GIARDINO

Enciclopedia Italiana (1933)

GIARDINO (dal fr. jardin, pronunciato anticamente giardin, di origine franca; sp. jardín; ted. Garten; ingl. garden)

Giuseppe LUGLI
Ernst KUHNEL
Luigi PICCINATO
Giuseppe LEPRI
Giovanni Vacca

Oriente. - Gli antichi decantarono come una delle meraviglie del mondo i grandi giardini di Ninive e di Babilonia, sospesi su colossali terrazze artificiali poggiate su pilastri e vòlte. Diodoro (III, 10) e Strabone (XVI, 1, 5) ce ne conservarono ampie descrizioni. Gli scavi fatti nel palazzo di Sargon a Khorsābād e in quello presunto di Nabucodonosor non hanno fornito molti elementi per la ricostruzione di questi giardini, e soprattutto delle vòlte sottoposte. Sembra che queste fossero fatte di mattoni ben seccati al sole, uniti con malta, a conci radiali, oppure col sistema degli strati aggettanti. Su queste vòlte a più ripiani poggiavano terrapieni di notevole spessore, su cui erano piantati alberi disposti in viali rettilinei, con decorazione di statue e con sfondi di pareti istoriate a rilievo. Per evitare che l'infiltrazione delle grandi piogge, che si rovesciano in quelle regioni specialmente durante l'estate, nuocesse alla stabilità delle vòlte, si usava spalmare queste di bitume e resina e talvolta rivestirle di lamine di piombo. Così i giardini durarono molti secoli ed erano ancora in piena efficienza sotto i re di Persia. Quando Lisandro andò ambasciatore presso Ciro il Giovane a Sardi (407 a. C.) ebbe ad ammirare la bellezza degli alberi, l'ordine della loro disposizione, la simmetria dei viali e delle aiuole, la varietà e la soavità dei profumi. Lo stesso Ciro aveva disegnato la forma del giardino e prescelte le piante (Xenoph., Oecon., IV, 21).

Grecia. - Poco sappiamo dei giardini nell'antica Grecia; Omero nei suoi poemi si limita al ricordo di alcuni alberi, generalmente da frutta, e solo nella descrizione della reggia di Alcinoo (Odissea, VII, vv. 112-132) ci mostra un giardino artificialmente piantato con frutteto, vigna e orto. Nell'età classica i giardini si usarono solo a ornamento e cornice di alcuni edifici, come i templi, i portici, gli stadî, i ginnasî e le palestre; consistevano in gruppi di alberi al di sotto dei quali erano piantate aiuole fiorite. A differenza del giardino romano il giardino greco era lasciato il più possibile allo stato naturale, inquadrato nel paesaggio e non chiuso fra muri. A causa del clima, venivano molto coltivati gli alberi da ombra, come i platani, i pioppi, i cipressi, di cui si ammiravano quelli secolari piantati da Cimone nell'Accademia di Atene. Celebri furono i giardini di Teofrasto presso il Falero, quelli di Licurgo intorno al Liceo di Atene e quelli di Epicuro sulla via dell'Accademia.

Parte importante nella decorazione dei giardini greci aveva l'acqua, raccolta in bacini adorni con piante acquatiche e contornati da roseti, il fiore preferito dai Greci e introdotto a quanto sembra in Macedonia dal re Mida, onde col nome di Midae roseta si chiamava una speciale qualità di rose di serra.

Roma. - Fino agli ultimi decennî del sec. II a. C. l'hortus ebbe uno scopo essenzialmente pratico; si coltivava il terreno soltanto per ricavarne gli alimenti necessarî al vitto giornaliero, ma senza ornamenti superflui. Tanto i giardini della città quanto le ville della campagna rappresentavano per i sobrî cittadini dei tempi più antichi un capitale da mettere a profitto mediante la coltivazione. Occorre giungere fino all'età di Varrone perché il concetto del tutto utilitario dell'orto subisca una prima trasformazione. Nel suo trattato De re rustica Varrone infatti assegna già una certa parte alla coltivazione dei fiori, destinati a ornare gli altari degli dei e i sepolcri dei congiunti.

Nell'età di Silla avviene una netta divisione tra la villa rustica e la villa signorile; la prima rimane specialmente nel suburbio e nelle campagne, la seconda nelle città o nei dintorni di esse. Anche il nome fu allora parzialmente modificato: col singolare hortus si usò designare il primo tipo, detto anche villa; col plurale horti il secondo, forma complessa di edifici e giardini. Fu questa una conseguenza dell'agiatezza derivata a un ordine di cittadini dal governo delle provincie e dai bottini delle guerre sociali e civili. In Pompei si ammirano tuttora alcuni giardini di questo periodo nei peristilî delle case del I e II stile, ricostruiti con assoluta fedeltà in base all'esame del terreno, che ha permesso di riconoscere dai resti delle radici la posizione e la natura delle piante.

Un aiuto notevole forniscono a questo scopo anche le pitture di giardini che gli stessi antichi ci hanno lasciato, come a es. quelle della villa di Livia a Prima Porta sulla via Flaminia, del così detto Auditorio di Mecenate sull'Esquilino, e delle case dei Vettii e degli Amorini dorati a Pompei.

In generale, lo spazio riservato al giardino era diviso secondo linee rette e simmetriche: il centro era costituito da un piazzale con fontana, dal quale avevano principio i viali maggiori, possibilmente diritti e ortogonali fra loro: ai lati dei viali correvano lunghi filari di rosmarino e di mirto, tagliati all'altezza del petto di un uomo, per permettere di spingere lo sguardo liberamente verso la campagna; a dati intervalli, e soprattutto agl'incroci dei viali erano erme e statue marmoree, sedili e vasi finemente lavorati, con piante odorose.

Il desiderio di adornare la villa con giardini crebbe verso la fine della repubblica, specialmente per opera di Lucullo e di Sallustio. Lucullo, ricco per eredità paterna e arricchitosi ancor di più nelle guerre contro Mitridate e contro Tigrane d'Armenia, si era preparato nel ritiro degli ultimi anni una villa sontuosa sul monte Pincio, la prima di tal genere in Roma. E poco dopo, Sallustio, di ritorno dalla sua propretura nella Numidia, cominciava la costruzione di quei giardini fra il Quirinale e la porta Collina che dovevano essere anche in seguito i più grandi e i più ricchi del mondo romano. Ormai il giardino non era più limitato ad alcuni piazzali intorno alla casa, come nelle ville più antiche, ma era divenuto un complesso di costruzioni varie e lussuose, come portici, esedre, ninfei, bagni, tempietti, ecc., collegati fra loro per mezzo di lunghi viali con pergolati, boschetti, e talvolta con parchi interi.

Comincia così l'arte del giardinaggio vera e propria; l'opera del topiarius, giardiniere, non si limita più alla sola coltivazione delle piante, ma si preoccupa di dare a queste, mediante il taglio delle foglie e dei rami, anche un aspetto artistico. Questa moda speciale, opera di veri artisti, era chiamata opus topiarium, e gl'ingegnosi lavori eseguiti prendevano il nome di viridia tonsa o nemora tonsilia. Gli alberi più adatti allo scopo erano i sempreverdi, cioè il bosso, il cipresso e la quercia: venivano tagliati secondo figure geometriche (sfere, prismi, piramidi, coni) oppure in modo da rappresentare divinità, animali e paesaggi fantastici: disponendoli con arte in vasti piazzali e lungo i viali, si arrivava talvolta a comporre intere scene di caccia, flotte di numerose navi, ed episodi della guerra troiana o delle peregrinazioni di Ulisse. C'informa Plinio il Giovane che nella sua villa in Umbria, per mezzo di viridia tonsa, erano stati espressi a grandi lettere il nome dell'artefice e quello del padrone. L'invenzione dell'opus topiarium è un merito prettamente romano, attribuito da Plinio a Gaio Mazio dell'ordine equestre, vissuto verso la fine del sec. I a. C.

Altra forma di giardino preferita dai Romani era lo xystus, che consisteva in un complesso di viali e aiuole racchiusi in uno spazio limitato: il nome traeva origine dal greco ξυστός, che significa passaggio coperto, poiché la condizione principale dello xystus era quella di essere fornito di portici o di viali ombrosi. Si poneva quindi di preferenza entro i peristilî, nelle palestre delle terme e assumevano due nomi differenti a seconda delle dimensioni: ambulationes erano i viali minori fatti per semplice passeggio, e gestationes quelli più grandi, in cui si poteva essere trasportati in lettiga, di solito riparati da una fitta cortina di fronde intrecciate.

Durante l'impero la passione per i giardini e per le ville crebbe a dismisura; non vi era Romano di una certa condizione sociale che non possedesse una o più ville in campagna o al mare: i dintorni di Roma verso l'est e il sud, la Sabina, la Campania, erano i luoghi preferiti. A seconda dell'importanza della villa, tra i viali e i giardini veniva costruito un gran numero di edifici. Il più usato era il porticus, addossato di solito a un alto edificio o a un muraglione sostruttivo, con un lato riparato e l'altro aperto con colonne sul giardino, verso mezzogiorno o ponente. Derivazione del portico era il portico coperto o cryptoporticus (v. criptoportico). Altro edificio assai frequente è l'hippodromus, nome dato in origine al luogo ove si eseguivano le esercitazioni dei cavalli, ma che rimase poi come un semplice giardino della stessa forma. Gl'ippodromi potevano essere tanto in muratura, come quello del Palatino, quanto in vegetazione, come quello famoso che Plinio il Giovane ci descrive (Episi., V, 6, 32) nella sua villa in Umbria. Una caratteristica delle ville romane era l'abbondanza d'acqua, raccolta per mezzo di lunghe condutture in ampî ricettacoli; questi si ponevano di solito nella parte più elevata, perché l'acqua potesse accedere anche nei piani alti degli edifici e specialmente nelle terme e nei ninfei.

