PONTECORVO, Gilberto

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 84 (2015)

PONTECORVO, Gilberto

Stefania Carpiceci

PONTECORVO, Gilberto (Gillo). – Nacque a Pisa il 19 novembre 1919 da Massimo e da Maria Maroni.

Il nonno materno, Arrigo, fu primario dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano. Il padre fu un imprenditore tessile, la cui industria venne assorbita dal gruppo Marzotto durante la crisi del 1929.

Fu il quinto di otto figli: oltre lui, Guido, genetista membro della Royal Academy di Londra; Paolo (detto Polì), ingegnere elettronico a capo di un’impresa di telecomunicazioni di Boston; Giuliana, letterata e moglie di Duccio Tabet, membro del comitato centrale del Partito comunista italiano (PCI); Bruno, fisico nucleare della scuola di via Panisperna; Laura, Anna e Giovanni.

Di origine ebraica, la famiglia Pontecorvo visse a Pisa, non lontano da piazza dei Miracoli, e trascorse spesso le vacanze estive in Versilia e sulle Dolomiti.

Scarso il rendimento scolastico di Gillo. Espulso dal ginnasio, frequentò svogliatamente il liceo scientifico. Appassionato di musica, non poté accedere al conservatorio. A differenza dei fratelli ebbe scarsa attitudine per le scienze, ma per non essere deriso nel 1936 non si iscrisse a lettere, ritenuta in famiglia una facoltà per donne, bensì a chimica, senza mai terminare gli studi.

Eccelse nel tennis. Sconfisse Gianni Cucelli, il numero uno italiano di allora, e partecipò a importanti tornei in Svizzera e in Inghilterra. Per una discopatia dovette rinunciare allo sport professionistico, senza però mai smettere di giocare.

Con la promulgazione delle leggi razziali del 1938, la famiglia Pontevorvo si divise: i figli lasciarono l’Italia, mentre i genitori si trasferirono a Milano. Successivamente anche questi ultimi si rifugiarono in Svizzera, evitando per un soffio di essere deportati: quando le SS irruppero a Meina, sul lago Maggiore, nell’hotel dove sostarono per una notte, erano appena partiti.

Tra il 1938 e il 1939, Pontecorvo raggiunse a Parigi suo fratello Bruno, incaricato presso il Laboratoire de synthèse atomique e all’Università Paris-Sorbonne. Squattrinato e un po’ dandy, frequentò alcuni esiliati antifascisti italiani (Emilio Sereni, Aldo Natoli, Salvatore Luria, Sergio De Benedetti, Francesco Scotti) e conobbe Henriette Niepce, figlia di un noto industriale.

Quando Parigi fu invasa dai nazisti (1940), i due ripararono a Saint-Tropez. Vissero in una casa di pescatori, si mantennero con la pesca subacquea e le lezioni di tennis, poi si sposarono.

Scovato nel Sud della Francia dai padri del comunismo italiano, Giorgio Amendola e Celeste Negarville, Pontecorvo venne reclutato come corriere antifascista. Compì, tra l’estate e l’autunno del 1942, numerose missioni segrete in Italia, dove conobbe Ugo La Malfa e Alessandro Natta.

In dicembre, mentre molti compagni venivano arrestati, Pontecorvo si rese irreperibile. Visse in clandestinità a Milano dove, nell’estate del 1943, lavorò con Pietro Ingrao, conosciuto in occasione di uno dei suoi primi comizi, all’indomani della caduta di Benito Mussolini, ad alcune segrete edizioni de L’Unità.

Dopo l’8 settembre anche Henriette, fino allora a Saint-Tropez, lo raggiunse. A dicembre venne richiamato a Roma da Eugenio Curiel, personalità di spicco della Resistenza italiana, per fondare e dirigere, di lì al febbraio del 1944, il Fronte della gioventù, organizzazione clandestina di giovani antifascisti. Alla fine dell’anno dovette di nuovo nascondersi. Durante una perquisizione in un deposito clandestino la polizia fascista scovò armi e ciclostili, ma soprattutto un documento d’identità in bianco, con una sua fotografia. Rifugiatosi a Torino, fu qui che accolse la Liberazione del 25 aprile 1945. Nei mesi successivi sollecitò, su direttive del PCI, la consegna delle armi dei partigiani agli alleati.

