QUARENGHI, Giacomo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 85 (2016)

QUARENGHI, Giacomo

Piervaleriano Angelini
Tommaso Manfredi

QUARENGHI, Giacomo. – Nacque a Rota d’Imagna, nel Bergamasco, il 21 settembre 1744, secondogenito di Giacomo Antonio e di Maria Rota, entrambi membri di famiglie benestanti. Secondo una lettera autobiografica scritta a Luigi Marchesi (1° marzo 1785, pubblicata in Tassi, 1793), Quarenghi frequentò il collegio della Misericordia, il maggiore di Bergamo, dove, oltre che agli studi canonici delle belle lettere, fu indirizzato dal padre notaio a quelli giuridici e filosofici, in vista di un impiego «per l’Avvocatura, o per lo Stato Ecclesiatico». Ma «un genio svisceratissimo per le Belle Arti» lo indusse a preferire la professione di pittore e, superata l’iniziale opposizione del genitore, a «studiare il disegno» nelle botteghe di Paolo Bonomini e Giovanni Raggi, «i migliori pittori che fossero in Bergamo».

La necessità di perfezionarsi nell’arte della pittura e la volontà del padre di distoglierlo da pericolose compagnie e da un «ineguale amore» lo spinsero a Roma, dove si trasferì nel 1761, in tempo per entrare nella bottega di Anton Raphael Mengs prima che partisse per Madrid, dalla quale transitò in quella dell’oriundo bergamasco Stefano Pozzi, dove si trattenne per circa tre anni in un clima di solidarietà nazionale, segnato dal suo ingresso nell’Arciconfraternita dei Bergamaschi l’8 settembre 1765 come «pittore» (Corradini, 2004, p. 468).

Tra i diversi giovani allievi di Pozzi rivolti allo studio interdisciplinare del disegno, il romano Vincenzo Brenna gli trasmise un vivo interesse per l’architettura, che negli anni a seguire coltivò in modo esclusivo presso tre diversi maestri: il senese Paolo Posi, abile disegnatore specializzato negli aspetti decorativi e scenografici della disciplina, il lionese François Deriset, teorico delle proporzioni armoniche musicali in architettura, e il romano Nicola Giansimoni, assertore dei tradizionali metodi didattici basati sulla reiterazione a tavolino di consolidati modelli classicisti.

Fu lo stesso Quarenghi, venti anni dopo, a descrivere in termini esasperati quale fu l’impatto di tali insegnamenti: «eccettuato il francese, il quale si dava tutta la pena possibile per insegnarmi le suddette proporzioni armoniche, gli altri non si pigliavano altro pensiero, che quello di farmi copiare e misurare le non migliori fabbriche di Roma, di maniera che il loro studio diveniva per me piuttosto come un luogo dove andare a disegnare, che come una scuola dove apprendere la professione. E fin dal principio che io entrai con questi signori, il poco, e poco e sano ragionare che essi facevano, mi aveva indotto a dubitare, che essi fossero fuori della buona strada dell’architettura, e che a me per giungere a procurarmi un nome fra i sapienti conveniva cambiar cammino» (Tassi, 1793).

Questo sfiduciato atteggiamento verso le capacità innovative dei maestri romani già in precedenza aveva indotto alcuni giovani artisti italiani ad associarsi alle ricerche sul campo dei pensionnaires dell’Académie de France e, soprattutto, dei colleghi britannici. Sulle loro orme Quarenghi seguì gli itinerari del grand tour gravitanti intorno ad agenti, antiquari e artisti britannici residenti. Tra questi lo scultore Christopher Hewetson, secondo la citata lettera autobiografica, verso la fine del 1768 fu il tramite della commessa a Quarenghi di due casini per altrettanti «signori inglesi», e di «molti Cammini, e qualche deposito pure per l’Inghilterra», di cui non si hanno altre notizie.

