PALEOLOGO, Giacomo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 80 (2014)

PALEOLOGO, Giacomo

Martin Rothkegel

PALEOLOGO, Giacomo (Iacopo da Scio, Iacobus Chius, Iacobus Olympidarius Palaeologus). – Nato a Chio intorno al 1520 da un muratore greco di religione ortodossa, Teodoro Maxilaras (Massillara), e da Tomassina da Chiavari (ancora in vita nel 1573), fu battezzato nella fede cattolica ricevendo, secondo alcune fonti, il nome di Pietro.

Si attribuì una discendenza dall’ultima dinastia imperiale bizantina quando era studente in Italia, rivendicando una tradizione che assegnava alla famiglia paterna gli appellativi di Palaeologus e Olympidarius.

Assunse il nome di Giacomo all’atto del suo ingresso nell’ordine domenicano, a Chio, dove conobbe alcuni confratelli genovesi, tra cui il futuro generale dell’ordine Vincenzo Giustiniani, cui nel 1575 avrebbe dedicato con parole ostili il Commentarius in Apocalypsim (Cluj, Biblioteca Academicei Romane MSU 966, rimasto inedito). Compì studi filosofici e teologici a Bologna (dove risulta nel 1545) e Ferrara, ma non conseguì il dottorato (anche se poi ne rivendicò il possesso). Tornato in Oriente, visse nel convento dei Ss. Pietro e Paolo a Pera (Costantinopoli) e rientrò a Chio nel 1555 come lettore del suo convento.

Qui si trovò coinvolto in un conflitto giurisdizionale tra il vescovo latino, appoggiato dai francescani, e i due commissari della repubblica di Genova, a fianco dei quali egli e i suoi confratelli si schierarono in difesa delle prerogative del potere civile. Il conflitto si inasprì con le accuse di eresia formulate dall’inquisitore, il domenicano Antonio Giustiniani, contro i commissari genovesi (che reagirono comminandogli il bando) e contro Paleologo, di cui nel 1556 sia Roma sia Genova ordinarono l’arresto. I commissari si rifiutarono tuttavia di eseguirlo, sostenendo che egli «non ha mai predicato eccetto dottrina evangelica e christianissima, né ha detto cosa senza la aprobatione della sacra Scrittura» (Arch. di Stato di Genova, Senato-Senarega, 1283, lettera del 27 marzo 1556), e alimentarono in tal modo i sospetti di eresia sul conto di Paleologo, le cui omelie erano molto popolari nella comunità cattolica di Pera e di Chio, dove poteva contare su solidi appoggi tra i maggiorenti locali. Per discolparsi Paleologo decise di recarsi in Italia, passando da Costantinopoli, con l’aiuto finanziario dell’amico Antonio Veranzio (Verancsics, 1504-73), agente dell’imperatore Ferdinando I.

Partito nell’aprile 1557, in giugno raggiunse Venezia e in agosto si presentò all’inquisitore di Ferrara, che gli rilasciò un attestato di ortodossia. Sottovalutando il mandato di cattura che pendeva su di lui, decise di recarsi a Genova, dove fu arrestato in settembre e processato dall’inquisitore Girolamo Franchi. Dopo aver sottoscritto l’8 agosto 1558 una formale ritrattazione dei suoi errori (poi stampata nella Bulla excommunicationis pubblicata a Roma il 5 marzo 1561), in ottobre riuscì a evadere e a recarsi a Venezia, dove poté contare sull’aiuto del mercante Domenico da Gayano e del patrizio Leonardo Emo, per imbarcarsi alla volta di Ragusa (Dubrovnik) e procedere poi per via di terra verso Costantinopoli. Ma a Ragusa fu nuovamente arrestato il 9 dicembre e subito trasferito a Roma, dove fu rinchiuso nel carcere inquisitoriale di Ripetta. Il suo processo non era ancora concluso il 18 agosto 1559, quando, durante i violenti tumulti seguiti alla morte di Paolo IV, riuscì a fuggire.

