GIANFRANCESCO I Gonzaga, marchese di Mantova

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 54 (2000)

GIANFRANCESCO I Gonzaga, marchese di Mantova

Isabella Lazzarini

Unico figlio ed erede del capitano e vicario imperiale Francesco (I) e della seconda moglie di questo, Margherita di Pandolfo Malatesta, nacque a Mantova nel giugno del 1395. Le cronache tacciono sui suoi primi anni di vita sino al marzo del 1407, quando venne a morte suo padre. G. non aveva raggiunto ancora i dodici anni; la tutela del giovane era stata affidata per testamento dal padre allo zio Carlo di Pandolfo Malatesta, signore di Rimini, e alla Serenissima; si conserva ancora la littera del governo veneziano di accettazione della tutela, datata 10 apr. 1407. La successione, avvenuta il 20 marzo 1407 (come testimonia l'incipit del primo registro di gride a nome di G.), per quanto formalmente regolata dagli statuti promulgati dal padre Francesco nel 1404, secondo i cronisti mantovani avvenne non senza qualche difficoltà: dovette infatti essere sottoposta all'approvazione del Maggior Consiglio della città, ancora politicamente attivo in quegli anni. Il giovane G. in questo contesto poté avvalersi, oltre che della credibilità politica dei tutori, anche della sapiente mediazione di Donato di Domenico Preti, giudice di Collegio e membro negli anni successivi (a partire dal 1410) del Consiglio del signore. Il governo della città venne affidato a Carlo Malatesta e a Francesco (detto Franzi) Foscari, inviato da Venezia a Mantova insieme con Girolamo di Nicolò Contarini, provveditore di Verona, a capo di 150 lance.

Tra i primi provvedimenti generali emessi a nome del giovane G., oltre alla proclamazione della natura libera ed esente delle grazie da lui concesse (24 marzo 1407), va ricordata una generale amnistia (26 marzo 1407) per tutti coloro che avevano subito una condanna da parte degli officiali signorili, fatta eccezione per i colpevoli di tradimento e di ribellione. Nel turbato contesto politico padano successivo alla disgregazione del Ducato visconteo dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti, le prime iniziative di G., nel solco della politica malatestiana, furono di aderire nell'agosto del 1407 e successivamente nel maggio del 1408 alla lega stabilita e rinnovata tra Venezia, Pandolfo Malatesta, signore di Brescia, Niccolò d'Este e in un secondo tempo Giovanni Maria Visconti e Cabrino Fondulo, signore di Cremona, contro Ottobuono Terzi, insignoritosi di Parma e divenuto per G. un pericoloso e infido confinante. A seguito di questo conflitto G. annetté Bozzolo nel contado cremonese. Nel 1409 i rapporti politici e parentali tra i Gonzaga e i Malatesta vennero ulteriormente cementati dalla alleanza matrimoniale tra G. e Paola, figlia di Malatesta (IV) Malatesta, signore di Pesaro, e di Elisabetta da Varano di Camerino. G. lasciò Mantova nel luglio del 1409 per recarsi a Pesaro, nominando come proprio luogotenente il suo consigliere Carlo di Francesco Albertini da Prato. Il Diario ferrarese testimonia come G. si fermasse a Ferrara tre giorni, sulla via per la Romagna. Il 22 agosto venne stipulato a Pesaro l'atto notarile con cui Paola compiva formale rinuncia a qualunque pretesa per sé e per i propri eredi alle eredità paterna e materna, fatta salva la dote fissata in 5000 fiorini d'oro. I giovani sposi fecero ritorno a Mantova soltanto ai primi di gennaio dell'anno successivo, come testimonia un decreto del 6 genn. 1410, con il quale G. prescrisse una sospensione dell'attività giudiziaria dall'8 al 25 del mese per festeggiare il suo sposalizio. Il problema relativo alla consegna della dote di Paola si trascinò per molti anni, nonostante uno strumento notarile venisse rogato a questo scopo a Mantova il 23 apr. 1410 (ma alcune lacune nel testo indussero il Tarducci a dubitare dell'autenticità di questo documento). Il testamento di Malatesta (IV), redatto il 4 apr. 1422, reca d'altronde l'esortazione ai figli di pagare a Paola quanto le era dovuto iure institutionis per la sua dote, oltre a un legato paterno di 2000 ducati. Il 5 luglio 1412 (secondo la testimonianza del Nerli) nacque a G. il primo figlio, Ludovico.