Rientrato a Milano conobbe Enrico Berlinguer. I due si ritrovarono poi a Roma, nella sede del PCI in via delle Botteghe Oscure, rispettivamente come responsabile del movimento giovanile del Partito e direttore del settimanale Pattuglia.

Nel dopoguerra inesorabile fu il suo allontanamento dalla politica. Pontecorvo dismise i panni del ‘rivoluzionario professionale’ per dedicarsi a giornalismo, fotografia e cinema.

Di nuovo a Parigi, conobbe Jean-Paul Sartre e Pablo Picasso. Collaborò con l’agenzia Havas, oggi France Press, come giornalista e fotografo, mentre per il cinema la svolta avvenne nel 1946.

Dopo esser stato aiuto volontario, con Carlo Lizzani e Giuseppe De Santis, in Il sole sorge ancora di Aldo Vergano, finanziato dall’Associazione nazionale partigiani d’Italia (ANPI), dove fece anche una breve comparsa come attore, fu la visione di Paisà di Roberto Rossellini a fargli decidere istantaneamente di abbandonare il giornalismo e la fotografia, acquistare con alcuni risparmi una Paillard 16 mm ed effettuare le prime riprese amatoriali.

Appresi i primi rudimenti di montaggio a Parigi, a fianco della montatrice Totò Marcantoni, nel 1950 fu aiutoregista di Yves Allégret sul set di Les miracles n’ont lieu qu’une fois (1951; I miracoli non si ripetono), dove ricevette spesso la visita dei giornalisti interessati alla misteriosa scomparsa dagli Stati Uniti di suo fratello Bruno, rintracciato poi, dopo circa cinque anni, in Unione Sovietica. Dal 1953 al 1956 firmò i primi documentari: Missione Timiriazev, Porta Portese, Cani dietro le sbarre, Festa a Castelluccio, Uomini nel marmo, Pane e zolfo, da lui stesso musicati.

Ma fu con Giovanna, mediometraggio di circa 50 min, episodio della coproduzione internazionale La rosa dei venti, che Pontecorvo mosse i primi passi d’autore, dopo un breve apprendistato accanto a Mario Monicelli. Sceneggiato insieme a Franco Solinas, scrittore e giornalista che conobbe in un locale notturno a Roma, Giovanna racconta l’occupazione femminile di una fabbrica tessile italiana. Mai distribuito in sala, fu proiettato fuori concorso al festival di Venezia nel 1956, dove ottenne unanime consenso di critica.

Di lì a poco, ormai fuoriuscito dal PCI, realizzò il primo lungometraggio: La grande strada azzurra (1957), da un romanzo di Franco Solinas, Squarciò.

Ambientata nel mare di Sardegna (la strada azzurra del titolo), anche se girata in Dalmazia, la pellicola racconta del pescatore Squarciò (Yves Montand) che, con i suoi figli, nati dal matrimonio con Rosetta (Alida Valli), pratica la pesca con uso illegale delle bombe. Melodramma a colori, il film non soddisfece mai Pontecorvo, né i critici francesi e italiani.

Nel 1959, anno della rinascita del cinema italiano, mise in cantiere Kapò.

