Giornalismo

Enciclopedia del Novecento (1978)

Giornalismo

DDenis Hamilton

di Denis Hamilton

Giornalismo

sommario: 1. Natura, importanza e compiti del giornalismo. 2. Il giornalismo e il suo pubblico. Il gusto popolare. 3. Il giornalismo e i mutamenti tecnologici. 4. L'assetto proprietario. 5. Il giornalismo e la pubblicità. I sussidi statali. 6. Il ‛nuovo giornalismo' e le scuole universitarie di giornalismo. 7. Il giornalismo e i sindacati. 8. Il giornalismo e la legge. 9. Il giornalismo e lo Stato. 10. Necessità di un'autoregolamentazione del giornalismo. □ Bibliografia.

1. Natura, importanza e compiti del giornalismo

Il giornalismo è un'attività di immensa importanza e nel contempo inevitabilmente imperfetta. Il suo problema non è di ordine tecnico, a onta della varietà di progressi tecnici prevedibili in quest'ultimo quarto del sec. XX, ma di ordine morale. Tali progressi non modificheranno in nulla il compito essenziale del giornalismo, che è di riferire o di offrire commenti o consigli sui fatti di attualità, e ciò sia quotidianamente, come indica l'etimo della parola, sia settimanalmente o secondo una qualche altra periodicità regolare. Attività del genere sono relativamente antiche: sono state esercitate, a mezzo della stampa, almeno a partire dal primo quarto del sec. XVII, e tramite le onde radio dal primo quarto del XX. Durante tutto questo tempo, i problemi di natura etica sollevati dal giornalismo hanno fatto scarsissima strada verso la soluzione.

I fatti di attualità che il giornalismo passa in rassegna possono rientrare nella categoria degli eventi naturali: terremoti, inondazioni, buoni o cattivi raccolti (con i relativi consigli sul modo di arginare le acque alluvionali, o di cucinare i prodotti agricoli di stagione). Ma più comunemente si tratta di azioni umane: nelle arti, nello sport, nel commercio, nella politica nazionale e internazionale, nella diplomazia, nella guerra. A giusto titolo il giornalista può dire con Terenzio: ‟Humani nihil a me alienum puto".

Una siffatta regolare rassegna, tentata dal giornalismo, di tutti i fatti della vita umana è cosa preziosissima. Se è ben fatta, essa arricchisce la vita del numero sempre crescente di persone raggiungibili dagli odierni metodi di distribuzione sia dei giornali che dei programmi radiotelevisivi. Essa mette persone di ogni età e condizione, persone che vivono talvolta la vita stranamente segregata resa possibile dalle usanze moderne in materia di lavoro e di abitazione, in grado di sapere qualcosa del più vasto mondo che si estende al di là delle loro quattro mura: di sapere cioè quali sono i problemi degli altri e in che modo li affrontano, o in che modo si divertono; quali sono le ipotesi correnti degli studiosi sulla natura dell'universo e della vita; quali sono gli ostacoli da eliminare se si vuole assicurare la sopravvivenza o magari il miglioramento dei modelli abituali di vita. Se riesce in ciò, il giornalismo favorisce la comprensione che la gente ha di sé e della propria situazione e ne accresce quindi la soddisfazione.

Cosa ancor più importante, dato che l'uomo è un animale sociale, il giornalismo lo aiuta a vivere in società: gli permette di sapere come siano diretti gli affari del suo villaggio, della sua città, della sua regione, del suo paese, del gruppo di paesi in cui il suo rientra o infine del mondo intero. A meno che non viva sotto una tirannia, gli offre l'occasione di prendere iniziative o di esprimere opinioni che incidano in un senso o nell'altro sulla gestione degli affari. Le sue azioni e opinioni saranno basate su fatti reali, anziché su immaginazioni e superstizioni, e trarranno un'accresciuta importanza dal fatto di essere una parte di un complesso più ampio, di un insieme di aspirazioni umane tutte miranti verso uno stesso obiettivo.

Tutto ciò è possibile anche senza il giornalismo; sono esistiti efficaci movimenti di opinione, su scala sia locale che nazionale, molto tempo prima che venisse alla luce una qualunque forma di giornalismo degno del nome. E tuttavia grande è il contributo del giornalismo, che, se è ben fatto, fornisce al cittadino i dati necessari per prendere a ragion veduta decisioni su come vuole o non vuole essere governato. Un'occasione particolarmente decisiva è rappresentata dalle elezioni. In qualsiasi popolazione che sia troppo numerosa per raccogliersi in un'unica assemblea pubblica, le elezioni non possono funzionare in modo adeguato senza un'effettiva diffusione di informazioni nell'elettorato. Il mezzo essenziale a questo scopo è il giornalismo.

Ma il guaio sta nella condizione: ‛se è ben fatto'. Stando a quanto abbiamo detto, le responsabilità del giornalismo sono notevoli; per disimpegnarle, i giornalisti professionisti abbisognano in particolare di due cose: il discernimento, per operare una scelta adeguata in mezzo a tutti i materiali che potrebbero essere oggetto d'informazione o di commento, e la libertà di pubblicare senza restrizioni i frutti delle loro scelte.

Si presenta subito una duplice difficoltà. Anzitutto, i giornalisti non sono forniti di discernimento in misura superiore a quella di qualsiasi altro gruppo di esseri umani. In realtà, è probabile che essi ne siano meno forniti di molte categorie professionali, giacché il giornalismo non è una professione, l'ingresso nella quale possa o debba essere subordinato a un qualsiasi esame. Sarebbe impossibile esigere standard comuni di istruzione da giornalisti che scrivono di medicina e da giornalisti che scrivono di calcio Il livello dei giornalisti in materia di istruzione varia quindi grandemente. Sarebbe certo desiderabile elevare la cultura media dei giornalisti come anche aggiornare e ampliare le conoscenze di alcuni di loro. Ma questo può essere detto di tutte le professioni e, nell'attingere alle risorse umane, il giornalismo non può scavalcare le altre necessità della nazione. La verità è che i giornalisti sono in massima parte reclutati, in modo semiaccidentale, tra coloro che hanno inclinazione per la vita disordinata e un tantino dissipata che il giornalismo spesso impone. In un mestiere in cui si tratta di dare valutazioni, la capacità di valutazione può non essere il loro forte.

In secondo luogo, se sono liberi, saranno anche liberi di rivelare la loro occasionale mancanza di discernimento. In Occidente, non si fanno grandi dispute teoriche sulle virtù di una stampa libera. Per più di due secoli essa è stata riconosciuta, per dirla con la Carta dei diritti dello Stato della Virginia (1776), come ‟uno dei grandi baluardi della libertà". Se il cittadino non dispone di un resoconto completo delle azioni dei suoi attuali governanti, come anche delle proposte di coloro che nelle elezioni si candidano per un'alternativa al governo, allora la sua libertà di scelta è menomata, e la sua libertà d'azione rischia di fare la stessa fine; né d'altra parte i giornalisti possono fornire un tale resoconto se non sono liberi da pressioni con cui si tenti d'influenzare ciò ch'essi scrivono o trasmettono, pressioni che possono venire dallo Stato stesso o da gruppi al suo interno. Senonché questa libertà comporta la libertà di commettere errori, di far violenza alla verità, alla pietà, al buon gusto, alla lingua. Una stampa libera è sempre caduta in pieno in questi errori, e i fautori della libertà debbono fare i conti con l'affermazione di Tocqueville: ‟Se si vogliono godere gli inestimabili vantaggi garantiti da una stampa libera, è necessario assoggettarsi agli inevitabili mali ch'essa genera".

Il paradosso centrale del giornalismo nasce dal fatto che i suoi prodotti sono oggetto di un'appassionata ricerca e nel contempo di un'appassionata denuncia; nell'un caso e nell'altro con buone ragioni. Per milioni di persone in Occidente la dieta quotidiana di giornali e di trasmissioni radiotelevisive è indispensabile quanto la tazzina di caffè. Esse ammettono, che diano o non diano alla cosa un'esplicita formulazione, la loro necessità di sapere che cosa si pensa e si fa nel mondo che li circonda. Dove aumenta l'istruzione, le vendite dei giornali s'impennano; dove si mettono a disposizione programmi televisivi, gli apparecchi televisivi si vendono come il pane, senza che per questo diminuisca la vendita degli apparecchi radio. Ma pur senza ridurre la sua assiduità, il lettore - o l'ascoltatore o lo spettatore - mantiene un atteggiamento di virulenta critica nei confronti della dieta di notizie che gli viene ammannita: ora mancano le cose ch'egli vuol sapere; o, se riguardano un settore di sua personale competenza, le informazioni gli sembrano infide; o si trascurano le questioni di importanza duratura a favore di quelle che destano una momentanea sensazione, un altra volta non si dà il dovuto rilievo a un'infinità di lodevoli iniziative; o si lamenta l'indulgere a un compiacimento maligno per le cattive notizie e si deplora l'intromissione nei guai personali e l'eccessiva attenzione prestata alla sfera sessuale; ovvero, infine, si depreca la schiacciante impressione di frivolezza e di Schadenfreude che il giornalismo comunica. Queste accuse costituiscono il ritornello di innumerevoli commenti, pubblici e privati. E si tratta ogni volta di critiche giustificate: esseri umani imperfetti, lasciati liberi come richiede la loro funzione nella società, forniranno un prodotto imperfetto.

In conseguenza, il giornalismo è il campo di battaglia di interessi in conflitto, ognuno dei quali è tentato di esercitare pressioni per ottenere provvedimenti volti a ridurre quelle imperfezioni di cui è più acutamente consapevole. Lettori, ascoltatori e spettatori, proprietari, inserzionisti, i giornalisti stessi, i sindacati, gli operatori del diritto, lo Stato: ogni gruppo o istituzione vuole imporre il proprio modello di riforma, ignorando l'incompatibilità di fondo che esiste tra ogni mutamento unilaterale e quella che è la vera utilità del giornalismo. Se un qualche gruppo particolare la spuntasse e fosse in grado di imporre le proprie predilezioni come dominanti nonché i propri rappresentanti come arbitri, il giornalismo ne risulterebbe sminuito. Dovrebbe adattare i suoi atteggiamenti e le sue scelte in materia di argomenti e di opinioni alle vedute del gruppo in questione, e la sua importanza per il resto della società ne risulterebbe pregiudicata in proporzione appunto del suo adattamento.