Nella primavera del 1560 si imbarcò per Chio, dove l’inquisitore lo fece arrestare il 9 maggio. Il conflitto con le autorità civili gli impedì tuttavia di concludere il processo contro Paleologo, mentre le solidarietà di cui questi godeva gli consentirono di ottenere un ordine del sultano che ne richiedeva la liberazione. Prima che l’inquisitore risolvesse il non facile problema di come tradurlo a Roma, Paleologo fuggì per l’ennesima volta il 9 ottobre e fu nascosto nell’isola dai suoi seguaci. Il 5 marzo 1561, nella convinzione che egli avesse ormai trovato asilo in terra ottomana, il S. Uffizio romano ne decretò la condanna a morte in contumacia, inducendolo ad allontanarsi da Chio in gran segreto il 10 luglio per rifugiarsi a Marsiglia.

Dopo un breve soggiorno a Lione, il 24 gennaio 1562 Paleologo fece la sua apparizione a Poissy, dove nelle settimane seguenti ebbe numerosi incontri con il legato papale Ippolito d’Este e con il nunzio Prospero Santacroce per ottenere una revisione del suo caso in virtù delle speciali facoltà di cui il cardinale di Ferrara godeva. La trattativa fu interrotta da una missiva di Carlo Borromeo, che l’11 marzo 1562 invitò Paleologo a presentare le proprie istanze ai legati al concilio di Trento. Qui giunto con un salvacondotto del cardinale d’Este, Paleologo si fermò per alcuni mesi senza risultato, perché i vertici del S. Uffizio, nella persona del cardinale Michele Ghislieri, insistettero sul fatto che il suo caso doveva ritenersi ormai chiuso, mentre per parte sua egli non era disposto a rinunciare a ottenere una piena riabilitazione, senza ritrattare alcunché. Nell’autunno del 1562 lasciò quindi Trento con alcuni diplomatici asburgici.

Perdute sono due opere autobiografiche, l’Itinerarium, con la storia della sua vita a partire dagli anni Cinquanta, e il De Ripetano iudicio Romae [...] temporibus Pauli IV, ma alcuni suoi scritti e lettere successive offrono informazioni antecedenti al 1562, anche se spesso non prive di interessate distorsioni. Le relazioni inviate a Roma dagli inquisitori di Chio e Pera tra il 1557 e il 1562 rivelano l’esistenza di tre gruppi di suoi seguaci in Levante: il leader di essi a Pera, che associava orientamenti filoprotestanti a simpatie politiche per casa d’Austria, era il francescano di Chio Giovanni Battista Zeffo (morto nel 1570), commissario generale dei conventuali in Oriente; in patria Paleologo aveva sostenitori tra i domenicani e l’aristocrazia; i due gruppi erano a loro volta in contatto con un altro gruppo, attivo tra i marrani emigrati a Salonicco. È tuttavia difficile capire quale fosse all’epoca la dottrina religiosa di Paleologo, poiché le opere antecedenti il 1571 sono perdute. L’abiura pronunciata a Genova nel 1558 elenca dottrine genericamente protestanti. Quattro suoi scritti caddero allora nelle mani degli inquisitori, tra le quali una Symboli expositio, di cui il domenicano Sisto da Siena avrebbe citato nella Bibliotheca sancta (1566) una spiegazione razionalistica della parola cherubim. Altre opere gli vennero sequestrate in occasione dell’arresto a Ragusa e costituirono materiale probatorio nel processo romano del 1558-59. Tra di esse figurava un libro in cui egli trattava della conversione dei musulmani al cristianesimo in termini di cambiamento di riti e non di fede, nel quale si può scorgere un’anticipazione di quella ridefinizione del cristianesimo in termini inclusivi, annullandone le differenze dottrinali con l’Islam, che dal 1572 in poi sarebbe stata il nucleo fondamentale della sua riflessione teologica. Non è chiaro invece se a quella data avesse già rifiutato la dottrina trinitaria e la natura divina di Cristo, ma sembra probabile che fosse al corrente delle dottrine unitariane già al momento della incarcerazione a Ripetta nel 1558-59, dove conobbe un «Vilielmus a Poena» antitrinitario (Disputatio scholastica, a cura di J. Domański - L. Szczucki, Utrecht 1994, p. 183 s.).