All’origine del soggetto ci fu la lettura di Se questo è un uomo di Primo Levi, poi un tour di otto mesi in giro per l’Europa alla ricerca degli ex deportati sopravvissuti ai campi di concentramento. Con Solinas si ritirò a Villetta Barrea, in Abruzzo, a scrivere la sceneggiatura. Tra litigi, rotture e riappacificazioni – mediate dal produttore Franco Cristaldi – ebbero inizio le riprese nel nord della Iugoslavia (la coproduzione fu italo-francese-iugoslava), in un lager ricostruito in studio. Diretto in stile semidocumentaristico, il film ebbe come protagonista Susan Strasberg – figlia di Lee, l’ideatore dell’Actor’s Studio di New York – nel ruolo di una giovanissima ebrea, la quale, per sopravvivere, cambia nome e identità (Edith/ Nicole) fino a indossare i panni di una kapò: una guardiana del campo di lavoro nazista. Presentata fuori concorso al festival di Venezia del 1960, la pellicola fu accolta da nove minuti di applausi e da critiche entusiaste. Ottenne quindi la nomination all’Oscar come miglior film straniero.

Negli anni successivi furono molti i progetti incompiuti (Confino Fiat, L’aldilà) discussi con Solinas, Fausta Leoni e l’antropologo Ernesto De Martino.

Altalenante fu anche la vita privata. Dopo la separazione da Henriette e la relazione clandestina con Barbara Kiatovska, moglie dell’amico Roman Polański, si fidanzò, nella notte di capodanno del 1961, con Picci (Maria Adele) Ziino, più giovane di lui di quindici anni. Qualche anno dopo, il 23 gennaio 1964, i due si sposarono a Losanna e andarono a vivere nel quartiere Trieste, a Roma, in quell’appartamento che, ora affittato da Gillo, era stato dalla metà degli anni Cinquanta una comune cinematografica dove si ritrovavano aspiranti registi, critici o sceneggiatori. Il 27 agosto 1964 nacque Ludovico, il loro primogenito.

Nel 1966 uscì La battaglia di Algeri, su cui Pontecorvo e Solinas cominciarono a lavorare già all’indomani dell’indipendenza dell’Algeria del luglio 1962.

Il progetto originario, dal provvisorio titolo di Parà, avrebbe dovuto raccontare il colonialismo francese dallo sguardo di un ex paracadutista ma, arenatosi, fu solo dopo l’interessamento di un ex comandante militare del FLN (Fronte di Liberazione Nazionale), Yacef Saadi, poi titolare della Casbah Film, che ripartì. Lunghe l’elaborazione e la lavorazione: sei mesi di raccolta fonti (interviste, articoli di giornali, verbali di polizia) in Algeria; cinque revisioni di sceneggiatura; quattro mesi di riprese nella casba algerina, tra l’estate e l’autunno del 1965. Interpretata da attori non professionisti (salvo Jean Martin/colonnello Mathieu), girata con ricorrente uso della macchina a mano, fotografata (da Marcello Gatti) in bianco/nero, in nome della cosiddetta ‘dittatura della verità’, montata con rapidità (Mario Serandrei, Mario Motta) e musicata da Ennio Morricone, La battaglia vinse il Leone d’oro al festival di Venezia del 1966. In quella circostanza la delegazione francese abbandonò il Lido in segno di protesta e anche in seguito, nelle sale parigine, la pellicola fu boicottata. Grande successo riscosse invece negli Stati Uniti, in Canada e in Giappone, mentre tre furono le nominations agli Oscar: miglior film straniero, migliore regia e migliore sceneggiatura.

L’8 novembre 1966 nacque il secondogenito, Marco.

Nel 1969 uscì Queimada, ancora sul tema del colonialismo, stavolta portoghese e ottocentesco nei confronti del Terzo Mondo.

L’idea originaria fu di Alberto Grimaldi (già produttore della trilogia westerniana di Sergio Leone), mentre la sceneggiatura fu opera di Solinas e Giorgio Arlorio. Scelto Marlon Brando come protagonista e Cartagena, nel nord della Colombia, come location, le riprese durarono circa sei mesi e, sia pure travagliate (difficile la convivenza sul set con il divo hollywoodiano), ebbero termine in maggio. Premiato con il David di Donatello, il film conobbe via via un crescente successo.

