GIAMBERTI, Antonio, detto Antonio da Sangallo il Vecchio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 54 (2000)

GIAMBERTI, Antonio, detto Antonio da Sangallo il Vecchio

Paola Zampa
Arnaldo Bruschi

Nacque a Firenze all'inizio della seconda metà del Quattrocento da Francesco di Bartolo di Stefano di Giamberto.

Il padre, morto agli inizi degli anni Ottanta, è definito da Vasari (IV, p. 267) "ragionevole architetto al tempo di Cosimo de' Medici […] da lui molto adoperato". In realtà legnaiuolo, ne resta soltanto il ricordo di due lavori in legno.

Il G., come il fratello maggiore Giuliano, è tradizionalmente denominato da Sangallo, secondo Vasari (IV, p. 274 n. 2) a seguito dell'incarico assegnato a Giuliano per il convento degli eremitani di S. Agostino, fuori porta S. Gallo a Firenze, in realtà perché, proprio in quella località, i due fratelli abitarono per molti anni. Il G. viene poi detto il Vecchio per distinguerlo dal nipote Antonio Cordini, conosciuto come Antonio da Sangallo il Giovane.

L'incertezza sulla data di nascita del G., come del resto su quella del fratello Giuliano, è legata alle contraddittorie indicazioni desumibili dalle fonti e dai documenti (per le indicazioni documentarie si vedano tra gli altri Geymüller, 1884; Fabriczy, 1902; Marchini, 1942; Jacks, 1985; Borsi, 1989; Pacciani, 1991; Satzinger, 1991; Cozzi, 1992). In una portata al Catasto del 1° sett. 1487 il G. e Giuliano denunziano rispettivamente l'età di trentadue e quarantadue anni. Ma in una dichiarazione del padre, datata, non con sicurezza, al 1451, non viene nominato alcun figlio maschio, e in un'altra, risalente al 1460, non è menzionato il G., mentre Giuliano risulta avere otto anni. Sembra dunque che tra i due fratelli esistesse una differenza di circa dieci anni, e le loro date di nascita oscillerebbero tra il 1455 e il 1462 per il G. e tra il 1445 e il 1452 per Giuliano. D'altro canto Vasari (VI, p. 287 n. 2) afferma che Giuliano morì nel 1517 (in realtà morì il 20 sett. 1516) all'età di settantaquattro anni, cosa che porterebbe ad anticipare la sua nascita al 1442-43, confortati da un pagamento a Francesco, risalente al 1454, nel quale si dice che questi "portò Giuliano suo figliuolo", evidentemente troppo giovane per lavorare con il padre se fosse nato nel 1445 o addirittura nel 1452 (Satzinger, p. 158). Milanesi (VI, p. 267 n. 1, con errore nella trascrizione dell'età dichiarata dai due fratelli) e Fabriczy (1902) tendono a seguire la dichiarazione di Giuliano e del G. accettando, per le rispettive nascite, le date 1445 e 1455. Marchini (1942), sulla scorta dell'indicazione vasariana, suggerisce per la nascita di Giuliano il 1443 circa. Günther e Satzinger sottolineano il carattere approssimativo e la poca attendibilità delle dichiarazioni, sia quelle del padre sia quella dei fratelli: in particolare Satzinger porta la nascita di Giuliano alla fine del quinto decennio, e propone per il G. la data del 1460 circa.

Solo in tempi recenti la critica ha cercato di ridefinire il ruolo del G. e il peso della sua opera. Difatti, sin dalla trattazione del Vasari la sua figura appare in secondo piano rispetto a quella del fratello e questo fatto, insieme con la maggiore fama del nipote Antonio il Giovane, succeduto nella conduzione di alcuni dei lavori intrapresi da lui, ha contribuito a limitare l'importanza del G., circoscrivendone l'opera alla prevalente attività di ingegnere militare o relegando la sua influenza come architetto ad ambiti più provinciali rispetto alla Firenze medicea o alla Roma papale.

Secondo Vasari (IV, p. 268), il padre Francesco avviò i due figli "all'arte dell'intagliare di legno, e col Francione legnaiuolo […] col quale aveva molto dimestichezza, avendo eglino insieme molte cose e d'intaglio e d'architettura operato per Lorenzo de' Medici". La formazione del G. si colloca dunque nella scia della professione paterna e nell'ambito delle competenze di Francesco di Giovanni (detto il Francione), attivo anche in opere di fortificazione: le sue prime prove documentate consistono, infatti, da una parte in lavori di legname - sculture, arredi e modelli - dall'altra in interventi di architettura militare.

Il G. esordì nell'ambito della bottega del fratello Giuliano con un ruolo dapprima subordinato ma via via sempre più autonomo tanto che spesso la collaborazione tra i due assunse un carattere paritetico, fino a configurare tra loro una interscambiabilità di compiti e responsabilità. Tuttavia si può ipotizzare che il più colto Giuliano si riservasse la parte creativa degli incarichi, lasciando che il fratello curasse gli aspetti pratici ed esecutivi del mestiere. Proprio la consuetudine con i problemi di cantiere dovette consentire al G. di acquisire, soprattutto nel campo dell'architettura militare, una "specializzazione" che gli permise di emanciparsi e costruire una sua autonoma figura professionale (Bruschi, 1985, pp. 71 s.).

Della prima fase dell'attività del G. al seguito del fratello restano numerose testimonianze. La prima risale al 4 febbr. 1481, quando venne pagato come "compagno" di Giuliano per un crocifisso ligneo per la chiesa della Ss. Annunziata a Firenze, uno dei tre crocifissi attribuitigli da Vasari (IV, p. 276).

Quest'opera viene riferita da Marchini (1942) prevalentemente a Giuliano - che la completò nel 1483 - soprattutto confrontandola con il Cristo eseguito dal G. per S. Iacopo tra' Fossi e conservato nella cappella dei Pittori nel chiostro della stessa Annunziata. Del terzo crocifisso, commissionato dalla Compagnia dello Scalzo e saldato con un pagamento del 20 nov. 1514, si sono perdute le tracce.

Il 28 febbr. 1482 il G. e Giuliano dovevano ricevere un pagamento, che sarà saldato soltanto dieci anni dopo, per opere di arredo e per un modello della chiesa e convento della badia di Firenze, modello forse ancora esistente nel Seicento. Tra il 1487 e il 1488 terminarono, insieme con Bartolomeo Picconi, fratello della moglie di Giuliano, alcuni lavori per S. Pietro dei Cassinesi a Perugia: oltre a una finestra e un'ancona, gli stalli lignei, opera perduta della quale forse resta un ricordo grafico, abraso, nella c. 1 del codice Barberiniano di Giuliano (Borsi, 1985, pp. 12, 41). Ancora come "maestri di legname", nel 1491, vennero pagati dai monaci di S. Maria Maddalena dei Pazzi per un modello e altri lavori.

Dal 1488 il ruolo del G. accanto a Giuliano sembra assumere un peso maggiore e, allo stesso tempo, la sua competenza si estese anche alle architetture militari. Tra il 1487 e il 1488 assisté Giuliano nella redazione del progetto per la fortezza di Poggio Imperiale e dal 1495 fu sempre più coinvolto nella conduzione dei lavori, fino a comparire, nel 1512, come "architettore". Marchini (1964) gli attribuisce la porta sulla punta del bastione centrale, trapezia e con il motivo della mostra a orecchie, da lui spesso impiegato nell'architettura civile e successivamente ripreso da Antonio il Giovane.

Alla fine dell'agosto 1488 si recò a Sarzana per presentare un modello di fortezza, elaborato insieme con il fratello in alternativa a quanto già iniziato l'anno precedente da una équipe di cui facevano parte il Francione, Francesco d'Angelo detto il Cecca e Domenico di Francesco detto il Capitano. Nello stesso anno Giuliano gli affidò il completamento del modello ligneo di un palazzo per Ferdinando I d'Aragona perché "con suo ordine lo finisse; il quale nel lavorarlo aveva con diligenza seguitato e finito, essendo Antonio ancora di sofficienza in tale arte non meno che Giuliano" (Vasari, IV, p. 272).

Nel novembre del 1488 compare più volte nel cantiere della chiesa di S. Maria delle Carceri a Prato, iniziata da Giuliano nel 1485: come testimone alla stipula di un contratto con gli scalpellini, per l'esecuzione di una cornice progettata dal fratello, e, per quattro giorni, come sostituto di questo. Infine il contratto del 24 genn. 1499 per il rivestimento esterno dell'edificio prevedeva il "iudicio, quando di ciò fusse controversia, di Giuliano da Sangallo capomaestro di decto oratorio, overo di Antonio suo fratello carnale" (Satzinger, pp. 160, 164). Dalla fine degli anni Ottanta, dunque, all'interno del sodalizio con Giuliano, sembra crescere l'importanza del G. nella redazione di progetti e nella conduzione di cantieri. Ma è soltanto con la sua attività romana, coincidente con il pontificato di Alessandro VI (1492-1503), che il G. appare del tutto svincolato dalla subordinazione al fratello.