Lasciata Trento, Paleologo intendeva tornare a Chio passando per Vienna e mettendosi al seguito di una delegazione asburgica diretta a Costantinopoli, ma le notizie sulla peste che infuriava nella capitale imperiale lo indussero a dirigersi a Praga, dove giunse nell’ottobre 1562, in condizioni finanziarie precarie. Il soggiorno nella capitale boema fu difficile anche perché la diplomazia papale continuava a tenerlo d’occhio e non cessava di premere alla corte di Vienna per ottenerne l’estradizione a Roma. Per breve tempo cercò rifugio nella vicina Sassonia, dove conobbe Georg Fabricius e altri uomini di cultura protestanti, sperando – senza successo – di ottenere qualche incarico universitario. Assicuratosi della protezione della corte asburgica, tornò a Praga nel maggio 1563.

Qui, pur senza vestire più il saio domenicano, si preoccupò di limitare i rapporti con i protestanti e di corroborare la sua reputazione di buon cattolico per non dover rinunciare alla speranza di tornare a Chio dopo essersi riconciliato con la Chiesa. In fama di dotto grecista e orientalista, strinse rapporti di amicizia con Matthaeus Collinus, professore di greco all’Università di Praga, e sposò una figlia di Martin Kuthen, umanista e segretario municipale di Praga, Euphrosyna, dalla quale ebbe almeno due bambine, una nata nel 1571-72 a Cracovia e l’altra nel 1575 ad Alţina, in Transilvania, ma non sopravvissuta al parto.

All’inizio del 1566 il cardinale Ghislieri divenne papa Pio V e a Pasqua Chio fu occupata dai turchi: tali vicende rendevano improbabile il rientro in patria di Paleologo. Con lettere e memoriali indirizzati agli imperatori Ferdinando I e Massimiliano II e a influenti uomini politici, egli continuò a cercare il loro appoggio, non soltanto per evitare di essere consegnato a Roma, ma anche per presentarsi come un esperto di affari turchi. Con l’impegno di scrivere una supplica al pontefice per ottenerne il perdono (se ne conoscono due, a dire il vero più polemiche che apologetiche), nel 1568 Paleologo ottenne una pensione da Massimiliano II. Il 15 marzo 1571 l’azione congiunta della diplomazia papale e di quella spagnola riuscì a ottenerne l’arresto, ma non l’estradizione, nonostante la casa fosse stata perquisita e le carte confiscate. In giugno Paleologo fu rilasciato e bandito dalla Boemia.

Accompagnato dalla moglie, nel settembre 1571 era a Cracovia, dove a offrirgli ospitalità fu Andrea Dudith, l’esule italo-croato che non era solo un agente asburgico (ciò che lo stesso Paleologo avrebbe voluto diventare), ma anche un teologo non dogmatico e uomo-chiave nelle reti degli antitrinitari in Polonia e Transilvania. A Praga Paleologo si era presentato come un cattolico e aveva nascosto le sue opinioni religiose, anche se pare che già nel 1570 si fosse impegnato in discussioni sulla divinità di Cristo, come risulta da una lettera su tale argomento inviatagli dall’antitrinitario transilvano Francesco Dávid. Dopo il trasferimento a Cracovia, egli abbandonò ogni prudenza e diede inizio a una cospicua produzione di trattati teologici nei quali assunse una posizione molto originale nell’ambito dell’antitrinitarismo europeo, rifiutando le dottrine pacifiste e anabattiste dei Fratelli polacchi, polemizzando contro il solafideismo protestante mantenuto dagli antitrinitari transilvani e prospettando una religione di Stato inclusiva, tale da incorporare cristiani, musulmani ed ebrei che accettassero il ruolo messianico di Cristo e fondata su minimi contenuti dottrinali. Tra il febbraio e il giugno 1572 si recò in Transilvania, dove strinse rapporti di amicizia con l’antitrinitario Johannes Sommer (1542-1574), rettore a Cluj (Kolozsvár, Klausenburg). Vi fece ritorno nella primavera del 1573, in viaggio alla volta di Istanbul e di Chio, dove non tardò a capire che la situazione della sua isola era drammaticamente cambiata dopo l’occupazione turca. Nel 1591 apparve postuma l’Epistola … de rebus Constantinopoli et Chii cum eo actis (s.l., s.e.), il racconto di quel viaggio, scritto verso la fine del 1573, in cui celebrava il grande prestigio e le importanti relazioni di cui godeva in Oriente. Nel 1574 fece più volte la spola tra Cracovia e Cluj, dove la speranza di ottenere un insegnamento con cui guadagnarsi da vivere lo indusse a trasferire la famiglia.