Gli alberi usati dagli antichi per i loro giardini erano presso a poco quelli stessi che usiamo noi oggi, come sappiamo da Plinio e dalle antiche pitture sopra ricordate: tra gli "alberi silvestri" erano l'abete, il faggio, il castagno, il pino silvestre, l'elce, il pioppo, la quercia e il rovere; "alberi urbani", detti dagli antichi anche mites, erano invece il platano, il pino fruttifero, la palma, l'olivo, il tiglio, il cipresso, ecc. La quercia, l'elce, l'abete e il pino, col loro fitto fogliame, erano preferiti per i grandi parchi; il pino e il cipresso si usavano anche in lunghe cordonate e a intervalli radi per fare da coronamento ai viali; il cipresso poi aveva lo speciale ufficio di rompere l'aria e quindi si poneva al confine dei giardini verso tramontana, donde il concetto del cipresso come divisione di proprietà. Anche gli alberi da frutta avevano gran parte nell'ornamento dei giardini. Nelle grandi ville era loro riservato un luogo speciale sulla collina (pometum), vicino all'oliveto e alla vigna; ma nelle ville minori venivano collocati nell'interno stesso del giardino, assai graditi nel mezzo delle aiuole di fiori, tra i cespugli di lauro e di mirto, oppure frammisti con alberi da ombra sui piazzali. Al loro tronco si usava avvolgere piante rampicanti, che si tendevano poi da un albero all'altro mediante canne, in modo da formare ombrosi pergolati (pergulae).

Per il lavoro di rifinitura e di abbellimento si usavano le piante molli: il lauro, nobile e sacro, nei boschetti attornianti i simulacri delle divinità, il bosso tagliato in mille guise nei lavori di topiaria; il mirto e il rosmarino per bordura dei viali a guisa di verdi parapetti; l'acanto intorno alle fontane, presso i ninfei e i loggiati; il capelvenere nell'interno dei ninfei, intorno ai getti d'acqua e alle nicchie adorne con statue; il basilico, il miglio, il loto, l'antille, e altre piantine basse sui prati, ai margini delle aiuole e a ridosso delle siepi.

In Roma, durante l'impero, le località preferite per i giardini privati erano il Pincio, detto per antonomasia collis hortorum, e l'Esquilino. Sul Pincio erano i famosi giardini di Lucullo, quelli degli Anici, dei Pinci che diedero il nome al colle, quelli dei Domizî presso la piazza del Popolo e altri minori; sull'Esquilino fondò per primo una villa Mecenate, l'amico di Augusto, il quale bonificò l'ampia regione tra la porta Esquilina e il colle Oppio, prima occupata da un sepolcreto popolare; il suo esempio fu seguito da altri nobili romani e liberti imperiali, quali L. Elio Lamia, T. Statilio Tauro, Pallante, liberto di Claudio, Epafrodito, liberto di Nerone, e nel sec. III dall'imperatore Licinio Gallieno, cui va attribuito forse quel grande ninfeo, detto tempio di Minerva Medica; celebri erano anche i giardini Variani, preferiti da Eliogabalo, fra la Porta Maggiore e la chiesa di S. Croce in Gerusalemme. Numerose ville sorgevano nel Trastevere, tra cui vanno ricordate quelle di Antonio e di Cesare, la quale ultima passò per testamento del dittatore in proprietà del popolo. Infine nel centro della città erano coltivati giardini entro i portici, le terme, e i templi: famosi quelli di Pompeo, nel Campo Marzio, quelli che attorniavano il mausoleo di Augusto e quelli attigui allo stagno e alle terme di Agrippa; a fianco dell'Iseo Campense era una piccola villa publica, per ritrovo di coloro che si recavano nei vicini saepta a votare.

Islām. - I primi giardini islamici si ricollegano in parte alla tradizione sassanide; tracce di architetture di giardini sono infatti tuttora visibili nelle rovine di Ctesifonte, dove pare che vicino al palazzo sorgesse un giardino zoologico (παράδεισος). La leggendaria Primavera di Cosroe, tappeto gigantesco con rappresentazioni di piante e d'animali, trovato a Ctesifonte dopo la conquista, ispirò per lungo tempo la disposizione dei giardini ideati dagli Arabi. I mosaici trovati nella grande moschea di Damasco ci rivelano quanto grande sia stato, fin dal tempo degli Omayyadi, l'amore per i padiglioni, per i chioschi e in generale per fantastiche architetture di giardini. Sotto gli ‛Abbāsidi la disposizione dei parchi annessi ai palazzi assunse importanza sempre maggiore, e nelle Mille e una notte troviamo descrizioni fantastiche di un genere che realmente esisteva in Baghdād. Fu particolarmente celebre la "Casa dell'albero", costruita dal califfo al-Muqtadir, che aveva posto un albero d'oro e d'argento con uccelli artificiali sui rami, in mezzo a una piscina circolare. Grandi giardini si estendevano a Samarra soprattutto verso il Tigri, con stagni, fontane, bacini, stadî, ecc. Già in quel tempo si trovano accenni alle serre. Talvolta piccole vasche o bacini venivano riempiti di stagno o di mercurio anziché d'acqua. Stimolati dall'esempio di Baghdād i Tūlūnidi impiantarono anche ad al-Fustāt grandi giardini ricchi di ogni sorta di piante e di animali. Circa lo stesso tempo sorse presso Cordova la villa di Madīnahaz-Zahră', costruita a terrazze, con bacini in molti ambienti interni e con decorazione plastica nei giardini; l'Alhambra e il Generalife mostrano l'ultimo stadio raggiunto in Spagna dall'unione fra architettura di palazzi e architettura di giardini, che continuò invece a fiorire nel Marocco, ove anche in epoca posteriore se ne trovano saggi notevoli (Fez, Meknes, Marrākesh). Nell'Oriente l'importanza assunta dal giardino diviene sempre più significativa nell'evoluzione dell'architettura civile. Le ville sui canali di Buchara erano altrettanto famose dei grandi giardini di Timur, a Samarcanda: il soggiorno prediletto di questo conquistatore, chiamato Bāgh-i Bihisht ("Giardino paradisiaco"), era costruito sopra una terrazza artificiale, ricca di marmi. L'arte dei giardini ebbe presso i Turchi un'evoluzione particolare, che culminò nei palazzi imperiali di Costantinopoli, con un'ingegnosa combinazione di padiglioni e di chioschi, con aiuole fiorite, dove venivano coltivati narcisi, giacinti, tulipani, garofani, ecc. Il cosiddetto "stile del tulipano", che imperò per alcuni decennî, sta a dimostrare come talvolta un fiore venuto di moda potesse per un certo tempo dominare tutto l'indirizzo artistico del luogo. Ma la massima armonia fra architettura e giardinaggio il giardino islamico la raggiunse nella Persia, con soluzioni così felici da non venir mai più superate. Caratteristica la sistemazione edilizia di IŞpahān, in quanto che nella sua ideazione fu tenuto conto del valore decorativo dei giardini. La grande strada del parco di Ciahār Bāgh, lunga tre chilometri, fiancheggiata da parecchie file di alberi e da ville, divisa da un canale centrale, era una delle meraviglie della residenza dello scià ‛Abbās. Nel recinto del palazzo, in mezzo a giardini accuratamente disegnati v'erano padiglioni graziosissimi, dalle forme architettoniche più svariate e in materiali leggerissimi, disposti in ingegnose prospettive. Nel "Giardino dello scià" ad Ashraf presso Astarābād, sette giardini rettangolari erano disposti l'uno accanto all'altro, e l'ultima notevole produzione dell'arte del giardino nella Persia è il parco a terrazze di Bāgh-i Takht ("Giardino del trono"). Il tipico motivo persiano dei bacini di varia forma collegati da canali, tra filari d'alberi e aiuole fiorite, penetrò anche nell'arte tessile coi cosiddetti "tappeti floreali".

Cina e Giappone. - Gli antichi re cinesi avevano giardini accanto al palazzo, con laghi popolati di pesci, anatre, uccelli; prati con recinti di cervi, torri, padiglioni (cfr. Mencio, I, 1 [v.]). Grandioso il parco del primo imperatore della dinastia Ts'in (250 a. C.), poco lontano dall'attuale Si-an (v.), pieno di laghi, corsi d'acqua, ponti, pergole, corridoi coperti, colleganti padiglioni variopinti, ricoperti di tegole smaltate a vivaci colori, boschi, prati, ecc.

Innumerevoli poeti d'ogni tempo hanno descritto i loro giardini. Notevoli sono le frasi commosse di Li Po (v.) che parla dei peschi fioriti e dei versi cantati in lieto convito con gli amici poeti, al chiaro di luna. Marco Polo (ed. Benedetto, Milano 1932, p. 248) descrive a lungo i meravigliosi giardini pubblici e privati della città di Hang-chow (v.) sulle rive del lago, pieno di barche e di fiori. I conventi buddisti o taoisti in valli pittoresche, in riva ai fiumi, sulle colline circostanti le città o su vette solitarie, sono sempre circondati da pittoreschi giardini. Il B. Odorico (v.) descrive nel suo viaggio l'ameno giardino di un convento presso Hang-chow, popolato di scimmie e altri animali addomesticati.

Nella creazione di un giardino cinese il concetto fondamentale consiste nel rifuggire dalla simmetria, nascondere l'opera dell'uomo, cercando di far apparire soltanto quella della natura. Gli elementi più comuni sono un lago, un ponte, un'isoletta, boschetti di bambù, di alberi ombrosi, padiglioni a vivaci colori, rocce di forme singolari, grotte, colline artificiali, viali sinuosi, disposti in modo da dare l'illusione di grandezza in un campo limitato, punti di vista inaspettati di monti o di laghi lontani.

