Gigante

Universo del Corpo (1999)

Gigante

Ivan Nicoletti e Marco Bussagli

Gigante è il nome che in numerose mitologie e tradizioni mitico-religiose è attribuito a figure extraumane, caratterizzate in primo luogo da una statura straordinaria e spesso da altri tratti mostruosi o abnormi, per i quali esse si presentano come nemiche dell'ordine umano-divino costituito. Per estensione, il termine gigante è usato anche per indicare una persona dalle dimensioni e dalla forza fuori del comune, superiori di gran lunga a quelle considerate normali; il gigante, pur discostandosi in modo rilevante dalla media, può essere perfettamente sano; talora, invece, la sua condizione può essere conseguenza di una malattia. Le implicazioni della rappresentazione del gigante e del gigantesco nelle arti figurative e letterarie riguardano, da un lato, il tentativo di raffigurare, attraverso l'imponenza delle proporzioni corporee, l'importanza del personaggio (sovrano o dio), dall'altro, l'esaltazione dell'eroe, che deve affrontare diversi ostacoli, tra cui il combattimento con un gigante.

Il fenomeno biologico del gigantismo

di Ivan Nicoletti

I.

Alte stature familiari e costituzionali

La misura antropometrica cui si deve fare riferimento per stabilire quando una persona possa essere definita un gigante è la statura. Nei grafici dei percentili staturali, che riportano i valori per sesso ed età nella popolazione italiana, le diverse stature corrispondono a 7 curve; la più alta, contrassegnata con il numero 97, si riferisce al 97° percentile: i soggetti sani che hanno una statura superiore a quella indicata al punto di incrocio fra tale curva e l'ordinata corrispondente all'età sono solo 3 su 100. Da un punto di vista biologico, antropologico e medico, una statura che si situi al di sopra del 97° percentile, anche soltanto di poco, è già considerata al di fuori della norma, sebbene, sotto l'aspetto sociale, venga invece ritenuta ottimale, in quanto corrispondente a quella dei più popolari atleti di primo livello (campioni nazionali od olimpici), oppure, nel caso delle donne, a quella delle top-model. Per definire gigante una persona, nel nostro paese, è necessario che la sua statura superi di 5-6 cm il limite rappresentato dal 97° percentile, e che quindi sia alta 195-196 cm o più se maschio, 183-184 cm o più se femmina. Nel caso delle donne, la parola gigante è comunque meno usata. La statura è determinata geneticamente in misura maggiore che non il peso o altre caratteristiche, quali, per es., lo sviluppo delle masse muscolari, che sono suscettibili di aumentare, anche in grado elevato, con l'esercizio fisico. Alcuni ricercatori hanno stimato che la statura dipende dal patrimonio genetico per il 90% quando si prendano in considerazione i soggetti di età superiore ai 6 anni.

Questo limite dei 6 anni è determinato dal fatto che alla nascita e nei primi anni di vita l'influenza dei fattori ambientali, come la nutrizione, le condizioni sociali e sociopsicologiche, l'ambiente fisico, appare prevalente e può nascondere la valenza ereditaria. Da questo fatto deriva anche che la correlazione fra statura da bambino e statura da adulto si eleva a valori predittivi soltanto dopo i 3 anni di età. Anche il controllo ormonale della crescita staturale varia con l'età. Nel feto e nel primo anno di vita (in particolare nei primi 6 mesi dopo la nascita) l'ormone della crescita (GH, Growth hormone) non sembra avere effetto sulla statura, mentre successivamente la correlazione fra crescita in statura e GH è elevata. Se la secrezione di GH è assente, la crescita è scarsa, ma non del tutto assente; un limitato aumento staturale, infatti, avviene anche in assenza di GH. Il GH agisce sulla zona di accrescimento delle ossa, sia direttamente sulle cellule sia promuovendo la produzione locale di ormoni intermediari, le somatomedine o IGF (Insuline-like growth factor), in particolare il tipo I (IGF-I) (v. sviluppo). Le alte stature genetiche, non legate ad alcun elemento patologico, vengono definite familiari quando anche i genitori, o almeno uno dei due, presentano un'alta statura. In caso contrario vengono definite costituzionali. In entrambi i casi si riscontrano elevati tassi di GH e di IGF-I circolanti, oppure un elevato tasso di IGF-I associato a un normale tasso di GH; in questo secondo caso si deve pensare a un'ipersensibilità al GH da parte delle cellule secernenti IGF-I. Queste alte stature sono considerate varianti normali della crescita o, come dicono alcuni, varianti parafisiologiche. Non di rado, se la statura supera determinati valori, il soggetto, specialmente se di sesso femminile, si sottopone a un trattamento. Le alte stature familiari e costituzionali possono essere curate, naturalmente prima del termine della crescita, con estrogeni nelle femmine e con testosterone nei maschi: si calcola che un tale trattamento possa condurre a una statura finale inferiore di 3-5 cm a quella che si sarebbe raggiunta senza trattamento. Più di recente si è cominciato a impiegare un analogo della somatostatina, che è un ormone prodotto nell'encefalo, dall'ipotalamo, capace di inibire la secrezione di GH.