2. Il giornalismo e il suo pubblico. Il gusto popolare

Consideriamo anzitutto lettori, ascoltatori e spettatori. In quanto gruppo, essi rappresentano l'uomo medio. Si potrebbe pensare ch'essi siano per così dire i ‛sovrani' dell'intero processo, che ha avuto inizio ed esiste per loro. Ciò non è interamente vero. I giornali di massa nacquero nell'Ottocento perché era disponibile la necessaria tecnologia - le rotative, la ferrovia per una rapida distribuzione - e non già perché esistevano i lettori. I lettori entrarono in gioco più tardi, con la diminuzione dell'analfabetismo e con la prosperità economica. La nascita della radio e della televisione non fu affatto dovuta alla sensazione che vi fosse una nuova classe di persone disposta a essere intrattenuta a casa propria con suoni e immagini; essa ebbe le sue origini nelle scoperte della telegrafia senza fili e dell'elettronica. Erano quindi all'opera sin dall'inizio altri fattori, oltre a quelli rappresentati dai destinatari umani del prodotto.

È giusto dire tuttavia che lettori, ascoltatori e spettatori sono coloro che in definitiva hanno il potere di vita e di morte su un'impresa giornalistica. Essi non possono forse dare la vita, ma possono uccidere. Le normali leggi economiche governano il processo. Se manca un pubblico, o non c'è un pubblico abbastanza vasto da coprire i costi di produzione, alla fine la produzione stessa cesserà.

I sussidi statali, del tipo di quelli adottati in Svezia durante gli anni settanta per certi giornali economicamente non remunerativi, non risolvono il problema. Non c'è ragione per la quale i cittadini che si sono rifiutati di sostenere un giornale come lettori debbano essere soddisfatti di mantenerlo in vita indefinitamente come contribuenti. Neppure nella proprietà statale, d'altra parte, è insito un qualche elisir di lunga vita. Molti servizi radiotelevisivi sono di proprietà statale e sono gestiti da organi dello Stato, e ciò nondimeno non hanno puramente e semplicemente la facoltà di attingere all'erario e d'infischiarsi di un pubblico in declino. In parecchi casi, come in Francia e in Italia, tali servizi gestiti dallo Stato sono stati costretti dai costi di gestione ad accogliere la pubblicità, e le entrate dovute alle inserzioni cadrebbero bruscamente col diminuire del pubblico. Dove un servizio gestito dallo Stato è affiancato da operazioni finanziate dalla pubblicità, la pressione per conservare il pubblico è di natura diversa, ma egualmente forte: se la popolarità del servizio statale declina, declinerà anche il suo reddito. Nei paesi dell'Europa occidentale tale reddito non deriva dall'erario ma dalla riscossione, autorizzata dallo Stato, di canoni la cui entità è anch'essa fissata dallo Stato. Se gli ascoltatori e gli spettatori diminuiscono, nessun governo rischierà l'impopolarità che deriverebbe da un aumento del canone, neppure quando l'inflazione o il progresso tecnologico abbiano fatto lievitare i costi. La British Broadcasting Corporation si è ispirata a questo inespresso convincimento sin da quando la pubblicità radiotelevisiva fu introdotta in Gran Bretagna nel 1955, e i suoi programmi ne hanno portato il segno.

Dal tono di parecchi commenti pubblici, come anche da molte conversazioni private, si potrebbe immaginare che questa pressione esercitata da lettori, ascoltatori e spettatori tenda a orientarsi verso argomenti seri, gravi e importanti. Ma le cose non sono così semplici. Il gusto popolare risulta essere qualcosa di diverso da quello che legislatori e professori amerebbero pensare che fosse. A tutti i livelli d'istruzione e di classe sociale, la grande maggioranza dei lettori, ascoltatori e spettatori vogliono che l'informazione arrivi loro sotto forma di intrattenimento. Le loro menti non accolgono con facilità le idee generali: così come preferiscono che la storia sia raccontata focalizzando l'attenzione sugli attori principali, allo stesso modo esigono che argomenti di attualità riguardanti la politica o la scienza o la religione vengano illustrati attraverso dei personaggi: persone cioè le cui opinioni possano essere considerate come rappresentative dell'uno o dell'altro lato di una questione, o persone le cui vicende pongano d'un colpo un vecchio problema in una luce nuova, sconcertante o divertente. Inoltre, la maggioranza dei lettori e ascoltatori si annoia con facilità. Non si tratta solo del fatto che si preferisce che le notizie importanti siano presentate in contesti relativamente frivoli; si desidera anche che le notizie siano contornate e infarcite di materiali che non abbiano altra pretesa se non quella del puro e semplice intrattenimento. In breve, i loro atteggiamenti mentali differiscono poco da quelli dei giornalisti che provvedono alle loro esigenze; e sarebbe d'altra parte sorprendente se così non fosse, dato che una medesima natura umana opera negli uni e negli altri.

La situazione appare con la massima chiarezza nelle vendite. Non sono i giornali impegnati nell'assidua ricerca della qualità quelli ricompensati con enormi tirature. I giornali e le riviste acquistati in quantità gigantesche giorno per giorno e settimana per settimana sono del genere della ‟Bild-Zeitung" nella Germania occidentale, della ‟France Dimanche" in Francia, dei ‟News of the World" in Gran Bretagna e del ‟National Enquirer" negli Stati Uniti. In questi fogli l'intrattenimento prevale in misura schiacciante sull'informazione, e si tratta di una specie di intrattenimento basato in modo peculiare sulle debolezze della natura umana, soprattutto in materia sessuale. E questo genere di intrattenimento richiama, in maggiore o minor misura, lettori che presentano ogni possibile grado di preparazione. Giornali che si rivolgono a lettori relativamente istruiti e si mantengono economicamente remunerativi in un mercato concorrenziale, come il ‟Daily Telegraph" di Londra, non ritengono di poter fare a meno di ammannire ai loro lettori i soliti piatti.

Riconosciuto questo tratto della natura umana, è cosa degna di nota che esista tanto giornalismo serio quanto ce n'è effettivamente. Il giornalismo avrebbe potuto semplicemente capitolare dinanzi al corso generale delle preferenze umane quali gli si sono presentate, ma non lo ha fatto. La televisione, in particolare, ha aperto milioni di case a nuove idee, a nuove prospettive intellettuali, e ciò su una scala irraggiungibile per i giornali. Ci sono i cicli di ‛gialli', è vero; ma c'è anche il servizio sulla fame nel Terzo Mondo, e tra i materiali connettivi si possono trovare di tanto in tanto l'opera o il balletto, nei quali l'intrattenimento assurge all'altezza dell'arte. Il dovere del giornalismo è certo quello d'informare i suoi lettori, di dir loro ciò che si ritiene importante ch'essi sappiano se vogliono condurre un'esistenza umanamente ragionevole. Ma se questo è il dovere, l'arte del giornalismo consiste nell'assicurarsi che l'informazione sia pienamente comunicata, sia afferrata dai suoi destinatari, e non frettolosamente scorsa e messa da parte con uno sbadiglio. Il giornalismo conduce una lotta incessante contro la distrazione umana: la radio o la televisione ascoltate a metà o spente con un gesto irritato, l'articolo di giornale appena scorso o addirittura saltato. Se in questa lotta si registrano troppe sconfitte, la trasmissione viene relegata nelle ore tarde della sera o cancellata, il giornale declina e scompare: l'alto livello si è rivelato perdente. Per poter sopravvivere nel mondo odierno, il giornalismo dev'essere comunicazione di massa: e per meritare tale qualifica in tutto il suo peso, deve accettare i limiti posti dalle capacità mentali della massa.

3. Il giornalismo e i mutamenti tecnologici

Un ostacolo secondario sorge, per il giornalismo serio, dai mutamenti che sopravvengono nella tecnologia della comunicazione. Per il primo cinquantennio successivo all'avvento della radio negli anni venti, i giornali seri non subirono gravi contraccolpi. La radio non poteva fare ciò che facevano loro; non poteva trattare argomenti che non fossero immediatamente comprensibili; la televisione, poi, non poteva trattare argomenti che non fossero illustrabili mediante immagini. Lo svantaggio più notevole era che i suoni e le immagini della radio e della televisione non erano ‛richiamabili'. Essi si srotolavano in una mobile successione senza fine, simili a treni che sfrecciano dinanzi a un ragazzo che, accanto alle rotaie, collezioni i numeri scritti su di essi; se ne perde uno, non lo recupera mai più. Tutto ciò che l'ascoltatore o lo spettatore non afferrava - per distrazione o per incomprensione - era perduto per sempre.

I giornali di qualità non subirono quindi incursioni nel loro monopolio di quelle informazioni che presentassero un qualsiasi tipo di complessità. Il cittadino che desiderava informarsi sulle quotazioni di borsa o avere risultati particolareggiati di una consultazione elettorale, o il punteggio di una partita di baseball o di cricket, o persino notizie circa i fantini e i cavalli di una corsa ippica - per tacere delle questioni trattate in un dibattito nazionale sulla costruzione di una centrale elettrica o sull'acquisto di un sistema missilistico - non poteva rivolgersi che ai giornali. Ma verso gli anni settanta i programmi radiotelevisivi hanno cominciato ad essere ‛richiamabili'. Il nastro elettromagnetico aveva già reso possibile all'ascoltatore di registrare i programmi radiofonici e di riascoltarli a suo piacimento. Il videotape ha reso lo stesso servizio al telespettatore (purché possa disporre a casa sua della necessaria apparecchiatura). Cosa ancor più importante, progressi nella tecnologia dei cavi hanno reso possibile allo spettatore di richiamare sul proprio teleschermo liste di dati, alla cui ricerca provvedono automaticamente elaboratori nei quali vengono continuamente immessi dati nuovi. Egli può richiamarli quando vuole e per tutto il tempo che desidera. Può cosi studiare i risultati delle partite di calcio quando e come vuole.

L'ambito operativo del principio potrebbe essere esteso al di là delle liste di dati. Sarebbe possibile chiedere all'elaboratore interi articoli o gruppi di articoli: per esempio le ultime notizie sull'Africa, o un'interpretazione aggiornata della politica estera americana, o i lavori recenti del proprio articolista favorito. Se i testi a stampa non risultassero abbastanza leggibili sul teleschermo, si potrebbe escogitare un qualche sistema di stampa in uscita. In teoria sarebbe possibile a ognuno di diventare editore in proprio, trascegliendo qua o là gli elementi con cui comporre il proprio pacco di notizie e commenti. In pratica, la maggior parte della gente troverà conveniente e rassicurante ricorrere, per la scelta delle notizie e dei commenti, a un'organizzazione la cui concezione del mondo sia nota e accettata in precedenza. Oltre a ciò, è difficile credere che le nuove macchine siano in grado di produrre qualcosa che abbia la stessa leggibilità della carta stampata o che, ove anche lo possano, sia possibile mantenerle in buone condizioni di efficienza: una civiltà che incontra tante difficoltà nella manutenzione delle lavatrici domestiche non sembra poter offrire garanzie riguardo a congegni tanto più complicati. Ciò nonostante, la prospettiva è risultata, per i giornali e specialmente per i giornali seri, abbastanza allarmante da indurli a cercare nuove vie per accrescere la loro capacità di richiamo, riducendo i prezzi.