Tra gli anni 1411 e 1413 l'influenza di Carlo Malatesta su G. iniziò a calare: Carlo in questi anni era infatti lontano da Mantova, impegnato in Romagna a difendere gli interessi di papa Gregorio XII e coinvolto con il fratello Pandolfo nelle guerre della Serenissima contro gli Ungheresi dell'imperatore Sigismondo, scatenate dalle pretese veneziane su Zara, Spalato e la Dalmazia. Il giovane G. si venne dunque progressivamente allontanando dalla linea politica dello zio, delegando, viceversa, tramite gride e decreti, sempre più ampi poteri e prerogative ai membri della famiglia del suo consigliere, Carlo Albertini. La vicenda - che condusse Carlo Albertini e i fratelli ad azzardare contro G. un'azione diretta probabilmente con il benestare dell'imperatore - è stata accuratamente indagata dalla storiografia, anche grazie alla parziale conservazione del copioso materiale processuale, da cui si giunge a ricostruire il progressivo stringersi di rapporti sempre più vincolanti fra Carlo Albertini, i tre suoi fratelli (in vari momenti podestà di Mantova e comandanti militari), una parte degli officiali signorili di maggiore spicco (Benvenuto Pegorino, Antonio Lanfranchi, Antonio Nuvoloni, il fattore generale Crescimbene Castelbarco) e il partito filoimperiale contrapposto alla Serenissima e ai Malatesta. L'influenza di Carlo paralizzò l'azione di G. in occasione del richiesto intervento a fianco dei propri tutori nelle guerre contro gli Ungheresi nel 1411. L'Albertini poi, a partire dal 1412, stabilì contatti diretti con la corte imperiale, tramite la complessa figura di fra Gaspare da Mantova, dei minori osservanti, emissario dell'imperatore (la confessione resa da quest'ultimo consente di seguire con una certa chiarezza il succedersi degli eventi).

G., uscito ormai di tutela, il 3 apr. 1413 strinse una lega con Cabrino Fondulo, signore di Cremona, ma quando, il 17 aprile, la tregua fra l'imperatore Sigismondo e Venezia lasciò Pandolfo Malatesta libero di volgersi contro Cabrino Fondulo, G. non prestò alcun soccorso all'alleato, sebbene l'accordo lo impegnasse a inviare 500 lance. Pur proclamandosi sempre fedele all'imperatore, nell'autunno entrò poi al servizio dell'antipapa Giovanni XXIII, probabilmente grazie all'influenza che Ludovico Albertini, fratello di Carlo, godeva presso la Curia (l'Albertini era allora luogotenente di Giovanni XXIII a Bologna). Il 19 ott. 1413 G. partì per Bologna, lasciando a Mantova, come suo rappresentante, Carlo Albertini, cui aveva delegato poteri quasi assoluti dei quali poteva valersi "tam nobis presentibus quam absentibus" (Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, b. 2003, c. 221r). A Bologna, il 12 novembre, accolse Giovanni XXIII. Rientrato a Mantova, ricevette e ospitò, dal 16 gennaio al 15 febbr. 1414, l'antipapa che rientrava dall'incontro avuto a Lodi con l'imperatore. L'8 marzo successivo rinnovò per altri sei mesi il contratto di condotta che lo legava all'antipapa. Nella primavera, costituitasi tra Pandolfo Malatesta, il duca di Milano, la Comunità di Genova e il marchese del Monferrato una lega in funzione antimperiale, i fautori di Sigismondo, tramite Carlo Albertini, richiesero l'appoggio di G., ma "dominus non erat dispositus rumpere guerram" (ibid., b. 3452), come ebbe a deporre, in seguito, lo stesso Albertini. In quella occasione G. manifestò piuttosto il desiderio di riavvicinarsi ai Malatesta e a Venezia. Gli Albertini e i loro fautori in città, a giudicare dagli atti del processo che li coinvolse in un secondo tempo, giunsero allora a maturare il proposito di "capere dominum et cursare civitatem" (ibid.) in modo da permettere a Carlo di divenire signore della città con l'appoggio imperiale e con il favore di Giovanni XXIII. Scoperta la congiura - grazie, sembra, anche all'intervento della consorte del signore di Mantova, che, preoccupata dello strapotere del luogotenente, avrebbe indotto il marito ad ascoltare le accuse degli avversari di quest'ultimo - G. fece arrestare e processare Carlo Albertini, il quale, condannato, morì, sembra, in carcere.