Non si può datare con certezza il suo arrivo a Roma; e, d'altro canto, la sua presenza appare discontinua a causa dei molteplici impegni che lo richiamavano a Firenze: dalla fine 1494, infatti, sia per la fama acquisita come architetto papale, sia per l'allontanamento di Giuliano che, a seguito della caduta dei Medici, si recò a Savona e in Francia al servizio del cardinale Giuliano Della Rovere, il G. divenne responsabile, con notevole autonomia, di lavori iniziati su progetto del fratello (Bruschi, 1985, p. 71).

Di una sua prima presenza a Roma nel 1490 si è parlato con riferimento all'affitto pagato al capitolo di S. Pietro da un "Antonios Florentinus murator" (Müntz, 1884, p. 164 n. 1) che potrebbe però essere, più probabilmente, il muratore fiorentino Antonio di Frosino (Borsi, 1989, p. 277); altrettanto dubbia appare l'identificazione del G. con "Antonio florentino lapicida" pagato il 21 dic. 1501 "pro aptando et fabricando fonte in platea Sancti Petri"; incerta, anche se più plausibile, quella con il "magistro Antonio florentino" pagato il 7 nov. 1494 "pro mactonatura corritorii de palatio apostolico ad castrum Sancti Angeli" e il 28 apr. 1495 per lavori a Castel Sant'Angelo (Müntz, 1884, pp. 197, 200). Il primo documento certo sembra essere invece un pagamento a "magistro Antonio florentino pro mercede laboris per eum facti in castro sancti Angeli" del 6 maggio 1495 (Id., 1886, p. 64).

Il G. appare comunque impegnato in alcuni cantieri importanti iniziati, per volere di Alessandro VI, negli anni 1492-94 (il nuovo soffitto di S. Maria Maggiore, le fortificazioni di Castel Sant'Angelo, la rocca di Civita Castellana) e, se anche il suo nome è registrato soltanto più tardi, si può ipotizzare che la sua attività romana dati proprio a partire da quegli anni (Bruschi, 1985, p. 71).

Una delle maggiori preoccupazioni di Alessandro VI, come è noto, furono le difese dello Stato pontificio e il G. dovette rappresentare per il papa l'artefice rispondente alle sue necessità, tanto è vero che risulta impegnato in molte delle opere di fortificazione condotte durante il pontificato borgiano, succedendo a Baccio Pontelli nell'incarico di architetto delle fortezze della Camera apostolica (Frommel, 1998, p. 417). L'esperienza maturata accanto al Francione e al fratello nel campo dell'architettura militare potrebbe aver determinato, prima dell'arrivo a Roma, la sua chiamata nel Regno di Napoli, dove, nel 1492 e dal 1494 al 1496, era presente Francesco di Giorgio (Bruschi, 1985, p. 72). Possibili ricordi delle proposte progettuali di Francesco di Giorgio, la cui attività romana sembra essere in parte parallela a quella del G., appaiono infatti riecheggiati nell'intervento sangallesco a Castel Sant'Angelo e, particolarmente, nella fortezza di Nettuno (Fiore, pp. 55, 122, 134).

Ancora nell'ambito della bottega di Giuliano sembra collocarsi la costruzione del nuovo soffitto di S. Maria Maggiore. Fu iniziato nel 1493, come testimonia la visita del papa, il 27 febbraio di quell'anno, alle impalcature predisposte per l'opera; il 21 apr. 1498 il pontefice compì un altro sopralluogo, ma i lavori dovettero protrarsi fin dopo il giubileo del 1500, dal momento che F. Albertini (Opusculum de mirabilibus novae et veteris Urbis…, Romae 1510, cfr. ed. a cura di A. Schmarsow, Heilbronn 1886, p. 16) ne riferisce la conclusione a Giulio II. I primi contratti noti, 2 marzo e 7 apr. 1499, non nominano il G. che invece compare, come supervisore e fiduciario del papa, in quelli dell'8 e 9 aprile. Posta da Marchini (1942) in relazione con il soffitto di palazzo Gondi a Firenze, in costruzione dal 1490, l'opera, coerentemente con la prassi della bottega Sangallo, potrebbe essere stata condotta su disegni di Giuliano (Borsi, 1989, pp. 280 s.). Vasari (IV, p. 279) la attribuisce a Giuliano, che la "fece finire per Antonio suo fratello", e fa risalire a questa occasione il fortunato incontro tra il G. e Alessandro VI.

I lavori a Castel Sant'Angelo potrebbero essere stati iniziati fin dal 1492: la prima demolizione è riferita nei Numismata pontificum Romanorum (Romae 1699) di F. Bonanni al 22 ott. 1492, mentre secondo il Diario di J. Burckard (1483-1506) risalirebbe al 22 dic. 1494 (Borsi, 1989, pp. 282 s.).

Secondo Borsi una nota medaglia databile al 1492 illustrerebbe un primo progetto borgiano, limitato al completamento delle fortificazioni di Niccolò V - costruzione della quarta torre cilindrica, scavo del fossato perimetrale e merlatura del corpo centrale - presto aggiornato dal G. con la realizzazione dei quattro bastioni angolari ottagoni, in corso di completamento nel 1495 insieme con il "Passetto", terminato nel 1497. Va considerato, infatti, che la discesa di Carlo VIII, entrato in Italia il 2 sett. 1494, doveva aver messo in evidenza l'inadeguatezza delle vecchie fortificazioni. Sempre al G. andrebbero ascritti il raddoppio della cortina verso il Tevere e, al centro di questa, dopo il 1497, il torrione cilindrico demolito da Urbano VIII nel 1628 e, forse, il cortile semicircolare di Alessandro VI, detto "del pozzo" (Bruschi, 1985, pp. 73 s., 87 n. 24). Per il torrione, caratterizzato dal paramento a blocchi squadrati di travertino e, al di sopra dei beccatelli, da un fregio "all'antica" con bucrani e festoni - citazione della decorazione adrianea dello stesso mausoleo - Borsi (1985, pp. 219-223) sostiene la paternità del G. e nota come la decorazione antiquaria del fregio, nel suo abbinamento con il bugnato, sia riecheggiata nella rappresentazione della porta monumentale di Fano della c. 61v del codice Barberiniano di Giuliano. Diversamente Bruschi, nell'analizzare i contatti tra Donato Bramante e il G. a Roma tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento, ipotizzando l'intervento del G. nell'impianto d'insieme e nella parte inferiore, sospetta per il coronamento "all'antica", possibili suggerimenti di Bramante, forse presente anche nell'impostazione generale e nella precisazione di alcuni dettagli del cortile del pozzo (1985, pp. 74, 86, 90 nn. 41 s.).

A proposito della fortezza di Civita Castellana, Guglielmotti (p. 146) ricorda un documento del 16 dic. 1497, ora perduto, nel quale era nominata la "nova" fortezza "quae nunc construitur": un'opera, dunque, che utilizzava strutture preesistenti, già iniziata, forse nel 1494, presumibilmente su indicazioni progettuali del G., allora impegnato a Castel Sant'Angelo. Questi, tuttavia, è nominato per la prima volta soltanto il 5 ott. 1499 in un contratto nel quale - insieme con tre maestri lombardi e con Cola di Matteuccio (Cola di Caprarola) come carpentiere - si impegnava a compiere "due Palazi et altri lavori", ovvero opere a Civita Castellana e Nepi (Müntz, 1892, pp. 33-35). Due misurazioni del 1° nov. 1500 e del 20 apr. 1501 mostrano attivi nella realizzazione del cortile grande il G. e "maestro Perino da Caravaggio", citato anche nel contratto del 1499 e associato al G. anche a Nepi. I conteggi si riferiscono principalmente al piano terreno del cortile, ma registrano anche una scala e camere al piano superiore: al G. andrebbe dunque ascritto il progetto dei due piani, redatto, probabilmente, nell'estate o nell'autunno 1499. I lavori - già in fase avanzata quando, il 17 sett. 1502, Alessandro VI visitò la fortezza alloggiando, forse, nell'appartamento papale - si prolungarono fino al settembre 1503; mentre tra il 1506 e il 1513 potrebbero collocarsi gli interventi voluti da Giulio II e verosimilmente eseguiti da Antonio da Sangallo il Giovane su progetto di Bramante (Bruschi, 1996). Il G. sarebbe responsabile, oltre che del cortile grande e dei lavori alle cortine, dell'allungato cortile d'ingresso collegato al mastio, anche questo probabilmente impostato o, almeno, previsto da lui; ma anche in questo caso, nel disegno del cortile grande, Bruschi ha ravvisato elementi stilistici che rimanderebbero alla presenza di Bramante.

