SORANZO, Giacomo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 93 (2018)

SORANZO, Giacomo

Giuseppe Trebbi

– Nacque a Venezia il 1° aprile 1518. Era figlio primogenito del patrizio Francesco di Giacomo (del ramo dei Soranzo di San Polo) e di Chiara di Lorenzo Cappello.

Giacomo, a differenza dei fratelli Lorenzo e Giovanni, non si sposò mai, dedicandosi interamente alle cariche pubbliche, assieme con il fratello Giovanni, con il quale visse in unione, secondo l’istituto veneziano della «fraterna», nel palazzo di famiglia a S. Polo. Il loro casato apparteneva al settore più ricco del patriziato: nella decima del 1582 essi denunciarono una rendita annua complessiva di 2560 ducati.

Nel 1548 ebbe la prima nomina come provveditore sopra Banchi. Seguirono le missioni diplomatiche. Nel febbraio del 1549 si recò come ambasciatore straordinario a Urbino al duca Guidubaldo II della Rovere. Nell’ottobre del 1550 fu scelto come ambasciatore ordinario presso la corte d’Inghilterra. Fu così testimone della morte di Edoardo VI e dell’ascesa al trono di Maria Tudor. Onorato dalla corte inglese nel 1551 con il cavalierato, egli fu però segretamente rimproverato a Venezia dal Consiglio dei dieci per essersi fatto coinvolgere nei maneggi politico-religiosi del Regno: aveva infatti promosso l’incontro tra Giovanni Francesco Commendone, familiare di Giulio III e suo agente in Inghilterra, e la regina Maria; e fu anche accusato da monsignor Antoine de Granvelle e dall’imperatore Carlo V di aver sostenuto gli sforzi diplomatici francesi per impedire il matrimonio tra Filippo (il futuro Filippo II) e la regina Maria. Perciò la Serenissima provvide alla rapida sostituzione di Soranzo con il nuovo ambasciatore ordinario Giovanni Michiel, nel maggio del 1554. Nel dicembre dello stesso anno Soranzo fu scelto per l’ambasceria ordinaria presso il re di Francia, che si svolse dal maggio del 1555 al dicembre del 1557. La relazione, tenuta al Senato nel 1558, descrive con vivacità la situazione del Regno negli ultimi anni di Enrico II: mette in risalto il crescente prestigio dei Guisa presso il sovrano e le concrete possibilità di giungere a una pace con la Spagna.

Nel 1558 ottenne il saviato di Terraferma, incarico di rilievo all’interno del Collegio. Fu poi nominato provveditore ai confini del Friuli, ma già nel maggio del 1559 fu eletto ambasciatore ordinario all’imperatore Ferdinando I, presso cui soggiornò dall’ottobre del 1559 al novembre del 1561. In quel periodo, nonostante i contrasti confinari e marittimi, i rapporti tra Venezia e la corte imperiale rimasero sostanzialmente pacifici e l’ambasciatore poté descrivere con distacco le manovre diplomatiche degli Asburgo in Polonia e Ungheria e le prime trattative dell’imperatore con papa Pio IV per la ripresa del Concilio di Trento. Rientrato a Venezia, lesse all’inizio del 1562 la sua relazione al Senato, dove è notevole l’auspicio per la riapertura del concilio e la deplorazione per la diffusione del protestantesimo in Germania.

Ancora assente, nel dicembre del 1561 Soranzo era stato eletto all’importante carica di savio del Consiglio; nell’aprile del 1562 fu scelto come capitano a Brescia e fece la sua solenne entrata il 25 luglio 1562; il 5 dicembre 1562 fu però eletto ambasciatore ordinario a Roma, presso Pio IV. L’ambasceria fu caratterizzata da relazioni almeno discrete fra la Repubblica e papa Medici, il quale, pur non essendo rimasto soddisfatto della linea seguita dalla diplomazia veneziana nelle ultime fasi del Concilio di Trento, donò alla Repubblica il palazzo di San Marco per i suoi ambasciatori. Rientrato a Venezia nell’ottobre del 1565, nella relazione finale Soranzo celebrò il rinnovamento tridentino della Chiesa di Roma e la profonda religiosità del cardinale nipote Carlo Borromeo.