Nel 1769 l’inglese Thomas Harrison e il francese pensionnaire Jean-Arnaud Raymond, appena giunti a Roma, alimentarono la sua passione per l’architettura antica e per Palladio (Manfredi, 2007, pp. 34-37). E fu probabilmente Raymond, dedito a una riedizione dei Quattro libri dell’architettura, il tramite del provvidenziale contatto con «un Palladio delle migliori edizioni», che lo stesso Quarenghi pose all’origine della sua decisione di «dar di calcio ai principj già appresi, e l’abbruciare quasi tutti i disegni fatti [...] persuaso che bisognava pigliare altra strada per giungere a qualche cosa di buono».

Quale fosse questa strada apparve chiaramente in due progetti intrapresi proprio nel 1769: quello con il quale partecipò alla prima classe di architettura del concorso Clementino bandito dall’Accademia di S. Luca nel mese di agosto, sul tema di una chiesa cattedrale, e quello per la sistemazione interna della chiesa benedettina di S. Scolastica a Subiaco, elaborato alla fine dell’anno. Al di là del supporto iniziale del cardinale camerlengo Carlo Rezzonico, protettore dell’Accademia e dell’Ordine dei benedettini cassinensi, e del maestro Nicola Giansimoni, futuro accademico e consigliere dei padri di S. Scolastica, Quarenghi preferì orientare entrambi i progetti ai propri intransigenti principi piuttosto che al gusto corrente dei destinatari. Così evidenti mutuazioni palladiane, soprattutto nelle zone absidali, si associarono a possenti intelaiature neocinquecentesche di ispirazione antiquaria, in un contesto di anticonvenzionale astrazione iconografica che fu all’origine, da una parte, del dissenso dei padri benedettini perdurante per tutto il cantiere sublacense protrattosi fino al 1774 (comprendente anche il restauro della Santa Grotta nel 1772), dall’altra, dell’avversione dei giudici accademici che gli anteposero il progetto classicista dello sconosciuto Domenico Rigni all’atto della premiazione del concorso, avvenuta il 21 aprile 1771.

All’indomani del deludente esito della prova accademica, la situazione professionale di Quarenghi era ancora irrisolta. La sua esistenza era in completa sintonia con la comunità artistica britannica. Il diario dell’amico architetto Richard Norris, soggiornante a Roma dalla fine del 1770 alla metà del 1772 (B. Lynch - C. Lynch - Valdrè, 2014), ne registra l’intenso ménage tra incontri conviviali, visite di gallerie d’arte e campagne di rilievo del Colosseo, del Pantheon e dei monumenti dei fori Romani e di villa Adriana (alcune delle quali pagategli dallo stesso Norris), in una vasta compagnia comprendente oltre il citato Harrison, l’architetto James Lewis e l’amico pittore Vincenzo Valdrè, giunto da Parma nel 1767 con una pensione del ministro Guillaume du Tillot.

Quale fosse allora l’argomento di conversazione preferito di Quarenghi lo testimonia Raymond (reduce da un lungo soggiorno di studio sui luoghi palladiani tra la primavera e l’autunno del 1771), che in una lettera del 27 giugno 1772 scrisse di lui a Tommaso Temanza come di uno che «né parla né vede che Palladio», raccomandandoglielo in vista del suo prossimo arrivo a Venezia (Olivato, 1975, p. 253).

In realtà da qualche giorno Quarenghi era impegnato in un grand tour architettonico nell’Italia centro-settentrionale sulle tracce dei protagonisti del Rinascimento e di Palladio. E nel segno di questo grande maestro alla metà di luglio fu accolto a Venezia da Temanza e dal suo allievo Giannantonio Selva, insieme agli amici Norris e Lewis, che lo avevano preceduto in laguna, con i quali raggiunse poi Bergamo, dove si fidanzò con la concittadina Maria Fortunata Mazzoleni (non senza trovare il tempo di progettare per monsignor Marco Molino «un casino da situarsi in faccia al Duomo», Tassi, 1793).