Come ricorda Vasari (IV, p. 272), Giuliano venne chiamato dal cardinale Della Rovere per "acconciare e mettere in buono ordine" la rocca di Ostia, terminata nel 1486 con architettura di Baccio Pontelli. Nel 1494, durante l'assedio papale alla rocca, presa dai Colonna, è registrato un pagamento a un "magistro Antonio florentino", cosa che portò Müntz (1884, p. 164) a immaginare Giuliano e il G. schierati in campi avversi: il primo a difesa della rocca roveresca, il secondo come consulente degli assedianti. Nel marzo del 1497, comunque, il papa fece restaurare "la Rocca de Ostia in quel modo et forma che era innanti che 'l campo andasse contro Ostia" ed è probabile che abbia richiesto la consulenza del G. (ibid., p. 221; Borsi, 1989, pp. 282, 286).

A partire dall'ottobre 1499 il G. fu impegnato nel castello di Nepi, come testimonia il contratto del 5 ottobre, già citato a proposito dei lavori a Civita Castellana. Non è agevole identificare il suo contributo: Borsi (pp. 290 s.) ipotizza un suo disegno per un soffitto a cassettoni di gusto toscano, forse eseguito da Cola di Caprarola.

Nei primi anni del Cinquecento (1500-1502 circa) il G. curò, per Cesare Borgia, i lavori di ristrutturazione della rocca di Sermoneta, ricavando il cosiddetto appartamento del cardinale e, più o meno negli stessi anni, progettò il forte di Nettuno. Qui i lavori iniziarono dopo il 20 ag. 1501 e furono probabilmente compiuti quando, tra l'11 e il 16 maggio 1503, il papa e Cesare Borgia si recarono a visitare il forte. Guglielmotti (p. 174), seguito da Marchini (1942, pp. 95 s.), aveva attribuito l'opera a Giuliano sulla base della c. 4v del Taccuino senese, più probabilmente un progetto ideale, vicino al progetto della fortezza di Sansepolcro, da lui redatto alla fine del 1500. Se non si può escludere la collaborazione dei due fratelli nella rielaborazione di schemi e modelli di fortezze, l'attribuzione al G. della rocca di Nettuno sembra certa, anche se, come a Castel Sant'Angelo e a Civita Castellana, si può forse ipotizzare la presenza di Bramante nel disegno del coronamento a modiglioni, derivato dal modello del Colosseo (Bruschi, 1985, pp. 84, 90 n. 40).

Nel 1503, secondo Vasari (IV, p. 281), il G. per far ritorno a Firenze "partì da Roma; e nel suo passaggio disegnò al duca Valentino la rocca di Montefiascone", rimasta però incompiuta e successivamente demolita.

Lo stesso anno si recò a Piombino. Il diarista fiorentino B. Buonaccorsi narra che "partì da Roma Papa Alessandro per alla volta di Piombino, volendo vedere il disegno di certe forteze che il Duca vi disegnava fare". Sulla base di questa testimonianza, Borsi (1989, p. 295) ipotizza che già nel 1502, in connessione con la sua attività di architetto militare al servizio dei Borgia, il G. intervenisse a Piombino per conto del duca Valentino, nelle cui mani era caduta la città. Qui, comunque, nel 1503, dovette incontrare Leonardo da Vinci e, in qualche modo, collaborare con lui, come dimostrerebbero, nei manoscritti vinciani, studi sulle fortificazioni della città e note autografe del Giamberti. Altre testimonianze di contatti con Leonardo sono fornite dall'ordine dato al G., nel 1504, di ispezionare la fortezza della Verruca, alla quale lavorava Leonardo, e dal disegno a c. 336r del codice Atlantico, riguardante la zona tra Castiglion Fiorentino e Cortona, dove è segnato per due volte il nome di "Antonio". Nel 1502, contemporaneamente a Leonardo, Giuliano da Sangallo era presente in Valdichiana per una consulenza sulla regolamentazione delle acque; ma di un coinvolgimento del G. resta traccia soltanto nel ricordo di una pianta della zona, redatta forse nel 1525, e ora perduta (Cozzi, pp. 9, 151 n. 1).

Oltre alle opere fin qui descritte, più o meno sicuramente documentate, a Roma possono essere attribuite al G. la porta Settimiana, la porta Cavalleggeri, la porta Castello, perduta, e la porta S. Pietro; mentre, sulla base di considerazioni stilistiche gli sono stati ascritti diversi interventi a vario livello in alcuni importanti cantieri romani. Tali possibili attribuzioni rientrano nel quadro di controverse interpretazioni critiche sul ruolo svolto dal G. nella definizione del nuovo linguaggio architettonico cinquecentesco durante gli ultimi anni del pontificato di Alessandro VI - quando si assistette a "una notevole accentuazione o ripresa di riferimenti all'antico" (Bruschi, 1985, p. 68) - e sui suoi rapporti con Bramante, che, proprio in quegli anni, esordì sulla scena romana. Bruschi sottolinea la diversità delle competenze proprie ai due architetti, ipotizzando "consulenze" bramantesche nella definizione di partiti architettonici e dettagli dell'ordine e nella ripresa di modelli antichi, come nel caso del coronamento del torrione di Castel Sant'Angelo o nelle cornici modiglionate, sul modello del Colosseo, a Nettuno e Civita Castellana. Diversamente, Borsi (1989) tende a enfatizzare la posizione del G. "quasi il Dinocrate della città del nuovo Alessandro" (p. 296): ipotizzando il suo intervento nel disegno della nuova via Alessandrina, nel terzo ordine della loggia delle Benedizioni, nella genesi del progetto per il palazzo della Cancelleria e una sua consulenza per palazzo Castellesi, e rivalutando il suo ruolo nella riproposta di modelli antiquari. Frommel (pp. 416-421), più di recente, precisa il possibile contributo del G. nei cantieri della Cancelleria - forse insieme con il fratello nel 1493-94 - e di palazzo Castellesi, evidenziando il suo apporto alla cultura romana negli anni del pontificato borgiano. Pur ricordando la dipendenza da Giuliano nella sua formazione architettonica (soprattutto per quanto riguarda la familiarità con gli ordini e i canoni vitruviani), ne sottolinea l'avvicinamento a prototipi antichi durante il soggiorno romano: a Civita Castellana, dove riconosce la sua mano anche nel "dettaglio dei capitelli e delle cornici", che "si spinse chiaramente oltre la Madonna delle Carceri"; nell'arcata d'ingresso della cappella Carafa in S. Maria sopra Minerva, per la quale ipotizza una consulenza del G. a Filippino Lippi che la affrescò nel 1488-93; nell'appartamento Borgia, dove potrebbe aver progettato la porta della sala dei Santi e le adiacenti architetture finte, gli stucchi e il soffitto a cassettoni della sala delle Sibille. Infine, soprattutto in riferimento alla porta S. Pietro e al portale della torre Borgia - che gli attribuisce -, riconosce al G. il merito di aver fondato l'ordine rustico a carattere fortificatorio, impiegando un bugnato poi ripreso da Bramante in palazzo Caprini.

Per quanto riguarda la presenza del G. a Roma, un ultimo accenno merita la sua possibile partecipazione - sia in collaborazione con il fratello, sia autonomamente - alla progettazione del nuovo S. Pietro (con echi presenti comunque nella genesi progettuale della Madonna di S. Biagio a Montepulciano): una prima volta nella primavera del 1505 e, successivamente, nel maggio del 1514, quando Giuliano, come "capomaestro" di S. Pietro, e il G. si trovavano a Roma al servizio di Leone X.

Come già accennato, dalla fine del 1494, quando Giuliano si allontanò per seguire il cardinale Della Rovere, il G. si trovò ripetutamente a Firenze, impegnato in molteplici cantieri. A partire poi dalla morte del suo committente romano, Alessandro VI, avvenuta il 20 ag. 1503, la presenza a Roma del G. sembra comunque marginale rispetto all'attività in patria. Il 20 dic. 1494, insieme con un certo maestro Ciatto, il G. era stato incaricato di giudicare i lavori eseguiti da Filippino Lippi in occasione dell'ingresso di Carlo VIII, giunto a Firenze il 17 novembre, mentre, tra l'aprile e il settembre del 1495, con Ventura Vitoni e Antonio del Pollaiolo, era intervenuto nell'inizio della costruzione della chiesa dell'Umiltà a Pistoia, responsabile anche della messa a punto del progetto, probabilmente redatto da Giuliano tra il 1492 e l'ottobre 1494; in particolare nella primavera del 1495 venne pagato per realizzare il modello in legno disegnato dal Francione.