Gli orientamenti antiasburgici prevalenti in Transilvania dopo l’ascesa al trono di Stefano Báthory nel 1571 suggerirono a Paleologo di ritirarsi dalla scena pubblica per stabilirsi ad Alţina tra la fine del 1574 e il settembre 1575, ospite dei magnati Gerendi, legati a casa d’Austria, ma la sconfitta della rivolta filoasburgica guidata da Gáspár Bekes nell’estate del 1575, lo costrinse a lasciare la Transilvania per rientrare in Polonia, dove sperava che Massimiliano II fosse chiamato a cingere la corona cui aveva rinunciato Enrico di Valois.

Molte opere di Paleologo risalenti a questi anni si sono conservate grazie agli unitariani transilvani, che tra la fine del ’500 e i primi decenni del ’600 le trascrissero e studiarono. I fondamenti della sua dottrina furono consegnati a numerosi testi redatti nel 1572-73, tra cui il De discrimine Veteris et Novi Testamenti, il De Christi cognomine (a cura di J. Domański - L. Szczucki, in Archiwum historii filozofii i myśli społecznej, XIX [1973], pp. 265-288), il De veritate narrationis novae sacrae Scripturae (a cura di L. Szczucki, in Odrodzenie i Reformacja w Polsce,XV [1970], pp. 191-201) e il De tribus gentibus (in Szczucki, 1972, pp. 229-241) che teorizzavano un’estrema riduzione dei dogmi, basata su una rigorosa lettura critica della Bibbia. Paleologo vi insegnava che chiunque professa di credere in un solo Dio di cui Gesù è il messia (ma senza attributi divini) e ne rispetta i precetti morali può essere definito cristiano e ottenere l’eterna salvezza. Il battesimo è inutile e l’eucarestia non ha altro significato se non il dovere di ciascuno di ricordare Cristo durante i pasti quotidiani. Ridefinito sulla base di questi principi radicali, il cristianesimo abbraccia tre ‘nazioni’: gli ebrei credenti nel ruolo messianico di Gesù (Paleologo si riferiva a una parte dei marranos emigrati in Levante che conservavano tracce del loro passato cristiano) e i cristiani di origine ebrea, cioè i cristiani orientali; i cristiani di origine pagana; e infine i musulmani, che egli definiva come Turci christiani, considerati a torto come fedeli di una religione diversa, e in realtà eredi di un autentico cristianesimo arcaico, a differenza della seconda ‘nazione’ che ne aveva distorto la dottrina e i riti. Questo cristianesimo inclusivo, esteso a ricomprendere musulmani ed ebrei avrebbe potuto mettere fine ai conflitti religiosi che lo dilaniavano ed essere accettato quale religione universale: Paleologo lo teorizzò nella Disputatio scholastica del 1575 (a cura di J. Domański - L. Szczucki, Utrecht 1994), in cui presenta una sorta di concilio ecumenico celeste cui partecipano anche Massimiliano II e Solimano il Magnifico. In un altro gruppo di scritti del 1572-74 – tra cui la Defensio verae sententiae de magistratu politico in ecclesiis christianis retinendo (Łosk 1580) e la De bello sententia – Paleologo confutava la convinzione dei Fratelli polacchi che il cristianesimo fosse una religione pacifista, minoritaria e rigorosamente separatista, provocando le risposte dell’antitrinitario polacco Grzegorz Paweł nel 1573 e di Fausto Sozzini nel 1581. Un terzo gruppo di scritti databile in gran parte al 1574-75 – tra cui l’Examinatio ad scriptum Francisci Davidis de iustitia, la Catechesis christiana (a cura di R. Dostálová, Varsavia 1971) e il Theodoro Bezae pro Castellione – fu indirizzato alla Chiesa unitariana che stava sorgendo in Transilvania per confutarne le permanenze protestanti e difendere invece le posizioni non adorantiste contro il calvinismo e il nascente socinianesimo.