Al ritorno a Roma, una crescente insofferenza verso gli ambienti ufficiali gli faceva auspicare un’imminente partenza «non potendo più vivere in mezzo a simil Preteria con onoratezza» (lettera all’abate Mariano Carocci, a Subiaco, del 6 giugno 1773, in Giacomo Quarenghi architetto a Pietroburgo, 1988, p. 14). Allo stesso tempo lo portava ad accentuare la peculiarità della propria immagine, firmandosi come l’«ombra di Palladio», appellativo con il quale fu presentato dall’agente ex gesuita inglese John Thorpe al connazionale Henry Bellings VIII lord Arundell, in una lettera del 9 marzo 1774, descrivendolo come studioso di Palladio e dei «migliori modelli dell’antichità», e gran disegnatore, e quindi adattissimo a fare della cappella della sua residenza neopalladiana di Wardour, nel Wiltshire, la «più elegante in Inghilterra» (Hook Manor, Wiltshire, Arundell of Wardour Mss., 1768-1791).

Dalla fine di marzo 1774 e per i due anni seguenti Quarenghi inviò ad Arundell decine di disegni: alcuni, scomparsi, per la decorazione del salone e di altre parti della villa, molti altri, tuttora conservati, riguardanti la decorazione della cappella e l’altare maggiore isolato, con sarcofago e tabernacolo a tempietto, che dopo innumerevoli varianti, raggiunse la configurazione definitiva nel manufatto esposto al pubblico nel luglio 1776 prima di essere spedito in Inghilterra (Rowan, 1968). Un’opera dai connotati antichizzanti, quasi pagani, ben oltre l’attenuata iconografia cattolica in terra britannica, riscontrabili anche nell’altare realizzato a scala ridotta per la residenza di Thomas Weld a Lulworth, nel Dorset, sempre su mediazione di Thorpe (Holt, 1980).

Rispetto a queste sporadiche realizzazioni da architetto decoratore, la fama di Quarenghi nella città di Roma era legata ancora essenzialmente alla sua conclamata abilità nel disegno, soprattutto per le vedute di scorci urbani a carattere antiquario, come quelli collezionati dal pittore e miniaturista inglese Ozias Humphry, e alla sua sfrenata passione per la musica.

In questo senso fu efficacemente descritto da Thorpe ad Arundell in una lettera del 22 ottobre 1774 come «l’individuo dall’aspetto più goffo che sua Signoria possa mai vedere, preso appassionatamente dalla musica e pronto a lasciare ogni cosa per essa; egli lavora solo quando i suoi vestiti sono impegnati, e non ha un soldo per il suo pranzo. I suoi colleghi inglesi aspettano questi momenti per potere ottenere dei disegni creati dalla sua penna. Egli è talmente pieno di genio e fuoco che non può bere altro che acqua: un piccolo bicchier di vino lo mette in uno stato di eccitazione incredibile» (Hook Manor, Wiltshire, Arundell of Wardour Mss., 1768-1791).

In quel tempo tutte le aspettative professionali di Quarenghi sembravano legate all’Inghilterra: il 25 gennaio Thorpe notificava ad Arundell che la settimana precedente il suo Palladio aveva ricevuto da Londra la mirabolante commessa di tre grandi case di campagna e di edifici minori. Una di queste riguardava forse il progetto di un «Palazzo di Campagna» con padiglioni annessi, destinato alla tenuta di lord Carnaby Haggerston nella contea di Northumberland, dato alle stampe dall’autore, con questa denominazione, nel 1776, evidentemente attribuendogli un valore paradigmatico della propria arte, più tardi colto dal solito Thorpe, secondo cui sarebbe potuto diventare «il più bel palazzo in Inghilterra» (lettera ad Arundell del 2 febbraio 1780, in Hook Manor, Wiltshire, Arundell of Wardour Mss., 1768-1791).