A partire dal 1495 assunse, per conto degli Operai di palazzo e poi per i Dieci di balia, la direzione di lavori che richiedevano competenze diversificate, corrispondenti alla sua duplice formazione come legnaiuolo e come architetto militare: era infatti responsabile da una parte della costruzione del soffitto della "sala nova", la sala del Gran Consiglio nel palazzo Vecchio, dall'altra delle fortezze dello Stato fiorentino.

Nel soffitto della "sala nova" risultano impegnati diversi maestri, tra i quali Simone del Pollaiolo, detto il Cronaca, responsabile del disegno e della conduzione delle opere murarie. Il G. vi lavorò dal febbraio 1496 alla fine del 1498, quando, ormai alla conclusione dei lavori, venne sostituito da Baccio d'Agnolo, succedutogli ufficialmente dal 9 genn. 1499. Nel febbraio 1496 gli Operai adottarono il modello del soffitto presentato dal G., autorizzato a eseguirlo con un gruppo di cui faceva parte Baccio d'Agnolo. Dal dicembre dello stesso anno il G. risulta retribuito come capomaestro, nomina che divenne ufficiale nel marzo 1497. Sotto la sua direzione vennero pagati una grossa sezione del cornicione ligneo del soffitto, molti lacunari e il tondo centrale con l'insegna del Popolo fiorentino. Nel 1498 il G. risulta impegnato nel completamento del cassettonato, dei già progettati banchi e spalliere sulle pareti lunghe e nell'esecuzione delle due "porte segrete"; il 28 maggio ricevette, con Baccio d'Agnolo, l'incarico per i lavori in legno alla cappella e all'altare.

Sempre alle dipendenze degli Operai di palazzo, dal 1495-96, il G. si occupò delle fortezze di Fiorenzuola e Poggio Imperiale: in quest'ultima risulta impegnato a più riprese fino al 1512. Nel 1497 divenne capomaestro dei Dieci di balia, carica che, dall'autunno dello stesso anno, venne attribuita a Giuliano, rientrato dal servizio del cardinale Della Rovere.

Il 14 nov. 1497 venne inviato a revisionare la fortezza di Brolio e, dai primi anni del Cinquecento, intervenne, almeno fino al 1525, in moltissime fortificazioni dello Stato fiorentino, spesso in collaborazione con il fratello. Nell'ottobre del 1502 Giuliano fu incaricato del sopralluogo e del progetto per la fortificazione di Arezzo. Secondo Vasari (IV, pp. 281 s.) "Antonio fece il modello della nuova [fortezza], col consenso di Giuliano… e fu questa opera cagione che Antonio fosse fatto architetto del comune di Fiorenza sopra tutte le fortificazioni". In realtà la discussione del progetto era ancora in corso al 25 genn. 1503, e il G. compare nei documenti soltanto dal 1505. Secondo Pacciani (pp. 41 s.), una presenza attiva del G. ad Arezzo come capomaestro della cittadella daterebbe al 1504-05, periodo in cui lavorò come supervisore delle fortezze fiorentine. Nel 1504 era presente sui confini verso la Romagna (a Castrocaro, dove tornò nel 1527 su incarico della Balia di Firenze come "nostro architettore", e a Marradi), e su quelli pisani, a Ripafratta, dove si procedeva alla costruzione di un bastione dalla parte del Serchio, e a Stagno presso Livorno, forse coinvolto nel progetto di deviazione dell'Arno per affamare Pisa assediata (Satzinger, p. 165). Nel 1505 venne inviato in Valdambra e al campo contro Pisa, dove, insieme con il fratello, costruì il ponte fortificato sull'Arno "che fu cosa molto ingegnosa" (Vasari, IV, p. 285). Nel 1508 era impegnato a Fucecchio, a Pisa, a Borgo Sansepolcro, a Marradi, a Verrucola e a Ripafratta. Nel 1509 fu inviato a Pisa, dove, nello stesso anno, era presente anche Giuliano: una prima volta il 13 agosto, poi l'11 e il 20 settembre in "nomine d. Antonii". Nel 1511 entrambi i Giamberti risultano impegnati nella cittadella di Pisa, dopo il viaggio di ispezione di Niccolò Machiavelli. Alla fine dell'agosto 1511 il G. era a Montepulciano per conto dei Dieci di balia: proprio quell'anno la città passò dal dominio di Siena a quello di Firenze e il G. fu incaricato di fare un sopralluogo per la ristrutturazione del sistema fortificatorio della città e di portare il testo definitivo del trattato tra le due Repubbliche. I lavori lo occuparono almeno fino al 1525, quando nell'incarico dovette succedergli il nipote Francesco; ma è dalla metà del quinto decennio che vennero attuati gli interventi più importanti, mentre nel 1885 venne portato a termine un completo rifacimento, su progetto del senese Augusto Corbi. Difficile dunque ritrovare la mano del G.: Cozzi (pp. 60-62), pur senza riscontri documentari, la individua nell'entrata da nord-ovest, la porta al Prato o di Gracciano, caratterizzata dal doppio contrafforte a scarpa che inquadra la porta e dal coronamento a modiglioni alternati a stemmi. Dal 1515, infine, il G. si occupò della fortezza vecchia di Livorno.

Intanto, oltre che in palazzo Vecchio e nelle fortificazioni, il G. era stato impegnato a Firenze in diversi altri lavori. Nel 1504 fece parte, insieme con Giuliano, della commissione incaricata di studiare la collocazione del David di Michelangelo e, nello stesso anno, collaborò con il Cronaca per il disegno del basamento della statua. Nel 1507 partecipò al concorso per il ballatoio della cupola del duomo. Il modello scelto fu quello presentato dal Cronaca, Baccio d'Agnolo e Giuliano che, insieme con il G., l'8 nov. 1507 vennero incaricati di eseguire un progetto definitivo. Dal 26 novembre, poi, Baccio d'Agnolo e i due Giamberti affiancarono il Cronaca come capomaestri dell'Opera del duomo, qualifica confermata fino a tutto il dicembre 1508. Tuttavia il G. e Giuliano abbandonarono l'opera, in circostanze non ancora chiare, l'11 sett. 1508.

Il modello ligneo per il tamburo della cupola conservato presso il Museo dell'Opera di S. Maria del Fiore con il n. 140 è stato datato al 1516 e poi al 1515 e attribuito prima a entrambi i Giamberti e, successivamente, al solo G. da Marchini (1977), recentemente seguito da Satzinger (1991, p. 86); mentre Borsi (1985, pp. 458 s.) ritiene che nessuno dei modelli conservati sia riferibile alla bottega di Giuliano. Nova (pp. 595 s.) porta la datazione al 1508, ipotizzando un progetto dei Giamberti redatto in polemica con quanto precedentemente approvato.

Nel 1515, per l'entrata a Firenze di Leone X (30 novembre), il G. costruì un arco di trionfo ottagonale su piazza della Signoria. Nel 1516, infine, iniziò, insieme con Baccio d'Agnolo, sulla piazza antistante la chiesa della Ss. Annunziata di Firenze, la direzione della loggia dei Servi, disegnata "secondo l'ordine della loggia degl'Innocenti" (Vasari, IV, p. 289). Nel 1518 venne pagato per il modello e ricevette l'ultimo pagamento il 23 febbr. 1520.

Dopo i lavori romani, il primo incarico documentato del G. al di fuori delle sue consuete competenze - lavori di grande carpenteria e di ingegneria militare - sembra essere, a partire dal 1502, la chiesa della Ss. Annunziata ad Arezzo. Il suo intervento è comunque da porre in relazione con i già citati lavori per la cittadella. La chiesa era stata iniziata, nel 1491-92, sembra su progetto di Bartolomeo della Gatta.