Questo è l'impulso profondo che negli ultimi tre decenni ha promosso l'adozione, da parte dei giornali, di nuove tecnologie della stampa. La pagina stampata non è più ottenuta partendo da righe di piombo, ma mediante procedimenti fotografici. Il processo di stampa è diventato più semplice e, cosa ancor più apprezzata dalle amministrazioni dei giornali, più a buon mercato, giacché è necessario un numero di lavoratori minore che per il passato; il che, d'altra parte, ha creato altri problemi sociali.

Le innovazioni sembravano assicurare, ai giornali seri, ulteriori prospettive di vita. Ma le loro difficoltà di base non ne venivano alleggerite. La concorrenza televisiva si era aggiunta alla rivalità dei giornali popolari, incidendo negativamente sul successo commerciale e quindi sul raggio d'azione e sul vigore intellettuale del giornalismo serio. Né è verosimile che il gusto popolare superi questo nuovo test meglio che nel passato.

4. L'assetto proprietario

Sebbene il gusto popolare sia il principale fattore determinante del contenuto del giornalismo, sarebbe sbagliato concepirlo come l'unico fattore. Anche altri interessi esercitano un'influenza. Quello che si presenta con maggior prontezza alla mente è la proprietà, l'interesse costituito dai singoli e dalle società che hanno la proprietà privata di giornali e di stazioni emittenti. È certo ragionevole attendersi che nella proprietà risieda un poderoso strumento d'influenza: il modo più ovvio di assicurarsi il controllo di una cosa è infatti quello di possederla.

La realtà è un po' diversa. Già il gusto popolare lascia al proprietario un limitato spazio di manovra. Certo, egli è libero di resistervi; ma dire questo non vuoi dire altro che è libero di chiudere. Non è stato lui a creare il gusto popolare, né l'esperienza suggerisce che esso possa subire mutamenti sostanziali. Oltre a ciò, esistono limitazioni dovute alle circostanze.

Per quanto riguarda le emittenti radiofoniche, i proprietari si trovano in un singolare stato di impotenza. In molti paesi non esistono affatto partecipazioni private alla proprietà di emittenti radiofoniche; in tutti i paesi le frequenze sono assegnate dallo Stato. Di frequenze ne esiste un numero finito; pertanto nell'interesse dell'ordine generale occorrono intese, sia nazionali che internazionali, che soltanto lo Stato può garantire. Il potere di concedere le licenze implica il potere di revocarle. Sin dall'inizio, quindi, lo Stato ha potuto imporre alle emittenti certe condizioni, riguardanti le ore di trasmissione, il volume della pubblicità, il modo di trattare argomenti controversi di natura religiosa o politica e cosi via. Il diritto stesso di proprietà è stato assoggettato a restrizioni: persino negli Stati Uniti sono stati posti limiti alla portata del diritto di proprietà di singoli o di imprese in una data località. I proprietari privati di stazioni emittenti sono rimasti liberi di far quattrini, ma libertà più importanti sono loro sfuggite.

I proprietari di giornali, certo, hanno avuto in passato minori limitazioni. Non c'è in teoria alcun limite al numero di giornali che possono coesistere l'uno accanto all'altro. Se sono troppi, alcuni non avranno abbastanza lettori, e le normali leggi del mercato risolveranno il problema mediante chiusure o fusioni. Non occorre che lo Stato intervenga. Agli inizi del giornalismo, soltanto l'iniziativa privata poteva dar vita a un giornale, che non costituiva certo il tipo d'impresa che si poteva pensare idonea a un capitalismo di Stato. I giornali erano anzi considerati come i nemici naturali dello Stato. La pubblicazione che viene comunemente ritenuta il primo giornale americano (‟Public Occurrencés", pubblicato a Boston nel 1690) fu soppressa dopo il primo numero dal Governatore del Massachusetts, che agiva in base a una legge secondo la quale tutte le pubblicazioni erano soggette a licenza. Ma un secolo più tardi queste ordinanze di soppressione furono riconosciute (con il primo emendamento alla Costituzione) contrarie ai principi di libertà. Verso la metà dell'Ottocento leggi del genere cominciarono a decadere, e nella maggior parte dei paesi occidentali i giornali erano effettivamente liberi dal controllo statale. I loro proprietari privati potevano inseguire il proprio profitto nel modo che ritenessero migliore.

In linea di principio, si trattava di un'evoluzione opportuna. La proprietà privata dei giornali (da parte di singoli o di società) era il sistema meno insoddisfacente semplicemente perché non si trattava di una proprietà di Stato.

La proprietà statale era in realtà l'unica alternativa e, se le si fosse consentito di realizzarsi anche solo per una volta, avrebbe raggiunto una posizione di largo predominio, dato che un giornale di proprietà statale avrebbe goduto di vantaggi tali da metterlo in grado di schiacciare i suoi rivali; in tal caso, la classica funzione della stampa - quella cioè di sorveglianza sulle iniziative dello Stato - ne sarebbe risultata svuotata. I proprietari privati, inoltre, potevano in teoria essere di tipo diverso; poteva trattarsi di singoli, di società, di cooperative; potevano collocarsi da un'ala all'altra dello schieramento politico; e sebbene nessuno di essi potesse da solo rivendicare il monopolio della verità, era ragionevole aspettarsi dalla loro diversità la presentazione di un sufficiente numero di aspetti della verità, così da consentire al sincero indagatore di comporre una sintesi attendibile.

In pratica, le difficoltà non mancarono. Gli uomini che fondarono i grandi imperi giornalistici, come W. R. Hearst negli Stati Uniti o Lord Northcliffe in Inghilterra, possedevano un grande fiuto per il mestiere. Essi intuivano d'istinto che cosa la gente volesse leggere e promuovevano i progressi tecnici e commerciali in modo da incrementare le vendite; esercitavano però nell'ambito delle loro organizzazioni un potere autocratico. Se Hearst voleva suscitare in America una risposta isterica alla guerra per Cuba del 1895-1898, o Northcliffe una reazione analoga in Inghilterra verso la prima guerra mondiale, nessuno dei loro dipendenti era in grado di condizionarli.

Eppure questi uomini a poco a poco scomparvero dalla scena. La presa ch'essi avevano sui giornali, e che era sembrata dover durare indefinitamente, andò allentandosi senza quasi necessità di lotta. Negli anni sessanta, A. Springer nella Germania occidentale era il solo sopravvissuto di quella razza. In parte, essi decaddero perché venne meno l'opportunità di accumulare nuove fortune con i giornali: dopo la svolta del secolo, l'espansione dell'istruzione, e quindi di una nuova classe di lettori di giornali, procedeva con un ritmo assai più lento che per il passato. In parte, gli autocrati persero influenza perché ne guadagnarono i loro staffs: l'istruzione dei giornalisti andò gradualmente migliorando, ed essi acquistarono una maggior fiducia in se stessi. La presa dei sindacati su altre classi diverse dalla classe lavoratrice, e quindi anche sui giornalisti, ebbe la sua parte in questo processo. E in parte, infine, i baroni della stampa si estinsero perché il giornale era diventato un affare troppo dispendioso anche per le maggiori fortune private.

Quest'ultima considerazione è la più rilevante. In un'industria ad alta intensità di manodopera i salari reali hanno continuato a crescere. I costi dell'energia sono aumentati a un tasso di gran lunga maggiore del tasso d'inflazione. Ma è stato soprattutto il prezzo della carta da giornali, fabbricata con la pasta di legno, ad aumentare senza posa; e da quando la maggioranza dei paesi dell'Europa occidentale si sono visti costretti a importarla, specialmente dal Canada e dalla Finlandia, le conseguenze si sono rivelate particolarmente pesanti per i giornali di paesi con valute deboli (Italia, Francia, Inghilterra). Oltre a ciò, il profitto si è ridotto in seguito alle continue vertenze dovute alla tensione dei lavoratori in tempi di contrazione dell'occupazione, fenomeno che le nuove tecnologie minacciavano di rendere particolarmente grave nel settore della stampa. D'altra parte, le fortune ereditarie si riducevano per opera di sempre più pesanti imposte di successione.

Il risultato di tutti questi fattori è stato di costringere le società a cercare altre fonti di finanziamento. In alcuni casi si è fatto ricorso a fusioni, sfociate nella costituzione dei grandi gruppi esistenti nel campo delle comunicazioni negli Stati Uniti; in altri casi, si è provveduto a diversificare le attività; in altri casi ancora, si sono strette alleanze con vari altri gruppi, come Havas in Francia. Inoltre, hanno fatto la loro comparsa i potenti del petrolio. Attraverso la Fiat, il governo libico ha investito una piccola quota della sua ricchezza petrolifera nella ‟Stampa" di Torino; la società petrolifera americana Atlantic Richfield ha acquisito il controllo dell'‟Observer" di Londra.

Quella dei giornali è sempre stata un'organizzazione capitalistica, nel senso che una certa quantità di capitale era necessaria per gli edifici, gli impianti, i trasporti e per garantire il pagamento dei salari. Ma queste organizzazioni capitalistiche erano anche, per lo più, imprese familiari, nelle quali era cosa abituale la consapevolezza, ereditata direttamente, dei limiti oltre i quali l'indipendenza editoriale non poteva essere oggetto di compromessi o di mercanteggiamenti. Il nuovo assetto proprietario accrebbe i timori che i giornali non potessero evitare di mostrare sempre maggior simpatia verso i punti di vista dei capitalisti e del governo, e quindi il timore che gli interessi del big business in generale e quelli delle compagnie petrolifere in particolare prevalessero sugli interessi dei poveri e dei diseredati e che, nella disputa senza fine tra libertà e ordine, i giornali si sbilanciassero dal lato dell'ordine, e infine il timore che questa fosse la direzione nella quale, se lasciato a se stesso, l'interesse dei proprietari avrebbe trascinato il giornalismo. La minaccia, in verità, era più potenziale che reale. Da un lato, l'influenza dei proprietari sui loro giornalisti si era fortemente ridotta; dall'altro, una diversa specie di proprietari poteva stabilire nuovi imperativi societari, ai quali i giornalisti difficilmente avrebbero potuto opporre resistenza.