L’edificio, palladiano nell’impostazione generale e nella declinazione dell’ordine ionico del grande pronao, è infatti caratterizzato da un’inedita reinterpretazione dei modelli del Cinquecento romano e veneto, pienamente aderente alle correnti più rigoriste della cultura architettonica britannica.

Nel pieno della maturazione del proprio linguaggio architettonico, Quarenghi, tra la fine di aprile e l’inizio di agosto del 1775, condusse un secondo viaggio verso Nord, tra studio e affetti familiari («a solo fine di rinfrescarmi la memoria sopra le cose già vedute, e unirmi in matrimonio con la signora Maria Mazzoleni»), che ebbe di nuovo come tappe principali Venezia, dove si trattenne da metà maggio a metà giugno a stretto contatto con gli amici Temanza e Selva, insieme a un «compagno inglese» (probabilmente l’architetto Theodosius Keene), e Bergamo, dove il 31 luglio finalmente condusse all’altare la fidanzata.

Anche dopo l’insediamento familiare a Roma, nella casa in vicolo delle Colonnelle nelle vicinanze della chiesa e dell’Arciconfraternita dei Bergamaschi (dove sarebbero nate le figlie Teodolinda, nel 1776, e Gundelberga, nel 1778), permaneva una profonda incertezza professionale. A parte alcuni progetti, senza esito, redatti per i padri di S. Maria in Campitelli («per l’Orchestra, ed ornamento dell’Organo» e «per ultimare il loro Convento», Tassi, 1793), le sue poche concrete commesse erano estranee al contesto professionale romano. Si trattava infatti della tomba per Federico II di Svezia nella Riddarholmskyrkan a Stoccolma, realizzata per la corte svedese nel 1775 (e dove ora è sepolto Gustavo Adolfo il Grande), forse con l’intermediazione dello scultore Johan Tobias Sergel, connotata ancora una volta da forti astrazioni antiquarie, e di progetti per corrispondenza per la patria bergamasca («per l’Altar Maggiore della Chiesa [del Santissimo Redentore] di Seriate» e per il restauro del palazzo del marchese Luigi Terzi a Mornico al Serio: Tassi, 1793). Così come erano connessi al suo stato di cittadino della Repubblica veneta gli incarichi progettuali ricevuti dal senatore Abbondio Rezzonico, fratello del cardinale Carlo: quello per la tomba del defunto zio Clemente XIII, consegnato il 29 novembre 1776, di cui esiste solo una variante piuttosto convenzionale, e quello per la sala della Musica nel palazzo dei Senatori in Campidoglio, concepita come un grande impianto rettangolare nitidamente ripartito secondo i canoni dell’antico, destinato a convivi musicali, artistici e letterari (Corradini, 2004).

Ma l’impietoso confronto tra queste opere e le grandi imprese della Sacrestia Vaticana o del Museo Pio Clementino, affidate a personaggi da lui disprezzati come Carlo Marchionni e Michelangelo Simonetti, non faceva che alimentare lo sconforto e la voglia di lasciare Roma («spero però che si muterà la scena e che mi caverò da questa Babilonia») confidati a Temanza in una lettera del 1776 (in Giacomo Quarenghi architetto a Pietroburgo, 1988, p. 31)  concordante con i cupi resoconti del panorama artistico e culturale romano inviati nello stesso periodo all’architetto veneziano da Francesco Milizia (peraltro non stimato da Quarenghi).

Così, alla fine del 1776, egli cercava ancora verità nascoste nei siti archeologici campani, disegnando il tempio di Serapide a Pozzuoli o trascrivendo antiche iscrizioni nel Museo di Portici, a costo di venire arrestato per avere contravvenuto alle prescrizioni borboniche (lettera di Thorpe ad Arundell del 20 novembre 1776, Hook Manor, Wiltshire, Arundell of Wardour Mss., 1768-1791).

