diminuite le idee e le forme già diffuse dal maestro.

Intermezzo. - Il periodo tra gli affreschi di Assisi e quelli di Padova, durato meno di un decennio, dovette essere d'intensa attività se al suo termine l'arte di G. si mostra in nuovo aspetto; ma è oscuro, e per notizie, e per opere. Che G. abbia lavorato a Roma circa il 1300 è in tutto verosimile. Non se ne può aver prova dall'affresco rappresentante Bonifacio VIII che bandisce il giubileo di quell'anno perché il dipinto, ora nella basilica lateranense, è troppo guasto da restauri; e nemmeno dal mosaico della Navicella, ora nell'atrio della basilica vaticana, perché rifatto interamente così da non poterne più apprezzare che la composizione, forte di contrapposti, come meglio si vede nella vecchia copia del Museo Petriano. Ma se davvero appartennero alla riquadratura della Navicella (rappresentante la pericolante nave degli Apostoli, Pietro sulle acque e il Redentore) i due angioli a mosaico, l'uno nel suddetto museo, l'altro conservato nella chiesa di Boville Ernica, essi dànno argomento, più certo che antiche tradizioni, ad affermare che G. fu a Roma appunto in quell'epoca, e vi eseguì allora il grande mosaico che, ai pellegrini del giubileo, poteva essere esposto qual simbolo della Chiesa. Nel volto di quegli angioli - due tondi con mezze figure - c'è un distacco tra le parti illuminate e le ombre da rammentare gli aspri contrasti degli affreschi di Assisi. Ma quei lrammenti accennano a un modificarsi dell'arte di G.; le morbide ali lumeggiate d'oro e le vesti sono dipinte a pieno colore senza i distacchi di luce proprî agli affreschi d'Assisi: volgono alla fattura, altrimenti morbida nel colorire, degli affreschi di Padova.

Ad Assisi, pur nel suo primo periodo di esasperato plasticismo G. aveva dimostrato fine senso del colore, se pur subordinandolo a quello del rilievo. Il soggiorno romano, la rinnovata visione delle opere del grande colorista che fu il Cavallini, poterono spingerlo a temperare la primitiva asprezza di contrasti, a cercare pur nel rilievo un fondersi di tinte e di luci. E questa ricerca fu poi costante, progressiva, nella sua arte.

In un Santo francescano della raccolta di B. Berenson, il colorito è ancora abbastanza simile agli affreschi della Vita di S. Francesco. In altri dipinti, che devono appartenere a momenti ognora più inoltrati di questo intermezzo, quello studio nuovo di colore e di luce non c'è ugualmente in ogni parte, e la fattura disforme accenna ch'essi sono opera non soltanto di G., rivolto a nuovi modi, ma anche di qualche scolaro, fedele ai primi insegnamenti di lui. Nella tavola delle Stimmate di S. Francesco - inscritta: opus iocti florentini; già nel S. Francesco di Pisa, e ora nel Museo del Louvre - le tre storie della predella riflettono con varianti le composizioni di Assisi, diminuendone le qualità principali; le Stimmate (ve n'è una copia di un mediocre giottesco, ma attribuita a G., nel Fogg Art Museum di Cambridge, negli Stati Uniti) ripetono più strettamente l'affresco di ugual soggetto ad Assisi, ma se la figura del santo ne ritrae ancora il duro risalto, il Cristo ha un colorito più dolce, verso la maniera degli affreschi di Padova. Qualche divario di fattura vi è pure nella grande croce dipinta (Firenze, S. Maria Novella) affermata di G. da un documento del 1312 in cui un devoto disponeva che per sempre ardesse una lampada dinanzi alla sacra immagine: dalle figure all'estremità della croce, di modellato più crudo, differisce il crocifisso, in cui la forte massa corporea, la composta grandezza, l'umanità appartengono per certo al maestro.