Questo era il vero problema riguardo ai mutamenti dell'assetto proprietario dei giornali. In parte, il problema poteva forse essere affrontato facendo partecipare alla proprietà i sindacati e i partiti politici della sinistra; nei paesi in cui la tradizione di legami finanziari tra partiti e giornali era da lungo tempo estinta (Germania occidentale, Francia, Gran Bretagna) l'attenzione si rivolgeva verso quei paesi in cui questa tradizione era ancora vitale (Austria, Paesi scandinavi, Belgio, Olanda). Non si trattava comunque di una soluzione soddisfacente: il numero dei gruppi organizzati sarebbe stato sempre inferiore al numero dei punti di vista che esigono legittimamente di essere pubblicizzati; l'altro versante della soluzione doveva quindi consistere nel ridurre i costi dei giornali così da consentire l'accesso alla proprietà da parte di un più vasto arco di persone, alcune delle quali suscettibili di rappresentare posizioni non capitalistiche. In questa linea, le speranze più consistenti si basano sulle nuove tecnologie di stampa. Se esse non riuscissero in questo compito, ma ottenessero il solo risultato di alleviare gli imbarazzi finanziari delle società editoriali esistenti - allora vorrebbe dire che il loro potenziale non è stato sfruttato a dovere.

5. Il giornalismo e la pubblicità. I sussidi statali

Alcune delle inquietudini avvertite nei confronti dei giornali con assetto proprietario capitalistico si riallacciano in particolare al grande lubrificante del sistema capitalistico: la pubblicità. Nei giornali popolari, deriva dalla pubblicità la metà delle entrate globali, nei fogli di qualità i tre quarti, e in molte delle società radiotelevisive l'intero ammontare. Ora, gli obiettivi della pubblicità non sono gli stessi del giornalismo, dato che tendono alla persuasione piuttosto che all'informazione.

Le inserzioni pubblicitarie sono state un elemento importante della vita dei giornali sin dai primi tempi. Attraverso i giornali, la pubblicità poteva raggiungere un pubblico più vasto e predeterminabile con precisione assai maggiore di quanto fosse possibile a un qualsiasi imprenditore con i suoi mezzi personali. Questo pubblico crebbe enormemente verso la fine dell'Ottocento; il miglioramento dei sistemi di produzione e di distribuzione aveva reso i giornali facilmente accessibili, e una nuova classe di recente istruzione era pronta ad acquistarli. Con i redditi così conseguiti, i giornali poterono migliorarsi aumentando le loro attrattive, con il risultato che le vendite aumentarono ulteriormente. I giornali diventarono in tal modo ancora più interessanti agli occhi degli inserzionisti, e così il ciclo continuò. Il ciclo non era però reversibile. Una volta che le entrate pubblicitarie avessero acquisito un'importanza centrale per il sistema, diventava impossibile rinunciarvi. La dipendenza dalla pubblicità era particolarmente forte nel caso dei giornali di qualità, dato l'alto costo dei loro servizi: mantenimento di corrispondenti all'estero, relazioni di esperti su molte questioni, e così via.

La radio, quando arrivò, era in grado di fornire agli uomini d'affari un pubblico ancora più vasto, non essendo condizionata né dall'istruzione delle masse né dalla rete ferroviaria; e la ragione per la quale le stazioni trasmittenti si sentivano imperiosamente costrette a ricorrere a questo mezzo di finanziamento era che, mentre i giornali si potevano vendere facilmente, lo stesso non poteva dirsi dei programmi radiofonici. La riscossione di una royalty sulla vendita di apparecchi riceventi (il sistema con il quale cominciò l'antenata della British Broadcasting Company) non poteva, dopo lo slancio iniziale, fornire un reddito costante; i dispositivi del tipo ‛moneta nell'apparecchio' erano troppo poco pratici per essere usati su larga scala; i canoni d'abbonamento (la soluzione generalmente adottata) potevano essere facilmente evasi. Le entrate pubblicitarie, invece, erano facili da riscuotere. Negli Stati Uniti altri mezzi di finanziamento non furono neppure presi in considerazione.

I vantaggi della pubblicità erano evidenti. La sua utilità si esplicava sul piano sociale come su quello economico. Le inserzioni sui giornali mettevano i privati cittadini in condizione di trovare un lavoro o di vendere dei beni. La pubblicità consentiva alle società di rendere pubblici i propri risultati e agli enti di beneficenza di richiedere contributi. Gli annunci radiotelevisivi aiutavano gli acquirenti a informarsi sulle novità o sulle merci a buon mercato, e i cittadini a prendere conoscenza di nuovi provvedimenti o di esortazioni da parte del governo.

Fu la diversità degli obiettivi a creare la tensione. L'intento del giornalismo era di informare, di intrattenere, e soltanto in via accessoria di persuadere. L'intento della pubblicità è principalmente di persuadere, e talvolta attraverso l'appello ai meno nobili tra i moventi dell'agire umano. Sussiste quindi una notevole incompatibilità tra i due obiettivi. L'aspirazione del giornalismo a dire la verità può finire col trovarsi in un'imbarazzante compagnia. Se gli interessi della pubblicità dovessero diventare decisivi, la loro tendenza sarebbe logicamente quella di costringere i giornalisti a eliminare o a modificare ciò che sanno essere in contrasto con gli interessi degli inserzionisti; e gli inserzionisti dal canto loro potrebbero acquisire il potere di imporre siffatte alterazioni basandosi sull'indispensabilità del loro apporto finanziario.

Casi in cui ciò è accaduto non sono facili da rintracciare, mentre i casi in cui i giornalisti hanno allegramente danneggiato i loro inserzionisti sono assai numerosi. Non sono mancate, né sulla stampa né nei programmi radiotelevisivi, relazioni sul potere cancerogeno delle sigarette, sull'eventuale non affidabilità di linee aeree, sulle pratiche disoneste di istituzioni finanziarie, e ciò anche quando erano in gioco interessi pubblicitari. Il volume della pubblicità è troppo grande, mentre in proporzione troppo piccolo è l'influsso dei singoli inserzionisti o di gruppi di inserzionisti perché sia loro possibile esercitare un reale potere. Rimane però il fatto che si continuano a fare inserzioni per sigarette, e che in esse si cerca di sfruttare la credibilità di un giornale o di un'emittente radiotelevisiva per insinuare l'idea che fumare vuol dire dar prova di sano buon senso; e in generale ogni sorta di tentativi vengono compiuti dagli inserzionisti per appropriarsi dell'autorità dei media da loro adoperati. I giornali e le organizzazioni radiotelevisive non sempre hanno successo nel resistere a tali tentativi. Le inserzioni sono talora composte con gli stessi caratteri del resto del giornale; e in certi casi vengono presentate in televisione da attori che compaiono di solito in programmi non pubblicitari. In altri casi ancora, i giornali spalleggiano attivamente il processo: fiutando una fonte non sfruttata di pubblicità, essi forniscono - nel contesto di supplementi pubblicitari o di pezzi sul vestiario o sui viaggi o sui vini - indicazioni verbali che altro intento non hanno se non quello di attirare l'occhio del lettore sulle inserzioni. Questo tipo di corruzione, pur non essendo grave, richiede però una vigilanza preventiva sia da parte dei giornalisti che da parte dei lettori o spettatori.

Come fonte di finanziamento, la pubblicità presenta altri inconvenienti. Quelle per la pubblicità sono le prime spese che una società taglierà in caso di congiuntura difficile. Di conseguenza, i giornali e le organizzazioni radiotelevisive sono tra i primi a subire una caduta delle entrate durante una recessione, e gli ultimi a uscirne. Oltre a ciò, il finanziamento della pubblicità premia il successo e punisce l'insuccesso. Dinanzi a due giornali o a due emittenti radiotelevisive che si rivolgono allo stesso tipo di pubblico, l'inserzionista sceglierà quello che raggiunge il maggior numero di persone; a quello di minor successo saranno negati i mezzi per migliorare i suoi prodotti, i suoi lettori o spettatori diminuiranno ulteriormente e finirà con l'essere estromesso dal mercato.

In parte, questo è perfettamente corretto: le risorse sono affidate a coloro che hanno dimostrato di saperle adoperare. La difficoltà sorge dal fatto che l'insuccesso così punito può anche non apparire, a una considerazione più adeguata, come un insuccesso su tutti i piani. Può trattarsi di nient'altro che del rifiuto di venire incontro al gusto popolare nei suoi aspetti più rozzi; può derivare dall'aver conferito agli affari esteri o alle scienze l'importanza loro dovuta, un'importanza che i lettori possono tuttavia considerare eccessiva. E l'effetto dell'abbandono del lettore sarà moltiplicato dalla defezione degli inserzionisti.

Questo problema ha riguardato in particolare i giornali. Le emittenti radiotelevisive si sono trovate nella condizione di godere di un monopolio locale o comunque non hanno avvertito la tentazione di imbandire al pubblico piatti suscettibili di procurare impopolarità. Ci sono stati perciò una quantità di tentativi volti a correggere questo sciagurato effetto moltiplicatore delle inserzioni per quanto riguarda i giornali. Le entrate pubblicitarie possono essere limitate artificialmente. Questo risultato si potrebbe ottenere ponendo un limite alla quota di spazio da dedicare alle inserzioni: regole del genere, dopo tutto, sono già applicate alle emissioni radiotelevisive; oppure si potrebbe raggiungere lo stesso scopo tassando le entrate pubblicitarie al di sopra di una certa cifra. L'intento di entrambe le manovre è quello di restringere il vantaggio del successo rispetto all'insuccesso. Tutti e due gli espedienti darebbero però allo Stato un nuovo potere sui giornali, e un potere che risulterebbe particolarmente efficace contro i giornali più inclini a criticare lo Stato: i giornali seri, con pesanti costi redazionali, e quindi costretti a contare in larga misura sulle entrate pubblicitarie; e inoltre cadrebbe il reddito dell'intero settore della stampa e con esso scemerebbe la capacità di fare un buon lavoro.

Un altro metodo talvolta preso in considerazione è quello che prevede una ripartizione delle entrate pubblicitarie. Anch'esso richiederebbe però l'intervento del potere statale, giacché nessuno procederebbe volontariamente alla ripartizione. Questo sistema darebbe allo Stato una presa ancora più diretta sull'attività giornalistica. Sarebbe infatti un organo dello Stato a decidere quali organizzazioni dovrebbero adottare il metodo della ripartizione e quali no; ora, una simile funzione assai difficilmente potrebbe essere svolta senza esercitare una censura morale o politica. Si dovrebbe, per esempio, includere i giornali underground, giornali deliberatamente sovversivi dell'ordine sociale stabilito? Il sistema diminuirebbe inoltre le entrate globali, giacché le nuove organizzazioni non metterebbero negli sforzi per procurarsi pubblicità per il fondo comune il medesimo impegno che metterebbero se si trattasse di assicurare pubblicità solo per se stessi. Un terzo sistema consiste nel ridurre l'importanza delle entrate pubblicitarie mediante l'introduzione di una nuova fonte di entrate: il sussidio statale.