Tra i famosi giardini delle città cinesi ancora esistenti, oltre a quelli imperiali di Pechino, sono da ricordare quelli innumerevoli dei conventi buddhisti e taoisti, dei templi confuciani, dei ricchi mercanti e delle corporazioni di Canton, di Ning-po, ecc., che il rapido incremento delle città moderne minaccia di travolgere.

Nei giardini cinesi sono caratteristici i fiori di peonia, di nelumbo, di crisantemo, ammirati singolarmente i bambù, i mandorli, i susini, i ciliegi, poi le camelie, le ortensie, le magnolie, ecc.

In Giappone dal sec. XV in poi l'architettura dei giardini, pervenuta dalla Cina e specialmente dai conventi buddhisti, si è svolta in un'arte complessa, divisa in scuole concorrenti. Secondo gl'iniziati, i giardini possono giungere a simboleggiare idee astratte di pace, castità, vecchiaia. Come nei giardini cinesi, sono motivi comuni l'acqua, laghi o cascate, le pietre singolari che raggiungono spesso prezzi favolosi, peschi, ciliegi, aceri, cespugli fioriti. Fra i più famosi giardini ancora esistenti sono da ricordare quelli di Kyōto, Tōkyō, ecc.

Medioevo. - Le condizioni politiche e sociali a cagione delle quali la città medievale si ripiegò su sé stessa chiudendosi nella cerchia murata, tolsero ai grandi giardini suburbani e alle ville ogni possibilità di sviluppo e la civiltà medievale a poco a poco ricostituì una propria arte del giardino conservando delle antiche tradizioni solo quella del giardino domestico racchiuso, segreto, murato o circondato di portici. Tali erano i giardini nei chiostri dei monasteri, che riallacciati agli antichi peristilî, continuano in certo qual modo lo spirito dei giardini romani.

Negli ambienti dei chiostri - quali oggi appaiono - possiamo invero ritrovare qualche elemento costitutivo del giardino medievale; come, a es., le caratteristiche loggette che, a guisa di padiglioni, sporgono dal quadriportico formando un chiosco o belvedere (chiostri di Fossanova, Assisi, Monreale, S. Sofia a Benevento, ecc.).

Altri elementi caratteristici sono le fontane e i pozzi, che, collocati quasi sempre in mezzo al giardino, rappresentano ordinariamente il fulcro dell'intera composizione (v. fontana).

Ma più che direttamente da modelli esistenti (nessun giardino medievale è giunto fino a noi), è indirettamente dalle fonti letterarie o pittoriche che noi possiamo precisare il carattere costitutivo del giardino medievale. In particolare sono i primi quattro capitoli del libro VIII dell'opera del bolognese Pietro de' Crescenzî, Ruralium commodorum libri XII, che ci illuminano e che, insieme con la descrizione contenuta nel proemio della III giornata del Decameron, ci aiutano a farci una completa visione di un giardino trecentesco. Il quale ci apparisce come composto di una successione di elementi caratteristici, ognuno dei quali risponde a una propria funzione e riveste un proprio aspetto.

Circondato da alte mura rivestite di edera o percorse da pergole o da spalliere verdi, il giardino dovrebbe avere una forma quadrata. Un grande prato centrale costellato di infinite varietà di fiori ospita nel suo centro una fontana dalla quale partono ruscelli e canaletti che irrigano tutto il giardino. Spalliere di aranci, di cedri e di melograni tutt'intorno. Segue il "giardino segreto" con le erbe aromatiche, medicinali e odorose. Poi il "giardino dei fiori" nel quale sono coltivati in aiuole regolari, quadrate o rettangolari, chiuse da bassissimi tralicci di canna, tutti i fiori più rari e variopinti. Poi il "viridario" nel quale sotto le ombre sempreverdi dei cipressi, degli ulivi, degli allori, dei pini, trovano ricetto gli animali che ornano il giardino. Poi ancora il "pomario" nel quale sono coltivate a spalliera tutte le piante da frutto. Poi la "peschiera" e l'"uccelliera". Nell'insieme di questi motivi noi vediamo tuttavia il giardino come qualche cosa di fine a sé stesso, di compiuto in sé, non vediamo la grande composizione architettonica unitaria né tanto meno troviamo l'ossatura di un'architettura unica del giardino e della casa, nella quale il primo sia logico e necessario completamento dell'architettura della seconda. Il giardino del Medioevo è una successione di elementi e di motivi più che una composizione, e in questo senso è difficile appunto trovare delle differenziazioni tra i varî paesi d'Europa, mancando il giardino di forme stilistiche specifiche derivate da composizione architettonica. Il giardino quindi valeva per le piante, per i fiori, per gli animali, per i frutti, per le acque, ed erano questi varî elementi che avevano valore intrinseco più che la loro composizione.

Rinascimento. - Con l'aprirsi della vita cittadina a nuovi e più larghi ritmi si apre anche una nuova epoca per l'arte dei giardini. Principi e signori costruiscono ville e "barchi" nei dintorni delle città e ornano di ricchi giardini i loro palazzi. L'arte del giardino, soprattutto in Italia, segue nel Rinascimento un netto processo evolutivo che, radicato alle sue origini nelle astrazioni dei trattatisti e dei letterati pervasi dall'amore della latinità, si svolge poi per opera dei grandi architetti in sontuose realizzazioni progredendo passo passo, intimamente connesso con l'architettura, fino a raggiungere forme generali definitive che permarranno nell'epoca barocca e non saranno disperse che dall'invasione del giardino romantico all'inglese. Possiamo quindi seguire facilmente questa evoluzione e il lento svolgersi del progresso che s'inizia nel sec. XV. Non è possibile tuttavia precisare un punto di partenza definito: piuttosto è possibile rintracciare le piccole conquiste isolate che poi condurranno alla formulazione dei principî generali. Fu nella metà del Quattrocento che si crearono i primi giardini di una certa grandezza presso le ville principesche, nel Milanese a opera dei Visconti, nel Ferrarese (Belfiore) per ordine dei Gonzaga, a Urbino, a Roma. E se fosse possibile una più completa documentazione potremmo fin da principio identificare quelle differenziazioni regionali che poi saranno più vive e precise verso la fine del Seicento.

Ma ciò che ci rimane dei giardini di questo primo secolo del Rinascimento è così scarso che dobbiamo, come per il Medioevo, ricorrere alle fonti letterarie e pittoriche. Così di grandissimo interesse per noi, sono le raffigurazioni della Hypnerotomachia Poliphili, nelle quali è immaginato il giardino dell'isola di Citera come costituito da una serie di settori anulari concentrici congiunti da viali radiali, divisi da canali e da ruscelli, coperti da pergolati, il tutto composto come un sistema radiocentrico completo, non dissimile dal mondo dantesco, o dalle raffigurazioni pittoriche dei sistemi teologici, o meglio ancora paragonabile alle "città ideali" che i trattatisti contemporanei si sforzano d'inventare. Ma questo giardino ideale così artificioso nella sua composizione, ci mostra però una tendenza del tutto nuova: quella di adoperare le piante quale materia architettonica e di fondere in un unico scopo architettonico opere murarie, statue, piante, spalliere, siepi, ecc. Così tutti gli elementi, se non acquistano addirittura un valore plastico, tuttavia sono pensati architettonicamente e adoperati indifferentemente con lo stesso concetto: essi diventano il mezzo rappresentativo di una composizione. È questo un primo passo importante del giardino del Rinascimento rispetto a quello del Medioevo. E un secondo momento fondamentale per il giardino italiano è rappresentato dalla presenza dell'architetto nella creazione del giardino e dalla grande attenzione che a esso rivolgono gli architetti trattatisti dell'epoca.

Leon Battista Alberti e Francesco di Giorgio Martini nei loro trattati dànno regole che ci fanno comprendere come si ponesse già come necessario impostare il giardino nel paesaggio e nell'ambiente, ricercando visuali e fughe d'alberi e come quindi il giardino non rimanesse più, come già nel secolo precedente, un episodio isolato, quasi indipendente dal quadro circostante. Un terzo passo importante finalmente è rappresentato dai primi tentativi di porre il giardino in diretto contatto con la casa, cercando di unire questa a quello con portici, logge e scale.

Il primo timido accenno a ciò è rappresentato dalle caratteristiche logge terrene che troviamo presenti nelle ville e nelle case di campagna (p. es. Villa Medicea di Careggi). Nulla, come si disse, ci è rimasto dei giardini del Quattrocento, ma la vivissima descrizione che Giovanni Rucellai nei suo Zibaldone ci dà del suo giardino a Quaracchi ci mostra in questo riuniti tutti i nuovi tentativi e i progressi del tempo. Qui difatti troviamo il viale che d'infilata prospetta sull'Arno, e la peschiera, e il giardino segreto e le pergole architettoniche e le piante tagliate ad arte topiaria secondo la descrizione di Plinio che era in voga allora.

Ma manca ancora quella parola nuova che dà il "tipo" e che invece con mirabile sintesi e forza ci daranno nel Cinquecento Bramante e Raffaello, quando saranno posti direttamente di fronte a un problema grande e nuovo: quello del giardino a ripiani impostato su un terreno montuoso in un paesaggio grandioso e solenne.