Pacciani ricostruisce il progetto originario di chiesa a navata unica con cappelle estradossate, con richiami sia al S. Spirito di F. Brunelleschi, sia alla Madonna del Calcinaio a Cortona di Francesco di Giorgio. La navata sembra essere stata completata nel 1504: a questa data il G. fu chiamato a consolidare le strutture, probabilmente in vista della costruzione di transetto, coro e cupola, portati a termine tra 1513 e 1514; mentre, tra 1517 e 1524, venne realizzato il vestibolo, o cappella della Madonna delle Lacrime. Il vestibolo, progettato forse già nel 1504-05, rientra nei lavori ascrivibili al G.: giustapposto alla navata con evidenti incongruenze sintattiche, presenta, nella definizione formale, richiami alla cultura fiorentina e, allo stesso tempo, accentuati caratteri antiquari. Dopo i due pagamenti del 1504 e del 1505, il G. fu nuovamente chiamato, nel 1532, a progettare le navate laterali della chiesa. Il lavoro venne portato a termine dopo la morte del G., fra 1539 e 1550 per la navata sinistra, e dalla metà del secolo fino agli anni Ottanta per quella di destra: dunque senza la sua diretta supervisione, il che spiegherebbe le incongruenze denunciate da Vasari (IV, p. 289).

A partire dal 1512 il cardinale Antonio Ciocchi Del Monte cominciò ad acquisire, a Monte San Savino e a Montepulciano, le proprietà necessarie alla costruzione dei suoi palazzi nelle due città. In entrambi i casi mancano prove documentarie dirette della paternità del G., tuttavia tramandata da Vasari e sostenibile sulla base di considerazioni stilistiche. Va inoltre considerato come sia probabile che la scelta del committente sia caduta su un personaggio ormai affermato, con il quale, già in precedenza, dovevano essere state frequenti le occasioni di incontro: ad Arezzo, dove Del Monte, fino al 1508, era proposto della cattedrale, e dove, come si è visto, il G. lavorò, dal 1502, alle fortificazioni e alla cattedrale stessa; a Roma, alla corte di Alessandro VI e forse successivamente, nel 1505, quando si ipotizza una presenza del G. nel dibattito sul nuovo S. Pietro; infine a Montepulciano, dove, nel 1511, il cardinale fu inviato da Giulio II per mediare il passaggio della città da Siena a Firenze.

La prima testimonianza sul palazzo di Monte San Savino è la lettera inviata dal cardinale Del Monte il 24 nov. 1512 ai rappresentanti della Comunità al fine di comprare le case per costruire il palazzo che "havemo pensato di edificare": secondo Cozzi la precisione nell'individuare le proprietà da acquisire indicherebbe l'esistenza di un progetto già a quella data. I lavori iniziarono dopo il febbraio 1515 e il palazzo sembra completato nel 1517, quando il cardinale vi alloggiò in una delle sue visite nella città.

Cozzi ipotizza che l'assetto originario dell'edificio, costituito dalla successione del corpo di fabbrica doppio sulla via principale, del cortile e dell'ala sul giardino, sia stato successivamente modificato con l'ampliamento di quest'ultima, forse per opera di Giovanni Lippi, detto Nanni di Baccio Bigio, dopo il 1550. Va comunque notato che il G. risulta presente a Monte San Savino nel maggio 1532, quando gli furono spediti i materiali per il modello delle navate dell'Annunziata di Arezzo: dal momento che il cardinale Del Monte era ancora vivo (morì il 20 sett. 1533), per Pacciani (pp. 53, 57, App. III) il G. potrebbe essere stato impegnato nella prosecuzione dei lavori, forse interrotti, come quelli al palazzo di Montepulciano, dalla Signoria di Firenze, per ragioni politiche e di sicurezza militare. Tra il 1518 e il 1520 viene generalmente posta la costruzione della loggia dei Mercanti, dapprima attribuita allo stesso G. e, successivamente, ad Andrea Sansovino, mentre Vasari non menziona l'opera in relazione con i due artisti. In base a una serie di considerazioni - l'assenza di citazioni della loggia prima della metà del Cinquecento; le sue caratteristiche formali; la presenza, nei pennacchi degli archi, dello stemma Del Monte nella versione modificata da Giulio III e non in quella dei cantonali dei palazzi di Monte San Savino e Montepulciano; una lettera di Giulio III del 23 sett. 1553, in cui si nomina Nanni di Baccio Bigio; e l'attribuzione vasariana a Nanni di "una porta del Montesansavino… con un ricetto d'acqua non finito, una loggia, ed altre stanze del palazzo già fatto dal cardinal vecchio di Monte" (VII, p. 552) - Cozzi (1992) propone di spostare la datazione della loggia successivamente alla metà del Cinquecento e di riconnetterne l'edificazione all'ampliamento del palazzo Del Monte e agli altri lavori condotti da Nanni di Baccio Bigio a Monte San Savino.

Per il palazzo Del Monte a Montepulciano, a volte confuso con il palazzo Nobili-Tarugi, Cozzi (pp. 69, 160 n. 87) ribadisce la paternità del G., rilevando, tra l'altro, l'attinenza con l'edificio di alcuni disegni conservati agli Uffizi a lui attribuiti: UA 7796v, 7821r, 7822rv, 7823 e 7856v. L'8 ott. 1512 il Consiglio poliziano decideva di donare una casa al cardinale Del Monte che, il 24 novembre, scrisse da Roma di accettarla, esprimendo l'intenzione di "presto volerce cominciare a fabricare". Un anno dopo, tuttavia, dalle Deliberazioni di Montepulciano risulta che il cardinale "intendit facere unum palatium pulcherrimum et nobile in platea dicte terre" e, a tale scopo, vuole acquistare le case confinanti con la sua. Dopo lunghe trattative, i lavori iniziarono nel 1517 e furono pressoché terminati alla fine del 1519, quando la costruzione doveva essere giunta a interessare le mura: il 16 novembre, infatti, la Signoria di Firenze scrisse al cardinale, allarmata dal progetto di "coniungere un portone delle mura et per via di lumaca passare a suo piacere da l'uno ad l'altro". Tale progetto, contrastante con la sicurezza militare, viene attribuito da Cozzi al cardinale, piuttosto che al G., responsabile delle fortificazioni della città. L'edificio attuale appare alterato, rispetto all'impianto originario, nell'ampliamento della parte posteriore e nella parziale sopraelevazione, con apertura o modifica delle finestre del sottotetto, in facciata e all'interno del cortile (Cozzi, pp. 64, 66, 68-71).

La chiesa di S. Biagio a Montepulciano, l'opera più nota del G., venne fondata nel 1518, data incisa sopra l'ingresso principale, a seguito dell'apparizione miracolosa della Vergine del 13 aprile dello stesso anno. L'attribuzione al G., confortata dalla documentazione, è comunemente accettata - salvo i dubbi avanzati da C. Hülsen (Jahresbericht…, in Römische Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, XVII [1902], p. 48), che ne attribuisce l'ideazione ad Antonio il Giovane - mentre permangono incertezze sulla conduzione del cantiere dopo la morte del Giamberti.

Il 28 aprile venne dato inizio ufficiale all'impresa con la nomina di quattro operai o soprintendenti e il 14 maggio il modello predisposto dal G. venne esaminato e approvato. Nella stessa occasione furono eletti altri otto operai. Benché l'iniziativa dell'impresa spetti alla Comunità poliziana, è stato ipotizzato un interessamento di papa Leone X e, soprattutto, del cardinale Antonio Del Monte che potrebbe aver influenzato la scelta del progettista (Cozzi, pp. 73-77). Dato il breve intervallo di tempo intercorso tra l'apparizione miracolosa, l'approvazione del modello e la posa della prima pietra (15 sett. 1518), Cozzi considera la possibilità che il G. si sia potuto basare su precedenti riflessioni, forse relative a diverse occasioni progettuali. In ogni caso, la genesi ideativa dell'opera è testimoniata da svariati disegni conservati presso il Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi. In particolare, alcuni di quelli contenuti nel codice Geymüller, riferibili all'impianto generale del tempio, sarebbero databili precedentemente al 1518, altri, come i disegni UA 1608-1611, relativi a particolari, sarebbero da porre in relazione al procedere del cantiere (Cozzi, pp. 100, 163 n. 51). Nell'Archivio storico comunale di Montepulciano è conservata una ricca documentazione che, dalla posa della prima pietra, copre, con qualche lacuna, tutto l'arco della costruzione. In essa compaiono numerosi pagamenti al G. e riferimenti a suoi progetti che ne confermano l'impegno nel cantiere dal giorno della fondazione fino alla fine della vita: il primo pagamento registrato data infatti al 15 sett. 1518, l'ultimo al 26 ott. 1534, poco prima della morte del Giamberti. Il 9 luglio 1520 i lavori subirono un'interruzione per un contenzioso con gli Otto di pratica di Firenze, preoccupati che la costruzione potesse in qualche modo essere concorrenziale con la fortezza del "Sasso". Chiarito che "tale opera non era per impedire la fortezza", la ripresa dei lavori venne consentita a patto che "la rocha venga a restare più eminente et superiore in tal modo che et le diffese et chi vi fussi dentro possi offendere il campanile et non il campanile la rocha": Cozzi (pp. 103 s., 165 n. 64) ipotizza che a tale episodio si possa imputare il ritardo nella costruzione del primo campanile e nell'avvio del secondo, e l'abbandono dell'idea di costruire eventualmente due campanili accanto all'abside. Dopo la morte del G., il cantiere dovette procedere con lentezza fino al 1542-43, quando si riprese a lavorare con rinnovato impegno, con Baccio d'Agnolo. Al G. va ascritta, oltre al progetto generale, la precisazione del dettaglio dell'opera, compreso il primo livello del campanile; a Baccio d'Agnolo andrebbe la paternità della lanterna, mentre al figlio di questo, Giuliano, spetterebbe il completamento del campanile. All'inizio del 1544 risale il contratto per il rivestimento della cupola in squame di maiolica policroma, smantellato nel 1603. Cozzi (pp. 106-108) suggerisce la possibile paternità sangallesca di tale singolare rivestimento, sulla base del disegno UA 7889r, dove compare un paramento a squame, e della mancanza, nei rendiconti, di accenni a una variante di progetto imprevista e molto dispendiosa.