Ma discrepanze non ci sono nella grande icone della Madonna di Ognissanti (Firenze, Uffizî), attribuita a G. dal Ghiberti e da ogni antica fonte fiorentina: opera non in tutto felice poiché il pittore fu vincolato nel comporla dai canoni di simmetria e di proporzione imposti dalle tradizioni dell'arte religiosa. Ancora vi si osserva qualche decisa durezza di modellazione, specie nel volto della Madonna, comparabile alla Madonna affrescata sulla porta della chiesa superiore del santuario di Assisi; e il tipo faciale dei giovani vi rammenta le figure del Cavallini: ma, mentre è sempre possente l'impressione di massa e di rilievo, il colore l'accompagna in altra maniera che ad Assisi; i contorni sono attenuati se non del tutto soppressi; il contrasto di chiari e di scuri, pur assai risentito, cede a molte gradazioni di tinte, che esprimono sotto l'azione della luce non soltanto il volume ma la qualità della materia, sia la forte e morbida mano della Vergine, siano le leggiere vesti degli angioli inginocchiati, con iridescenze e trasparenze di velo. La Madonna d'Ognissanti dovette precedere di poco gli affreschi di Padova.

Gli affreschi dell'Arena di Padova. - A Padova, dove G. fu lungamente e a più riprese, restano di lui soltanto gli affreschi della cappella fondata da Enrico Scrovegni, nel 1303, dentro l'antico anfiteatro, e già consacrata nel 1305, poiché sono di suoi scolari gli avanzi nella sala capitolare del Santo. G. vi si giovò largamente dei suoi aiuti, forse non per ristrettezza di tempo, poiché non è certo che la decorazione della cappella fosse già compiuta nel 1305, anzi sembra probabile ch'essa si protraesse più oltre, ma senza le supposte interruzioni.

Egli era quarantenne, in piena potenza non soltanto di creazione ma di rinnovamento per quella forza che già gli aveva dato di liberarsi di tante tradizioni e poi lo doveva portare ancora più oltre. E negli affreschi dell'Arena, di fronte al suo stesso passato, egli fu innovatore: ma con tale coerenza, nelle sue qualità fondamentali, che le differenze tra gli affreschi d'Assisi e quelli di Padova, anziché contraddirla, confermano l'opera di uno stesso artista, l'identità di una stessa forza creatrice che si sviluppava procedendo nel proprio commino.

Come ad Assisi, primeggiano a Padova negli affreschi di G. le impressioni di profondità e di rilievo: sono suscitate con mezzi analoghi ma con modulazioni più varie. La prospettiva lineare, sebbene ristretta ai primi piani e non guidata da norme sicure, riesce a illudere, come ad Assisi; ma a renderla evidente, e a correggerne i tratti aberranti concorrono meglio le gradazioni di luminosità e di colore: e la profondità risulta costruita così saldamente come non altrettanto in capolavori della pittura fiorentina del Quattrocento. Il rilievo di ogni forma è consistente come nella Vita di S. Francesco ma conseguito in maniera più dolce, per trapassi di luce e di colore: e la luce non è più sovrapposta ai corpi, anzi vi s'immedesima col colore, graduato in valori diversi col digradare dei piani e con l'addensarsi delle tinte nelle ombre.

Si spiegano altrimenti che ad Assisi, ma con la coerenza di una stessa individualità d'artista, il vario e libero ritmo nel comporre, l'animo drammatico, la calma e profonda intuizione psicologica, moltiplicati in vastità, rivolti a maggiori finezze. Nell'accento drammatico, nell'intuizione degli animi, a Padova, G. possiede modulazioni più estese che ad Assisi; in accordo con le sue nuove qualità pittoriche, ha un maggior potere di esprimere gli affetti anche più tenui. Se convenga - come nel Bacio di Giuda o nella Strage degli Innocenti - dà concitazione al racconto e ai moti in maniera che altri può comparare a quella di Giovanni Pisano, la cui arte è presente sull'altare stesso della cappella dell'Arena, nelle commosse statue della Madonna e di due angioli; ma anche nel pieno del dramma, altrimenti che Giovanni Pisano, G. definisce con precisione la varietà degli affetti come la solidità delle forme. Seguendo la propria natura, già definitasi ad Assisi, dà alla narrazione un tono grave, pacato, che rende più profonda l'azione drammatica, fatta non di esteriore agitazione, ma di moti spirituali ch'egli coglie con tanta sottigliezza, più guardando all'essenziale che all'accidentalità, da non avere paragone nella stessa pittura fiorentina, la quale pure fu sempre cosi limpido specchio ai moti degli animi. Chi osservi la figura del Cristo, di una in altra storia negli affreschi di Padova, vede come G. la rende più grande per una compostezza che sembra superiore alle passioni umane, anche nella Cacciata dei venditori dal tempio o nel Giudizio Universale, e come nello stesso tempo egli vi definisca i diversi sentimenti: il senso mistico nell'udire la voce del Padre nel Battesimo, l'imperio, l'accoramento, lo sdegno, il più che umano soffrire fino al riposo profondo entro la morte nelle storie della Passione.