La speranza di una successione imperiale al trono polacco svanì con l’elezione di Stefano Báthory nel 1576, ma Paleologo riuscì a rinsaldare i suoi rapporti con la corte asburgica a Vienna e a Praga e con personaggi influenti quali il magnate moravo Vilém z Rožmberka. Poiché sarebbe stato molto imprudente stabilirsi in Polonia o in Boemia, trovò rifugio con la sua famiglia nel villaggio moravo di Hluk, nei domini del nobile Jetřich z Kunovic, un protestante non dogmatico. Qui conobbe il teologo Pavel Kyrmezer, anch’egli protestante, e l’esule italiano Bonifacio Benincasa, pastore in un vicino villaggio, ma continuò soprattutto a scrivere, mentre – a quanto pare – né a Vienna né a Roma si avevano precise notizie su di lui. Questo periodo di tranquillo e intenso lavoro si interruppe nel 1581, quando alcune copie della Defensio Francisci Davidis, pubblicata clandestinamente a Cracovia (ed. a cura di M. Balázs, Utrecht 1983), vennero in possesso delle autorità asburgiche. I suoi contributi a quest’opera collettiva allarmarono il nunzio papale Giovanni Francesco Bonomi, il quale convinse l’imperatore Rodolfo II a indagare sul conto di Paleologo, che fu arrestato il 13 dicembre 1581. Dopo mesi di prigionia e interrogatori a Klosterneuburg presso Vienna, fu estradato a Roma, dove giunse il 31 luglio 1582, in fama di temibile eresiarca, e dove riuscì a far rinviare l’esecuzione della condanna capitale, già prevista nel 1561, professandosi disposto a ritrattare i suoi errori e a scrivere un’ampia apologia della fede cattolica con una confutazione di tutte le recenti eresie.

Oltre alla Defensio Francisci Davidis, l’unica opera di questo periodo oggi nota è l’Adversus Pii V proscriptionem Elisabethae reginae Angliae del 1576, che Paleologo mandò in Svizzera per la stampa, poi non realizzata (Bern, Burgerbibliothek, ms. 558). Qui egli sosteneva il principio erastiano della supremazia dello Stato sulle questioni ecclesiastiche, che a suo avviso era stato realizzato in maniera esemplare dagli imperatori bizantini e dai loro legittimi successori, i sultani ottomani, e infine dalla Chiesa anglicana. Mentre i libri sequestrati nel 1581 e trasmessi a Roma sono perduti, con l’eccezione di un frammento (Arch. segreto Vaticano, Segr. di Stato, Germania 104, cc. 134r-143v), una silloge di lettere a lui indirizzate dal 1570 rimase a Vienna (Landsteiner, 1873, gli originali furono distrutti da un incendio nel 1927).

Il 23 marzo 1585 fu decapitato a Tor di Nona e il suo corpo bruciato a Campo de’ Fiori insieme con gli scritti confiscatigli al momento dell’ultimo arresto.