Un ultimo accenno merita la canonica di S. Biagio: Tommaso Boscoli, soprintendente della fabbrica dal 1520, nell'ottobre 1550 doveva ricevere un pagamento "per la loggia della Hosteria", rimasta però incompiuta. Secondo Cozzi (pp. 102, 108 s.), la conduzione del Boscoli non esclude l'esistenza di un progetto sangallesco, ipotesi suggerita sia dal fatto che nei rendiconti non sono ricordati altri progettisti, sia dalla data 1518 sull'arco centrale della facciata, che sembra attestare una contemporaneità dell'opera con la fondazione della chiesa.

Secondo L. Biadi (Storia… di Colle Val d'Elsa, Firenze 1859, p. 284), il 16 apr. 1521 il G. consegnò il modello della chiesa di S. Agostino a Colle Val d'Elsa, disegnata "a similitudine delle chiese di S. Lorenzo e di S. Spirito di Firenze". L'intervento, portato a termine soltanto nel 1551 e quindi senza il diretto controllo dell'architetto, consiste nella trasformazione in un impianto a tre navi della preesistente chiesa ad aula unica, fondata, all'inizio del XIV secolo, sul luogo dell'antica Pieve in Piano.

Lo spazio interno venne diviso seguendo il modello delle chiese di Brunelleschi: un grande ordine di paraste doriche sostiene la copertura della nave centrale e inquadra un ordine minore di colonne, anch'esse doriche, collegate alle semicolonne sulle pareti perimetrali dalla trabeazione su cui si impostano volte a botte trasversali. L'ordine minore inquadra archi su pilastri, riferibili a un intervento dell'inizio del XIX secolo (Miarelli Mariani, 1987). La trasformazione della facciata non venne portata a termine. L'attribuzione del progetto al G. è accettata da Milanesi e da Geymüller il quale sottolinea la vicinanza di alcuni disegni del codice che era in suo possesso (codice Geymüller) con il partito delle navi laterali della chiesa.

Coeva a S. Agostino sarebbe la piccola chiesa di S. Maria della Neve a Fabbriciano, presso Colle Val d'Elsa. Attribuito al G. da Marchini (1977), l'edificio consiste in un unico ambiente rettangolare, probabilmente rimaneggiato all'interno, preceduto da un pronao tetrastilo di colonne ioniche, coperto a botte e coronato, sul fronte, da una riquadratura incassata nella parete a sostituire la trabeazione delle colonne. Il pronao rappresenterebbe l'unica parte originaria, seppure guastata dall'inserzione ottocentesca di due pilastri quadrati nei lati brevi. L'attribuzione al G. viene basata da Marchini sul riferimento dell'edificio al tempio di Cerere e Faustina, poi trasformato in S. Urbano alla Caffarella, variamente studiato e rilevato durante il Cinquecento, e sulle caratteristiche formali dei capitelli ionici. Tuttavia la ripresa di un modello molto frequentato non escluderebbe altre possibili attribuzioni, mentre gli stessi caratteri formali dei capitelli suggeriscono per lo meno un'esecuzione non controllata da parte del Giamberti.

Il G. morì a Firenze il 27 dic. 1534 e venne sepolto in S. Maria Novella.

A conclusione della vita dei fratelli Giamberti, Vasari (IV, pp. 290 s.) afferma che "lasciarono Giuliano ed Antonio ereditaria l'arte dell'architettura, dei modi dell'architetture toscane, con miglior forma che gli altri fatto non avevano"; e difatti una certa derivazione dai modi architettonici del G. è riscontrabile in alcune architetture, soprattutto poliziane, che di conseguenza gli sono state più o meno attendibilmente ascritte. Fin dal secolo scorso, gli sono stati attribuiti i palazzi Cervini, Del Pecora (o Cocconi) e Nobili-Tarugi a Montepulciano, con l'avallo, seppure in forma dubitativa, di Geymüller. Considerazioni di carattere cronologico e stilistico hanno tuttavia portato Miarelli Mariani (1977-78) a escludere l'intervento del Giamberti. Al G. sono state ricondotte anche altre opere, sempre a Montepulciano, quali palazzo Avignonesi (o Tarugi-Cappelli-Bernabei), poi attribuito anche al Vignola, con la possibilità di estendere il suo intervento a una serie di opere come palazzo Ricci, con la loggia sul retro che presenta vicinanze con la canonica di S. Biagio, le logge del Grano o il pozzo dei Grifi e dei Leoni, l'unica opera per cui una paternità sangallesca non sarebbe impossibile (Cozzi).

Un ultimo accenno meritano i numerosi disegni per i quali, più o meno attendibilmente, è stata ipotizzata la paternità del G., in particolare le due raccolte conservate presso il Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi e conosciute come codice Strozzi (UA 1584-1605) e codice Geymüller (UA 7792-7907). I disegni del codice Strozzi rappresentano una raccolta omogenea: redatti su carta della stessa qualità e con la stessa filigrana, sono quasi tutti rilievi di monumenti antichi - piante, alzati, dettagli degli ordini architettonici - corredati da annotazioni e misure. Si tratta probabilmente di copie da altri disegni, come attestano anche i riferimenti alle misurazioni di Bernardo Della Volpaia e Simone del Pollaiolo (UA 1602). Il codice venne attribuito al G., con qualche dubbio, da Ferri (1885, p. XL) e datato da Ashby (p. 3) al 1515 circa e da Bartoli agli anni 1492-96 (p. 25). I riferimenti a Della Volpaia e al Pollaiolo (quest'ultimo presente a Roma nel 1497), il disegno del capitello del cortile del palazzo della Cancelleria (UA 1598) - in costruzione tra 1500 e 1503 - e i rilievi della basilica Emilia (UA 1590, 1596, 1603), i cui marmi sarebbero stati impiegati in palazzo Castellesi prima del 1504, hanno portato Bruschi (1985, pp. 72, 87 n. 22, 88 n. 30) a spostare la datazione del codice alla fine del XV secolo o ai primi anni del Cinquecento. L'attribuzione al G., tuttavia, già messa in dubbio da Degenhart (n. 344), è stata del tutto esclusa da Günther (1988) sulla base della grafia delle leggende - diversa da quella che compare nei disegni più sicuramente riferibili al G., come, per esempio, l'UA 1642 - e della particolare partizione del braccio impiegata nelle misurazioni, vicina a quella utilizzata dal Cronaca e lontana dalle misurazioni più semplici del Giamberti.

Il codice acquistato da Geymüller nel 1875 circa e da questo venduto agli Uffizi nel 1907, contiene 148 carte, di cui alcune bianche, distinte da quattro differenti tipi di filigrana. Diverse sono le opinioni sulla formazione della raccolta. Secondo Geymüller (1884, p. 234), la disposizione dei disegni non sarebbe quella originaria, mentre per Ferri (1908) il codice potrebbe essere un taccuino completo del Giamberti. Degenhart considera originale il codice ma attribuisce alla raccolta altri disegni che ne sarebbero stati espunti. Al contrario Satkowski e Cozzi (p. 158 n. 37) propendono per una rilegatura successiva. Secondo le ipotesi più attendibili, autori dei disegni sarebbero il G., Francesco e Giuliano Giamberti (Satzinger, p. 149). Il codice contiene schizzi di ornato e figure, appunti grafici e molti disegni attinenti a opere del Giamberti.