Nel piccolo oratorio dell'Arena, ch'è uno dei maggiori monumenti della pittura italiana, G. coi suoi aiuti affrescò tutta l'unica navata: nella vòlta a botte, d'oltremare stellato, con tondi e fasce ornate a figure; col Giudizio Universale, sull'intera parete dell'entrata; con trentasette storie della vita di Maria e di Cristo, in riquadri senz'alcuna cornice architettonica, in tre zone, sulle altre pareti, al disopra di un alto zoccolo finto di marmi e di profonde nicchie in cui sono figure di Vizî e di Virtù a chiaroscuro: interruppe il lavoro al presbiterio, affrescato poi da un mediocrissimo suo seguace. La tentata distinzione dell'opera dei diversi aiuti da quella del maestro non dà risultati sicuri nel complicato intrecciarsi di collaborazione in lavoro che per certo fu ideato e continuamente diretto dal maestro; ed è pur riuscita vana una distinzione di tempo, che concludeva a supposte influenze intervenute dalla plastica gotica francese, tra le zone inferiori delle pareti e la superiore. Pure, ci sono parti in cui le qualità di G., nella forma e nell'intimo, si mostrano in maggior potenza: l'Annunzio a S. Anna, la Visione di Gioacchino, l'Eterno con gli angioli e L'Annunziazione, la Fuga in Egitto, il Battesimo, la Resurrezione di Lazzaro, la Crocifissione, il Noli me tangere, la Pietà, il Cristo e gli angiolt del Giudizio. Di questi affreschi è forza osservarne qui soltanto alcuni, mentre negli altri, e per tutto nell'Arena di Padova, si può ammirare in vario grado la stessa arte. Nella Fuga in Egitto il vecchio schema iconografico è trasformato dal significato umano di ogni parte: nel viaggio i famigliari vanno indifferenti, come il giovinetto che tiene la briglia parlando a Giuseppe; ma questi si volge, piuttosto che a rispondere, a guardare i suoi; e più di lui sa il destino, e si fa grave fissandolo, la madre, così seduta per portar meglio il figlio, sostenendolo anche con una sciarpa. mentre il bambino assonnato non guarda che il seno di lei, accorata. Entro lo spazio nettamente segnato in pochi tratti, le forti figure, sotto la luce che le scolpisce e avviva gli armoniosi colori, passano con moto incessante: né vi è tratto che turbi il ritmico procedere in cui G. le compose, qui maestro sovrano anche in ciò che la pittura fiorentina del Quattrocento più insistette a esprimere: nel movimento. Nella Resurrezione di Lazzaro G. si attenne ad uno schema di composizione antichissimo, già usato otto secoli prima in una miniatura del codice purpureo di Rossano; egli che spesso non innovò gli elementi iconografici delle sacre storie, già disposte in linee semplici e chiarissime dall'arte bizantina, poneva in altro lo sforzo di sua arte: e dinnanzi allo scenario tradizionale che gli serve, reso profondo da lui, a concentrare tutto sull'azione, questa nelle figure robustamente plasmate ha accenti potenti, sia nel materiale atto del giovane che solleva la pietra del sepolcro, sia nell'affascinata adorazione delle due sorelle di Lazzaro, nell'imperio sicuro di Cristo suscitatore dei morti, nell'attesa ansiosa dei riguardanti, graduata d'una in altra figura: tutto sembra raccogliersi, in quell'attimo. d'aspettazione, già certa del miracolo. Le rappresentazioni sacre, logorate da secolari ripetizioni nell'arte, furono trasfigurate da G., col suo senso di umanità, di grandezza morale, di commozione. Nel Noli me tangere, unito secondo uno schema tradizionale all'Apparizione degli angioli sul sepolcro vuoto, la luce sfiorante Cristo che appare alla Maddalena ne attenua la corporeità, ne vela il volto e la mirabile candida destra che allontana ma sembra voler dar pace alla donna protesa, con le mani tremanti e col viso allucinato, verso la visione sfuggente. Nella Pietà il crescendo del lamento irrompe fino agli angioli che fendono l'azzurro; ha accenti diversissimi, ma si raccoglie intorno allo sguardo senza lagrime della madre sul figlio, di cui il pittore carezza dolcemente il volto, i capelli. Nel Giudizio Universale, anch'esso derivato in parte dalla tradizione iconografica medievale, i ritratti che animano le schiere degli eletti, e su tutti la figura dell'offerente Enrico Scrovegni, dai lineamenti duri e adunchi, pieni d'ansia nell'offerta verso la Madonna e i santi pensosi, accennano per quali vie G. si sia liberato dalle idealizzazioni manierate antecedenti, sia riuscito a unire in modo vitale caratteri ideali e individualità nelle persone dei suoi drammi: tralasciò, come già ad Assisi, i vieti schemi bizantini di idealizzazione, non ammise che ben poco i gotici: con un processo suo risalì dal particolare all'universale, dall'individuo al tipo. E le personificazioni dei Vizî e delle Virtù, a chiaroscuro, permettono di vedere quanto egli concedesse ai concetti gotici e quanto se ne fosse distaccato.