Nel giardino del Belvedere, costruito dal Bramante (1504) per ordine di Giulio II il problema di congiungere due ripiani di diverso livello appare per la prima volta affrontato e risolto con una ricchezza d' idee tale da rimanere senz'altro per tutti i successivi sviluppi dell'arte del giardino un caposaldo del valore di formula. L'architettura predomina e signoreggia: i ripiani divengono terrazze, i pendii diventano muri di sostegno, i piani inclinati diventano scalee o rampe e tutto è dominato da un'assoluta concezione unitaria che percorre da un capo all'altro il giardino con le sue simmetrie, con un inizio, con le pause, con un fine. E altrettanto si può dire per il giardino raffaellesco di Villa Madama dove però il fulcro dominante della concezione è la villa che signoreggia l'insieme e alla quale si riferiscono i varî settori del giardino. Questi due giardini, benché rimasti incompiuti, operarono nell'epoca come due avvenimenti d'arte d'importanza assoluta: ad essi si riferiscono più o meno tutti i creatori di giardini e da essi sembrano partire tutte le concezioni cinquecentesche. Con questi due il giardino romano di collina, architettonico e monumentale, si contrappone a quello fiorentino del Quattrocento più piatto, chiuso e frammentario.

I concetti dominanti di questi due giardini li troviamo difatti svolti poi ampiamente nei successivi giardini del Cinquecento, specialmente a Roma dove erano in gran voga le ville suburbane, le "vigne", gli orti. Il Vignola ne costruì tutta una serie: Caprarola, gli Orti Farnesiani, la Villa Giulia. Poi venne Villa Medici di Annibale Zoppi e Boboli e Bagnaia e, stupendo compendio di tutte le invenzioni della nuova arte, la Villa d' Este a Tivoli di Pirro Ligorio che si può considerare l'esemplare perfetto del giardino cinquecentesco, dove tutto è concatenato e unitario, e tutto dipende da un'idea architettonica generale. In questo giardino, difatti, i pìù varî elementi trovano perfetto svolgimento in un quadro generale come parti di un tutto: le peschiere, il giardino segreto, le grotte, i ninfei, le terrazze, i belvedere, i boschi, le fontane dipendono l'uno dall'altro e si collegano fra loro fino alla villa che domina e signoreggia l'intera composizione. Speciale importanza ha qui l'acqua: nel passato l'acqua appariva scarsamente adoperata ed esclusivamente sotto formaa di zampilli o di ruscelletti, qui invece è usata in tutte le guise: a zampilli, a cannelle, a ruscelli, a vasca, a cascata.

L'architettura di pietra tende a sottolineare e, in certi casi, a dominare l'architettura di verde offrendoci un altro punto caratteristico del giardino del Rinascimento: il dominio sempre maggiore del "costruito" sul "piantato" e quindi della pietra sulle piante. I fiori e le piante minute perdono ogni importanza nel quadro generale, e invece sempre maggiore ne acquistano gli elementi murarî e le piante di alto fusto. I fiori vengono così coltivati in appositi recinti, nei giardini segreti, mentre le essenze in uso si riducono di numero e si limitano a quelle sempreverdi che offrono maggiore possibilità di fare massa e architettura: pini, lecci, cipressi, allori. Tutti gli elementi a disposizione del giardiniere vengono indifferentemente adoperati a scopo architettonico come massa: alberi, prati, acqua, muri, scale, parapetti, ecc., e hanno valore più nella composizione che nel particolare.

Il giardino si anima di svariatissimi motivi decorativi, di "invenzioni", di macchine. Sono anzitutto le statue antiche, i sarcofagi, i gruppi scultorei che popolano i viali e i prati e che riempiono le nicchie nelle muraglie e nella verdura. Poi vasi grandissimi di pietra e di coccio, e sedili di marmo. Grandi ninfei con complicati giuochi di scalette e corridoi e grotte; grandi fontane monumentali in nicchioni fiancheggiati da colonne e contenenti talvolta idrorgani come quello portentoso di Villa d'Este; grotte rustiche tappezzate di scorie e di muschio; giuochi d'acqua sprizzanti zampilli improvvisi dai pavimenti. Il giardino del '500, insomma, è tutto "costruito", tutto architettato e tutto "giardino". Da esso è escluso completamente quel carattere utilitario che nel Quattrocento, coi pomarî e con i frutteti, ancora si conservava, ricordo del Medioevo. All'opposto qui invece tutto fa parte di una decorazione architettonica completa e perfetta che continua la casa nel giardino e porta direttamente all'aperto la vita di questa.

Seicento. - Il Seicento non costituisce, in sostanza, altro che un ampio svolgimento dei tipi di giardino proposti dal secolo precedente e consacrati come esempî dai trattatisti. Possiamo tuttavia riscontrare nel giardino secentesco due accenti caratteristici che ne individuano lo spirito e che preludiano a quello che sarà il giardino del rococò.

Uno di questi due punti è dato da un certo ritorno verso le piante come valore intrinseco. Nel giardino del '500, difatti, l'architettura domina sulle piante; nel '600 invece si risente il bisogno della larga e grassa pennellata di colore e di un'ampia larghezza di spazî e di respiro, per i quali le balaustre e le scale e le fontane non bastano più. Meglio quindi si apprezzano le grandi masse di verdura e i larghi e riposanti contrasti di luce e d'ombra per cui riacquistano valore fiori e piante.

Un'altra caratteristica è data dall'ingigantirsi continuo del giardino che tende a perdere i confini e a identificarsi con il paesaggio circostante. Era quella difatti l'epoca dello sfoggio delle grandi fortune; e i signori chiedevano, più che giardini, parchi immensi che tornano necessariamente ad accogliere gran numero di piante meno nobili e utili che il secolo precedente aveva disdegnato, rinunziando agli elementi elaborati, pur seguendo nella composizione generale i canoni della simmetria, del ritmo geometrico, della chiarezza logica che il secolo precedente aveva per sempre fissato.

È questa l'epoca dei più belli e sontuosi giardini che siano giunti fino a noi: a Roma e nei dintorni, specialmente, i grandi giardini spettacolosi non si contano più. Tutta una serie stupenda ne sorge a Frascati. Prima fra tutte la Villa Aldobrandini (iniziata nel 1601 da Giacomo della Porta per ordine del cardinale Pietro Aldobrandini, continuata dopo il 1604 da C. Maderna e da D. Fontana; i giuochi d'acqua dell'idraulico O. Olivieri), esempio massimo, monumentale nelle proporzioni e nelle dimensioni, nel quale appare per la prima volta il "teatro d'acqua", sviluppo diretto dei ninfei del precedente secolo, imitato dipoi fino alla fine del Settecento. Poi la vicina Villa Mondragone dei Borghese ricca di giuochi d'acqua, così chiamata dallo stemma di papa Boncompagni, risulta dall'unione di due ville, la Farnese o Altempsiana, e la Taverna, per opera del card. Scipione Borghese: gli edifici sono opera di M. Lunghi il Vecchio (1573) per la prima e di G. Rainaldi (1604) per la seconda. Il giardino e le fontane sono opera del Vasanzio e del Fontana. Villa Ludovisi, celebre per le due scalea, sorse col pontificato di Gregorio XV (1621-23) e appartenne ai Conti e ai Torlonia. Ha uno stupendo teatro d'acqua e una magnifica serie di scale e rampe. Villa Falconieri fondata dal card. Ruffini nel 1548 è quindi la più antica di Frascati: ma la villa attuale è da assegnarsi al 1650 quando i Falconieri che l'avevano acquistata vi fecero costruire il casino dal Borromini, il quale certo ne rimaneggiò il giardino. Il lago circondato dai celebri stupendi cipressi appartiene alla villa del 1548. Roma stessa si arricchisce di nuove ville urbane e suburbane: la Villa Ludovisi (ora distrutta) eretta nei primi anni del Seicento da C. Domenichino; quella Montalto (pure distrutta); i giardini Vaticani; la Villa Borghese, voluta dal card. Scipione Borghese e opera del Vasanzio; quella Sacchetti di Pietro B. da Giacomo del Duca e successivamente (1600, 1650, 1700) ampliata; Villa Pamphili, fatta costruire nel 1644 dal card. Camillo e opera di A. Alardi, fu molto trasformata alla fine del '700 e segna la transizione fra l'arte del '600 e quella del '700. E poi tutta una grande quantità di ville minori, di "orti", di "vigne", di "casini" in questa epoca recinge Roma di una stupenda fioritura, per la massima parte distrutta recentemente per far posto alle nuove espansioni edilizie.

Anche nelle altre regioni d'Italia nel Seicento sorgono infinite ville, a imitazione di quelle romane. A Firenze Boboli, col suo grande anfiteatro con l'"isolotto" e con lo "stradone", fu iniziato nel 1550 su disegno del Tribolo e continuato forse dall'Ammannati. Il Buontalenti costruì alcune grotte. Nei primi del Seicento fu ingrandito verso Porta Romana per opera di Giulio e Alfonso Parigi. La Gamberaia fu fondata nel 1610 da Zenobi Lapi e ha un delizioso piccolo giardino. La Villa Guerzoni presso Collodi era già finita al 1652: presenta lo schema delle ville romane.

In Lombardia sulle rive e sulle isole dei laghi i signori della metropoli lombarda costruiscono le loro ville. Le ville dei Borromeo sul Lago Maggiore nacquero per merito dei conti Carlo e Vitaliano i quali trasformarono in superbi giardini l'Isola Bella e l'Isola Madre.

Nel Piemonte per opera dei principi sabaudi sorgono ville e castelli: la Villa della Regina sorse presso Torino per opera del card. Maurizio di Savoia su disegno di Ascanio Vittozzi. Il giardino a ninfei, scalee e terrazze ricorda quelli romani. La Venaria Reale è opera di Amedeo Castellamonte per ordine di Carlo Emanuele II e fu rifatta in parte da F. Jurara e da B. Alfieri.