Un anno dopo, tra l’11 e il 12 novembre 1777, si trovava a villa Adriana a rilevare monumenti in compagnia del pittore Thomas Jones e del suo amico architetto Thomas Hardwick, attraverso i quali conobbe anche John Soane, giunto a Roma il 2 maggio 1778, in tempo per accrescere e qualificare la comitiva britannica in cui coinvolse anche l’amico Selva, che lo aveva finalmente raggiunto il 14 aprile precedente. E fu negli ambienti veneti e britannici che, a distanza di un anno, Quarenghi e Selva furono individuati dall’agente russo Johann Friedrich Reiffenstein come i due architetti italiani richiestigli dal barone Friedrich Melchior Grimm per conto della zarina Caterina di Russia (Manfredi, 2007, pp. 44-50). Ma mentre Selva fu indotto a rifiutare l’offerta dal suo attaccamento alla patria veneziana, favorendo alla fine il parmense Giacomo Trombara, Quarenghi la accolse subito con entusiasmo. Così, dopo avere dato disposizioni all’amico per completare la sala della Musica, il 14 settembre 1779 egli lasciò Roma alla volta di San Pietroburgo portando con sé il progetto dimostrativo di un palazzo idealmente destinato alla corte di Caterina II, «semplice e nobile», di «media grandezza e spesa» (lettere di Reiffenstein a Grimm del 22 luglio e dell’8 settembre 1779; Frank, 2003, pp. 82-84), che evidentemente nelle sue intenzioni doveva manifestare la concretezza e la razionalità espressamente richieste dalla zarina per dare una svolta alla committenza imperiale.

Le prime tappe del lungo viaggio che lo avrebbe condotto da Roma nella capitale dell’Impero russo furono in Italia: la natia Bergamo, naturalmente, per prendere commiato dai familiari e dagli amici (ne partì nell’ottobre del 1779), e Venezia, ove fu nuovamente ospite di Tommaso Temanza, figura di riferimento del bergamasco nel periodo di formazione. Il viaggio proseguì poi attraverso Vienna, Dresda, Lipsia, Potsdam, Berlino, Königsberg, ove si trovava il 17 e 18 gennaio 1780, passando dalle città baltiche di Mitau, Riga, Tartu e Narva.

Mentre era ancora in viaggio un suo profilo fu anticipato all’imperatrice da Reiffenstein, che scrisse di lui: «Io spero che in San Pietroburgo egli confermi la buona reputazione che si è guadagnato a Roma grazie ai suoi talenti. Egli è più artista che uomo di mondo [...]. Uomo di vasta cultura ha rinunciato ai suoi studi per amore delle arti, dedicandosi prima alla pittura e poi all’architettura. La sua cultura è sostenuta in lui dall’amore per le scienze» (Koršunova, 1995, p. 82).

Finalmente, entro la metà di gennaio 1780, Quarenghi giunse nella capitale russa. L’incontro tra l’imperatrice Caterina II e l’architetto fu all’insegna di un’immediata sintonia; egli scrisse in una lettera: «Fece chiedere qualche mio disegno, io gli mandai que pochi che avevo fatti in Roma per mio studio già molt’anni e molto gli piacquero e disse in una festa pubblicamente che in Monsieur Quarenghi aveva trovato finalmente un architetto di tutto suo genio» (Giacomo Quarenghi architetto a Pietroburgo, 1988, p. 43).

Prese così avvio la travolgente carriera russa del nuovo architetto di corte che aveva scalzato il predominio dei francesi, carriera che sarebbe proseguita senza pause per quasi quarant’anni al servizio di tre diversi imperatori.

Mentre la creatività dell’architetto produceva senza sosta nuovi progetti, Quarenghi continuò a coltivare la propria passione per il disegno in centinaia di fogli con vedute di Pietroburgo e di altre località russe oppure con capricci di paesaggio. La superba qualità del disegnatore trova riscontro anche nelle tavole d’architettura, nelle quali spesso gli edifici appaiono inseriti in sublimi paesaggi di ispirazione italianizzante.