I disegni del cosiddetto "libro di pergamena" (UA2043-2047), costituito da una serie omogenea di fogli con ricordi di monumenti antichi ed edifici moderni, sono generalmente attribuiti al G., seppure con qualche propensione per una possibile paternità di Giuliano, in particolare del foglio 2045. Per i molti altri disegni attribuiti al G., alcuni con certezza altri dubitativamente, si veda, tra gli altri, Satzinger (1991, passim).

Per quanto riguarda il primo non breve periodo di attività, fino agli ultimissimi anni del Quattrocento, l'individuazione della specifica identità di progettista del G. è resa difficile sia dal frequente rapporto di collaborazione con il più anziano fratello, sia dalla natura della sua opera che - in una sorta di elastica ma strategica divisione dei compiti tra i due - sembra rivolta prevalentemente agli aspetti pratici ed esecutivi della professione: di legnaiuolo-scultore, di carpentiere e di direttore di cantiere, oltre che di architetto militare, specialmente all'inizio in collaborazione con il Francione e con Giuliano ma, già a Sarzana (1488), con una certa autonomia. Ben presto in quest'ultimo ambito - lavorando sia per la Repubblica fiorentina, sia, soprattutto, per Alessandro VI e poi per il figlio Cesare Borgia - sembra maturare esperienze forse anche superiori a quelle di Giuliano, ed è protagonista, a cavallo tra i due secoli, nella definizione di nuove soluzioni nella tecnica fortificatoria. Tuttavia, prima del cortile di Civita Castellana (1499 circa-1503), pochissime opere a lui attribuibili con sufficiente sicurezza mostrano una maniera nettamente orientata, pur già manifestando un gusto personale distinto da quello del fratello. Per esempio, la porta S. Pietro in Vaticano, di grevi proporzioni, unisce, con pratico empirismo e senza particolari preoccupazioni sintattiche, una robusta mostra marmorea di ascendenza fiorentina, a larga ghiera centinata e mensola in chiave, un basamento a blocchi pseudoisodomi e una targa anticheggiante a un coronamento a beccatelli. Arcaismi e medievalismi di origine toscana, senza particolari accentuazioni all'antica, caratterizzano pure le porte Settimiana e Cavalleggeri e la perduta porta Castello, così come il torrione di S. Matteo e gli interventi in Castel Sant'Angelo.

Nelle porte è caratteristico un tipo a bugne lisce circoscritte da una cornice centinata, poi molto diffuso a Roma. A Castel Sant'Angelo lo stesso torrione bugnato posto a difesa del ponte mostrava una classicheggiante trabeazione con fregio a bucrani, ripresa dallo stesso mausoleo di Adriano e simile a quella di Cecilia Metella, quasi incongrua aggiunta al di sopra di un "medievale" coronamento a beccatelli. L'interesse per l'antichità - pur presumibilmente alimentato dalla documentazione antiquaria di Giuliano e dall'attività di rilevamento di fiorentini come il Cronaca e favorito dal gusto classicheggiante diffuso a Roma tra il pontificato di Innocenzo VIII e quello di Alessandro VI - sembra frammentario e ristretto a particolari. E, a differenza di Giuliano, già ideatore di opere prestigiose, il G., non più giovanissimo, non sembra aver ancora dato autonome prove di una coerente padronanza dei problemi di architettura civile e religiosa. Per quanto ne sappiamo (e senza tuttavia del tutto escludere una sua parziale, possibile, marginale partecipazione), sembra dunque imprudente attribuirgli ruoli decisivi a Roma nella definizione del palazzo e del cortile della Cancelleria o del palazzo Castellesi (Giraud-Torlonia) iniziato da Bramante.

Un notevole salto di qualità è tuttavia avvertibile nel cortile di Civita Castellana sul cui lato di fondo si affaccia l'appartamento papale. La sovrapposizione di due ordini di piatte paraste (qui per la prima volta "toscane" al piano inferiore e ioniche su piedistalli al piano superiore) che inquadrano arcate è certo suggerita da monumenti romani (come specialmente il Colosseo) e possono essere presenti indicazioni vitruviane.

La personalità del G., al quale, seppure documentato solo per l'esecuzione, è attribuibile il progetto, si manifesta nel gusto per una severa monumentalità e per la semplificazione degli elementi, nella predilezione per le proporzioni tozze delle membrature, vigorose ma poco aggettanti, e delle arcate slargate. Tuttavia, la presenza di elementi singolari anche caratterizzanti il chiostro della Pace (in costruzione prima dell'agosto 1500 e dunque coevo) su disegno di Bramante, secondo Vasari "sottoarchitettore" di Alessandro VI, hanno fatto pensare (Bruschi, 1985) a consistenti scambi tra i due architetti (non necessariamente, data l'assai maggiore esperienza progettuale del più anziano Bramante, maturata da più di venti anni in Lombardia e la successiva ripresa da parte del G. di molti spunti da Donato, con debiti a carico di quest'ultimo, come supposto da Marchini, 1964; Borsi, 1989, e altri).

La prima fase dell'attività del G. nella navata, nel transetto, nel coro e nella cupola della Ss. Annunziata ad Arezzo (tra il 1504-05 e il 1514-15) è condizionata dall'impianto già iniziato (1491-92), secondo Vasari, da Bartolomeo Della Gatta, con riferimenti alla chiesa del Calcinaio di Cortona di Francesco di Giorgio. Tuttavia, più che nel cortile di Civita Castellana, sembrano qui accentuati i rapporti col mondo quattrocentesco fiorentino e con i modi del Cronaca e di Giuliano. Questi sono pure presenti nel successivo vestibolo a colonne (1517-24) insieme con il libero riferimento, nella morfologia e nelle proporzioni, al partito a colonne trabeate delle grandi nicchie del Pantheon interpretato in senso ancora quattrocentesco fiorentino. Una scarsa cura sintattica è evidente nelle membrature di connessione tra il vestibolo e la navata centrale, definita ancora ricercando una raffinata varietas; così come nella più tarda (1532) inserzione delle arcate delle navate minori.

I due palazzi per Antonio Del Monte, rispettivamente a Monte San Savino e a Montepulciano (progettati e portati avanti tra il 1512-13 e il 1519), mostrano più accentuati rapporti con il mondo romano di Bramante, di Raffaello e del nipote del G. Antonio il Giovane. Tuttavia, l'impianto distributivo, analogo in tutti e due, riprende il tipo di palazzo Gondi, di Giuliano, a Firenze, con cortile a semplici arcate direttamente su colonne - con fusto diviso da un anello, stranamente al modo lombardo, e pilastri d'angolo - vitruvianamente a sviluppo trasversale, senza, sostanzialmente, tener conto delle novità tipologiche introdotte a Roma da Bramante (palazzo Castellesi) e riprese dal nipote Antonio. Pure se l'apertura a serliana tra pilastri in fondo al cortile interpreta motivi romani bramanteschi e raffaelleschi.

Nel fronte del palazzo di Monte San Savino lo schema del palazzo Caprini di Bramante è ripreso inserendo al piano terreno un bugnato rustico irregolare (vicino a quello del palazzo dei Tribunali pure di Bramante) con un portale centrale a bugne (del genere della porta Iulia di Bramante in Vaticano e del portale di palazzo Farnese). Al piano superiore le semicolonne doriche del modello sono sostituite da paraste ioniche con trabeazione profilata in aggetto, fiancheggiate da tratti di parasta, come nel bramantesco cortile inferiore del Belvedere e nel forse raffaellesco palazzo di Iacopo da Brescia in Borgo, mentre l'angolo con paraste raddoppiate ricorda quello dell'esterno della chiesa delle Carceri di Giuliano. La finestra a edicola con paraste ioniche, riprese forse più che da quelle dell'interno del Pantheon da quelle dell'esterno del battistero di Firenze, come già nel Quattrocento fiorentino, mostra frontoni alternatamente triangolari e curvilinei secondo un modo, già impiegato da Franceso di Giorgio e da Giuliano, non di rado presente a Roma (cortile inferiore di Belvedere, palazzo Fieschi-Sora, palazzo di Iacopo da Brescia).

L'incompiuta facciata di palazzo Del Monte di Montepulciano (forse progettato poco dopo quello di Monte San Savino) presenta invece al piano nobile, come nel palazzo Farnese di Antonio il Giovane, soltanto una fila di finestre a edicola, tutte a frontone triangolare, con semicolonne ioniche su grandi mensole, plasticamente rilevate sulla nuda parete a liscia opera isodoma. Un rustico bugnato irregolare segna invece le estremità del piano terreno caratterizzato da un portale centinato a bugnato liscio, fiancheggiato da due sole finestre.