Il 23 gennaio 1972 i Pontecorvo si sposarono legalmente anche in Italia. La cerimonia ebbe luogo a Roma in Campidoglio e ne furono testimoni Morricone e Francesco Rosi. Il 10 maggio 1975 nacque il terzo figlio della coppia, Simone; nel 1978 la famiglia si trasferì nel nuovo appartamento di proprietà, nel quartiere Parioli a Roma.

Seguì un altro periodo di inattività durato circa un decennio. Qualche ripresa pubblicitaria per il Carosello televisivo e alcuni progetti mai realizzati: su Milano nei giorni dell’‘autunno caldo’ del 1969; su Cristo (Il tempo della fine); sui nativi americani (di nuovo con Brando); intorno alla sceneggiatura di Mr. Klein, poi abbandonato e diretto da Joseph Losey, con Alain Delon.

Nel 1978, anno del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro, Pontecorvo tornò sul set per girare Ogro (titolo provvisorio, Tunnel), suo sesto e ultimo film.

Prodotto da Cristaldi, sceneggiato (con ben quindici rimaneggiamenti) da Arlorio e Ugo Pirro, interpretato, tra gli altri, da Gian Maria Volonté e Angela Molina, il film ricostruisce l’attentato spagnolo del 20 dicembre 1973 in cui perse la vita, per mano dell’ETA (Euskadi Ta Askatasuna), l’ammiraglio Carrero Blanco, primo ministro e delfino del dittatore Francisco Franco. Tra consensi e stroncature, la pellicola partecipò nel 1979 alla movimentata edizione del Festival di Venezia che, diretta da Lizzani, non decretò vincitori. Ottenne invece il David di Donatello per la migliore regia.

Nonostante proposte e copioni, Pontecorvo decise di rinunciare al cinema e di vivere con la pensione. Trascorse molto tempo a curare piante, ascoltare musica, incontrare amici, giocare a tennis, viaggiare in roulotte. Fece anche molte battaglie, come quelle insieme a Francesco Maselli ed Ettore Scola, in difesa del cinema italiano. Nel 1981 si recò negli Stati Uniti, dove incontrò Dino De Laurentiis con l’intento, poi svanito, di dirigere un film dal provvisorio titolo di Quaranta giorni di gloria o Made in America: una pellicola su un giocatore di football dalla gloria breve (i 40 giorni del titolo), che avrebbe dovuto avere il volto di Robert Redford o di William Hurt. Nel 1985 partecipò all’istituzione, in omaggio all’amico scomparso, del Premio Solinas, destinato a giovani autori e alle loro inedite sceneggiature.

Nel 1989 ebbe un lieve infarto su un campo da tennis e fu ricoverato all’ospedale San Giacomo. L’anno successivo prese comunque parte al documentario 12 registi per 12 città, realizzato in occasione dei campionati mondiali di calcio. Nel 1992, dopo che l’anno precedente aveva superato una plasmaferesi, accettò la proposta di Gianni Minoli per un documentario RAI, Ritorno ad Algeri, a trent’anni dall’indipendenza algerina, con il Paese sull’orlo della guerra civile.

Dal 1992 al 1996 fu direttore della Mostra del cinema di Venezia, e nel dicembre del 1996 divenne presidente dell’Ente cinema, holding di coordinamento di Cinecittà e Istituto Luce.

Nel 1997 tornò dietro la macchina da presa per dirigere, su sollecitazione del produttore Giorgio Leopardi, il cortometraggio Danza della fata Confetto - Nostalgia di protezione, con Valeria Golino e Fabrizio Bentivoglio, all’interno di un progetto, I corti italiani, in cui da veterano affiancò e sponsorizzò dei giovani esordienti. Al cinema indipendente di nuova generazione diede ampio spazio anche promuovendo le iniziative dell’associazione CinemAvvenire.

Nel 1999 fu direttore artistico di Mediaterch a Firenze e per il Festival di Spoleto firmò la messinscena teatrale di Guerra e pace.

In questo periodo divenne nonno, mentre i figli si dedicarono alle scienze (Ludovico), al cinema (Marco, direttore della fotografia) e alla pittura (Simone).