Con la repressione della congiura degli Albertini si è soliti concludere il primo periodo della signoria di G.: a partire dal 1414 sino al 1438 G., pur fra tentennamenti, non si discostò più in modo rilevante dalla tradizionale politica filoveneziana cui era stato indirizzato dalle scelte paterne e dalla tutela malatestiana. Nella conduzione dello Stato, non delegò più i suoi poteri, anche in caso di una prolungata assenza, a un uomo solo, né assecondò più l'aumento della potenza di un suo favorito. Incentivò, invece, l'azione del Consiliumdomini, inteso come organo collegiale supplente, come Curia signorile e come tribunale di maggiore istanza rispetto alla giurisdizione ordinaria. Questo prudente intensificarsi dell'attenzione signorile attorno al Consiglio, organo ancora formalmente poco definito (risalgono agli inizi del secolo i primi provvedimenti di natura normativa intorno alle competenze giudiziarie del consiglio), portò a un dilatarsi progressivo della sua sfera d'azione, pur nell'assenza, probabilmente intenzionale, di generali statuizioni in merito. Tale organo, uno dei più importanti della matura signoria dei Gonzaga, venne in tal modo in questi anni definendo il proprio ruolo e precisando la propria centralità politica all'interno di un sistema pubblico che, pur regolato dagli statuti del 1404, era in piena evoluzione rispetto al precedente quadro istituzionale.

Nel 1414, come narra il Sanuto, G. partecipò con grande sfarzo alle cerimonie per l'insediamento del doge Tommaso Mocenigo. Nell'estate G. annetté ai suoi domini la Comunità di Viadana (Mantova), da quasi due secoli signoria rurale dei Cavalcabò (l'atto di dedizione è datato 18 luglio 1415), incamerando direttamente le terre di quella famiglia cremonese, ammontanti a più di 2000 biolche mantovane. La Comunità e gli stessi Cavalcabò stipularono speciali pattuizioni che ne salvaguardarono in qualche misura la lunga tradizione di indipendenza. Nel 1416 G. intervenne insieme con Pandolfo Malatesta, capitano generale delle truppe veneziane, in aiuto dello zio Carlo Malatesta, che, accorso in appoggio di Perugia minacciata da Andrea Fortebracci (Braccio da Montone), era stato da questo sconfitto e fatto prigioniero il 12 luglio: le cronache riportano che G. combatté a Rocca Contrada, dove venne ferito. L'11 nov. 1417 era stato eletto pontefice in occasione del concilio di Costanza Martino V, ponendo così fine allo scisma d'Occidente. Nel suo viaggio verso Roma il papa si fermò anche a Mantova, dove giunse il 29 ott. 1418 e si trattenne fino al 2 febbr. 1419. In questa occasione G. si interpose come mediatore affinché, grazie all'influenza del pontefice, un'intesa venisse raggiunta fra Pandolfo Malatesta e il nuovo duca di Milano, Filippo Maria Visconti, in conflitto per il possesso della città di Brescia. La visita pontificia, come la venuta in città nel 1420 di Bernardino da Siena, furono all'origine di concessioni fatte da G. e dalla moglie Paola in favore di monasteri di clarisse e di conventi di minori osservanti a Mantova e in Lombardia.