Nell’ottobre del 1565 fu consigliere ducale per il sestiere di San Polo; ma già era stato destinato (l’11 giugno) come bailo a Costantinopoli. Partì nell’aprile del 1566 e assunse ufficialmente la carica in maggio. Durante il suo bailaggio, essendo morto il sultano Solimano il Magnifico (settembre del 1566) e succedutogli il figlio Selim II, Soranzo affiancò l’ambasciatore straordinario Marino Cavalli nelle trattative per il rinnovo della pace con la Porta, che fu ratificata il 24 giugno 1567, però con una nuova clausola imposta dal sultano, il quale aveva preteso che i corsari turchi catturati in mare dai veneziani dovessero essergli consegnati. Ciò provocò le ire del Senato, che richiamò Cavalli e lo sottopose a processo. Nell’agosto-settembre del 1567 il Senato discusse se richiamare anche il bailo Soranzo, imputato di «viltà», ma la proposta fu respinta (Nunziature di Venezia, VIII, 1963, p. 269). A Costantinopoli Soranzo si rese ancora utile al governo veneziano, segnalando il 1° gennaio 1568 che il gran visir Mehmet Soqollu, favorevole alla Repubblica, era preoccupato per le mire di Selim II su Cipro; d’altra parte il bailo poté assicurare, nel mese di marzo, che per quell’anno la flotta del sultano non avrebbe assalito l’isola (Setton, 1984, pp. 931, 933).

Soranzo lasciò Costantinopoli nell’ottobre del 1568; fu nuovamente eletto savio del Consiglio; dall’aprile del 1569 fu podestà di Padova, dove dovette fronteggiare una grave carestia. Nel marzo del 1570 la crisi con gli Ottomani per il possesso dell’isola di Cipro indusse il Senato a eleggerlo ambasciatore straordinario all’imperatore Massimiliano II, presso cui soggiornò dal maggio del 1570 al gennaio del 1571, senza riuscire a indurlo ad aderire alla Lega santa promossa da Pio V. Nel 1571 fu eletto savio del Consiglio e consigliere ducale; dopo la vittoria di Lepanto del 7 ottobre, fu eletto il 29 ottobre provveditore generale da Mar. Nel giugno del 1572 si presentò a Messina con venticinque galere, ma dovette attendere fino alla metà di luglio gli ordini di Filippo II per la ripresa delle operazioni congiunte della Lega. Durante le azioni navali del 4-7 agosto al largo di capo Malea (in Morea), Soranzo, che guidava l’ala destra, si distinse per ardimento, ma senza ottenere risultati decisivi. La campagna del 1572 proseguì poi male per le discordie con gli alleati, palesatesi in un fallito attacco contro Modone. Soranzo poté però gloriarsi di aver preso e distrutto, nel gennaio del 1573, le fortificazioni ottomane di Varbagno presso Cattaro.

Nel decennio successivo alla guerra di Cipro, egli fu certamente ai vertici del potere marciano: fu infatti eletto ripetutamente al Consiglio dei dieci e zonta e al saviato del Consiglio. Nel 1574 fu inviato a Brescia e nella riviera di Salò come provveditore generale: agì con energia per porre un limite alle violenze dei banditi, incoraggiandoli a liberarsi dalle condanne mediante l’uccisione di altri banditi, adottando cioè in maniera estensiva l’istituto della ‘voce di liberar bandito’. Fu però richiamato a Venezia, perché eletto capitano generale da Mar nel timore, poi rientrato, di una ripresa della guerra con gli Ottomani. La morte di Selim II, alla fine di quello stesso anno, e la successione di Murad III fu l’occasione dell’ambasceria straordinaria a Costantinopoli, cui fu eletto nel gennaio del 1575 e che egli svolse, dal marzo del 1575 fino al dicembre del 1575, con grande soddisfazione del patriziato veneziano, che il 12 luglio 1575 lo innalzò alla dignità della Procuratia di S. Marco.

Sulla via del ritorno, Soranzo fu raggiunto a Zara dall’ordine del Senato di condurre in loco le trattative per dirimere i contrasti confinari insorti in Dalmazia intorno all’applicazione del trattato di pace. Dopo serrate discussioni con il sangiacco di Bosnia Ferhat Sokolović, Soranzo persuase la parte ottomana ad abbandonare le iniziali rivendicazioni su una cinquantina di villaggi. Poté quindi rientrare a Venezia nell’ottobre del 1576. Nell’aprile del 1577, quando ancora non era stata interamente superata la grave epidemia di peste che aveva colpito Venezia, Soranzo fu eletto sopraprovveditore alla Sanità. Nel marzo del 1578, dopo la morte del doge Sebastiano Venier, egli apparve come un credibile candidato al dogato, ma fu superato nei voti da Nicolò Da Ponte: pare che gli avversari lo criticassero per l’altissimo tenore di vita, «più da prencipe che da cittadino di Republica» (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Relatione della eletione..., cc. 184 s.). Il nunzio pontificio Annibale di Capua, che lo aveva definito «senatore di gran religione» (Stella, 1964, p. 16) avrebbe sicuramente preferito la sua elezione, perché i Soranzo appartenevano agli ambienti del patriziato che maggiormente sostenevano la S. Sede e i gesuiti.