L'opera più nota e importante del G., la chiesa della Madonna di S. Biagio a Montepulciano (1518) riprende lo schema centrico, cruciforme a cupola, di quella di S. Maria delle Carceri a Prato di Giuliano. L'aggiornamento non è ricercato (come già nel S. Eligio di Raffaello o nel S. Egidio di Cellere di Antonio il Giovane) agendo sulla configurazione del vano interno secondo la "moderna" linea bramantesca, proposta a S. Pietro, a S. Biagio dei Tribunali e a S. Celso, ma introducendo un greve ordine dorico a triglifi che modella con continuità le pareti. All'interno, invece di adottare - come sull'esempio di Bramante, Raffaello e continuatori - la soluzione con il caratteristico smusso diagonale nel pilastro d'imposta dei pennacchi della cupola, con effetto di avvolgente continuità del vano, l'angolo convesso posto a sostegno degli arconi della cupola è rilevato in aggetto e lo spigolo è potentemente marcato da un pilastro quadrato fiancheggiato da due semicolonne (soluzione ripresa dall'angolo della basilica Emilia e già adottata da Giuliano e dal G. nel modello per il tamburo della cupola di S. Maria del Fiore), mentre gli angoli dei bracci della croce, pure in aggetto, sono segnati da un pilastro piegato a libro fiancheggiato da due semicolonne. Un'alta e greve trabeazione dorica a triglifi, del tipo del teatro di Marcello (come quella del cortile di palazzo Farnese) cerchia, articolandosi costruttivamente, tutto il perimetro. Si tratta, concettualmente, in fondo, delle stesse soluzioni angolari della chiesa delle Carceri. Ma esse sono aggiornate e straordinariamente enfatizzate valendosi di celebrati esempi antichi, gli stessi ormai diffusi nella cerchia romana del tempo. E ogni spunto è rivitalizzato dalla "arcaica", rude ed energica resa plastica delle membrature in pietra, che vuole esprimere la primordiale potenza tettonica e l'articolazione costruttiva delle masse murarie (Marchini, 1964). All'esterno la netta stereometria del prisma cruciforme (anch'essa analoga a quella di Prato, ma in materica pietra squadrata) è solo marcata da semplici pilastri negli snodi tra le superfici murarie, dalla trabeazione a triglifi (ben dieci nell'intercolumnio del fronte) e da cornici continue in aggetto sugli angoli. La volumetria, come in vari progetti per S. Pietro, è arricchita sul fronte da due campanili a ordini sovrapposti con gli angoli segnati, come all'interno, da pilastri e semicolonne; ma si complica artificiosamente sul retro per la forzata aggiunta di una finta abside circolare che dissimula, inglobandolo, l'allungato vano della sacrestia a nicchie contrapposte. Al piano superiore di ogni testata della croce, la superficie delimitata dai pilastri angolari e articolata da specchiature in pietra (come già sulla michelozzesca facciata di S. Agostino a Montepulciano) è animata da un'isolata finestra a edicola con colonne ioniche (con l'anello nel fusto) e, bizzarramente, presenta una dorica trabeazione a triglifi.

Nell'esame delle opere principali - nonostante qualche incertezza per la difficoltà di individuare e datare con esattezza le parti sicuramente autografe in opere spesso prolungate nel tempo e anche dopo la morte del G. - si desume la presenza di una personalità di architetto (distinta da quella più teorica, astratta e raffinata, del fratello maggiore) ben caratterizzata e riconoscibile tra quelle dei contemporanei. Per molti versi egli sembra essere ancora legato alla tradizione fiorentina, brunelleschiana e quattrocentesca sia per quanto riguarda gli impianti tipologici, sia per l'uso e la definizione di alcuni particolari. D'altro canto, è capace di una sua personale interpretazione e selezione dell'antico, filologicamente conosciuto ma liberamente utilizzato, ed è pure colpito da alcune novità linguistiche introdotte da Bramante e dai suoi continuatori come Raffaello e lo stesso nipote Antonio, i cui rapporti e scambi con lo zio non sono stati ancora del tutto chiariti al di là di qualche analogia di carattere, di formazione, di inclinazione, di gusto e di comportamenti.

La sua mai dimenticata formazione di scultore e la sua familiarità con i problemi pratici del cantiere, della costruzione e dei materiali lo portano, con un suo sicuro gusto personale e selezionando decisamente i modelli di riferimento, a privilegiare l'espressività tettonica e plastica di membrature tendenzialmente semplificate e di pareti matericamente lapidee, rispetto all'articolazione di spazi complessi e al coordinamento sintattico delle parti e degli elementi. Spazi sostanzialmente elementari di più o meno diretta ascendenza quattrocentesca, con raro o parsimonioso impiego di vaste concavità curvilinee, e vibranti piani lapidei sono dunque vitalizzati - e linguisticamente aggiornati - dall'intrusione di caratterizzati elementi plastici antichizzanti, selezionati e definiti - non senza solecismi e "arcaiche" assonanze "etrusche" (Marchini, 1964) - con sicura, personale caratterizzazione espressiva.

La mancanza di organici e completi studi monografici recenti sull'intera attività del G. - pur in presenza di importanti approfondimenti parziali - lascia il campo a una serie di interrogativi la cui risposta è indispensabile per una corretta comprensione della sua identità di architetto.

Così, in generale, rimane incerto (ma forse imprecisabile con sicurezza) il contributo del G. ai progetti e alla definizione esecutiva dei particolari delle architetture di Giuliano. Ancora in certa misura da approfondire è poi l'accertamento del grado di conoscenza e le modalità di personale impiego di principî e di teorie diffuse al suo tempo nella trattatistica architettonica - da Vitruvio all'Alberti e oltre - e operanti nella sua prassi progettuale. Ciò servirebbe a ridimensionare una certa interpretazione dell'architettura del G. come frutto più di doti istintive che di elaborazioni culturali. C'è infatti il sospetto che egli fosse almeno partecipe del particolare interesse per Vitruvio che contraddistingueva i Sangallo, da Giuliano ad Antonio il Giovane, a Battista. Ciò può avvenire specialmente analizzando le opere, accuratamente rilevate, e i disegni. Ma ciò non può non essere preceduto dall'indispensabile lavoro filologico, ancora in corso, dalla sicura individuazione delle opere e delle loro parti a lui riferibili con certezza, accompagnata dalla ricostruzione del corpus dei disegni sicuramente autografi: sciogliendo i dubbi sulle opere incerte, alterate nell'esecuzione, o solo attribuite.

Andrebbero poi meglio precisati i rapporti e gli scambi di idee, di soluzioni stilistiche con altri architetti suoi contemporanei. L'analisi delle opere, come abbiamo accennato, mostra concomitanze evidenti - oltre, ovviamente, con l'opera di Giuliano e anche con quella del Cronaca e di Baccio d'Agnolo con i quali collaborò - pure, almeno in parte, con quella di Francesco di Giorgio, di Bramante, di Antonio da Sangallo il Giovane. Sappiamo inoltre che è molto probabile che abbia conosciuto, oltre a Leonardo, Michelangelo, Andrea Sansovino e forse Raffaello. Sarebbero inoltre da chiarire meglio le circostanze del suo successo come architetto militare - per i Borgia e per la Repubblica fiorentina - e l'insieme della sua attività come protetto di Antonio Ciocchi Del Monte. Sarebbero anche da capire le ragioni del suo scarso credito - sembra - dopo la morte di Giuliano, presso pontefici Medici, come Leone X e Clemente VII, che certo gli preferirono architetti più giovani e "moderni". Fu costretto infatti, nella sostanza, a lavorare in provincia, pur se in un'opera anche per loro interessante come il S. Biagio. Forse si accorsero - come del resto Vasari - che il G. risultava in fondo "superato", nelle tipologie e negli organismi, dopo le straordinarie innovazioni introdotte a Roma da Bramante e Raffaello almeno dal tempo di Giulio II.

Prima di chiarire questi punti problematici è forse imprudente avanzare ipotesi conclusive. Si può tuttavia provvisoriamente affermare che, dopo una lunga fase di attività come collaboratore di Giuliano e come architetto militare, fu, intorno all'anno 1500, al centro del movimento romano di più puntuale avvicinamento al linguaggio antico. Ma nel primo terzo del secolo, pur capace di opere suggestive e potentemente personalizzate, si trovò a essere l'esponente di una linea fiorentina di sostanziale matrice quattrocentesca, prevalentemente di scultori architetti, che il G. cercò di rivitalizzare, più che tentando una vera mediazione con la nuova linea romana di Bramante e dei suoi continuatori, accettando di quest'ultima solo alcuni schemi formali innovativi e adottando elementi di aggiornato linguaggio antiquario.

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