2.

Alte stature patologiche

In un certo numero di casi, l'alta statura patologica è la conseguenza di un tumore dell'ipofisi, di un adenoma secernente GH. Con minore frequenza essa è dovuta a un adenoma dell'ipotalamo secernente il fattore che stimola la produzione di GH, il GHRH (Growth hormone releasing hormone), oppure a tumori ectopici. In questi casi, la terapia è rappresentata dall'intervento chirurgico. Anche un certo numero di malattie complesse, malformative, su base genetica, possono dar luogo ad alta statura patologica. La più frequente di esse è la sindrome di Klinefelter, di cui si presenta un caso ogni 1000-1500 nati vivi. È causata da un'aberrazione dei cromosomi sessuali: il soggetto ha tre cromosomi sessuali (XXY) rispetto alla norma maschile (XY); altre volte ha più di due X associati a un Y o anche a due Y; qualche volta l'alterazione si riscontra solo in una parte delle cellule, e in tal caso si ha una situazione di mosaicismo (da notare che la metà circa dei feti con una di queste aberrazioni cromosomiche va incontro all'aborto). All'alta statura si associa una lunghezza degli arti inferiori particolarmente elevata. Il fenotipo è maschile, ma i testicoli sono difettosi e subiscono, specialmente alla pubertà, una progressiva fibrosi; il volume testicolare anche nella pubertà avanzata e successivamente è molto ridotto (2-4 ml). Sono frequenti uno sviluppo mammario più o meno accentuato (ginecomastia) e un certo ritardo di sviluppo psichico. Specialmente nell'adolescenza possono insorgere disturbi psicologici e difficoltà sul piano delle relazioni interpersonali, per cui è importante che la diagnosi sia effettuata prima della pubertà, affinché la terapia sostitutiva, che consiste nella somministrazione continuata di testosterone depot (a lento assorbimento), a dose variabile secondo la gravità e secondo l'età, possa consentire uno sviluppo somatico nei limiti della norma e prevenire i disturbi di natura psicologica.

Un'altra sindrome, più rara della precedente (si calcola che negli Stati Uniti vi siano fra le 10.000 e le 25.000 persone affette), è la sindrome di Marfan; anch'essa di natura genetica, è trasmessa con modalità autosomica dominante (v. genetiche, malattie) in circa il 70% dei casi; in circa il 30% si tratta di una nuova mutazione. L'alta statura è presente fin dalla nascita, la velocità di crescita staturale è molto elevata già nel primo anno di vita. Si riscontrano una particolare lassità articolare e alterazioni scheletriche (aracnodattilia, petto carenato o excavatum ecc.); a seconda dei casi (vi è molta variabilità) si possono osservare alterazioni o malformazioni a carico di diversi apparati, in particolare di quello cardiovascolare. Lo sviluppo psichico appare normale. La causa è una variazione del gene della fibrillina, che fa sì che tale proteina, diffusa in tutto il tessuto connettivo, risulti alterata. In futuro il trattamento sarà rappresentato, con tutta probabilità, dalla terapia genetica con la sostituzione del gene alterato con uno normale. Altre forme patologiche di gigantismo sono evidenti fin dalla nascita anche per la concomitante presenza di segni particolari o di malformazioni; fra esse, la sindrome di Sotos, o gigantismo cerebrale, e la sindrome di Wiedemann-Beckwith.

Gigante e gigantesco nelle rappresentazioni letterarie e figurative

di Marco Bussagli

I.