Dopo la sconfitta elettorale, Soranzo riprese con apparente serenità la trafila delle cariche maggiori. Nel 1578-79 fu provveditore generale in Terraferma per rivederne le fortificazioni; il 28 agosto 1581 fu eletto per una nuova missione a Costantinopoli presso Murad III per la cerimonia di circoncisione (Sunnet) del futuro sultano Mehmet III. Partito nell’aprile del 1582 e, ammalatosi sulla via del ritorno, fu costretto a una prolungata sosta a Sofia dall’ottobre del 1582 al principio di marzo del 1583. Rientrato a Venezia, ricoperse nel giugno del 1583 la prestigiosa carica di riformatore dello Studio di Padova. E, puntualmente, fu rieletto per un semestre al saviato del Consiglio tra il 1583 e il 1584.

Autorevole membro della oligarchia di governo, Soranzo aveva superato senza apparenti danni, dopo la ripulsa al dogato, sia la vivace polemica tra patrizi filopapali e anticuriali, che nel 1581-83 aveva accompagnato l’ambasceria romana di Leonardo Donà (il futuro doge dell’interdetto), sia la crisi costituzionale del 1582-83, che aveva portato all’abolizione della zonta dei Dieci (in difesa della quale si era vanamente speso il fratello di Giacomo, Giovanni). Certamente però questi contrasti prepararono la caduta di Soranzo.

Il suo arresto fu deliberato dal Consiglio dei dieci il 6 giugno 1584 ed egli si presentò il 18 giugno. Le accuse ruotavano intorno all’ambigua figura di Livio Cellini, scrittore di avvisi, che lo aveva accompagnato nell’ultima missione presso il sultano e aveva condotto delicate trattative per conto della S. Sede con il patriarca di Costantinopoli. Queste iniziative non autorizzate avrebbero potuto provocare, già di per sé, una dura reazione della Serenissima, ma l’accusa di gran lunga più grave fu quella di un segreto accordo fra Cellini e Soranzo, in base al quale l’autorevole patrizio avrebbe tenuti informati il granduca di Toscana Francesco I de’ Medici e il cardinale Ferdinando de’ Medici sui dibattiti più riservati dei consigli veneziani, per propiziarsi la nomina a cardinale.

La documentazione allora raccolta dagli inquisitori contro la propalazione dei segreti, le lettere inviate da Cellini ai suoi referenti nel Granducato di Toscana e quelle di Ottaviano Abbioso, residente toscano a Venezia, attestano le gravi responsabilità di Soranzo. Degno di nota il giudizio dello stesso Cellini, che in una lettera del 4 febbraio 1584 collocò Soranzo fra quelle alte personalità del patriziato veneziano che «per non poter aspirar al Dogato o per qualche altra loro mala sodisfatione della patria, dopo esser ascese a gl’altri gradi havrebbono voglia di mutar fortuna» (Paul, 2007, p. 56). A differenza del fratello Giovanni, che scampò fortunosamente alla condanna, Giacomo fu condannato il 23 luglio 1584 dal Consiglio dei dieci alla perdita della Procuratia e alla relegazione a Capodistria; la condanna fu condonata il 17 dicembre 1586, quando ottenne di poter ritornare a Venezia, grazie all’acquisto di una ‘voce di liberar bandito’ del valore di 1.000 ducati. Si stabilì a Murano, in un palazzo di famiglia e condusse una vita assai ritirata.

Morì il 17 marzo 1599 e fu seppellito nella chiesa di S. Maria degli Angeli a Murano.

L’ascesa e la caduta di Soranzo fu oggetto di riflessione da parte di alcuni dei principali diaristi, storici e osservatori politici attivi a Venezia tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento. Pur partendo da punti di vista diversi, il diarista Francesco da Molino, il pubblico storiografo Andrea Morosini e il celebre scrittore politico Traiano Boccalini furono sostanzialmente concordi nel concludere che il patriziato veneziano, colpendo Soranzo, aveva voluto abbassare la potenza di un senatore troppo autorevole e ambizioso.

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