Nel gennaio del 2000 ottenne l’onorificenza di cavaliere di Gran croce Ordine al merito della Repubblica italiana.

Da allora fino al 2002 trovò, accanto a Maselli, nuove occasioni di impegno civile, partecipando tra l’altro al documentario Un altro mondo è possibile, sul G8 di Genova del 20 luglio 2001 e alle riprese della manifestazione della CGIL di Sergio Cofferati, svoltasi a Roma il 23 marzo 2002 contro l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Prese anche parte a una protesta veneziana di autori italiani contro la presenza ingombrante delle majors americane nel mercato cinematografico nazionale.

Nel dicembre del 2003 ricevette la laurea honoris causa dall’Università Roma Tre, dove tenne una lectio magistralis su Cinema e musica.

Negli ultimi tempi soggiornò spesso a Nazzano, in provincia di Roma, in un podere in località Marisano.

Morì il 12 ottobre 2006 al Policlinico Gemelli di Roma.

Fonti e Bibl.: M. Ghirelli, Gillo P., Firenze 1978; L. Antonelli, Anche P. ‘gira’ in Usa, in La Stampa, 24 gennaio 1981, p. 7; M. Chierici, Come un film la saga dei P., in Corriere della Sera, 17 gennaio 1985; [M. S. P.], Sceneggiatori, ecco il vostro premio, in L’Unità, 29 ottobre 1985, p. 7; [An.], Arriva P., in La Stampa, 22 febbraio 1992, p. 20; M. Chierici, Gillo P.: un regista per otto fratelli, in Corriere della Sera, 9 agosto 1993; I. Paolucci, Il comunismo l’ho scoperto a Saint Tropez, in L’Unità, 18 settembre 1993, p. 2; [An.], «Cari registi, basta coi veleni. La Mostra è anche vostra», in Corriere della Sera, 24 agosto 1995; A. Santini, P. a capo dell’Ente Cinema, in Il Mattino, 17 dicembre 1995; [M. S.], P.: ora è ufficiale. Mostra di Venezia addio, in La Stampa, 3 novembre 1996; E. Balbo, P. all’Ente del Cinema, in La Stampa, 17 dicembre 1996; M. Anselmi, Dieci corti d’autore: i padri battono i figli, in L’Unità, 31 maggio 1998, p. 7; E. Balbo, P. firma ‘Guerra e pace’, in La Stampa, 13 luglio 1998, p. 22; I. Bignardi, Memorie estorte a uno smemorato. Vita di Gillo P., Milano 1999; V. Cappelli, Se rinasco, faccio il musicista, in Sette, 13 maggio 1999; R. Rombi, Cinecittà, finalmente si cambia, in La Repubblica, 15 agosto 1999; [R. P.], Bellocchio, Monicelli, P., Scola, Lizzani: guerra alle ‘major’. Usa troppo potenti anche da noi, in Corriere della Sera, 1° novembre 2000, p. 36; A. Trocino, Locarno, il documentario su Genova piace a Sgarbi e delude i contestatori, in Corriere della Sera, 13 agosto 2001, p. 9; [An.] Un giorno di primavera, l’Italia si fermò, in La Stampa, 25 giugno 2002, p. 26; S. Carpiceci, Giovanna. Sceneggiatura desunta, in G. Pontecorvo, Giovanna. Storia di un film e di un restauro, Roma 2002; [An.], A Gillo P. laurea ad honorem, in Corriere della Sera, 18 dicembre 2003, p. 63; F. Pescatori, P., Gillo, in Enciclopedia del cinema, Roma 2004, ad vocem; [An.], È morto Gillo P., il Leone di Algeri, in L’Unità, 13 ottobre 2006, p. 21; [An.], L’addio a Gillo P. alla Protomoteca, in L’Unità, 15 ottobre 2006; C. Ruggeri, Quel paradiso ‘amazzonico’ sul Tevere amato da P.: Nazzano, in Corriere della Sera, 9 novembre 2013, p. 43.

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