Dalla mitologia alle tradizioni popolari

Il mito dell'uomo gigantesco, con capacità fisiche esorbitanti rispetto a quelle di un individuo normale, ha sempre costituito motivo di fascino, tanto nelle arti figurative quanto in letteratura; in questo ambito il suo ruolo è stato il più delle volte giocato o sulla linea dell'identificazione del protagonista con il fruitore del racconto o dell'opera (si pensi, per es., a Gulliver e ai suoi fantastici viaggi), oppure su quella dell'ostacolo da abbattere (anche in senso figurativo) nel corso del processo di emancipazione dell'eroe della narrazione, come dimostra, per es., il celeberrimo episodio di Ulisse e Polifemo. Le concezioni cosmologiche che vedono nel 'macrantropo' il modello antropomorfo dell'Universo - presenti tanto nella religiosità indoiranica quanto in quella dell'Oceania, nonché, per certi versi, nel cristianesimo stesso - esulano dal tema qui esaminato; gli aspetti legati alla cosmologia del macrantropo non sono, infatti, propriamente riconducibili al concetto di gigante, inteso come essere di dimensioni straordinarie ma non cosmiche e totalizzanti. Meritano invece di essere considerate le implicazioni del gigantesco nelle arti figurative: vale a dire la sovradimensionalità della figura umana nella rappresentazione della stessa, indipendentemente dall'appartenenza alla categoria fantastica del gigante. In altre parole, il Colosso di Rodi, pur non rappresentando un gigante in senso stretto, è tuttavia legato all'idea di gigantesco con tutte le suggestioni poetiche e letterarie che questo comporta. L'idea del gigante in quanto essere dalla corporatura abnorme riaffiora spesso nell'ambito delle antiche civiltà del Mediterraneo. Nella letteratura greca la prima menzione dei Giganti è in Esiodo, dove essi vengono ricordati come progenie di Urano, nati dai genitali del dio recisi da Crono: dalle gocce di sangue nacquero le Ninfe, le Erinni e "i grandi Giganti di armi splendenti" (Teogonia, v. 185). Per avere maggiori ragguagli ci si deve però riferire alle Nemee (1, 67) di Pindaro, dove viene descritta la Gigantomachia, ovvero la lotta fra Zeus e i nati da Gaia fecondata dal sangue di Urano, episodio assolutamente ignoto tanto a Esiodo quanto a Omero. Il mito ricorda assai da vicino quello della Titanomachia di Esiodo (Teogonia, vv. 605-745), tanto è vero che Apollodoro, molto più tardi, precisa che Gaia dette alla luce i Giganti per vendicare i Titani e che in seguito generò Tifeo per via della sconfitta di quelli. Nella Titanomachia di Esiodo, però, dove si narra della lotta dei Titani contro Zeus che li spodesterà insieme a Crono, non si fa cenno ai Giganti e nel racconto compaiono soltanto, come alleati di Zeus, i Centimani con cinquanta teste e cento braccia. È da notare che nella Teogonia non si fa alcun riferimento alle dimensioni dei Titani, dei Centimani o dei Giganti. Ci sono, è vero, generiche allusioni alle 'forti membra' o alla 'grande forza' di queste figure mitologiche, ma di fatto, la convinzione del lettore che si tratti di esseri fuori del comune nasce dal loro continuo accostamento agli elementi naturali, che vengono letteralmente scossi dall'infuriare della battaglia ("e terribile intorno muggiva il mare infinito e la terra rimbombava e gemeva il cielo ampio", Teogonia, vv. 668-69), secondo una tecnica di narrazione che è comune anche all'Iliade.