Alla medesima fase dell'arte di G., o a un momento immediatamente consecutivo, appartengono il crocifisso su tavola (dipinto a tergo da un aiuto) che era un tempo sull'iconostasi della cappella dell'Arena, ora in sagrestia, e la Dormizione della Madonna (Berlino, Museo): opere in cui lo studio di finezze del colore e della luce è anche maggiore che negli affreschi.

Ultimo trentennio (1305 circa-1337). - Nel suo ultimo periodo, G. dovette moltiplicare la propria attività, operoso per tutto, se non ad Avignone, a Napoli, a Firenze, a Bologna, a Milano; intento infine anche all'architettura e alla scultura per il campanile della cattedrale di Firenze. È ovvio che in tante imprese egli si sia giovato sempre più dei discepoli, riducendosi qualche volta a dare soltanto il disegno o il concetto dei lavori a lui affidati, anche di quelli che gli sono atttibuiti da epigrafi autentiche, perché usciti dalla sua bottega (Bologna, Pinacoteca; Firenze, Cappella Medicea in S. Croce), o da tradizioni autorevoli (Roma, Pinacoteca vaticana; Assisi, S. Francesco: affreschi nella chiesa inferiore). Ma per quel trentennio, c'è almeno un'opera che lascia sicuramente intendere quale egli sia stato: gli affreschi della cappella Bardi in S. Croce di Firenze, guasti da restauri, ma non quanto quelli della vicina cappella Peruzzi. Di questi ormai non resta che l'insieme delle composizioni, con storie del Battista e di S. Giovanni Ev., di larghezza monumentale non prima raggiunta: ne è svanita la forza plastica, per certo poderosa se Michelangelo giovane li studiò nei suoi disegni. Invece, gli affreschi della cappella Bardi, con storie della leggenda di S. Francesco, eseguiti dopo il 1317, rivelano ancora pienamente nell'arte di G. una nuova fase. Anche rispetto alle opere di Padova essi attestano un grande innovamento, pur persistendo le più profonde qualità dell'artista; e perciò provano sempre più che è di G. la Vita di S. Francesco ad Assisi, non separata per maggiori divarì dagli affreschi padovani. G. vi riprese alcuni dei soggetti ch'egli aveva già trattato ad Assisi, forse più che un ventennio innanzi; e se in qualche affresco, come nelle Stimmate e nell'Apparizione ad Arles, variò di poco i suoi primi concetti (ultima, non trascurabile, prova della paternità degli affreschi di Assisi), altrove li sviluppò nel senso stesso degli affreschi della cappella Peruzzi, preferendo al movimento drammatico un ordine più euritmico e grandioso. Per la concordia assoluta d'intenti e di senso pittorico che G. ebbe in ogni suo momento, a queste qualità del comporre, pacato e solenne, si accorda il suo modo di vedere - la sua forma pittorica - che acquista complessità in un osservare più tranquillo e prolungato verso aspetti prima tralasciati, o non altrettanto sentiti. La luce, che nelle precedenti opere serviva al risalto dei piani ma era scarsamente definita, ora ha valore per sé, individuata nelle sue condizioni, fino a proiettare dai corpi ombre sul terreno come da secoli più non si era veduto nella pittura; la sua nuova presenza modifica l'insieme pittorico: non consentì più il prevalere assoluto delle impressioni di massa e di rilievo, anzi nelle sue accidentalità riesce qualche volta a renderle tenuissime mentre il colore ne acquista nuova leggerezza e trasparenza.