Il decennio 1780-90 fu in assoluto il più straordinariamente ricco di progetti, maggiori e minori, di fabbriche di dimensioni spesso assai notevoli, che da sole sarebbero state sufficienti a qualificare e a far splendere un’intera vita artistica. Si consideri che nella lettera autobiografica inviata a Bergamo a Luigi Marchesi nel 1785 Giacomo Quarenghi poté elencare più di cinquanta sue opere compiute o ancora in fase di realizzazione.

I primi due progetti commissionati da Caterina a Quarenghi già nella primavera del 1780 furono di grande impegno e rilevanza: il palazzo Inglese nel parco Nuovo di Peterhof e l’edificio della Borsa sull’isola Vasil′evskij a San Pietroburgo.

Il primo edificio è una grande villa di ascendente palladiano, nella quale Quarenghi si sforzò di trovare, attraverso le diverse soluzioni della pianta succedutesi nel tempo, un compromesso tra la regolarità e le novità della distribuzione ‘alla francese’. Il progetto per la Borsa rimandava invece a modelli tratti dall’architettura termale dell’antica Roma, con grande sala centrale voltata e biabsidata. La costruzione ne fu intrapresa nel corso degli anni Ottanta, e poi interrotta per la guerra contro la Turchia; nei primi anni dell’Ottocento venne realizzato in sua vece l’edificio di Jean-François Thomas de Thomon tuttora esistente. Quella della Borsa fu senza dubbio la più cocente delusione professionale (forse l’unica) dell’architetto italiano.

Seguirono nello stesso decennio, per limitarsi alle opere più eminenti in San Pietroburgo, l’Accademia delle scienze (di solida e semplice monumentalità, ancora oggi un vero e proprio landmark lungo la Neva), la Banca di Stato (con un corpo centrale destinato agli uffici richiamante una villa veneta, collegato con portici laterali all’emiciclo prolungato dei depositi, organismo architettonico capace di risolvere e legare un intero blocco urbano tra la via Sadovaja e il canale Grigoedov) e il teatro dell’Ermitage (di questo suo progetto egli però sottolineò, nel pubblicarlo, il fatto che si trattava «essere forse il primo, dalla rinascita delle belle arti, che sia stato costruito sul modello di quelli antichi per l’uso di spettacoli moderni. [...] Non vi è alcun posto riservato in questo teatro, ove ogni etichetta è bandita, e ciascuno può sedersi ove preferisce. [...] quando tutti si sono sistemati l’uno fa spettacolo all’altro; fatto che produce un piacevole colpo d’occhio», Thèatre de l’Ermitage..., 1787).

Di più contenute dimensioni, a San Pietroburgo, l’edificio delle botteghe degli argentieri sulla prospettiva Nevskij, il palazzo Jusupov presso la Fontanka, il corpo delle logge di Raffaello annesso all’Ermitage (che ripeteva al primo piano lo spazio delle logge Vaticane, predisposto per inserirvi le repliche delle decorazioni di Raffaello realizzate a Roma da una équipe coordinata da Cristoforo Unterperger), la sala del Trono (o di S. Giorgio) nel palazzo d’Inverno, il Collegio degli affari esteri sul lungoneva, e, nelle tenute dei dintorni della capitale, l’ospedale con chiesa a Pavlovsk, il padiglione per musica con la vicina cucina-rovina nel parco di Carskoe Selo, il mausoleo Lanskoy a Sofia (sobborgo di Carskoe Selo), oltre a varie opere per il conte Aleksandr Andreevič Bezborodko. A Ljalici, in Ucraina, realizzò l’usadba (villa di campagna) per Peter Vasiljevič Zavadovskij (la più ‘palladiana’ delle sue realizzazioni).