Le dimensioni di Titani, Giganti, Ciclopi e altre creature mitologiche di questo tipo sono uguali a quelle degli dei, come dimostrano anche i gruppi scultorei arcaici, per es. quello dell'Hekatòmpedon, conservato al Museo dell'Acropoli di Atene, che rappresenta la lotta fra Atena e i Giganti: l'insieme ha un'altezza massima di 2 m, corrispondente a quella di Atena, per una larghezza di poco inferiore (1,96 m), costituita dalla figura del Gigante disteso; le misure dei due protagonisti sono dunque simili. Anche nel celeberrimo fregio dell'Ara di Pergamo, Zeus e i Giganti sono di pari dimensioni. Dimensioni comunque divine, se rapportate all'altezza media dei greci di allora, in confronto alla quale poteva apparire di statura gigantesca - secondo quanto riportato nelle descrizioni dei contemporanei - Filippo II di Macedonia, il padre di Alessandro Magno, che invece, dopo i ritrovamenti della tomba reale di Verghina, in Macedonia, si sa non poter stato più alto di 1,70 m (Rhomiopoulou 1978). In confronto con la statura media dovevano essere considerate colossali opere come, per es., il Kùros da Melos, o il cosiddetto Poseidon di Capo Artemisio, alti rispettivamente 2,14 m e 2,09 m (entrambi conservati al Museo Nazionale di Atene) e l'Apollo del frontone del Tempio di Zeus a Olimpia (conservato al Museo Archeologico della città), di addirittura 2,75 m.

La differenza dimensionale fra esseri divini e uomini viene chiaramente definita nell'Odissea, dove il Ciclope Polifemo è descritto come 'mostro ammirevole', da non paragonarsi a nessun uomo 'mangiatore di pane' ma a "picco selvoso di eccelsi monti" - confronto efficace per dire che si trattava di un gigante isolato fra cime di per sé eccelse -, capace di spostare come un fuscello l'enorme masso che chiudeva la porta del suo antro, quando, a detta di Ulisse, "ventidue carri buoni, da quattro ruote, non l'avrebbero smosso da terra" (9, 241-242), e di afferrare i compagni di Ulisse a due a due con una sola mano per poi farne un solo boccone. Precisi riflessi di queste indicazioni narrative si hanno nelle raffigurazioni artistiche dell'episodio omerico, per es. nella scena dell'accecamento del Ciclope rappresentata dal pittore detto 'di Polifemo' sul collo di un'anfora della metà del 7° secolo a.C., conservata al Museo di Eleusi, nella quale Polifemo appare enormemente più grande di Ulisse e dei suoi compagni. Questo episodio-chiave dell'intera vicenda venne poi ripreso in complessi monumentali, come quello della Grotta di Tiberio a Sperlonga, di cui sono rimasti frammenti colossali della figura del Ciclope. Al di là degli specifici riferimenti al poema omerico, l'uso di dimensioni abnormi per la rappresentazione della figura umana rimanda inevitabilmente al piano divino o a quello regale. Si pensi, per es., alla statuaria egizia e in particolare a opere come le gigantesche figure dei templi di Abu Simbel o di Luxor, dove le grandi proporzioni delle statue attestano visivamente l'appartenenza anche dei sovrani a un piano superiore: quello divino. Analogamente nel gruppo di Ammone e Tutankhamon conservato al Museo Egizio di Torino, apparentemente dio e sovrano hanno la stessa altezza, e ciò conferisce autorità al faraone (ma quest'ultimo è in piedi, mentre Ammone è seduto). Del resto, una maggiore dimensione implica una più grande visibilità e, quindi, una precisa funzione sociale e religiosa. Per questo le teste degli idoli dell'Isola di Pasqua, che hanno il compito di mantenere costante il mana (ovvero l'equilibrio fra la dimensione umana e quella divina) e quindi la prosperità degli abitanti dell'isola, hanno proporzioni decisamente fuori della norma. L'equazione grandezza = importanza è una relazione di tipo transculturale, connessa sia al piano religioso sia a quello politico. In questo senso si spiega bene per quale motivo esseri di dimensioni gigantesche si trovino nell'ambito dei miti cosmologici: poiché tutto ciò che accadde agli albori del mondo appartiene a una dimensione ultraumana, anche i personaggi di questi racconti sono tangibilmente più grandi degli uomini. La condizione non è esclusivo appannaggio della mitologia greca. Nella Bibbia (Genesi, 6, 4-7; Numeri, 13, 32-33; Sapienza, 14, 6; Baruc, 3, 26) vengono a vario titolo citati i Nefilim, giganti superbi e malvagi che costituivano la generazione precedente il diluvio. Anche negli apocrifi veterotestamentari noti come Libri di Enoch, considerati in buona parte testi ispirati dai Padri della Chiesa fino al 5° secolo, si narra degli spiriti celesti che, essendosi innamorati delle figlie della Terra, hanno generato la stirpe dei Giganti, i Nafil, esseri corrotti e malvagi (Libro dei vigilanti, 2,10; Apocrifi dell'Antico Testamento 1981). Con la scoperta di The book of giants, pubblicato da W.B. Henning (1943-46), la conoscenza delle vicende relative ai Giganti si fa ancora più precisa, diffondendo il nome di questi esseri mitici e la previsione della loro distruzione dopo il diluvio.