Opere: Oltre a quelle citate: De anima, a cura di R. Dostálová, in Acta Universitatis Carolinae, Philologica, II (1976), pp. 81-89. Opere inedite: Kecskemét, Református Egyházközség Könyvtára, K 76: Isagoge in epistolas Pauli Apostoli (1571?); Cluj, Biblioteca Academiei Romane, MSU 474, 968 e 1669: Refutatio libri Petri Caroli (1572); De bello sententia (1572); De resurrectione mortuorum et vita aeterna (1572); Ad scriptum fratrum Racoviensium de bello et iudiciis forensibus responsio (1573); Examinatio ad scriptum Francisci Davidis de iustitia (1573); Responsio ad quaestiones triginta duas (1574); Dissolutio de iustitia (1573); De baptismo (1573); De fide iustitiae (1573); De providentia (1573); Dissolutio de sacramentis (1573); Responsio ad Calvinum, Inst. I 15 (1573?); De matrimonio (1573?); Theodoro Bezae pro Castellione (1575); De magistratu; De iuramento.

Fonti e Bibl.: Città del Vaticano, Arch. della Congregazione per la dottrina della fede, Stanza storica Q3b (lettere degli inquisitori di Chios, Pera); Arch. di Stato di Genova, Arch. segr. 2774B (ed. in Ph. Argenti, Chios vincta or the occupation of Chios by the Turks, Cambridge 1941, pp. 54-117), 2169, 2774A; Innsbruck, Landesar-chiv, Urkunden I 3495 (copia della Bulla excommunicationis); Arch. di Stato di Venezia, S. Uffizio, b. 14; Vienna, Haus-, Hof- und Staatsarchiv, StAbt, Rom Varia 3 (lettere di Paleologo); K. Landsteiner, Jacobus Palaeologus, Wien 1873; A. Pirnát, Die Ideologie der Siebenbürger Antitrinitarier in den 1570er Jahren, Budapest 1961, ad ind.; G. Rill, Jacobus Palaeologus (ca. 1520-1585), in Mitteilungen des Österreichischen Staatsarchivs, XVI (1963), pp. 28-85; R. Dostálová, Autografy Jakuba Palaeologa v třeboňském archive, in Zprávy Jednoty klasických filologů, VI (1964), pp. 150-160; L. Szczucki, Jakub z Chios-Paleolog, in Odrodzenie i Reformacja w Polsce, XI (1966), pp. 63-91; XIII (1969), pp. 5-50; R. Dostálová, Tři dokumenty k pobytu Jakuba Paleologa v Čechách a na Moravě , in Strahovská knihovna , V-VI (1970-71), pp. 331-360; L. Szczucki, Le dottrine ereticali di G. da Chio P., in Rinascimento, XXII (1971-1973), pp. 27-75; Id., W kręgu myślicieli heretyckich, Warszawa 1972, pp. 11-121, 199-244 (sono qui editi di Paleologo: De tribus gentibus [1572], pp. 229-241; De peccato originis [1573], pp. 242-243; An omnes ab uno Adamo descenderint [1573], pp. 243-244); M. Firpo, Antitrinitari nell’Europa orientale del ’500, Firenze 1977; E. Lakó, The manuscripts of the Unitarian College of Cluj/Kolozsvár, Szeged 1997, pp. 100 s., 187-190, 347-352; M. Balázs, Early Transylvanian Antitrinitarianism (1566-1571), Baden-Baden 1996; S. Feci, «Su le estreme sponde del christianesimo». L’isola di Chio, la Repubblica di Genova e l’Inquisizione romana alla metà del Cinquecento, in Praedicatores, inquisitores III: I domenicani e l’inquisizione romana, a cura di C. Longo, Roma 2008, pp. 131-204; L. Szczucki, s.v., in Dizionario storico dell’Inquisizione, a cura di A. Prosperi, III, Pisa 2010, pp. 1159-1161; M. Balázs, Von Valla bis Bodin. Über den literaturhistorischen Kontext der Disputatio scholastica von J. P., in Kritische Religionsphilosophie, a cura di W. Schmidt-Biggemann, Berlin 2010, pp. 111-130; M. Rothkegel, Zum Werdegang des Antitrinitariers J. P. bis 1561, inActa Comeniana, XXVI (2012), pp. 7-67.

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