Nelle Esequie di S. Francesco, per essere il dipinto meglio conservato, si veggono bene nella nuova fase tutte le qualità di G. Lo scenario è una delle più potenti espressioni della profondità mai conseguite dal maestro. Intorno al lamento alto, ma contenuto, dei frati sul corpo esausto inanimato, è la compostezza quasi architettonica dei gruppi laterali accresciuta dalla simmetria delle quinte: e l'atto del gentiluomo incredulo che si accerta delle stimmate, o quello del più semplice frate, il solo a vedere l'anima del santo portata in cielo, restano quasi inosservati tra quelle linee semplici e larghe, in cui è già il modo di comporre della pittura fiorentina del Quattrocento. La luce, provenendo dalla parte della finestra della cappella, proietta le ombre sul terreno, ma per la sua stessa direzione, non dà gran rilievo alle figure: e vi sono dei volti, come quello del santo, quasi diafani, a tinte trasparenti di rosato e di verdino così da avere una consistenza plastica minima, al paragone delle opere precedenti.

In uguale aspetto G. non si rivede altrove scomparse le altre opere ch'egli poté condurre di sua mano nell'ultimo trentennio; ma l'estensione di questa fase della sua arte si può riconoscere da un fatto di grande importanza: che i dipinti eseguiti allora sotto la sua più immediata influenza, e in parte nella sua bottega, o da suoi aiuti, rispecchiano quella maniera, o anche la portano a certi estremi sviluppi logici che possiamo supporre dovuti piuttosto al maestro medesimo, in suoi lavori ora perduti, che ai discepoli.

Le opere principali, che riflettono quella maniera più sviluppata, ma non autografe di G., benché una parte della critica ancora gliele riferisca, sono le seguenti: affreschi della cappella del Palazzo del podestà a Firenze, troppo guasti, e certamente di allievi nelle parti meglio conservate; trittico dell'antico S. Pietro (Roma, Pinacoteca vaticana), forse del 1320, più vicino a G. negli angioli della tavola principale che nelle altre parti, di diversi aiuti; polittico della Pinacoteca di Bologna, forse del 1330; polittico dell'Incoronazione della Madonna in S. Croce a Firenze, forse condotto in gran parte da Taddeo Gaddi, opera che lascia intravedere i modi estremi dell'ultima maniera coloristica di G. Della bottega del maestro sono i frammenti di un polittico nella raccolta Goldmann di New York, nel Museo Horne di Firenze, e altrove; tre tavolette della Pinacoteca di Monaco; la Crocifissione nel Museo di Berlino, di uno dei collaboratori nel polittico petriano, ecc.

Gli affreschi della cappella della Maddalena nella chiesa inferiore di S. Francesco ad Assisi sono di diversi aiuti di G., troppo inferiori a lui nella forma e nel vigore drammatico. Quelli sulla tomba del santo, come gli altri nel braccio destro del transetto della stessa chiesa, hanno delicata tenuità di colorito, chiarezza di composizione nelle complicate allegorie delle virtù francescane - le Nozze di Francesco e di Povertà, ispirate dalla poesia mistica umbra anche prima che dai versi di Dante (Par., XL, 61-63); la Castità; l'Ubbidienza - e nel Gloriosus Franciscus, ma non mostrano la profondità morale, né la sicura espressione dei moti fisici e spirituali che distinguono G.