Nella maggioranza dei paesi occidentali è operante una qualche forma di sussidi per i giornali, magari soltanto sotto la forma di franchige postali o del condono di certe imposte, e in molti casi queste concessioni sono stabilite da così lungo tempo che sia agli occhi dello Stato che dei giornali perdono la loro natura di sussidi e non esercitano più alcun influsso percettibile sul comportamento di politici e giornalisti. In certi paesi si è andati molto più avanti. Il caso più notevole è stato rappresentato dalla Svezia, che sin dall'inizio degli anni settanta ha speso per i giornali somme considerevolissime in prestiti statali, sussidi per la produzione, aiuto per lo sviluppo, incentivi per un pool della distribuzione e altri provvedimenti ancora. Il risultato è stato di garantire la temporanea sopravvivenza di un certo numero di giornali, ciascuno dei quali stagnava in posizione subordinata nel proprio specifico mercato e che il digiuno di pubblicità avrebbe altrimenti liquidato.

Il meccanismo svedese prevedeva il pagamento delle somme dietro l'approvazione dei principali partiti politici; in tal modo rimaneva escluso il pericolo più ovvio, e cioè la manipolazione di un siffatto congegno da parte del partito al potere. Rimaneva tuttavia il fatto che vasti settori della stampa sopravvivevano grazie allo Stato e si sentivano quindi indotti a sperare che almeno alcuni aspetti della politica dello Stato non sarebbero mai cambiati; inoltre, sfumature d'opinione non rappresentate, a una certa data, da nessuno dei partiti politici principali rimanevano prive di sussidi; e infine i costi complessivi per il contribuente svedese sono così ingenti che non ci può essere alcuna garanzia di una continuazione indefinita del sistema. La pubblicità non è una fonte ideale di finanziamento, è vero; ma in un'epoca di produzione di massa sia di beni che di giornali e di messaggi radiotelevisivi, la pubblicità era necessariamente destinata ad assumere un ruolo importante; non solo, ma una volta che si fosse affermata, non c'era alcuna possibilità di tornare indietro verso un passato immaginario nel quale il lettore o l'ascoltatore o lo spettatore pagavano l'intero costo del servizio ricevuto. È questo un problema che il Novecento non ha saputo risolvere. Se l'unica altra risorsa possibile è il finanziamento statale, i giornalisti hanno avuto ragione a preferire il sistema esistente.

6. Il ‛nuovo giornalismo' e le scuole universitarie di giornalismo

Con questo non si vuol dire che i giornalisti siano in possesso di una qualche particolare accortezza che sfugge allo Stato. Una simile pretesa sarebbe assurda. La pubblica amministrazione ha avuto in genere la possibilità di scegliere il meglio dei talenti della nazione; il giornalismo ha invece dovuto fare la sua scelta in mezzo a un'altra dozzina di professioni. Il giornalista professionista è assai poco diverso dai suoi lettori e spettatori: come potrebbe altrimenti soddisfare così bene i loro ‛veri' desideri, distinguendoli da quelli immaginari? Il giornalista è l'homme moyen sensuel, se pur ve n'è uno: ignorante e ostinato, privo d'immaginazione ed egoista, con l'unica differenza che può riversare sul pubblico le sue debolezze.

Alla desolante situazione del giornalismo si può reagire in due modi: l'uno consiste nel riconoscerla, e magari farne una virtù; l'altro nel tentare di riformarla, sino al punto di cancellarla. Entrambi i modi hanno i loro pregi, ed entrambi hanno avuto i loro sostenitori negli Stati Uniti.

Dalla prima reazione è scaturito un movimento divenuto noto negli anni sessanta negli Stati Uniti col nome di ‛nuovo giornalismo'. Svariate le sue manifestazioni: cronache descrittive che ricorrono alle tecniche narrative; un giornalismo che dà espressione alle opinioni di una ‛controcultura' almeno in certa misura distante dalla società convenzionale; critica pubblica particolareggiata del lavoro di altri giornalisti; impegno intrepido per un giornalismo che si adoperi non tanto a descrivere i fatti quanto a cambiarli. L'elemento unificante era però il tentativo di riversare sulla pagina stampata, in misura maggiore di quanto le regole tradizionali della professione avessero sino allora consentito, l'energia e il timbro peculiari delle idee dei singoli scrittori. In larga misura, il movimento era una risposta al fatto che i giornalisti si ritrovavano a vivere in un epoca dominata dai media visivi: la televisione era diventata un fenomeno di massa in tutto il mondo occidentale; una gran quantità di gente sembrava meno incline alla lettura che per il passato; l'insegnamento veniva impartito ai giovani attraverso le immagini - e attraverso suoni creatori di immagini per l'‛occhio interno' - piuttosto che attraverso i libri. Cercando di mantenere la propria posizione in un mondo che cambiava, i giornalisti si sentivano spinti a escogitare un metodo di comunicazione che fosse corrispondentemente ricco di immagini e di atmosfera. In parte, il nuovo giornalismo era anche il frutto del salutare riconoscimento che la verità oggettiva, il vecchio obiettivo dei modelli tradizionali di giornalismo, è inattingibile. Nessun singolo paio d'occhi può osservare tutte le circostanze che intervengono in una data situazione; nessuna singola mente umana può essere consapevole di tutti i fattori presenti nè può esplicitarli senza un certo grado di distorsione. Taluni professionisti del nuovo giornalismo sostenevano quindi che la cosa onesta, modesta e utile da fare era di presentare apertamente al lettore i propri ‛pregiudizi', man mano che si procedeva nel lavoro. Il lettore si sarebbe fatto così un quadro delle idee dell'autore e, ponendole accanto alle sue osservazioni, avrebbe potuto operare gli opportuni raffronti.

Era questa un'indicazione della direzione nella quale, se ne avessero avuto un controllo incontrastato, i giornalisti stessi, in quanto gruppo all'interno del più vasto mondo della stampa, tendevano a indirizzare l'attività giornalistica. Ma era anche il sintomo di una debolezza che, endemica nell'intero movimento, lo avrebbe infine fatto naufragare: l'autoindulgenza. Il fatto che sia difficile attingere la verità non esenta il giornalista dall'avvicinarvisi quanto più gli è possibile. In tutte le forme di attività creativa, soltanto gli elementi molto dotati possono infrangere le regole e sopravvivere. Troppi nel nuovo giornalismo hanno infranto le regole perché infrangerle era più facile che rispettarle; e dove mancavano gli autentici talenti, il sistema si è limitato a instaurare convenzioni ancora più capricciose di quelle che venivano rifiutate, dando così origine a un vieto manierismo.

Più tipicamente americano - nella sua serietà morale - e più largamente diffuso fu lo sforzo di segno opposto: il tentativo cioè di affrontare le deficienze dei giornalisti non già accettandole, ma eliminandole attraverso la formazione. Durante l'era di Nixon, nel momento in cui il lungo processo di espansione di tutti i settori del mondo universitario americano giungeva a una fine brusca e dolorosa, una materia esercitava invece un potente richiamo attirando nuovi docenti e nuovi studenti: il giornalismo. Il fenomeno aveva svariate cause. Innanzitutto, esso era dovuto alla sempre maggiore professionalizzazione della formazione impartita nelle università americane e all'avvento della televisione, che aveva reso più allettante il giornalismo come scelta professionale, e poi anche al fatto che i giovani ambiziosi speravano, munendosi di una qualifica accademica, di avvantaggiarsi sui loro coetanei. Esso nasceva però anche dalla consapevolezza del paradosso centrale del giornalismo - la sua importanza e nel contempo la sua inevitabile imperfezione - e dalla conclusione prettamente idealistica che bisognasse adoperarsi per attenuare tale imperfezione.

Non fu esattamente questo il risultato del movimento. Gli aspiranti giornalisti, che una volta avrebbero speso i loro anni universitari nello studio della letteratura, della storia o del diritto, sviluppando e ampliando in tal modo la loro mente, si ritrovavano ora a imparare come si impagina o come si corregge una bozza, o come si spremono dati dagli uffici municipali. Queste capacità si dimostravano certo utili quando il giovane giornalista entrava in un giornale o in un'azienda radiotelevisiva; egli le avrebbe però apprese comunque sul lavoro, e anzi meglio, dato che suoi maestri sarebbero stati giornalisti le cui tecniche si aggiornavano continuamente per tenere il passo con i mutamenti nella tecnologia e nel diritto (mentre l'esperienza di molti docenti universitari diminuiva progressivamente di valore, essendosi arrestata al momento in cui avevano cessato di praticare la professione giornalistica per insegnarla).

Le università non erano poi, in ogni caso, il luogo adatto per imparare a scrivere. Sino alla metà del nostro secolo le forme tradizionali di apprendimento davano alla capacità di presentare in modo adeguato le proprie conoscenze altrettanta importanza che allo zelo nell'accrescerle; ma una volta dato il primo posto all'acquisizione di conoscenze, il tradizionale tirocinio stilistico è stato trascurato. Ne è seguito che la prosa appresa nelle università ha cominciato a mostrare proprio quelle caratteristiche di cui il giornalismo aveva meno bisogno. Era assai più probabile che il giovane giornalista imparasse a scrivere bene e con chiarezza da un direttore piuttosto che da un professore.

Il risultato fu di dissipare gli anni universitari nello studio di qualcosa che non era, fondamentalmente, una materia universitaria, e di produrre una generazione di giornalisti meno colti che in passato, proprio quando la crescente importanza del loro lavoro richiedeva una maggiore cultura, sia specialistica che generale. C'era un bisogno crescente di conoscenze specialistiche, in particolare nelle discipline scientifiche, che consentissero ai giornalisti di orientarsi in mezzo alla massa di informazioni tecniche prodotte dal mondo moderno. Ma c'era anche bisogno della qualità opposta, della capacità cioè di vedere l'insieme anziché soltanto le parti, e di valutare quale importanza si dovesse attribuire ai vari argomenti speciali. Sia l'una che l'altra non erano merci che si potessero acquistare nelle università, ma il guaio era che i giovani giornalisti formatisi nelle università correvano il rischio di non imbattersi mai nel loro cammino nè nelle conoscenze specialistiche nè nella capacità di valutazione globale.