Nel Veneto i ricchi e nobili veneziani sciamano nelle loro ville estive sulle rive della Brenta e sulle Prealpi vicentine: nuovi giardini e parchi con peschiere sorgono sulle campagne del Padovano. In particolare ricordiamo la villa Barbarigo di Valsanzibio (Battaglia) che forse è la più vicina allo spirito delle ville romane di Frascati per la sua posizione in collina e per complessi giuochi d'acqua e viali e laghi.

Settecento. - Il diffondersi del gusto per la villeggiatura porta nel Settecento alla creazione d'infinite ville di minor mole. E il movimento iniziatosi nel Seicento tendente a una nuova valorizzazione delle piante e dei fiori continua il suo progredire finché addirittura prende forma concreta con nuovi aspetti e nuove regole: quelli del giardino cosiddetto "alla francese".

Il giardino "all'italiana" aveva provocato imitazione generale da parte di tutti i paesi d'Europa e le sue regole di composizione unitaria, prospettica e geometrica erano ormai diventate i canoni fondamentali per tutta l'arte del giardinaggio europeo.

In Francia soprattutto il gusto per il giardino all'italiana era vivissimo. Sennonché le nostre forme portate colà, in paesaggio più piatto e appena ondulato, con a disposizione alberi di maggior mole e di tipo diverso, finirono col trasformarsi prendendo una propria impronta originale d'arte, vera tipica creazione. Fu specie per opera dell'architetto André Le Notre che si concretarono le nuove forme in espressioni definite e furono soprattutto i seguaci del Le Nôtre che le diffusero in Europa e le portarono anche in Italia.

Nel giardino alla francese sono sempre i canoni del giardino italiano che dànno la regola della simmetria e del composto, ma le prospettive si allungano in senso orizzontale prolungando le visuali attraverso grandi distanze. Il terreno poco mosso non acconsente cadute d'acqua in verticale o grotte o scalee. Le cascate diventano bassins vastissimi e si diffonde il gusto per lo specchio d'acqua, dal quale zampilla un lungo stelo. I vastissimi prati poi si arricchiscono di un nuovo elemento ornamentale orizzontale: il parterre ricamato, disegnato, trapunto di fiori e di piante basse a varia tonalità di verde. Il parterre francese esprime stilisticamente il piano così come le scalee e le terrazze esprimono stilisticamente il terreno in pendio: e così i fondali dei belvedere, dei ninfei, dei teatri d'acqua sono in Francia sostituiti dai pavillons, dai berceaux, dai cabinets, dai treillages che arricchiscono i bosquets costituendo vere invenzioni del giardino francese.

La nuova moda entra anche in Italia e soprattutto in Lombardia, nel Veneto, in Piemonte, in Liguria, dove minore era la distanza e simili erano le condizioni del suolo e meno forti le tradizioni. La nuova moda dei parterres più si prestava per i giardini di minor mole: e lungo tutto il Settecento soprattutto i piccoli giardini vengono rimaneggiati e arabescati e ricamati e dipinti.

A Roma, dove già erano tante ville, poche di nuove ne sorgono: la più grande, la Villa Albani (iniziata nel 1750 su disegni di C. Marchionni). segue piuttosto la grande tradizione romana col suo portico semicircolare e insiste nelle antiche forme classiche. E così villa Corsini sul Gianicolo (opera del Fuga, 1725-1732; i giardini, furono però costruiti sotto il card. Neri Corsini; attualmente è trasformata nella pubblica passeggiata sul Gianicolo), la Villa Patrizi (edificata nel 1717 da Marciano e Francesco Vasi e ora scomparsa) e il giardino della villa Colonna. Questo fa parte dei grandi lavori di restauro del palazzo di piazza Ss. Apostoli iniziati nel 1713 dal card. Gir. Colonna. È congiunto con il palazzo mediante ponti che scavalcano via della Pilotta ed è celebre per il suo ninfeo. Ora completamente soffocato da recentissimi alti edifizî moderni.

In quest'epoca le ville di Napoli, a cagione della sontuosa corte borbonica prendono eccezionale sviluppo. Nascono a Portici la Villa Reale (costruita da A. Canevari, 1737-43, per Carlo III di Borbone) e a Caserta il celebre Palazzo Reale (opera del Vanvitelli e del figlio Carlo) con il retrostante parco pensato nella sua parte montuosa alla guisa dei grandi giardini romani, e in quella piana secondo la moda francese a parterres. Le cascate animate da gruppi sono alimentate da un acquedotto, pure del Vanvitelli, lungo 27 miglia. È veramente uno dei più solenni esempî di arte del giardino.

Speciale interesse hanno in questo secolo i giardini del Veneto che si moltiplicano continuando la fioritura del secolo precedente. Qui incontra speciale favore la moda francese: anzi, in un certo senso, in questi giardini possiamo trovare dei segni precursori del giardino alla Le Nôtre. La pianura veneta, difatti, meglio che le colline della Toscana o quelle di Roma, si prestava alle forme piane e orizzontali e in certo modo le esigeva. Ricordiamo le ville sulla Brenta come Villa Pisani a Stra, quelle di Vicenza, di Treviso, di Padova, ecc., tutte improntate alla caratteristica fisionomia locale veneta, piana, semplice e bonaria.

In generale è proprio nel Settecento che più evidenti risultano le differenze regionali dei giardini italiani: differenze che sono vive nel giardino altrettanto quanto lo sono nell'architettura e nella pittura. Se il giardino romano, difatti, detta una legge universale che costituisce poi il caposaldo formativo, d'altra parte le varie regioni d'Italia conservano nei loro giardini molti degli usi locali e sviluppano particolari caratteri.

Il giardino toscano si conserva più semplice, più minuto, più piano e più chiuso del giardino romano. La Toscana nel Seicento e nel Settecento resta un po' isolata dalle grandi correnti politiche e artistiche, e la vita si svolge meno pomposa e meno teatrale. Se il giardino romano è un superbo scenario, nel quale si muovono con feste e cavalcate e girandole papi principi e cardinali, il giardino toscano risente invece ancora delle suddivisioni in settori dei primitivi giardini del Trecento e del Quattrocento, nei quali sui praticelli recinti di alloro e di mortella si svolgevano le discussioni letterarie e i certami poetici. Così nel giardino toscano conservano ancora importanza le pergole e i boschetti per uccellare ("ragnaie") e anche certe piante utilitarie e non solamente ornamentali.

Il giardino ligure invece, ristretto in generale in poco spazio strapiombante lungo la costa, sviluppa particolarmente il suo carattere di giardino "terrazzato" a settori, con il mare per sfondo, e con gran numero di piante in vaso o arrampicate su pergolati: è proprio il tipo di giardino adatto alla villa e ai suoi ospiti.

Il giardino veneto non ama le fatiche del monte. Già i signori veneti non erano usi ai grandi giardini. Venezia stessa possedeva pochi giardinetti "chiusi" alla Giudecca, a Murano e anche dentro città, nei quali il motivo predominante era la "vera" da pozzo centrale alla quale portavano vialetti selciati che scompartivano regolarmente gli spazî. Un portico limitava da un lato il giardino e un muro traforato da finestre e da cancelletti lo separava dalla laguna. Quando i nobili veneziani si spinsero sulla terraferma non amarono giungere fino ai monti, ma, in generale, preferirono la pianura padovana e trevisana dove facili erano le ordinarie comunicazioni per vie d'acqua attraverso i canali. Anche le grandi ville venete hanno in comune con le minori quel tono pratico e alla buona che sta in mezzo tra la villa e la grande fattoria e che si ritrova in tutti i progetti del Palladio e dello Scamozzi. Lunghe file di porticati rustici recingono la "corte" e servono anche al deposito degli attrezzi. Davanti alla villa il canale coi ponti e con il cancello d'imbarco; e poi un giardino piano e regolare in generale piantato a rose. Dietro alla villa si succedono grandi prati a parterre fiancheggiati da altissimi alberi, talvolta divisi da un altro canale bordato da parapetti a balaustra e colonne sormontate da statue, di là dal quale la prospettiva continua con altri prati per andare a chiudersi con l'edificio delle serre o con quello delle scuderie o con l'aranciera. Aranciere e limonaie sono difatti una caratteristica delle ville venete e lombarde; la rigidezza del clima portava alla necessità di coltivare i limoni in grandi vasi sotto lunghissime pergole di stuoie rette da pilastri di muratura; e questo sistema di coltivazione introduceva un motivo caratteristico che ancora oggi rimane.

Il giardino della Lombardia che dapprima sembra muovere dai giardinetti "segreti" dei cortili del castello di Mantova, quasi stanze aperte, si apre poi a nuova vita con il giardino del Palazzo del Te. Ma in fondo fino al Settecento non si hanno esempi così monumentali come quelli che ci dànno i giardini romani.

È nel pieno Settecento, difatti, che fioriscono i grandi giardini, e tutti, come quelli veneti, con un vivo accenno alla vita pratica: scuderie, limonaie, "broli", finché poi con la villa Borromeo a Cesano Maderno il giardino non ha quasi più limite e trabocca unendo in un unico organismo architettonico villa, villaggio, giardino padronale e giardino rustico.

Il giardino piemontese ha carattere più aristocratico di quello veneto e di quello lombardo e disdegna la parte utilitaria. Prelude al giardino alla francese con tutti i suoi padiglioni di caccia, padiglioni cinesi e tempietti rustici. Anche il giardino piemontese sfrutta il movimento delle colline come già il giardino romano, ma l'impostazione dell'organismo ne è più paesistica e più ampia e quasi si perde nel paesaggio circostante.