Tutti questi racconti, sia quelli appena ricordati di tradizione gnostica fioriti in ambito ebraico e siriaco, sia quelli di tradizione classica, ricalcano il medesimo schema secondo cui le genti originarie, quelle cioè nate prima dell'instaurarsi dell'ordine cosmologico di Zeus e quelle vissute prima che il diluvio purificasse la Terra, portano nella realtà delle loro dimensioni abnormi il macroscopico sigillo di una disarmonia che li connette indissolubilmente all'idea di disordine e di caos. In ambito greco è un gigante Polifemo, mentre nella narrazione biblica è gigantesco Golia. Secondo la descrizione biblica (I Samuele, 17, 4 segg.) il filisteo era alto 'sei cubiti e una spanna'(cioè 2,97 m, tenuto conto del fatto che il cubito egiziano corrispondeva a 45,8 cm). Al di là dell'evidente esasperazione, è chiaro che la funzione narrativa del gigante è quella d'incarnare il male, che David riesce a superare soltanto grazie alla cieca fiducia in Dio. Ma proprio per questo le dimensioni di Golia sono fuori della norma: per accrescere la capacità e l'abilità di David e, al contempo, per sottolineare l'aspetto non umano del nemico. In qualche modo Golia si pone come l'ultima propaggine di quella genia malvagia rappresentata dai Nefilim ricordati nella Bibbia, anche se non c'è nessun esplicito richiamo. Tuttavia è sufficiente che Golia, come Polifemo, sia un essere gigantesco per confinarlo in una condizione primordiale e maligna. Tanto è vero che David si troverà ad affrontare altri giganti filistei (II Samuele, 21, 16, 18, 20, 22), dotati addirittura di sei dita per ciascuna mano. L'aspetto negativo del gigantismo, che connota la natura corrotta e antiumana, si ritrova nella figura dell'orco delle fiabe. La tipologia dell'orco catalogata secondo il sistema di S. Thompson (1946) non solo prevede dimensioni esorbitanti, ma anche una precisa attitudine al cannibalismo, soprattutto nei confronti dei bambini. Lo testimoniano, fra l'altro, le numerose filastrocche in rima di cui è esemplare quella contenuta nella favola L'Orco con le penne proveniente dalla Garfagnana e raccolta da I. Calvino (Fiabe italiane 1956) che così suona: "Mucci mucci, Qui c'è puzza di cristianucci, O ce n'è o ce n'è stati, O ce n'è di rimpiattati" (p. 217). La tipologia di questa fiaba rientra in quella catalogata da Thompson come Three hairs from the devil's beard, "tre peli della barba del diavolo", che sottolinea esplicitamente il carattere negativo dell'orco. Nel caso della celeberrima fiaba di Pollicino resa nota da Ch. Perrault, l'orco è un vero e proprio gigante. La fiaba appare vicina a un'altra tipologia studiata da Thompson, quella di Jack the giant killer, nota in Italia come L'ammazzagiganti. Nella versione originaria Jack viene in possesso di un fagiolo da cui nasce un altissimo germoglio e sul quale il piccolo protagonista riesce ad arrampicarsi, arrivando così a girovagare in una nuova realtà: qui s'imbatte in una vecchina che gli parla di un gigante che possiede oggetti magici dalle proprietà meravigliose. Il bambino si reca allora a casa del gigante, dove, nascosto nel forno, ha modo di osservarlo mentre raccoglie le uova d'oro depositate da una gallina fatata. Jack ruba la gallina e la porta alla sua mamma. Più tardi torna dal gigante per prendere altri oggetti meravigliosi, ma viene rincorso dall'omone che si cala lungo lo stelo nato dal fagiolo fatato. Jack, però, è più svelto e, giunto a terra, taglia la magica pianta provocando la caduta e la morte del nemico. Al di là delle implicazioni psicoanalitiche sarebbe possibile riscontrare in questa fiaba e al di là dell'indubbia funzione di 'prova' rappresentata dal gigante, quel che è certo è che il valore negativo degli orchi e dei giganti nelle fiabe trova il suo fondamento proprio su elementi di carattere dimensionale, attraverso i quali viene sottolineata l'appartenenza del personaggio al mondo non umano.