Paola dette prova durante l'intera vita di una singolare devozione religiosa, che si tradusse in una costante opera di patronato monastico. I primi decenni del secolo videro infatti il radicamento a Mantova dei carmelitani osservanti, dei canonici regolari di S. Bartolomeo, degli eremitani di S. Gerolamo, dei certosini.

La posizione di G., di fronte alla politica sempre più aggressiva di Filippo Maria Visconti, nel secondo decennio del secolo si fece difficile. Il Sanuto narra che nel 1421 G. si recò a Venezia per chiedere alla Serenissima assicurazioni circa la protezione che questa gli avrebbe concesso nell'eventualità di un attacco milanese. Venezia, che usciva da una lunga campagna culminata con l'occupazione di Udine e dell'Istria, stipulò con G. un'alleanza militare difensiva che prevedeva, per le truppe veneziane, la possibilità di libero attraversamento del territorio mantovano in caso di necessità. Nel 1423 divenne doge Francesco Foscari, tradizionalmente considerato, anche alla luce dello splendido discorso attribuito dal Sanuto al morente doge Mocenigo, come il più energico fautore di una politica veneziana più aggressiva in Terraferma. I rapporti tra Venezia e Milano, in guerra con la Repubblica fiorentina, si fecero nel corso del 1424 sempre più tesi. L'avvicinamento fra Venezia e Firenze culminò il 4 dic. 1425 con la ratifica di una lega tra le due potenze di prevista durata decennale: G. venne nominato logogtenente, nella Transpadana, di Francesco Bussone, detto il Carmagnola, capitano generale dell'esercito veneziano dal 9 febbr. 1426. Allorché la Lega antiviscontea venne pubblicata, alla fine del gennaio 1426, 800 lance veneziane muovevano già attraverso il Mantovano. Si inaugurava con questa prima guerra un trentennio di ostilità aperte o latenti fra Milano e Venezia che avrebbe visto G. sempre partecipe, talora come comprimario, più spesso come protagonista, e che avrebbe portato il Mantovano a uno stato di perenne conflitto.

I domini di G. attraversavano allora una fase di profonda crisi economica e sociale. Recenti studi hanno infatti individuato nei primi decenni del Quattrocento un grave decremento demografico, con problemi di disorganizzazione economica, riduzione dell'attività artigianale e manifatturiera, scarsa capacità di attrazione di manodopera qualificata. La struttura istituzionale della signoria dei Gonzaga sperimentava allora il sovrapporsi di organi di diversa origine in un succedersi di soluzioni amministrative poco formalizzate. In questo apparentemente confuso amalgamarsi di organi e offici istituzionali e il susseguirsi di iniziative del signore - come gli oltre 1900 decreti di civilitas emessi dalla Cancelleria di G. - ebbe peso rilevante il fatto che gli anni tra il 1425 e il 1441 furono per il Mantovano un lungo periodo di guerra, in cui vennero consumate energie umane e risorse finanziarie nel tentativo di estendere i confini a spese dei pur più potenti vicini, lungo le frontiere occidentali e orientali.

Nella primavera e nell'estate del 1426 si combatté intorno a Brescia, che aveva aperto le porte alle truppe veneziane. Il 20 novembre capitolò il castello di Brescia. Con l'approssimarsi dell'inverno, si avviarono trattative in vista di una pace che venne firmata a Venezia il 30 dicembre e alla quale partecipò anche il duca di Savoia Amedeo VIII, entrato a far parte della Lega antiviscontea. La primavera del 1427 vide il riaprirsi delle ostilità, che si trascinarono per tutta l'estate sino a ottobre, quando la decisiva battaglia di Maclodio convinse Filippo Maria Visconti a chiedere di nuovo la pace, stipulata nell'aprile 1428. Per i servizi da lui prestati, G. ricevette dalla Serenissima, che si era impadronita di Brescia e Bergamo, una serie di Comuni rurali sul confine occidentale, fra cui Asola, Remedello, Casalmoro, Casalpoglio, Casaloldo, Castelnuovo e Volongo, oltre a un palazzo a Venezia, in S. Pantaleon, del valore stimato di 6500 ducati. Questi possessi gli furono confermati dalla Serenissima nel 1431 insieme con Canneto, Castel Goffredo, Castiglione delle Stiviere, Isola Dovarese, Ostiano, Vescovato, Redondesco, Sabbioneta.