Ma nonostante queste differenze regionali il carattere del giardino è dato sempre dalla sua ossatura classica, semplice, regolare e simmetrica che il Cinquecento aveva saputo dare; ed è questa ossatura classica che portata fuori d'Italia costituisce l'anima di tutti i giardini d'Europa in Francia, in Germania, in Austria. In Francia difatti, come si è detto, l'invenzione di Le Notre conserva pur sempre come scheletro la disposizione tipica del giardino italiano: ne fanno fede i giardini sontuosi di Versailles, i quali furono modello ai giardini della Germania, e dell'Austria.

La francesizzazione dell'Europa alla fine del Settecento diffuse il giardino alla Versailles. La Germania e l'Austria attraversavano in quell'epoca un periodo favorevolissimo per lo sviluppo delle ville e dei castelli. Tutti i principi tedeschi e i granduchi si costruivano ricche residenze e le volevano ornate di grandi parchi. Ricordiamo i più celebri: in Baviera il giardino del castello di Nymphenburg presso Monaco (cominciato dall'architetto italiano A. Barelli nel 1663 e continuato fino al 1777); quello del castello di Schleissheim (arch. Girard e Effner); poi celeberrimi i giardini che circondano le residenze imperiali di Potsdam presso Berlino e che videro Federico il Grande e Voltaire; il parco del castello di Würzburg; quello del castello di Schwetzingen; quello di Karlsaue a Kassel e infine quello di Karlsruhe in Baviera, in cui parco castello e città sono indissolubilmente legati in una planimetria unitaria.

In Austria famoso il giardino di Schönbrunn a Vienna; notevoli i giardini di Salisburgo e quelli di Dresda, Danzica e Praga.

L'Ottocento e il giardino "all'inglese". - Il giardin0 all'italiana e più ancora la sua diretta derivazione francese dominano senza contrasto fino alla fine del 1700, come si è detto, tutta l'Europa. Ma più debole ne è il dominio in Inghilterra, dove l'ampiezza del paesaggio e la qualità delle essenze mal si adattavano ad accogliere il minuto frazionamento delle masse del giardino meridionale.

In Inghilterra i giardini primitivi erano concentrati nei chiostri e nelle abbazie. Ma dopo la guerra delle Due Rose, potenti influssi del Rinascimento italiano e francese portarono un nuovo soffio di vita dall'Italia, dalla Francia e dall'Olanda.

Lo stile italiano fu probabilmente introdotto in Inghilterra da Enrico VIII a Nonesuch e da Wolsey a Hampton Court, ma già tutti i trattati di architettura del sec. XVI abbondavano di ampie e immaginose descrizioni delle meraviglie dei giardini italiani. Con Carlo II le forme del giardino inglese piegano decisamente per il giardino alla francese e fu appunto Carlo II che chiamò in Inghilterra il Le Nôtre il quale trovava già un substrato paesistico adatto nell'ampiezza dei panorami inglesi. Ma in genere, eccetto per esempio in Badminton o in qualche altro luogo, la sontuosità della maniera di Le Nôtre non incontrò entusiasmo: egli stesso dovette adattarsi all'ambiente meno sfarzoso, più modesto e più naturale come ci dimostra il suo giardino di St. James e il Parco di Greenwich.

Una forte reazione contro il formal garden si ebbe per opera di un gruppo di architetti paesisti (landscape gardners), caposcuola dei quali fu L. Brown. È di questo gruppo di architetti realisti che prese forma e nome il giardino romantico "all'inglese". Consoni con il romanticismo dell'epoca che rifuggiva dalle costruzioni involute del Barocco e dalle leziosaggini del rococò, esse misero al bando le antiche formule che costringevano la natura in forme geometriche definite e proclamarono la libertà della natura. Il giardino ideale dell'epoca romantica vuole essere una copia perfetta, anzi migliorata, della natura stessa: bando quindi alla linea retta, alla simmetria, alla geometria, a tutto ciò che non è spontaneo. Questo movimento di reazione all'artificio del giardino all'italiana si diffuse immediatamente e guadagnò tutta l'Europa. Favorevolissimo terreno trovò in Germania, in Austria, in Inghilterra e anche nell'Italia settentrionale: giunge per la prima volta a Milano dove il conte De Silva trasforma per primo la sua villa di Cinisello.

Così finisce il giardino all'italiana. I vecchi giardini quadrati e simmetrici e regolari vengono trasformati secondo la nuova moda d'Inghilterra. Non più scale o ninfei, o giochi d'acqua, ma vasti prati e laghetti pantanosi e salici piangenti e finti ruderi e cineserie e finto gotico e viali in curva e sentieri nascosti e serpeggianti accanto a ruscelli. Villa Aldobrandini a Roma viene trasformata e la seguono moltissime altre in tutta l'Italia: e a Caserta Maria Carolina nel 1782 fa venire da Londra il botanico G. A. Graefer e gli commette il giardino inglese.

Sennonché, nonostante la dispersione delle antiche forme e la passione per le nuove, in Italia non muore del tutto il dominio del classico; ma piuttosto scaturisce un tipo nuovo di giardino "neoclassico-romantico" nel quale alle forme vegetali naturali del libero romanticismo si connettono elementi di gusto classico o meglio neoclassico: altari, tempietti rotondi, statue, sfingi, sedili marmorei. Esempî bellissimi la Floridiana a Napoli dell'architetto A. Niccolini e la Villa Reale di Monza del Piermarini. Ma è una debole reazione e di breve durata: il giardino all'inglese la travolge rapidamente e la metà del sec. XIX trova completamente dimenticati i classici canoni con i quali Bramante e Raffaello e Pirro Ligorio avevmo saldamente costruito i giardini dei principi e dei cardinali.

Il giardino moderno. - Fino alla fine dell'800 e, si può dire, fin quasi ai giorni nostri il giardino, quale espressione artistica, accomuna le sue sorti a quelle che avevano dato unità alle antiche concezioni, l'anello di congiunzione tra casa e giardino che nel Trecento e nel Quattrocento era stato faticosamente saldato, si spezza del tutto. L'arte del giardino non è più opera degli architetti: del giardinaggio si occupano i giardinieri, i quali, naturalmente, seguono il gusto della moda che li portava al giardino all'inglese.

Vero è che le nuove condizioni sociali alla fine del secolo non possono dar campo a uno sviluppo dell'arte del giardino: ville sontuose i principi non ne costruiscono più. Tutt'al più qualche nuovo giardino pubblico, come quello di Milano, e poi qualche gramo giardinetto intorno ai villini, pretensiose caricature delle ville di un tempo. Lo spazio per piantare giardini manca del tutto; la città ingigantisce senza posa vertiginosamente, cingendo di officine e di ciminiere tutti i sobborghi dove ancora c'è spazio. I vecchi giardini patrizî a Roma (Villa Ludovisi, Villa Patrizi, Villa Montalto, ecc.), a Milano, a Napoli, a Genova vengono distrutti per dar posto ai nuovi quartieri, finché contro le soffocazioni insorgono igienisti e urbanisti onde arginare il mare delle case e salvare le ultime oasi di verde, per cui con il sec. XX i grandi nuovi giardini non sono più opera di privati ma diventano fatto urbano, rientrando nel quadro generale della città concepita urbanisticamente.

In Inghilterra e in Germania il gusto e la necessità delle zone verdi pubbliche trovano negli studiosi e negli urbanisti una seria preparazione favorevole, onde si creano nelle città i "sistemi di zone verdi" proteggendoli con speciale legislazione (v. urbanistica).

Attualmente con il risvegliarsi dell'architettura moderna anche l'architettura del giardino tende ad avere nuova vita. Anzitutto tornano a occuparsi del giardino gli architetti stessi, reagendo contro il giardino romantico all'inglese, perfino nella stessa Inghilterra dove, per opera di una giovane schiera di architetti paesisti, si afferma la necessità di schemi logici e architettonici e di stretto legame tra casa e giardino.

In Germania, dove il risveglio architettonico ha preceduto quello di altri paesi, e in Italia, in Francia, in Spagna e in America, il giardino è oggetto di amoroso studio con spirito assolutamente moderno, ma ben aderente alla logica architettonica. È di nuovo lo sforzo di aderire pienamente alla vita nuova della casa e di congiungere questa col giardino o, meglio, di far penetrare questo fin dentro la casa, con l'uso di grandi logge, portici e terrazze, immense vetrate e pergole all'italiana. Nuovi elementi del tutto moderni o per lo meno necessarî alla vita di oggi entrano a far parte del giardino: il portico per dormire all'aperto (lo sleeping porch di certe ville inglesi), il campo per il tennis, la vasca per i bagni all'aperto, il prato per i bagni di sole, il recinto per i bambini, ecc., sono elementi utilitarî dei quali il giardino moderno tien conto e che gli dànno, elaborati e composti in forme d'arte, la fisionomia architettonica.

L'orto, il frutteto, il giardino utilitario tendono a fondersi con quello ornamentale. Il quale non rifugge più come alla fine del secolo scorso dalle piante da frutto, ma le accetta e le inquadra come elementi decorativi. La composizione così torna ad adagiarsi sulle forme regolari, semplici e geometriche e l'architettura riprende a sua volta il dominio degli spazi sia pure con nuove proporzioni, nuovi ritmi, nuovi materiali. (Per i particolari cfr. le singole voci: fontana; labirinto; scala; terrazza; ecc.).