La natura negativa del gigante e dell'orco emerge anche in uno dei monumenti più affascinanti del tardo Cinquecento, il Sacro Bosco di Bomarzo (Viterbo) voluto da Vinicio Orsini fra il 1522 e il 1580. Qui il visitatore è accolto da un imponente gruppo scultoreo che rappresenta un Gigante nell'atto di lacerare un avversario, mentre più avanti, sulla piana, si erge l'enorme testa di un Mostro (o un Orco) dalla bocca spalancata. Nell'uno e nell'altro caso i due elementi si pongono come tappe 'intimidatorie' di un percorso iniziatico che conduce al tempietto in antis fatto erigere dall'Orsini in memoria della moglie. Gli aspetti favolistici legati alla figura del gigante si mescolano spesso con elementi delle tradizioni popolari, come quella fiorita nella città di Messina che vede nei due Giganti (un guerriero, Grifone, e un'amazzone, Mata) dei veri e propri numi tutelari. Grifone è un bel moro: ha i capelli crespi e foltissimi, porta gli orecchini e indossa un'armatura. Sotto, veste una tunica bianca e rossa e si copre con un mantello stellato. Con la sinistra imbraccia uno scudo che è l'emblema di Messina. Mata, che la leggenda vuole sia una lavandaia di Camaro di cui Grifone si è innamorato, è bella e sorridente e porta sul capo una corona con le tre torri (Lombardi Satriani 1971). In questo caso tali esseri giganteschi hanno valore positivo, ma in altre leggende come quella del paladino Orlando contro il Gigante di Costacciaro, la figura riprende il suo valore negativo (Sulle orme di Orlando ... 1987). Del resto è questa la connotazione che Dante attribuisce ai terribili Giganti che, a guisa di cinta muraria (come quella di Monteriggioni), vegliano sul pozzo dell'inferno. Anzi, il suono del corno di Nembrot viene dall'Alighieri paragonato proprio al suono dell'olifante del paladino francese (Inferno, 31, 16-17 e 40-44).

2.

Significati religiosi e politici del gigantismo nella rappresentazione figurativa

Al termine di questo excursus sulla figura del gigante nell'immaginario dell'umanità, resta da affrontare la problematica del gigantismo cui più volte si è accennato e che, indubbiamente, dal punto di vista anatomico appare quella più interessante, in quanto implica motivi e scelte per la rappresentazione di una figura con dimensioni abnormi. Come si è detto prima, le ragioni che spinsero, fin dall'antichità, a realizzare simili opere sono esclusivamente di segno religioso o politico. Perfino il Colosso di Rodi, che sembra fosse dotato di uno specchio per fungere da punto di riferimento ai naviganti e fare da pendant al Faro di Alessandria, viene considerato dagli eruditi del tardo 16° secolo 'colosso del Sole', anche per via della confusione con l'altro colosso, quello di Roma, che pare sia stato dedicato al culto dell'astro dopo la morte di Nerone (Baltrušaitis 1979). In ogni modo, il più delle volte, erano di dimensioni gigantesche le statue dedicate a divinità importanti. Un esempio famoso è rappresentato dalla statua di Atena Pròmachos scolpita da Fidia e innalzata sull'Acropoli di Atene, le cui dimensioni erano talmente grandi che - racconta Pausania - i naviganti potevano vederne la punta della lancia e quella del cimiero, inondate dal sole, non appena avessero doppiato Capo Sunio. Esempi analoghi nel mondo classico potrebbero moltiplicarsi: basta ricordare altre celebri opere di Fidia, come l'Atena Parthènos, alta 12 m, o lo Zeus di Olimpia. L'amore per le statue dalle dimensioni colossali non fu però esclusivo appannaggio della cultura greca antica. È sufficiente, a mostrarlo, ricordare, oltre agli idoli dell'Isola di Pasqua, le statue colossali di Buddha, a cominciare dalle due di Bamiyan che misurano rispettivamente 52 e 35 m. Il fenomeno del gigantismo nel mondo buddista è dovuto al fatto che l'oggetto di culto è ormai considerato Cakravartin, "signore universale"; la sua maestà trova riscontro nell'impiego di proporzioni enormi nel rappresentarlo (Silvi Antonini 1991). Si tratta di un fenomeno diffuso, come evidenziano le statue nelle grotte di Yun Kang o di Lung in Cina, e statue colossali del Buddha coricato nell'Asia sudorientale, come per es. quella realizzata a poca distanza dalla città di Ayuthya, che a partire dal 1350 ebbe per quattro secoli il ruolo di capitale dell'impero thailandese. In questi casi la motivazione di base è di ordine religioso: nelle immense dimensioni della statua, al di là dei significati teologici, si vedeva la maniera più adatta per rendere omaggio a questa o quella divinità. In senso analogo bisogna interpretare anche la realizzazione di statue colossali con l'effige di imperatori o di sovrani.