Gli studi di giornalismo avevano i loro lati utili. I docenti che insegnavano giornalismo hanno fatto una gran quantità di lavoro di ricerca. Non tutto questo lavoro era illuminante: una parte eccessiva era improntata a un sociologismo deterministico, suggerendo che dai giornalisti altro non ci si potesse aspettare se non che si comportassero in questo o quel modo a seconda del loro retroterra culturale; si finiva così col negare importanza al desiderio umano di migliorarsi e di bene operare. Ma nei casi in cui i ricercatori accademici analizzavano l'effettivo contenuto dei giornali e dei programmi radiotelevisivi ponendo con l'evidenza dei fatti i giornalisti dinanzi alle loro manchevolezze - riguardo per esempio agli argomenti o alle fonti d'informazione da essi trascurati - il loro lavoro aveva un'indubbia utilità.

Nell'Europa occidentale, dove la formazione universitaria aveva sempre avuto un più netto orientamento non professionale, gli studi universitari di giornalismo furono più lenti a imporsi e attirarono un minor numero di giovani che negli Stati Uniti. Ma anche fra i giornalisti europei c'era la stessa esigenza di una maggiore istruzione; e dato che la somma delle umane conoscenze si accresce ogni anno a ritmo esponenziale, il vecchio concetto europeo di una formazione generale umanistica andava diventando sempre più obsoleto. Il problema era quello di mettere il giornalista - come in verità qualsiasi professionista - in grado di acquisire quelle conoscenze di cui avrebbe avuto bisogno nella sua vita professionale: non però conoscenze ‛professionali', bensì conoscenze attinenti agli argomenti intorno ai quali era probabile si sarebbe trovato a scrivere. I giornalisti che hanno scritto per esempio sui conflitti - tipici del nostro tempo noti come ‛guerre di decolonizzazione', si sono ritrovati deplorevolmente ignoranti circa la storia della precedente fase coloniale. Le reminiscenze delle letture scolastiche non bastano, e d'altra parte gli argomenti su cui ci si può trovare a scrivere esulano spesso dalla formazione scolastica. Ciò che occorre è un sistema che consenta ai giornalisti sulla trentina, ancor giovani ma già con una specializzazione ben delineata, di tornare all'università per dei corsi annuali. Questa sembra essere, in Europa, una direzione in cui i giornalisti potrebbero continuare a sviluppare utilmente la propria formazione.

7. Il giornalismo e i sindacati

Tra tutti coloro che fanno il giornalismo, i giornalisti stessi sono rimasti la categoria più importante. Sono loro a plasmare le parole che verranno lette o ascoltate; essi sono per così dire i maestri della cerimonia principale, ma non sono soli. La complessità delle moderne comunicazioni di massa implica il coinvolgimento di una gran quantità e varietà di lavoratori: quelli che tagliano e montano le immagini televisive, quelli che sorvegliano l'itinerario dei messaggi trasmessi dalla radio o dalla televisione, e così via. La natura del lavoro richiede spesso nel personale doti di intelligenza e di disciplina; ed essendo la stampa un'attività di vecchia data, molti dei mestieri con essa connessi hanno alle spalle una lunga storia sindacale.

Man mano che ci si inoltra nel Novecento, i sindacati come forza sociale acquistano nello Stato un'importanza sempre maggiore. Una volta considerati fuori della legge, sono oggi consultati sulle questioni centrali della politica nazionale. In parecchi paesi europei hanno cominciato, dopo la seconda guerra mondiale, a svolgere un ruolo nella gestione dell'industria. Per tutte queste ragioni era naturale attendersi dai sindacati e dai loro membri un contributo alla gestione amministrativa e alle decisioni editoriali delle aziende giornalistiche e radiotelevisive.

In parte, questo interesse dei sindacati ha trovato espressione nell'acquisto della proprietà. In Gran Bretagna il Trades Union Congress divenne, nel 1922, proprietario di un giornale, il ‟Daily Herald". Il caso si è ripetuto altrove. Ma i sindacati, in quanto proprietari, s'imbatterono presto in una circostanza spiacevole: non si poteva cioè fare assegnamento sul fatto che i membri dei sindacati comprassero e leggessero i giornali di proprietà sindacale. Quella della stampa seria di sinistra è una storia amara. La lettura di giornali seri esige istruzione, e l'istruzione non è per lo più un fattore che spinga al radicalismo politico, cosicché è improbabile che i lettori istruiti si rivolgano a fogli di sinistra. Il TUC fu costretto a vendere la partecipazione di controllo dell'‟Herald" a un editore commerciale, e negli anni sessanta il giornale cessò le pubblicazioni. Questa successione di eventi è riscontrabile anche altrove.

Può darsi che i sindacati siano stati troppo frettolosi. Nel corso degli anni sessanta i loro membri hanno incessantemente ridotto, sotto il profilo della ricchezza personale, il fossato che li separava dai ceti professionali. Essi hanno denaro da spendere; ed è possibile che un eventuale giornale di proprietà sindacale si accorga di poter contare su entrate pubblicitarie assai, più sostanziose che in passato. Rimane poi il fatto che le opinioni di sinistra sono tuttora insufficientemente rappresentate sui giornali. È questa una lacuna da colmare, ma i sindacati sono stati dissuasi dal farlo.

I sindacati sono invece andati in cerca di altri sistemi con i quali far arrivare sui giornali le loro opinioni sui problemi nazionali. Essi avevano un'altra arma: lo sciopero e, tradizionalmente, non hanno esitato a farne uso nel settore della stampa. Già nel lontano 1786 ci fu uno sciopero contro il proprietario del ‟Times" di Londra, più di un secolo prima che l'attività sindacale fosse giuridicamente riconosciuta in Gran Bretagna. Si trattò di uno sciopero contro l'assunzione di un altro apprendista; e d'allora in poi l'azione sindacale è stata in massima parte diretta - non senza ottenere un discreto successo - alla protezione dell'occupazione e dei salari. Col tempo, i lavoratori poligrafici dovevano però rendersi conto di essere in grado, per la loro posizione, di influenzare sia la politica editoriale che quella commerciale del loro datore di lavoro: se disapprovavano il contenuto di uno scritto, potevano fermare le macchine. È un'arma di cui nel Novecento si è fatto spesso uso.

Lo sciopero generale del 1926 in Gran Bretagna ebbe inizio con il rifiuto dei tipografi del ‟Daily Mail" di stampare un annuncio del governo (un appello al lavoro volontario). Casi del genere sono diventati comuni, fuori della Gran Bretagna, solo all'inizio degli anni settanta; in genere, l'obiettivo è stato quello di garantire un'informazione ‛simpatetica' sulle questioni che agitano il mondo del lavoro, e in particolare su quei conflitti di cui i poligrafici in sciopero hanno una conoscenza diretta. In qualche raro caso c'è stato però il tentativo, da parte dei sindacati, di spingere anche l'informazione su argomenti di tutt'altra natura verso la corrente ortodossia di sinistra; ed è questa, evidentemente, la linea lungo la quale un giornalismo dominato dai sindacati si muoverebbe. I sindacati televisivi hanno avuto talvolta successo nell'impedire alle loro aziende di fare film in paesi governati da regimi illiberali di destra, e i sindacati giornalistici, nelle cui file militano anche lavoratori della stampa e della radiotelevisione, hanno assunto posizioni analoghe. Essi hanno cominciato a perseguire una duplice identificazione con la classe operaia: non più una semplice simpatia, ma l'impegno a sposarne gli atteggiamenti e le rivendicazioni, e a guardare la società attraverso le sue lenti. A mano a mano che l'iscrizione al sindacato ha acquistato importanza, i giornalisti hanno cominciato a temere di non poter più trovare lavoro senza affiliazione sindacale, e hanno quindi sempre più avvertito la necessità di allinearsi.

Ma i sindacati sono rimasti impastoiati dalle loro stesse origini. Non hanno saputo svincolarsi dal loro primo orientamento, che era quello di battersi per gli aumenti salariali e il miglioramento delle condizioni di lavoro. Questo era stato una volta un compito vitale, e l'organizzazione del lavoro si è dimostrata una delle grandi forze liberatrici del sec. XX. Fuori dell'Occidente industrializzato c'è ancora molto da fare in questa direzione, ma in Occidente, nell'ultimo venticinquennio, queste battaglie sono state in gran parte vinte. Le differenze salariali tra poveri e ricchi si sono già ridotte al punto che molti lavoratori ritengono insufficiente il margine esistente tra loro stessi e i colleghi meno qualificati. Senonché le battaglie salariali erano le sole che i sindacati sapessero combattere. Essi non erano attrezzati per indirizzare le proprie energie verso problemi più urgenti, come per esempio i cattivi risultati della politica scolastica o di quella dell'edilizia popolare. Potevano emanare denunce, ma non disponevano del personale e degli esperti necessari per l'elaborazione di linee d'azione alternative. Ancor meno hanno trovato agevole esportare il proprio altruismo e intervenire in modo incisivo a favore dei lavoratori, che versano in condizioni di reale miseria, dei paesi in via di sviluppo. Il meglio che potessero offrire era una nobile noncuranza.

Così i sindacati hanno continuato la loro politica di egoistico benessere materiale, politica che, nel giornalismo, è anacronistica e disastrosa. Il giornalismo abbisogna nelle sue maestranze - e spesso l'ottiene - della convinzione che l'obiettivo principale è quello di fare un buon lavoro, mentre i sindacati lottano per promuovere l'idea che l'unico obiettivo è il guadagno. Specialmente nei quotidiani questa impostazione è non soltanto scarsamente incisiva ma autolesionista. I quotidiani non sono, nell'opinione della maggior parte dei lettori, una necessità vitale; la domanda non è indefinitamente elastica; continui rialzi di prezzo possono far cadere le vendite sino al punto in cui un giornale diventa troppo poco remunerativo per essere mantenuto in vita. L'attività sindacale, ove avesse l'unico e costante effetto di elevare i salari dei suoi iscritti, potrebbe quindi provocare la morte dell'azienda che paga i salari. I salari non sono il solo elemento dei costi di un quotidiano, ma ne sono il principale; e gli aumenti salariali sono stati la causa più importante della riduzione, nel corso degli anni sessanta, del numero dei quotidiani di New York da otto a tre.