La tregua doveva però durare meno di tre anni: nel 1430 la Repubblica fiorentina, durante l'offensiva contro Lucca, difesa dai Milanesi, chiese alla Serenissima di riprendere le armi al suo fianco. La mobilitazione dell'esercito veneziano, agli ordini del Carmagnola, di cui G. era ancora luogotenente, fu lenta; tanto lenta da indurre il governo veneziano nel 1432 a cedere al sospetto che il capitano generale fosse di nuovo in rapporti amichevoli con il suo antico signore, Filippo Maria Visconti. Convocato a Venezia nel marzo del 1432, insieme con G., il Bussone vi giunse il 7 aprile; processato, fu giustiziato il 5 maggio. G. comunicò l'accaduto alla moglie Paola, manifestando una certa prudenza nei confronti del governo veneziano, infatti in un primo momento rifiutò la carica di capitano generale che gli era stata immediatamente proposta: "nos non posse hoc onus assumere", come ebbe a scrivere alla moglie (lettera del 10 apr. 1432 in Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, b. 2094). Confermò tuttavia al figlio il contratto di condotta per 50 lance al servizio della Serenissima. Questo atteggiamento di G. dipendeva forse in parte dalla sua intenzione di non porsi in troppo evidente contrasto con l'imperatore Sigismondo proprio nel momento in cui, profittando della venuta di quest'ultimo, la diplomazia gonzaghesca stava per ottenere l'elevazione del Mantovano a marchesato. L'imperatore infatti, che si dirigeva a Roma per ricevere la corona imperiale, il 6 maggio, a Parma, concesse a G. il titolo di marchese di Mantova e la facoltà di trasmettere tale titolo ai suoi eredi secondo l'ordine naturale di successione. Il titolo gli venne nuovamente concesso da Sigismondo un anno più tardi, sulla via del ritorno. Le due concessioni spiegano perché la storiografia oscilli tra il 1432 e il 1433 nel datare la promozione di G. a marchese. In questa occasione si festeggiò anche il matrimonio del primogenito ed erede di G., Ludovico, con Barbara di Hohenzollern, nipote dell'imperatore.

Nel giugno del 1432 G. era comunque al servizio della Serenissima: con il resoconto della sua entrata in campo a Chizzola, il 16 giugno di quell'anno, inizia infatti un inedito registro gonzaghesco relativo ad armati e a manovre militari che copre, pur con diverse lacune, gli anni successivi sino al 1436. Le truppe venete si impegnarono nell'autunno del 1432 in una campagna in Valtellina che sortì esiti disastrosi, culminati con la cattura, in novembre, del provveditore veneziano Giorgio Corner. Questo rovescio ebbe come effetto immediato la nomina di G. a "capitano generale de tera" alle stesse condizioni del Carmagnola. Nella primavera del 1433 fu stipulata una nuova pace tra la Lega e il Visconti, che poco mutava i termini di quella del 1428: la smobilitazione dell'esercito veneziano comportò la riduzione della metà delle condotte, cosa di cui i comandanti, primo fra tutti G., ebbero a lagnarsi vigorosamente.