Nello stesso periodo furono numerosi i progetti richiesti a Quarenghi per edifici da erigere in varie località dello sconfinato impero, e a Mosca egli realizzò il Gostinij Dvor (gallerie commerciali) sulla piazza Rossa.

Tra il 1790 e il 1796, anno di morte di Caterina II, spiccarono tra i progetti di committenza imperiale quelli per i vastissimi palazzi di Alessandro e Costantino (quest’ultimo non realizzato) e il completamento del palazzo di Caterina a Mosca.

Altri rilevantissimi lavori furono compiuti per figure di prima importanza della corte imperiale, quali la tenuta di Bezborodko a Stol′noe, oltre ai progetti per personaggi stranieri residenti a San Pietroburgo con i quali era entrato in rapporti di amicizia, come l’ambasciatore britannico lord Charles Whitworth e quello borbonico Antonino Serracapriola.

Alla morte dell’imperatrice Caterina l’ascesa al trono di suo figlio Paolo I, totalmente avverso all’orizzonte politico, estetico e culturale della madre, determinò la sfortuna di molti tra coloro che erano stati sulla cresta dell’onda nel periodo precedente. Ciò non avvenne per Giacomo Quarenghi, che nel 1798 fu chiamato dall’imperatore a progettare la cappella dei Cavalieri di Malta nel complesso barocco di palazzo Voroncov a San Pietroburgo, opera di Bartolomeo Rastrelli. Questo lavoro, che nella versione realizzata spazia da citazioni della basilica vitruviana di Fano nell’interno a riferimenti alla tradizione rinascimentale veneta nella facciata, meritò all’architetto il titolo di cavaliere di Malta da parte dell’imperatore di Russia, che di quell’Ordine era divenuto gran maestro, titolo del quale Quarenghi fu estremamente orgoglioso e al quale probabilmente nel 1806 si aggiunse quello russo dell’Ordine di S. Vladimiro.

Negli anni di regno di Paolo I (1796-1801), contrassegnati da un clima di stagnazione, Quarenghi realizzò comunque un buon numero di lavori, tra i quali quello per la dimora urbana di Pavel G. Gagarin e il palazzo per Nikolaj P. Šeremetev sulla Fontanka.

L’ascesa al trono nel 1801 del nipote di Caterina, Alessandro I, segnò una ripresa del corso culturale e artistico nell’Impero russo e di una nuova serie di importanti incarichi per Quarenghi, a volte commissionati dall’imperatrice madre Maria Feodorovna, come l’ospedale per i poveri (poi ospedale Maria) sul corso Liteynyj, l’istituto Caterina sulla Fontanka o l’istituto Smol′nyj per l’educazione delle fanciulle nobili. Altri rilevanti lavori a San Pietroburgo furono il maneggio delle guardie a cavallo presso la cattedrale di S. Isacco, la galleria orientale nel Piccolo Ermitage, il complesso di botteghe di palazzo Aničkov, noto anche per il discusso uso di un fregio a triglifi e metope al di sopra di colonne ioniche, difeso da Quarenghi in una lettera ad Antonio Canova (Giacomo Quarenghi architetto a Pietroburgo, 1988, pp. 314-316).

Per Šeremetev progettò un gigantesco palazzo a Mosca (non realizzato) nel quale collocare le sue grandi collezioni d’arte e librarie e ospitante anche un teatro per la troupe di attori servi della gleba organizzata dal mecenate. Quello tra Quarenghi e Šeremetev fu un rapporto di reciproca stima e sincera amicizia: l’italiano fu in qualche misura l’architetto di fiducia del moscovita, che lo consultò durante i lavori di ammodernamento della grande tenuta di Ostankino a Mosca e lo incaricò di completare il grande ospedale per i poveri (detto Casa Strannoprimnij, iniziato da Elizvoi S. Nazarov) di Mosca. Altro straordinario progetto di enorme palazzo-museo a Mosca (anch’esso non realizzato) fu quello ideato per un altro altissimo personaggio della corte legato da amicizia a Quarenghi, il citato conte Bezborodko, che già dalla prima metà degli anni Ottanta si era avvalso dell’architetto italiano.