Oltre a ciò, nella misura in cui i sindacati sono riusciti a creare nei loro iscritti un'omogeneità di idee, sono andati direttamente contro i veri interessi della stampa, il cui stato di salute dipende dal rispecchiare una gamma di idee la più ampia possibile. La stampa ideale è quella in cui tutte le sfumature di opinione, compatibilmente con la legge, trovano pronta espressione. È una condizione difficile da determinare, e nulla nella storia del movimento sindacale suggerisce che un aumento del potere dei sindacati darebbe luogo a una situazione del genere. D'altra parte, nell'ultimo venticinquennio non sono mancati i segni indi- canti che il potere dei sindacati va aumentando e, se non si vuole che se ne faccia cattivo uso, i sindacati debbono riflettere seriamente a come servire nel miglior modo possibile la società nel suo insieme, e non soltanto quel particolare settore costituito dai loro iscritti. Altrimenti potrebbe loro accadere di danneggiare gravemente sia l'una che gli altri.

8. Il giornalismo e la legge

I cittadini non sono impotenti quando qualcuno, per esempio un sindacato, prende nelle sue mani un potere ecces sivo. Si può fare appello alla legge. La libertà di stampa può essere oggetto di definizione giuridica; è possibile codificare le sue infrazioni e fissare pene adeguate. E la legge può esser fatta valere non soltanto contro organi dello Stato ma contro lo Stato stesso. In genere, è il governo in carica quello che ha più da guadagnare da limitazioni della libertà di stampa, e sono stati infatti i governi in carica a rendersene quasi sempre colpevoli.

Ma ciononostante la legge non è un'arma difensiva del tutto soddisfacente. Come molti governi hanno scoperto nel corso di un secolo in cui la crescente attività dello Stato ha implicato una legislazione di portata sempre più vasta, l'esistenza di una legge non è una garanzia che la legge stessa sia osservata. Se la legge è trasgredita da troppe persone perché sia possibile punirle tutte, essa cade dapprima in discredito e quindi in disuso. I sindacati, radunando grandi masse di persone, si trovano in condizioni particolarmente adatte - se lo vogliono - per far subire a una legge un simile destino.

Cosa ancor più rilevante, la legge non può conferire una libertà incondizionata. Se la stampa dev'essere libera per legge, allora ci dev'essere una definizione che indichi a chi, individuo o istituzione, sia riservato il godimento di questa libertà. Ora, tale definizione può essere messa in opera soltanto da un organo dello Stato. Lo Stato è così nuovamente posto in condizione di dare o non dare la licenza a giornali e giornalisti, e la necessaria imparzialità del giornalismo nei confronti dello Stato ne risulta immediatamente vanificata. Ancora, se la legge deve rendere i giornalisti liberi, la libertà stessa dovrà essere delimitata. Dichiarazioni vaghe e generali sono ammissibili nelle costituzioni e nelle carte dei diritti, ma la legge ordinaria dev'essere precisa e certa. Se la legge deve in particolare consentire, per esempio, di pubblicare commenti ostili alle decisioni del governo, deve specificare quando, da parte di chi e in quali circostanze. Un governo può in un caso rendere una condizione più rigida, e in un altro revocare un permesso. Accade così che nell'atto stesso di definire la libertà la si mette in pericolo.

Per tutte queste ragioni molti paesi occidentali hanno preferito non legiferare a proposito della libertà del giornalismo, affidandosi all'antico principio giuridico secondo il quale è consentito tutto ciò che non è esplicitamente vietato. E tuttavia una quantità di cose saranno egualmente oggetto di divieto. Tutti i paesi hanno leggi contro la diffamazione, sebbene con gradi assai diversi di severità: senza di esse, i giornalisti potrebbero pubblicare senza ostacoli menzogne dannose. Tutti i paesi hanno leggi contro l'‛oltraggio alla corte' (contempt of court): altrimenti i giornalisti potrebbero, senza essere a conoscenza di tutti i dati disponibili, esprimere giudizi prematuri su di un processo, fuorviando in tal modo le giurie e facendo opera di sleale denigrazione. Tutti i paesi hanno norme che, in date circostanze, vietano la pubblicazione di segreti di Stato di natura militare: se cadessero nelle mani del nemico, ne potrebbero infatti derivare pericoli per lo Stato. Negli ultimi tempi, c'è stata in molti paesi una tendenza all'emanazione dileggi che proteggano la vita privata dell'individuo la quale, si dice, potrebbe essere pesantemente danneggiata dalla curiosità pruriginosa dei giornalisti. Si è d'altra parte energicamente sostenuto che tali leggi, cui si farebbe appello per proteggere l'immagine sociale piuttosto che l'intimità personale, si risolverebbero per il comune cittadino in un danno anziché in un beneficio. In generale, i giornalisti concordano sulla necessità di simili regolamenti, benché la loro esatta portata sia oggetto di discussioni continue. Certamente, essi delimitano la libertà del giornalismo; ma, nella vasta area nella quale è lasciata senza delimitazione, essa è garantita meglio di quanto lo sarebbe da una qualsiasi normativa giuridica positiva. La legge è quindi una determinante necessaria, tra le altre, della natura del giornalismo; ma se l'influsso della legge dovesse diventare soverchiante, la libertà del giornalismo ne sarebbe considerevolmente ridotta, giacché sarebbe posta alla mercé dello Stato.

9. Il giornalismo e lo Stato

Perché ciò non deve accadere? Perché la vera natura del giornalismo è negata dal predominio dello Stato in modo più completo che da qualsiasi altro genere di predominio? Nel nostro secolo, per molte persone la risposta a un tale interrogativo non è risultata ovvia. Anzi, ci sarebbero ragioni plausibili per le quali lo Stato e il giornalismo dovrebbero lavorare in stretto accordo. Essi hanno notevoli interessi in comune. Da un lato, lo Stato è, e dev'essere, il principale oggetto del giornalismo. Il giornalismo non cessa mai di spiegare ai cittadini che cosa il governo stia facendo, quali problemi si trovi dinanzi e quali iniziative prenda per affrontarli. Ma il flusso delle informazioni scorre anche dai cittadini verso il governo, sotto la forma di sondaggi di opinione, cronache di proteste, interviste radiotelevisive, lettere ai giornali e così via. Il giornale aiuta anche ciascuno dei diversi settori dell'apparato statale a sapere che cosa si sta facendo negli altri. Senza quest'opera d'informazione, i governi funzionerebbero ancora peggio di quanto non accada.

Oltre a ciò, i giornalisti sono cittadini dello Stato e, in quanto tali, gli debbono fedeltà. Il giornalista può onestamente sostenere che il suo patriottismo, talvolta, si esprime meglio col non nascondere cronache o commenti sfavorevoli allo Stato nei casi in cui i fatti o il diritto parlino contro di esso. Una simile posizione può essere sostenuta persino quando il proprio paese sta combattendo una guerra o sta lottando contro difficoltà economiche internazionali; il giornalista sarà allora aspramente criticato in quanto i suoi articoli, danneggiando la fiducia in patria e all'estero, possono aggravare la probabilità di un fallimento nazionale. I giornalisti francesi che scrivevano sulla guerra algerina, quelli americani che scrivevano sulla guerra nel Vietnam o quelli inglesi e italiani che scrivono sulle vicende delle loro valute nazionali hanno tutti conosciuto questo problema; e se ciononostante decidono di continuare a pubblicare materiali suscettibili di risultare a breve scadenza dannosi, possono giustificare il loro operato soltanto con l'argomento che i danni sono ampiamente compensati dai vantaggi a lunga scadenza: l'abbandono, per esempio, di una politica che corrompa la tempra morale del paese o che indirizzi in una direzione sbagliata l'attività economica. Le apparenti deviazioni dal dovere patriottico possono essere difese solo in nome di un più elevato patriottismo.

Tali sono gli obblighi inerenti all'appartenenza a uno Stato; e i giornalisti, al pari degli altri cittadini, li condivi- dono perché condividono anche i benefici. Tra questi, uno dei più notevoli è costituito da una società ordinata. I giornali e le emittenti radiotelevisive non potrebbero - né d'altro canto lo potrebbe alcun altro - fare il proprio lavoro se la gente potesse violare impunemente i contratti, o se i loro dipendenti non potessero recarsi in pace al lavoro. Soltanto lo Stato può garantire un ordine siffatto; sin dai tempi di Hobbes, è stata questa una delle giustificazioni classiche offerte dalla filosofia politica per l'esistenza dello Stato.

Le emittenti radiotelevisive, poi, abbisognano in modo particolare del sostegno statale. Una loro condizione di anarchia desta uno speciale sgomento: se le frequenze radiotelevisive non venissero regolate, ne risulterebbe un guazzabuglio di suoni e di immagini, nel quale non sarebbe possibile ascoltare o vedere nulla con chiarezza. Ora, la regolamentazione non può che essere effettuata da un ente fornito, in sede sia nazionale che internazionale, di credito sufficiente per imporre l'accordo; il che vuol dire, in realtà, dallo Stato.

Questa è la ragione per la quale lo Stato ha sempre avuto speciali rapporti con la radio e la televisione. E lo Stato che deve decidere quali organizzazioni possono effettuare trasmissioni e su quali lunghezze d'onda, e deve dunque accordar loro una licenza. Ora, la concessione di licenze implica dei poteri.

In certi paesi, lo Stato ha scelto di far uso di tali poteri per cose alquanto più importanti che non siano le ore di trasmissione o la disponibilità ad accettare occasionali annunci del governo. In Francia, i giornalisti radiotelevisivi sono stati a lungo, rispetto ai loro colleghi dei quotidiani, in condizioni di minore indipendenza dai desideri dello Stato. In altri paesi, questi poteri rimangono in larga misura inutilizzati. La British Broadcasting Corporation è tenuta per legge a trasmettere brevi resoconti quotidiani dell'attività del Parlamento e a fare certi programmi per l'estero. A parte ciò, essa può in pratica seguire la sua strada. Il governo, però, conserva in teoria vasti poteri sulla BBC e sulle emittenti commerciali in Gran Bretagna: sia all'una che alle altre può essere richiesto di trasmettere - o non trasmettere - qualunque cosa il governo voglia. Questi poteri non sono utilizzati, ma ci sono e si sa che ci sono, ed è verosimile che la loro esistenza induca i giornalisti radiotelevisivi alla prudenza.

Accade regolarmente che molti cittadini, e persino molti uomini politici, chiedano che si faccia uso di tali poteri: che, per esempio, l'informazione radiotelevisiva sull'azione inglese nell'Irlanda del Nord sia assoggettata ai desideri del governo, con l'esclusione di voci contrarie. Richieste analoghe sono state avanzate persino negli Stati Uniti all'epoca della guerra nel Vietnam. Lo Stato - si dice in questi casi - agisce, nella misura in cui può determinano, nell'interesse della maggioranza: perché dovrebbe essere concesso a un pugno di cittadini, ché per caso si trovano in condizione di far sentire la propria voce, di indebolire l'azione dello Stato? Perché lo Stato non dovrebbe usare il proprio potere per dare alla presumibile volontà della maggioranza la maggiore efficacia possibile?