V. tavv. XXXIII-XXXVIII.

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Medioevo ed età moderna. - Molte delle opere generali come quella della Gotheim e quella del Dami contengono una copiosa bibliografia regionale. Per le fonti e la documentazione, particolare interesse ha avuto la mostra del Giardino Italiano organizzata dal comune di Firenze a Palazzo Vecchio nel 1931 e della quale esiste catalogo illustrato. Oltre le opere generali sull'architettura di L. B. Alberti, di F. di Giorgio Martini, di S. Serlio, di V. Scamozzi, di A. Palladio e in Le Vite di G. Vaseri, v. Pietro De Crescentii, Libro dell'Agricoltura, Firenze 1478; F. Colonna, Hypnerotomachia, Poliphili, Venezia 1499; G. B. Falda, Li giardini di Roma, Roma 1683; id., Nuovo teatro delle fabbriche... di Roma, Roma 1665; R. Gualterotti, Vaghezze di Pratolino, Firenze 1569; B. S. Sgrilli, Descrizione della regia villa... di Pratolino (con incisioni di S. della Bella), Firenze 1742; G. Zocchi, Vedute delle ville e altri luoghi della Toscana, Firenze 1744; G. Vasi, Magnificenze di Roma antica e moderna, X, Roma 1747 segg.; E. de Geymüller, Raffaello studiato come architetto, Milano 1884; B. Patzak, Die Villa Imperiale in Pesaro, Lipsia 1908; A. Véra, Le nouveau jardin, Parigi 1912; C. Ranck, Geschichte der Gartenkunst, Jena 1914; A. Grisebach, Der Garten..., Lipsia 1910; L. Niccolini, La reggia di Caserta, Bari 1911; B. Patzak, Palast und Villa in Toscana, Lipsia 1912; J. Burckhardt, Geschichte der Renaiss. in Italien, Stoccarda 1912; G. Chevalley, Gli architetti... delle ville piemontesi nel sec. XVIII, Torino 1912; M. L. Gotheim, Geschichte der Gartenkunst, Jena 1914; V. Cigala, Ville e Castelli d'Italia, Milano 1914-1915; M. Pasolini Ponti, Il giardino italiano, Roma 1915; E. Marchi Phillips e A. T. Bolton, Gardens of Italy, Londra 1919; G. Gramont, Jardins d'Italie, Parigi 1923; H. Donaldson Eberlein, Tuscany villas and gardens, Londra 1923; G. Giovannoni, Ville ital. nei rilievi dell'Acc. americana, in Rivista d'architettura e arti decorative, Roma, marzo 1923; L. Dami, Il giardino it., Milano 1924; H. Maasz, Kleine und grosse Gärten, Francoforte s. O. 1926; Th. Mawson, The art and craft of Garden making, Londra 1926; L. Piccinato, Giardini moderni, in Riv. d'arch. e arti decor., Roma 1926.

Giardini zoologici.

Si dà questo nome a quelle raccolte di animali viventi, tenuti, non in gabbie anguste, ma in recinti per quanto è possibile spaziosi, e riproducenti le condizioni di ambiente in cui vive l'animale allo stato libero. Oggi i giardini zoologici hanno uno scopo non solamente ornamentale o di curiosità, ma eminentemente scientifico e culturale, soprattutto da quando gli indirizzi della moderna biologia tendono sempre più allo studio dell'organismo vivente e del suo modo di comportarsi nel mondo esterno. Importantissimi sono i risultati che l'indagine biologica può ricavare da un giardino zoologico: intorno allo sviluppo degli animali, alla loro riproduzione, ai rapporti fra di loro, ai caratteri genetici, e alle leggi che governano la trasmissione di questi caratteri.

La consuetudine di tenere animali selvatici in cattività è antichissima, forse quanto l'uomo. Il culto prestato ad animali (v. animale: Gli animali sacri) favorì certamente l'uso di tenere nei templi, nei boschi sacri, esemplari viventi degli animali che erano oggetto di culto: anche oggi, in Birmania, nel monastero di They-Boo presso Mandalay, vi è un vero giardino zoologico, ricchissimo di specie, tenuto con grande cura da quei monaci; e così anche nel Siam, nelle pagode, si vedono spesso raccolte di animali vivi.

Alessandro il Macedone riportò numerosi animali dalle sue spedizioni militari, alcuni dei quali, come il pavone, si acclimarono perfettamente, ma essi, più che altro, servirono agli studî di Aristotele. I Romani, specialmente nell'ultimo periodo della repubblica e durante l'impero, furono grandi importatori di animali vivi: ma i bestiaria dei Romani erano semplici depositi di animali destinati al circo e non giardini zoologici. Del resto con il progredire del cristianesimo, i giuochi del circo decaddero e con essi i bestiaria. Durò più a lungo presso gl'imperatori bizantini che ebbero maggiori reazioni con l'Oriente ove l'uso di tenere animali vivi, spesso numerosissimi, fu sempre molto in auge e durò presso altre civiltà fino all'evo moderno; così lo Schonteus, visitando il Siam verso li metà del sec. XVII, trovò nel Palazzo Reale 6000 elefanti, di cui uno bianco, centinaia di ghepardi addestrati per la caccia, e poi tigri, leoni, bufali, ecc. Nell'Europa occidentale invece quest'uso decadde con il tramonto dell'Impero Romano. Durante il Medioevo sovrani e signori si limitarono a conservare nei loro castelli qualche fiera per procurarsi lo spettacolo di vederle azzuffarsi fra loro, senza contare le raccolte di animali vivi destinati alla caccia: daini, cervi, aironi, ecc.

Con il Rinascimento il nuovo indirizzo impresso allo studio della natura, il moltiplicarsi dei viaggi di esplorazione e le conseguenti scoperte di nuove flore e nuove faune, fecero rinascere il gusto per le raccolte di animali vivi specialmente se di paesi lontani, e si ebbero i primi giardini zoologici nel vero senso della parola. Uno dei primi in Italia fu quello di Ranuccio II Farnese a Parma, ricco di leoni, tigri, leopardi e antilopi. Anche i Medici, sul finire del '600, tennero animali selvatici viventi in una Specie di parco, presso le loro scuderie in Piazza S. Marco, e di tanto in tanto davano spettacolo al popolo di combattimenti fra animali; verso il 1690, nella loro tenuta di S. Rossore presso Pisa, introdussero e allevarono dromedarî, allevamento che viene anche oggi continuato dal re d'Italia. Il primo dromedario fu portato a San Rossore nel 1622 da Ferdinando II de' Medici; la soddisfacente prova invogliò all'acquisto di nuovi campioni. La mandra arrivò fino a 200 capi; oggi il numero è molto diminuito. I dromedarî sono utilizzati per il trasporto di materiale da un punto all'altro delle tenute su terreno accidentato. Ma anche fuori d'Italia si era intanto diffusa la passione per le raccolte di animali vivi, specialmente nelle nazioni dedite ai commerci marittimi. A Loo (Olanda) sorse sul finire del sec. XVIII un giardino zoologico notevolissimo per la grande quantità di animali che ogni anno vi giungevano dall'Africa, dalle Indie e dall'America, e che più tardi, nel 1776, ospitò il primo orango giunto vivo in Europa. Conquistata l'Olanda dalle armi francesi nel 1796, i pochi animali rimasti (il giardino in quegli ultimi anni era già molto decaduto) furono inviati quasi trofeo di guerra al Jardin des plantes di Parigi e arricchirono il primo nucleo del giardino zoologico. In Germania, sui primi del sec. XVI Augusto I di Sassonia teneva nel suo castello di Dresda animali vivi e inviava anche una spedizione a raccogliere animali in Africa e in Asia. Molto più importante fu il giardino zoologico fondato più tardi da Federico il Grande a Potsdam; il primo che ebbe un indirizzo scientifico e durò fino ai giorni nostri. Nel 1842 il re di Prussia ne fece dono alla società allora istituitasi per dotare Berlino di un giardino zoologico. Nel 1716 il principe Eugenio di Savoia, per non essere da meno di Luigi XIV che aveva costituito la Ménagerie di Versailles, impiantò un giardino zoologico al Belvedere piesso Vienna con una ricca collezione di animali, collezione che poi da Francesco I fu trasportata a Schönbrunn per servire di base al giardino zoologico imperiale, che divenne e rimase uno dei più importanti d'Europa fino a pochi anni or sono.

In Francia, nel 1657, Luigi XIV istituì una Ménagerie nel parco di Vincennes, dapprima raccogliendovi solo animali domestici: vacche, pecore, polli, ecc.; solo più tardi vi ospitò leoni, pantere e anche un elefante; ma pochi anni dopo, nel 1665, datosi ad ingrandire e ad abbellire il Palazzo di Versailles, vi aggiunse una grandiosa raccolta di uccelli di ogni paese, cervi e daini di ogni specie, qualche piccola scimmia ed altri animali; e sorse in tal modo un vero e proprio giardino zoologico, il primo in Europa che fosse creato con criterî moderni, e che presto divenne il più ricco d'Europa: ogni anno un incaricato del re partiva da Marsiglia per ritornare dopo qualche mese con tutti gli animali che aveva potuto raccogliere negli scali africani o del Levante. Nel 1698 il re ne faceva dono alla principessa Adelaide di Savoia. Sotto Luigi XV, e più ancora sotto Luigi XVI, il giardino zoologico di Versailles andò decadendo. Scoppiata la Rivoluzione, per imposizione dei giacobini gli animali furono posti in libertà, ad eccezione delle fiere, che furono consegnate al De Jussieu direttore del Jardin des plantes, ed insieme con quelli venuti da Loo pochi anni appresso, costituirono nel 1794 la Ménagerie du Jardin des plantes che ancor oggi si ammira.

