Giainismo

Dizionario di filosofia (2009)

giainismo


Religione indiana riconducibile storicamente a Mahāvīra, detto Jina («vincitore», normalmente interpretato come «vincitore sulle passioni»), contemporaneo del Buddha e citato anche nel canone buddista, di cui i giainisti riconoscono 24 predecessori, alcuni dei quali sono verosimilmente figure storiche.

Ontologia

Il g. mantiene vari elementi delle correnti più antiche della filosofia naturale in India (di cui non ci restano che tracce indirette soprattutto nel g. e in Vaiśeṣika), fra cui l’atomismo, l’assenza di un Dio come causa dei fenomeni naturali, la materialità del karma (➔). Il reale è diviso nei due principi basilari di senziente (jīva) e insenziente (ajīva). Questi possono coesistere (per es., nell’uomo), ma restano irriducibili l’uno all’altro, sono increati e indistruttibili. Il senziente si manifesta nelle anime individuali, che sono monadi separate e il cui numero è incalcolabile. Probabilmente riconducibile all’antica filosofia naturale è l’idea che le anime si espandono o contraggono a seconda del corpo in cui si trovano. L’insenziente si manifesta al contrario nelle cinque sostanze: materia (pudgala), dharma e adharma, spazio e tempo (quest’ultima categoria non è però riconosciuta fra le sostanze da tutte le scuole del g.). La materia ha un ruolo essenziale nel g., dal momento che può legarsi all’anima e divenire karma, inibendo così la naturale onniscienza, la retta fede e la retta condotta. Dharma e adharma non hanno il significato usuale, bensì sono fattori posti a spiegare moto e stasi.

Etica

Il fondamento dell’etica giainista è la non violenza (ahiṃsā), giacché è tramite la violenza (in pensieri, parole o atti) che viene prodotta la maggior quantità di karma. La non violenza include anche il non far commettere ad altri atti violenti e non approvarli in alcun modo e si rivolge egualmente a esseri umani, animali, piante, fino alle forme di vita più sottili e invisibili presenti nell’acqua o nel fuoco. Oltre alla non violenza, gli altri «grandi voti» attribuiti a Mahāvīra sono: veridicità, non prendere se non ciò che viene offerto, castità e rinuncia alla proprietà. L’etica dei laici è una forma adattata di tale etica ascetica.

Epistemologia

Per raggiungere la liberazione (detta mokṣa o nirvāṇa) è necessario superare l’ignoranza, donde l’importanza di una corretta conoscenza. La prima descrizione sistematica dell’epistemologia giainista è quella elaborata dal filosofo Umāsvāti (4° o 5° sec.), il quale distingue cinque strumenti di valida conoscenza (➔ pramāṇa) in ordine progressivo: percezione sensibile, comunicazione verbale (compreso il caso dei testi sacri), intuizione intellettuale, telepatia e onniscienza. I primi due sono detti «indiretti» (ossia riconducibili a un percorso di tipo inferenziale), gli altri «diretti» (pratyakṣa). Il g. è unico nel sostenere che anche la percezione sensibile è indiretta (perché mediata dagli organi di senso) – e infatti alcuni autori giainisti si discostano da tale opinione, pur mantenendo la fondamentale distinzione fra strumenti diretti e indiretti. Conseguenza di tale considerazione della percezione sensibile è anche l’idea che essa sia sempre concettuale, contrariamente a quanto sostengono le scuole buddiste (➔ vikalpa). L’intuizione intellettuale (avadhi, generalmente tradotto con «chiaroveg­genza») prescinde dalle limitazioni spazio-temporali e può così cogliere oggetti presenti, passati e futuri, vicini o remoti. Tuttavia, essa è limitata a oggetti materiali. Al contrario, la telepatia (manaḥparyāya) permette di cogliere direttamente gli stati mentali di altri esseri viventi. Può essere acquisita solo da esseri umani particolarmente avanzati nel cammino spirituale. L’onniscienza (kevala) è considerata la condizione naturale per tutte le anime, che ne sono private solo a causa dell’influenza del karma. Il sillogismo (anumāna) prevede, secondo gli autori giainisti, cinque membri ed è descritto secondo i dettati della scuola Nyāya.

La dottrina filosofica più originale

Il termine anekāntavāda designa la dottrina (vāda) più celebre del g., tanto celebre da essere identificata con l’intera filosofia giainista e quindi duramente attaccata dagli avversari (che la tacciano di equivocità e autocontraddittorietà) e strenuamente difesa in ogni trattato giainista. Secondo l’anekāntavāda esistono molteplici (aneka) punti di vista dai quali è possibile considerare un tema, e, conseguentemente, molteplici predicati attribuibili a questo. Sembra che tale dottrina si sia evoluta a partire dalla fondamentale importanza della non violenza per Mahāvīra, dato che anche imporre un unico punto di vista a un argomento sarebbe un modo per usare violenza sulla sua naturale multidimensionalità. Storicamente, sia il Buddha sia Mahāvīra usarono la tecnica di scomporre un problema nei suoi aspetti costitutivi prima di rispondere. Nel caso del Buddha tale tecnica aveva per lo più lo scopo di mostrare come le domande rivoltagli fossero in realtà pseudo-questioni, per es. dimostrando la non-unitarietà del concetto su cui vertevano. Mahāvīra, invece, pare aver utilizzato la stessa tecnica proprio per prender parte al confronto filosofico, comprendendo ed esplicitando ciascuno dei diversi punti di vista in gioco. Fondamento dell’anekāntavāda sono le sette predicazioni possibili riguardo a ogni cosa, ossia (1) syād asti, «è possibile che sia»; (2) syād nāsti, «è possibile che non sia»; (3) syād asti syān nāsti, «è possibile che sia [e] che non sia» – per es. lo stesso oggetto può esistere in quanto vaso e non esistere in quanto pezzo di stoffa; (4) syād avyaktavyam, «è possibile che sia indeterminabile»; (5) syād asti cāvyaktavyam, «è possibile che sia e che sia indeterminabile»; (6) syān nāsti cāvyaktavyam, «è possibile che non sia e che sia indeterminabile»; (7) syād asti ca nāsti cāvyaktavyam, «è possibile che sia e non sia e sia indeterminabile». L’anekāntavāda è stato interpretato come una forma di agnosticismo, nel senso che affermerebbe che la natura di un oggetto non può essere determinata. Al contrario, gli autori giainisti sostengono che fintanto che il karma inibisce la naturale onniscienza dell‘anima, l’unico modo per conoscere un oggetto sia sommare le conoscenze parziali di questo che derivano dai vari punti di vista esposti sopra.