La raffigurazione gigantesca di tali simulacri ha infatti il duplice valore di forma di omaggio e di affermazione dell'autorità della persona raffigurata. Così, per es., il Colosso di Barletta (la statua di un imperatore orientale non identificato, che, trafugata dai veneziani, rimase, a causa di un naufragio, a Barletta, ove tuttora si trova, sul fianco della chiesa del San Sepolcro), oppure i frammenti di quello che fu il Colosso di Costantino (conservato ai Musei Capitolini di Roma, di cui rimangono, oltre alla testa, la mano, un braccio, una gamba e un piede) testimoniano come la rappresentazione sovradimensionata del sovrano servisse a renderne concreta l'immagine regale. In questa maniera, infatti, il gigantismo dell'immagine sottolineava a meraviglia il divario esistente fra il monarca e gli altri - fossero essi popolo o alti dignitari - autorizzando nel contempo l'assimilazione della figura del sovrano al piano dell'assoluto e del divino. Naturalmente, con l'avvento del cristianesimo, questo modo di procedere decadde: l'unico degno di avere un simulacro di dimensioni colossali, infatti, sarebbe stato Gesù Cristo. In ambito cristiano, tuttavia, la funzione delle statue colossali fu piuttosto assunta dalle chiese e dalle cattedrali che, non per caso, vennero realizzate di dimensioni sempre più imponenti. È solo con il 19° secolo che - salvo sporadiche eccezioni, come la statua dell'Appennino nella Villa Medicea, poi Demidov, di Pratolino (v. antropomorfismo) - ritornano in auge le statue colossali, ma naturalmente con intenti del tutto diversi. Ci si può riferire in particolare alla celeberrima Statua della Libertà realizzata dal francese F.-A. Bartholdi e installata nella baia di New York nell'ottobre del 1886, dopo poco meno di un decennio di lavoro. Per quanto ispirata a motivazioni del tutto diverse, cioè all'intento di celebrare un concetto astratto e non un individuo o una divinità, la statua newyorkese si può considerare la summa del percorso mentale che portò a realizzare opere come la Sfinge o il Colosso di Rodi. Pur essendo cambiato lo scopo e la funzione della statua colossale, ne rimaneva intatto il fascino. Lo prova un'altra opera, realizzata da J.G. de La Mothe Borglum, che fra il 1927 e il 1941 scolpì le teste di quattro dei più importanti presidenti degli Stati Uniti d'America sulle cime del monte Rushmore, nei dintorni di Keystone, nel Dakota meridionale. Da sinistra a destra si riconoscono Washington, Jefferson, Roosevelt e Lincoln. Sebbene rientrino in ambito politico, però, le teste colossali non hanno nulla a che vedere, dal punto di vista semantico, con quelle ricordate appartenenti al mondo antico. Il loro valore, infatti, è, da una parte, quello di eternare nella roccia gli ideali umani e politici che i quattro statisti hanno rappresentato per la loro nazione e per il mondo intero e, dall'altra, di svolgere quasi una funzione totemica nei confronti della nazione che li ha voluti ricordare.

Bibliografia

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Sulle orme di Orlando. Leggende e luoghi carolingi in Italia, a cura di A. Galletti, R. Roda, Padova, Le Nuove Effemeridi, 1987.

S. Thompson, The folktale, New York, Holt, 1946 (trad. it. La fiaba nella tradizione popolare, Milano, Il Saggiatore, 1967).

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