Nei suoi ultimi anni (1334) G. fu nominato capomaestro della nuova cattedrale di Firenze, già iniziata da Arnolfo, e delle altre principali costruzioni del comune fiorentino. Per quanto molto innanzi in età, subito ideò per il duomo il campanile; ai cui lavori soprattutto dovette attendere nei due ultimi anni di vita, conducendoli fino al primo ordine, poi seguitato da altri con diversi concetti.

Pensò l'altissima torre quadrata, goticamente rinforzata di contrafforti ottagonali ad ogni angolo, e per certo coronata di guglia forse come in un grande disegno del Trecento (Siena, Museo dell'Opera), che sembra almeno ispirato al suo progetto. Parve ai Fiorentini, sempre pronti a riprendere gli artefici, che male egli avesse provveduto alla stabilità del campanile dandogli "poco ceppo da pié"; ma quel ceppo bastò poi al gran fusto, senza le rastremazioni delle torri gotiche oltramontane, ben saldo fra i risalti angolari. Accettando le forme gotiche, G. riconfermò affinandola, la tradizione fiorentina, come già Arnolfo nella facciata della cattedrale: rivestì l'architettura di larghi spartimenti marmorei, che nell'ordine inferiore del campanile rammentano il tramezzo dello sfondo delle Esequie di S. Francesco in S. Croce. E sulla superficie marmorea volle inseriti gli esagoni rilievi figurati. In questi, il concetto uguaglia le figurazioni dottrinali delle cattedrali gotiche francesi, esponendo dopo le origini dell'umanità il suo operare con gl'inventori delle arti meccaniche e liberali; l'attuazione artistica è tale che molti di quei rilievi sono ideali esaltazioni dell'attività umana, e tra i capolavori dell'arte. Antonio Pucci nel suo Centiloquio riferisce che G. stesso fece i primi intagli del campanile; L. Ghiberti conferma, come cosa non certa, che il maestro avesse scolpito le due prime storie e aggiunge di aver visto anche "provvedimenti" disegnati da G., pur attribuendo ad Andrea da Pontedera (v.) grandissima parte dei rilievi. Nei quali sono da distinguere diversità di fattura, di forma e di concetto, per collaborazione di artisti differenti. tra cui fu Andrea, che primo succedette a G. nel dirigere i lavori di S. Maria del Fiore; e su tutti sorgono quelli (né sono appunto i due primi) che per virtù di rappresentare in modo universale e pur concreto, per vitalità di ogni atto, per potenza plastica e di movimento, sembrano riportare al sommo dell'arte di G., liberi dai goticismi in cui si avvolse Andrea: Tubalcain, l'Aratura, il Navigare, dove G. sembra più presente.

L'arte di G. ebbe remota preparazione nel Medioevo dalla pittura bizantina e bizantineggiante: queste, sebbene tanto diverse, la precedettero nella chiarezza del comporre, nel modellare, nel reciso semplificare, in tratti convenzionali a cui G. da principio non rinunciò pur volgendoli ad altro scopo. Più immediatamente essa procedette da Cimabue nell'esprimere in modo fiorentino il rilievo, cioè per forza di disegno e di piani; acquistò più libertà e larghezza al contatto di Pietro Cavallini, insistente ancora tra i primi affreschi di Assisi e quelli di Padova. Ma differì da tutti i suoi precedenti, sia per senso pittorico, sia per intimo contenuto, tutta fondata sul genio del maestro. Il quale potè essere confermato nelle sue qualità più originali dall'esempio della scultura italiana della seconda metà del sec. XIII, dove già si esprimeva con libero senso del rilievo un vasto e nuovo mondo spirituale: dalle opere di Nicola Pisano e di Arnolfo, assai più che da quelle di Giovanni Pisano. E mentre la scultura gotica si avvolgeva in manierate preziosità; mentre la pittura oltremontana non era più che un giuoco di linee e di superficie colorate, l'arte di G. si liberò dalle formule impersonali bizantine e gotiche, consistette nel senso, nell'animo e nella mente rivolti a esplorare e ad esprimere la profondità fisica e spirituale con un potere d'intuizione e di sublimazione da porre accanto a Dante il pittore, prima e somma rivelazione del genio fiorentino nelle arti del disegno, con la sua visione ferma, la penetrazione spirituale acuta, l'espressione semplice e universale.

V. tavv. LXVII-LXXVI e tav. a colori.

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