Non trovando una valida risposta a questo interrogativo, all'incirca i quattro quinti degli Stati del globo fanno uso dei propri poteri. Pochi sono invece i paesi che si astengono dall'esercitarli. Al di fuori dell'Europa occidentale e del Nordamerica, essi sono - verso la fine degli anni settanta - soltanto il Giappone, l'Australia e la Nuova Zelanda e, con oscillazioni, l'India e il Sudafrica. Con l'eccezione del Giappone, si tratta delle aree del globo che hanno subito il predominio, o comunque l'influsso, della tradizione cristiana occidentale. Il grande contributo che questa tradizione ha dato allo sviluppo politico è stato di sostituire la nozione della perfettibilità umana con la dottrina del peccato originale. ‟È la fede - diceva Browning del cristianesimo - che ha scagliato il suo dardo dritto alla testa della menzogna, e ha rivelato il peccato originale, la corruzione del cuore umano". La teologia cristiana comprese che la natura umana, sebbene capace di grandi cose, è inficiata da un egoismo congenito. Ne segue che molte delle sventure dell'uomo sono dovute alla sua stessa natura e che non saranno mai eliminate da alcun mutamento politico: la riforma delle istituzioni lascia immodificata la natura umana. Le riforme istituzionali possono anzi aggravare l'umana sofferenza perché possono concentrare il potere e lasciare priva di controllo l'umana malvagità di coloro che lo esercitano. La capacità che lo Stato ha di far del male diventa così maggiore di quella dei singoli. È stata certamente questa la storia di innumerevoli regimi totalitari.

La risposta occidentale è consistita nel riconoscere la realtà della natura umana e nel rinunciare alla speranza di cambiarla, cercando semplicemente di prescriverle certi limiti. Ciò si può ottenere soltanto con il frazionamento del potere, non già con la sua concentrazione; e questa è stata la via gradualmente percorsa dalla storia dell'Occidente. Il risultato è che nessuno - né i singoli né i gruppi - può a suo piacimento dare libero corso al suo egoismo, perché ci sono altri che detengono poteri sufficienti per impedirlo. Il governo governa; ma il suo potere è condizionato nella comunità da parecchi gruppi di varia natura, i quali possono insieme, in quanto elettori, sostituire il governo con un altro.

Senonché il sistema funziona soltanto se c'è un libero flusso di informazioni. Se nessuno è a conoscenza di ciò che il governo sta facendo, allora i controlli sulle sue iniziative sono impossibili, ed esso potrà fare quel che gli piace, col risultato di un aumento della concentrazione del potere. Quanto più grande è l'efficacia con cui è preservata la libertà del flusso d'informazioni, tanto più piccola è la possibilità di essere ridotti alla mercé di un arbitrio senza freni. Ora, nessuna istituzione può assolvere la funzione di far circolare l'informazione tranne il giornalismo. Non è un caso che gli inizi della democrazia (se si eccettuano i sistemi del mondo antico, basati sulla schiavitù) siano stati contemporanei agli inizi della stampa, sebbene la stampa abbia poi speso i primi due secoli della sua esistenza nello sforzo di svincolarsi dall'influenza dello Stato. Se lo Stato può guidare il flusso delle informazioni, il sistema è sbilanciato, e un potere eccessivo rimane ancora nelle mani di un gruppo di uomini, che possono abusarne. Questa è la ragione per la quale la libertà dal malgoverno - nella misura in cui una libertà siffatta è raggiungibile in un mondo imperfetto - esige una stampa libera, come anche una radio e una televisione che godano di tutta la libertà consentita dalla loro natura. Là dove lo Stato domina la stampa, non è soltanto la natura della stampa a risultarne viziata, ma anche quella dello Stato, giacché lo Stato, seguendo d'altra parte la sua tendenza naturale, concentrerà nelle sue mani un potere sempre maggiore.

10. Necessità di un'autoregolamentazione del giornalismo

Rimane tuttavia un'obiezione ovvia. C'è in teoria il pericolo che il potere possa semplicemente trasferirsi dallo Stato alla stampa stessa. Se la stampa è libera di dire ciò che vuole senza interventi da parte dello Stato, allora potrà dare delle iniziative dello Stato la versione che crede; l'elettorato si formerà il proprio giudizio in conformità con tale versione, confermando o congedando il governo in carica: in tutto questo processo i veri padroni della situazione saranno così i giornalisti. Controllori non eletti si saranno sostituiti a quelli eletti.

In parte, la risposta a questa obiezione è che la stampa non ha mai cercato questo tipo di potere nè l'ha mai esercitato. I giornalisti non sono mai stati liberi di scrivere a loro completo arbitrio, senza riguardo nè per la verità nè per le conseguenze. Essi sono soggetti alla legge, come gli altri cittadini. Non possono diffamare, né dare valutazioni premature di un processo, nè tradire segreti strategici; e nel caso che su questi problemi la legge non sia efficace, è possibile cambiarla, senza che per questo la libertà di stampa ne risulti danneggiata nell'essenziale.

Resta ancora un problema. La falsità non è proibita dalla legge, a meno che non sia diffamatoria; nè è proibita l'omissione, intenzionale o frutto di negligenza, di parti importanti della verità; né l'insistenza su particolari poco lusinghieri riguardanti certe minoranze; né la messa a nudo di debolezze private prive di rilevanza pubblica. Questi abusi possono cagionare gravi danni, e non c'è motivo per cui la società debba tollerarli senza tentare di porvi riparo. I giornalisti non sfuggono alla legge di natura secondo la quale tutti gli esseri umani sono imperfetti, né alla conseguente necessità di una qualche forza che li tenga a freno. La stampa abbisogna di una regolamentazione quanto qualsiasi altra attività. Dev'essere però un'autoregolamentazione. Se i giornalisti avanzano per se stessi una tale richiesta, devono essere pronti a sorvegliare che il proprio comportamento sia il più possibile esente da mende, e debbono sbrigare questo compito essi stessi. Non ci sono altri che possano assolvere questa funzione; qualsiasi altro organo coinvolgerebbe l'intervento dello Stato, giacché - per il tramite della legge - prenderebbe a prestito parte dell'autorità dello Stato. Ciò non vuoi dire che il corretto comportamento di ogni giornalista dipenda soltanto dall'autodisciplina individuale. Il processo può ricevere una regolazione istituzionale: proprio come la società mette in opera propri meccanismi che assicurino il buon comportamento dei suoi membri, così il giornalismo, uno tra i tanti microcosmi sociali, può, su scala ridotta, stabilire dei meccanismi aventi lo stesso fine. Un organo interno alla repubblica del giornalismo sorveglierà l'osservanza di quelle regole che la repubblica stessa si sarà date.

Questa è stata la logica che, nella seconda metà del Novecento, ha spinto i giornalisti di molti paesi occidentali a costituire i ‛consigli della stampa', enti composti interamente o in gran parte da giornalisti, con il compito di ascoltare le lagnanze contro i giornali e di decidere al riguardo. Non sono mancate frequenti difficoltà; particolarmente viva è stata la riluttanza ad ammettere nei consigli non solo giornalisti dei quotidiani, ma anche lettori dei quotidiani. I giornalisti prevedevano che l'opinione ‛laica', oggetto di così solenne esaltazione, avrebbe avanzato eccessive riserve circa i caratteri degli appetiti del pubblico, e avrebbe spinto il giornalismo in direzione di un'informazione rispettabile ma scarsamente eccitante, ricca di quel ‛buon gusto' che è la morte della ‛leggibilità'. D'altra parte, non si poteva negare la forza acquistata in tutti i paesi dall'opinione dei lettori di quotidiani, sempre meglio istruiti: se, come prevede la teoria della democrazia, ai giornali viene riconosciuto il rango loro dovuto, allora essi devono fare in modo di operare conformemente a tale rango, e di convincere la gente che tale è appunto il loro comportamento.

La questione riguardava soprattutto la stampa, giacché il problema della disciplina delle trasmissioni radiotelevisive era già in parte risolto; gli organi dello Stato che rilasciano le licenze sono essi stessi dei tribunali che, disponendo di sanzioni efficaci, sono in grado di imporre un comportamento ragionevolmente corretto. Sebbene in molti paesi non siano mancate periodiche richieste di un ente apposito fornito di poteri disciplinari, e sebbene in qualche caso organi del genere siano stati effettivamente costituiti, la disciplina è stata mantenuta in modo più che soddisfacente dal velato potere dello Stato.

Era proprio questo il risultato che i giornalisti temevano a proposito dei consigli della stampa. L'evidente debolezza di ogni forma di disciplina non sostenuta dal potere statale consiste nella sua incapacità di imporre sanzioni con la fiducia che vengano applicate. È possibile deliberare al riguardo, ma non si può essere sicuri che le ammende saranno pagate, o le proibizioni rispettate. Ora, se esiste un potere che sia invece sicuro di questo, è quello dello Stato. Molti giornalisti nutrivano quindi il timore che il sistema disciplinare messo in opera dai consigli della stampa sarebbe fallito e che lo Stato sarebbe stato chiamato a sostenerlo, col risultato di perdere nuovamente l'autonomia della stampa dallo Stato.

Questi dubbi non rendevano giustizia al potere che costituisce la vita stessa della stampa, e cioè il potere di pubblicizzare. I giornali constatano regolarmente che rivelare un male vuol dire cominciare a guarirlo. Analogamente, i consigli della stampa non abbisognano di poteri. Tutto ciò che debbono fare è rendere pubbliche le loro conclusioni. I rivali del giornale oggetto di biasimo non tarderanno a pubblicarle; e anzi, ben sapendo questo, lo stesso giornale imputato le pubblicherà, ed eviterà una seconda reprimenda pubblica cominciando a correggersi.

Una regolamentazione del genere non ha fatto né farà scomparire i problemi del giornalismo. Sebbene sia enormemente cambiato nel corso del Novecento, non si può dire che il giornalismo sia migliorato. Perché questo accadesse, la natura stessa dell'uomo avrebbe dovuto migliorare, e in tal caso sarebbe diminuita la necessità dell'occhio vigilante del giornalista. Così come sono, le imperfezioni del giornalismo saranno sempre d'ostacolo al pieno dispiegarsi della sua utilità. A sua consolazione, va detto che le forze che lo rendono imperfetto sono quelle stesse che lo rendono necessario.

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