Mentre prima della Rivoluzione francese i giardini zoologici furono opera o di sovrani, o al più di ricchi signori, divennero poi prevalentemente municipali: invalse l'uso di adornare le città, non solo con parchi e giardini, ma anche con giardini zoologici, popolando spesso i pubblici passeggi con animali di ogni specie. Parecchi ne sorsero in Francia: a Lione, Marsiglia, Nantes, Tolosa; in Germania a Düsseldorf, ecc. Nessuno tuttavia ebbe speciale importanza. L'uso si diffuse anche in America, specialmente nell'America meridionale, ove il primo è quello di Buenos Aires, sorto nel 1885 su una superficie di circa 18 ettari; attraversato da un corso d'acqua che forma tre laghi, è questo uno dei primi giardini in cui nella costruzione dei reparti si sia tenuto conto delle forme architettoniche proprie dei paesi da cui provengono gli animali.

Altri giardini zoologici sono invece istituzioni nazionali, e primo fra questi fu la già ricordata Ménagerie di Luigi XIV. Questa, durante la Rivoluzione non si arricchì se non di quei pochi animali che saltimbanchi e girovaghi vi depositavano non sapendo come mantenerli. Fu Napoleone I che ne assicurò l'esistenza e diede un grande impulso al suo sviluppo: furono creati nuovi reparti, aumentate continuamente le collezioni, mentre per opera di Giorgio Cuvier vi s'iniziava quella vita scientifica che doveva dare così importanti risultati: numerosi viaggiatori, quali il Baudin, il Milbert, il Leschenault, il Dumont d'Urville non mancavano, nei loro viaggi, di raccogliere animali vivi per il Jardin des plantes. Nel 1826 vi arrivava una giraffa, nel 1828 degli elefanti, ecc. È forse questo il periodo del maggior splendore del giardino zoologico di Parigi, non tanto per il numero e l'importanza degli animali, che è andato sempre crescendo, quanto per il fervore di vita scientifica e artistica cui diede luogo.

In America è istituzione nazionale il Parco zoologico di Washington, sorto nel 1885; è costruito parte su un altipiano, parte sui fianchi di un vallone boscoso al cui fondo scorre il Rock-Creek, affluente del Potomac; i suoi recinti e le sue case sono disseminati in mezzo a boscaglie, residuo dell'antica foresta vergine; numerosi animali indigeni vivono in completa libertà nel parco.

Ma i principali giardini zoologici europei e americani devono la loro origine all'opera di società fondatesi appunto con tale scopo: la prima fu quella di Londra nata nel 1822 sotto il nome di Zoological Club of the Linnean Society of London, denominazione poi cambiatasi in quella di Zoological Society of London, che accolse l'idea di J. Banks, compagno del capitano Cook, di fondare in Londra un giardino zoologico, e la realizzò in poco più di un anno. Il giardino di Londra crebbe e si arricchì rapidamente: le sue collezioni aumentarono ogni giorno per invii fatti dalle colonie, doni di ricchi inglesi o di sovrani esteri, fra questi i raja dell'India fecero a gara nell'offrire esemplari pregevoli. Nel 1836 vi giunse una coppia di giraffe che si riprodusse dando luogo a una discendenza che si è continuata per 50 anni; nel 1850 dal Cairo un ippopotamo, il primo venuto in Europa dal tempo dell'imperatore Commodo; 20 anni dopo vi fu accolto il primo gorilla. Questo giardino zoologico non è molto pittoresco, ma è il primo d'Europa per la molteplicità e varietà di animali. Tutte le specie più rare e interessanti hanno figurato, sia pure per poco, nelle sue collezioni, che ora contano più di 6000 esemplari.

Ad Amsterdam la Koninklijk zoologisch genootschap, sorta nel 1838 con il proposito di far progredire gli studî di storia naturale con mezzi attraenti e piacevoli, fondò un giardino zoologico, un museo di zoologia ed etnografia, e una ricca biblioteca. Il giardino zoologico, iniziatosi con l'acquisto di un serraglio ambulante, conta ora oltre 5000 animali, un acquario e un insettario. Il giardino zoologico di Berlino fu creato nel 1841 dalla Actien- Verein des Zoologischen Garten zu Berlin per iniziativa del naturalista-viaggiatore M. H. K. Lichtenstein e sotto il patronato del re Federico Guglielmo IV, che gli fu largo di aiuti pecuniarî e donò tutti gli animali del Parco di Potsdam. Lo Zoo di Berlino è situato tra questa città e Charlottenburg e occupa una superficie di oltre 25 ettari. Altri importanti giardini zoologici sono quelli di Dresda, Lipsia, Francoforte, ecc.

Il giardino zoologico di Anversa fu creato nel 1843 su un'area di 10 ettari, nel centro della città; le sue collezioni, specialmente le ornitologiche, sono molto ricche: è l'unico giardino europeo che attualmente possieda l'okapia, raro giraffide del Congo.

Un giardino affatto speciale è quello fondato nel 1873 a Stoccolma dal Hagelius nel Diurgården: è un giardino non solo zoologico ma botanico, etnografico, folkloristico nel più largo senso della parola; non soltanto vi si possono ammirare viventi quasi tutti gli animali indigeni, ma tutte o quasi le piante della flora svedese, mentre vi sono riprodotte, nella loro forma caratteristica, case, chiese, stalle della Svezia, e tutto il personale addetto al giardino indossa costumi nazionali: conservando usi e abitudini tradizionali, specialmente nei canti e nelle feste religiose.

Notevolissimo il giardino zoologico fondato a Stellingen presso Amburgo da Carlo Hagenbeck. Iniziatosi come deposito di animali destinati al commercio, divenne in seguito uno dei più grandi ed importanti giardini zoologici europei, raggiungendo un'estensione di oltre 22 ettari. Il Hagenbeck fu ideatore di un nuovo sistema di manutenzione di animali viventi, sistema che fu poi adottato da altri giardini e primo fra tutti da quello di Roma. Egli partì dal concetto che gli animali si sarebbero tanto meglio acclimati quanto più le condizioni d'ambiente fossero state simili a quelle dei loro paesi d'origine; onde, sempre che è possibile, abolizione di gabbie e recinti chiusi: gli animali sono lasciati liberi in spazî aperti, con alberi e rocce artificiali, circondati da fossati insuperabili ma dissimulati così da dare al visitatore l'illusione di vedere l'animale in piena libertà.

Negli Stati Uniti, oggi ha assunto una posizione di primato fra i giardini zoologici del mondo quello di New York, fondato nel 1898 sotto il patronato della Società zoologica di New York. Il New York Zoological Park occupa una area di 264 acri, di cui 30 spettano alle raccolte d'acqua; è ricchissimo di specie (1019 al 1923) e di individui (2724 al 1929), raccolti in collezioni di cui alcune, come quella dei micromammiferi, degli orsi, delle antilopi, di grandissimo pregio.

In Italia, Vittorio Emanuele II, oltre all'aver introdotto nelle sue tenute il nilgau (Boselaphus tragocamelus), che ancor oggi vive in buon numero nella tenuta di Castel Porziano, costituì una raccolta di animali esotici vivi, fra cui anche una giraffa, nel giardino reale di Boboli, a Firenze, e poi nel parco di Stupinigi, ove fece allevare canguri di varie specie. Poco prima un principe russo, Nicola Demidov, che aveva sposato la principessa Matilde Bonaparte, e che dal granduca di Toscana era stato creato principe di S. Donato, impiantò nella sua villa alle porte di Firenze un vero giardino zoologico, ove, per la prima volta in Europa. si riprodussero struzzi e antilopi di varie specie.

Il giardino zoologico di Roma è stato uno degli ultimi a sorgere in Europa, epperò, profittando dell'esperienza degli altri giardini, e applicando i nuovi criterî di C. Hagenbeck, ha potuto presto raggiungere uno dei primi posti. Una società anonima, appositamente fondata, sotto la presidenza del principe F. Chigi nel 1909, ottenne dal municipio la concessione nella Villa Umberto I di una vasta zona di terreno assai accidentato e dell'estensione di circa 14 ettari. I lavori furono condotti a termine in meno di un anno dietro le norme ed i suggerimenti di C. Hagenbeck, essendo intenzione dei promotori che il giardino zoologico di Roma dovesse essere del tipo di quello di Stellingen, nella speranza, anzi, che il clima più mite avrebbe permesso di tenervi un numero molto maggiore di animali. Purtroppo l'attuazione di questo progetto incontrò fin dal principio gravi difficoltà, soprattutto d'indole finanziaria, difficoltà che andarono a mano a mano aggravandosi, tanto più che la guerra libica prima, e poco dopo la guerra mondiale, resero impossibile ogni intervento da parte del governo per trarre la Società dal grave disagio in cui era caduta. L'intervento del comune si rese necessario, e la giunta municipale nel novembre 1917 deliberava il riscatto dell'azienda iniziandone la gestione diretta, e dopo pochi anni, nel 1925, la costituiva in azienda autonoma governatoriale, che riuscì a far risorgere l'istituzione. Le raccolte di animali del giardipo si sono venute così continuamente arricchendo. Nel 1925 constavano di 1553 animali con 345 specie; ora vi sono circa 3000 animali con oltre 400 specie. Molte di esse sono di grandissimo pregio: così l'orango, il più grande che si conosca vivente, le linci africane (Lynx caracal), i gatti messicani (Felis jaguarundi), il cane di Magellano (Cerdocyon magellanicus), i licaoni (Lycaon pictus), i minuscoli cervi dell'Amazzonia (Mazarna rufa), il cervo guemal, e tra gli uccelli il serpentario (Serpentarius serpentarius). Il clima di Roma si è dimostrato molto favorevole all'acclimazione di molti animali, che nei giardini più settentrionali poco sopravvivono. Anche la riproduzione di molte specie avviene più facilmente che altrove: l'orango si è riprodotto per ben due volte, e, per la prima volta in Europa, anche il cimpanzè. (V. tavv. XXXIX-XLII).

Per i giardini botanici, v. orto botanico; per i giardini d'infanzia, v. asilo (IV, pp. 942-945).