Tra gli anni 1434 e 1437, tuttavia, l'attività militare conobbe alternativamente momenti di stasi e momenti di ripresa. Il capitanato generale di G. al servizio della Serenissima non brillò per clamorose iniziative militari. Nella primavera del 1437 un'offensiva da lui condotta oltre l'Adda venne frustrata dalle piene del fiume, che lo costrinsero a una tattica attendista e di semplice difesa che cominciò ad alienargli il favore del governo veneziano, già posto in sospetto dalla scelta compiuta dal figlio di G., Ludovico, il quale, in seguito a screzi con il fratello Carlo, aveva abbandonato Mantova per recarsi al servizio del duca di Milano (1436). L'ira di G. contro il figlio per questa defezione sembra essere stata autentica, tanto da spingerlo a chiedere e ottenere dall'imperatore la facoltà di modificare l'ordine di successione al marchesato in favore di quello fra i suoi figli che egli avesse preferito. Gli effetti di questo stato di cose si videro nel novembre del 1437, quando, scaduto il suo contratto di condotta con la Serenissima, G. preferì non rinnovarlo e, nonostante i tentativi compiuti dallo stesso provveditore Pietro Loredan, recatosi personalmente presso di lui al campo, si ritirò a Mantova. La Serenissima affidò temporaneamente il comando a Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, nella speranza che G. tornasse sulla sua decisione. Nell'estate del 1438 G., preoccupato per la pressione esercitata dalle forze milanesi lungo i confini del Marchesato e allettato da promesse di ampliamenti territoriali, si indusse, dopo lunghe trattative, a firmare un trattato decennale con Filippo Maria Visconti. In forza di tale accordo, G. avrebbe ricevuto, in caso di successo, Verona e Vicenza, o Brescia e Bergamo se le prime due non fossero state conquistate; nell'eventualità che nessuna di esse fosse caduta nelle loro mani, egli avrebbe ricevuto, in ogni caso, Cremona con il suo contado eccezion fatta per Pizzighettone. Fu una scelta impegnativa, giudicata, da parte veneziana, con grande severità: quasi un secolo dopo, il Sanuto, dopo aver detto della morte di G., aggiunse, come unico epitafio, "grande nimico di questo stato nostro" (Vitae ducum Venetorum, p. 1116).

In effetti la stipula dell'accordo col Visconti costituì un evento di rottura, che ebbe conseguenze di grave momento e di lunga durata sulle scelte e sugli atteggiamenti successivi dei Gonzaga. I signori di Mantova, infatti, che dall'epoca delle guerre carraresi si erano mantenuti allineati al fianco della Serenissima, a partire appunto da quel 1438 si conservarono poi prevalentemente orientati verso il polo milanese. La scelta compiuta allora da G. deve pertanto essere vista, come rileva la più recente letteratura sull'argomento, come radicale mutamento dell'indirizzo di un principe sul piano politico e diplomatico piuttosto che come il semplice cambiamento di campo di un capitano di ventura nel corso di un conflitto. Come opportunamente sottolinea il Mallett (1973, p. 124), il significato delle condotte assunte da G. - al pari di quelle di altri principi condottieri, quali gli Este, i Manfredi, i Malatesta -, superando il valore originario, si stava infatti sempre più fortemente precisando nel senso di vere e proprie alleanze politiche.

D'altro canto G. si doveva sentire pronto, allora, a giocare il tutto e per tutto per dare una diversa dimensione politica e territoriale a uno Stato che stava crescendo sensibilmente intorno a lui e alla sua dinastia. Di questa evoluzione è rimasta una testimonianza di grande rilievo: nel 1430 G. rivolse a un gruppo non meglio definito di cittadini mantovani l'esortazione di riferire a sé e ai propri consiglieri "quello li pare de porziere sopra a quelle chosse che li paresse fosse bene e utille de la Signoria Vostra, eciandio fosse bene comune" (Mantova 1430, p. 81). Dalle risposte emerge un quadro significativo sia delle condizioni generali dei domini dei Gonzaga, sia del rapporto fra principe e cittadini in un momento di poco precedente al marchesato. Al di là degli strascichi della crisi demografica e produttiva che aveva colpito lo Stato, rivelati dalla pressante vigilanza sulle condizioni dell'arte della lana e sul mercato (per la maggior parte gli interlocutori di G. erano grandi mercanti), si intravede attorno alla superiore autorità di G. una comunità ancora memore di una serie di privilegi connessi alla sua caratteristica civilitas ma d'altro canto naturalmente portata a riconoscere la natura superiore del potere del principe. Durante il marchesato di G., infatti, si compì un graduale slittamento della condizione dei Mantovani da cives a sudditi, pur nel senso di una forte continuità con il passato cittadino e comunale, dal quale era emersa la stessa dinastia dei Gonzaga. Questa stessa iniziativa di coinvolgimento dei cittadini, riconducibile secondo taluni a un suggerimento di Vittorino da Feltre (chiamato da G. nel 1424 a Mantova per dare vita a un'innovativa esperienza pedagogica: la prima scuola che fuse gli ideali umanistici con lo spirito cristiano) rivelava quel carattere di compenetrazione della progettualità signorile con la società cittadina che connotò l'azione di G. come anche quella del figlio Ludovico.