In quegli anni si dedicò anche alla preparazione della pubblicazione a stampa di dieci suoi importanti lavori: il volume dal titolo Edifices construits à Saint-Péters-bourg d’après les plans du Chevalier de Quarenghi et sous sa direction venne stampato a San Pietroburgo nel 1810; l’edizione a stampa delle opere di Giacomo Quarenghi sarebbe poi proseguita nell’Ottocento per opera del figlio Giulio (1790-1874), che nel 1821 avrebbe pubblicato a Milano Fabbriche e disegni di Giacomo Quarenghi, ristampato con l’aggiunta di un secondo volume a Mantova nel 1843-1844.

Dopo trent’anni trascorsi ininterrottamente in Russia, senza che potesse esaudirsi il desiderio di riabbracciare i parenti e gli amici in Italia per la continua richiesta di nuovi progetti, nell’autunno del 1810 Giacomo Quarenghi ebbe finalmente la possibilità di rientrare brevemente in patria. Fu spinto a questo viaggio anche dalla necessità di rimettere ordine nei propri affari e beni. Testimonia il suo sconcerto quanto scrisse a un corrispondente: «Il mio viaggio in Italia mi fu fatale non solo per il completo disastro di tutti i miei affari, ma particolarmente per la cattiva condotta dei miei figli» (Giacomo Quarenghi, 1984, p. 178).

Il soggiorno bergamasco diede modo a Quarenghi di convolare a nuove nozze con Maria Bianca Sottocasa (la prima moglie, Maria Fortunata Mazzoleni, amatissima, era morta di parto nel 1793; di un precedente secondo matrimonio in Russia non si hanno notizie certe): non fu una scelta felice, e presto l’architetto ebbe modo di lagnarsi di questo proprio passo. Dovette ripartire per la Russia già al principio dell’autunno del 1811.

L’occasione di questo viaggio di andata e ritorno procurò a Giacomo Quarenghi nuove importanti commissioni: a Vienna l’arciduchessa d’Austria Maria Beatrice d’Este, che già lo conosceva, gli domandò il progetto per una nuova sala da pranzo realizzata nel suo palazzo sulla Herrengasse, mentre a Monaco ricevette dal sovrano bavarese e dal principe ereditario, presso i quali era stato introdotto dal cavaliere Franz Gabriel De Bray, rappresentante di quella corte a San Pietroburgo e con il quale Quarenghi viaggiava, l’incarico per un maneggio e un museo per busti e statue.

Poco dopo il suo ritorno a San Pietroburgo si scatenò l’offensiva napoleonica verso la Russia, ed evidentemente solo dopo la disfatta delle truppe francesi ripresero le commissioni per gli architetti, principalmente con programmi celebrativi legati alla guerra. Anche Quarenghi fu parte di questo movimento di glorificazione nazionale, ricevendo l’incarico di progettare l’arco trionfale che avrebbe accolto i vittoriosi reggimenti della guardia al loro rientro nella capitale nel 1814: l’arco, detto anche porta di Narva, fu realizzato in legno per motivi di fretta e di economia e sarebbe stato poi rifatto da Vasilij P. Stasov nelle stesse forme.

Partecipò anche al concorso del 1815 per l’erezione di un tempio votivo alla vittoria sui francesi da erigersi a Mosca, concepito in forma di rotonda con portico. Ancora alle vicende delle armi russe si lega l’intervento di semplificazione del progetto di Stasov per un monumento a ricordo della battaglia di Poltava (1709).

Morì a San Pietroburgo il 2 marzo 1817 (18 febbraio secondo il calendario giuliano all’epoca in uso nell’Impero russo).

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