Durante questi anni, organi e figure istituzionali di creazione signorile, come i "maestri delle entrate" o i "tesorieri di camera", vennero affiancandosi alle magistrature municipali formalmente definite dagli statuti, come quella del "massaro del Comune", mentre strutture originate dalla domus signorile, come la "fattoria", si trasformarono e si articolarono. Si trattò peraltro di un processo graduale, in parte confuso e disomogeneo, non caratterizzato da alcuna istanza di formalizzazione normativa.

La tormentata decisione maturata da G. nell'estate del 1438, del cui peso rendono ragione l'intenso lavorio diplomatico con Milano e le febbrili consultazioni con Niccolò d'Este per assicurarsi il suo appoggio sul confine orientale (una sorella di G., Margherita, aveva sposato Leonello d'Este, figlio ed erede del marchese di Ferrara), non portò ai risultati sperati, sia per l'andamento della guerra tra Venezia e Milano, sia per la difficoltà di intrattenere rapporti politici conseguenti con il Visconti. Le azioni militari dei Milanesi erano concentrate sul lungo assedio di Brescia e sulle frequenti puntate oltre l'Adige, in territorio veronese, che culminarono nella conquista di Verona nel novembre del 1439, vanificata peraltro, nel volgere di pochi giorni, dall'energico contrattacco delle truppe della Serenissima condotte dal Gattamelata e da Francesco Sforza. Il 1440 vide il riorganizzato esercito veneto recuperare progressivamente le posizioni perdute: in particolare, durante l'estate, lo Sforza venne occupando Casalmaggiore e varie località nel Mantovano, fra cui Canneto, Asola, Marcaria, giungendo a ridosso della stessa Mantova. Francesco Sforza, dando prova di una notevole indipendenza politica, giunse a trattare personalmente, tramite Niccolò d'Este, la pace, cui si pervenne, non senza una certa insoddisfazione veneziana, nel novembre del 1441. Tale pace, detta di Cavriana dal campo sforzesco in cui venne stipulata, lasciava G. in condizioni assai peggiori di quanto avesse sperato: il marchese non solo non vide realizzarsi alcuno degli accrescimenti promessi in caso di vittoria ma venne anche privato di buona parte delle precedenti annessioni lungo il confine occidentale, tra cui Asola, Lonato e Peschiera. Veniva così a mancare definitivamente l'obiettivo dell'accesso al lago di Garda, cui egli aveva tanto aspirato. Gli anni che seguirono furono caratterizzati da una relativa quiete. G. evitò di impegnarsi personalmente in altre imprese militari. Al proprio fidato consigliere Matteo Corradi, che nel gennaio del 1443 gli scriveva da Milano di una possibile lega con il Visconti e il re d'Aragona contro la Serenissima, rispondeva che bisognava ben "considerare perché seguendo la guerra ce trovemo esser sotto la possanza dell'inimici […] e le confine nostre se può dire essere una spana de campagna […] e non resta altro che la persona inferma et una povera citade la qual perdendo poressemo dire de andare al hospedale" (7 genn. 1443). Sono parole colme di stanchezza e di disillusione.

G. si era da tempo riconciliato con il primogenito Ludovico (1439), tornato in patria. L'estate del 1444 vide farsi più frequenti i disturbi di cui il marchese soffriva da qualche anno: la sintomatologia sommaria indicata nelle sue missive consisteva in febbri alte e dolori di stomaco.

Dopo un viaggio nel Modenese, alla ricerca di sollievo, tornò a Mantova nel settembre: le ultime lettere del copialettere di G. ne testimoniano il progressivo abbandono delle attività di governo, sino alla morte, sopravvenuta il 23 (data del testamento) o il 24 settembre dello stesso 1444. Ludovico, infatti, il 23 informò il marchese d'Este dell'improvviso peggioramento del padre. La lettera successiva, destinata a Nicolò Piccinino e relativa alla venuta a Mantova del medico Luca da Perugia, in data 25 settembre, annunciava al condottiero milanese "l'acerbissimo caso de la morte soa". G. venne sepolto nella chiesa di S. Francesco, nella cappella dove riposavano i genitori.

G. e Paola avevano avuto, oltre a Ludovico, tre figli maschi, Carlo, Alessandro e Gianlucido, e Cecilia, educata alla scuola di Vittorino da Feltre. Quest'ultima fu destinata in moglie a Oddantonio da Montefeltro ma, dopo una penosa vicenda di contrasti col padre, lasciata libera di seguire la propria vocazione, si fece monaca nel monastero del Corpus Domini fondato dalla madre Paola.

Il testamento di G. disponeva, secondo la consuetudine ereditaria longobarda, la divisione del territorio del Marchesato fra i maschi: al maggiore, Ludovico, andarono il corpo centrale dello Stato e il titolo marchionale; ai cadetti, porzioni dei territori di recente annessione lungo i confini occidentali dello Stato. Carlo controllò l'area compresa fra Oglio e Po, con i comuni di Bozzolo, Sabbioneta, Viadana e Luzzara; Alessandro ebbe la zona di Castel Goffredo, Castiglione delle Stiviere, Piubega, Medole e Solferino; Gianlucido ebbe una porzione dell'Alto Mantovano comprendente Cavriana, Volta Mantovana, Castellaro. Sulla prima creazione di quelli che vengono solitamente chiamati i principati gonzagheschi minori si è sovente equivocato: i cadetti non controllavano direttamente questi territori ma li detenevano iure feudi dal primogenito per espressa volontà testamentaria del padre. Soltanto nel sec. XVI alcuni di questi statarelli divennero, per i rapporti diretti e talora rilevanti dei loro signori con l'Impero, feudi imperiali.

La storiografia ha sovente visto G. come un precursore incompiuto del perfetto principe rinascimentale - figura che sarebbe stata invece incarnata dal figlio Ludovico -, sia a causa, probabilmente, della vita trascorsa in imprese di guerra, sia per la sua costante lotta con una mancanza di denaro, che, a partire dall'Equicola in poi, venne interpretata come effetto di una irredimibile propensione al lusso e allo spreco, in ciò specchio in negativo di due parsimoniosi e oculati amministratori quali sembrarono la moglie, saggia e devota, e il prudente figlio Ludovico. Il Possevino scrisse duramente che G. sapeva "perdere potius quam dare". La chiamata a Mantova di Vittorino da Feltre ha posto talora in ombra la ricchezza dei rapporti intellettuali che G. seppe comunque intrattenere sia con Leon Battista Alberti - che nel 1438 gli dedicò la versione latina riveduta del suo trattato De pictura - sia con F. Brunelleschi - che il Vasari narra venisse a Mantova nel 1431 e nel 1436 a occuparsi "di argini in Po e alcune altre cose" - sia con altri noti esponenti dell'umanesimo veneto come Guarino Guarini e Pier Paolo Vergerio, sia, infine, con il Pisanello, che decorò le sale di Corte Vecchia, pur senza finirle. L'età di G. e lo spessore del personaggio vanno valutati senza proiettarvi l'ombra di altri, diversi periodi della storia gonzaghesca e compresi nella loro costruttiva, seppur certo travagliata, interezza.

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