GRATI, Giacomo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 58 (2002)

GRATI, Giacomo

Enrico Angiolini

Nacque, probabilmente nel 1411, a Bologna, da Pellegrino (nato nel 1383 e morto nel 1437) e da Bartolomea Clarissimi, secondogenito di quattro figli (gli altri, nell'ordine, furono: Caterina, moglie di Filippo Della Croce; Alessandra, moglie di Francesco Belvisi e Cristoforo, cavaliere). All'interno della stessa tradizione memorialistica di famiglia si alternano per la sua nascita le date del 1411 e del 1421, probabilmente a seguito di un errore materiale nella tradizione: nel complesso si fa preferire la prima data, confermata da N. Malvezzi de' Medici (p. 174), che lo dice morto "in età di anni 55 il 31 dicembre 1466" e che situerebbe la sua entrata nella vita pubblica a un'età più adeguata.

L'albero genealogico di questa rilevante famiglia bolognese, attestata con sicurezza a partire da un Martino (nato del 1309), ma che iniziò ad assurgere a forte rilevanza nella vita politica bolognese proprio col G., si desume in maniera abbastanza affidabile, oltre che dai maggiori cronisti non soltanto coevi (da G. Borselli a C. Ghirardacci), dall'Albero della famiglia senatoria Grati e dall'allegato Ristretto della genealogia, opera manoscritta completata nel 1659 dell'erudito bolognese G.F. Negri, prima conservata presso la famiglia senatoria Orsi, poi venuta in possesso della famiglia Malvezzi. Presso di essa si trovava ancora nel 1878 - quando se ne valse Malvezzi de' Medici per il suo studio sul G. - per poi giungere alla Biblioteca comunale dell'Archiginnasio di Bologna.

La famiglia Grati - o meglio Ingrati o Lingrati, secondo la forma originaria che la tradizione familiare vuole sia stata modificata nella più gradevole forma Grati per concessione pontificia rilasciata proprio al G. - apparteneva all'arte dei pellicciai bolognese e aveva radicati possessi nel contado in Castel de' Britti (oggi località del comune di San Lazzaro di Savena, in provincia di Bologna). L'ascesa politica del G. si svolse nel quadro delle tormentate vicende della Bologna quattrocentesca, in cui si scontrarono ripetutamente le consorterie dei Gozzadini, Canetoli e Bentivoglio in lotta per la signoria di fatto, sotto la pressione del Papato interessato a recuperare il governo, anche mediato, della città: in tal senso i Grati si configurarono come una di quelle famiglie di homines novi che, prive di tradizione politico-militare ma dotate di cospicue basi patrimoniali, si caratterizzarono tra i più accesi e fedeli alleati dei Bentivoglio, assecondandone l'ascesa e costruendo con essa la loro fortuna.

In realtà, pur se assai poco documentata, già la figura del padre Pellegrino dovette essere di rilievo negli uffici pubblici, risultando essere stato ambasciatore al doge e al Senato veneti nel 1428, per ottenerne l'impegno alla neutralità verso Bologna che era in quel momento controllata dai Canetoli e che stava per essere colpita da interdetto e assediata dal capitano della Chiesa Giacomo Caldora.

La prima comparsa del G. avviene in una posizione già di assoluto rilievo: appare infatti tra i partigiani bentivoleschi che nel maggio 1438 aprirono le porte della città al capitano visconteo Niccolò Piccinino, nella speranza di utilizzare come strumento antipapale quello che poi si trasformò in un dominio personale; fu quindi tra coloro che, già nel settembre seguente, chiamarono a Bologna il giovane Annibale Bentivoglio e che, nel 1440, divennero tesorieri del Comune. Con un'operazione tanto politica quanto finanziaria, infatti, i membri delle principali famiglie bolognesi sancirono la loro egemonia cittadina prendendo in appalto la Tesoreria del Comune di Bologna, nominati "tesaurerii" della Camera in quanto contestualmente prestatori alla stessa di cospicue cifre che venivano garantite con gli introiti dei dazi quale rimborso. Il G. - sicuramente già capo di casa, essendo il padre morto tre anni prima - al dire di Ghirardacci concorse al prestito per ben 225 scudi, cifra pari a quella di membri di famiglie quali i Caccianemici e i Gozzadini e addirittura più che doppia di quelle versate dai rappresentanti dei Lambertini e dei Fantuzzi.

In anni delicatissimi per la politica interna bolognese, tra la congiura fallita dei Canetoli che il 24 giugno 1445 era costata la vita ad Annibale Bentivoglio, una fase di governo latamente popolare e l'ascesa al potere di Sante Bentivoglio il 13 nov. 1446, il G. sedette tra gli Anziani per il quartiere di Porta Ravegnana nel 1445; poi, il 24 maggio 1446, ricevette la prestigiosa nomina di ambasciatore inviato a Venezia per garantirsene la neutralità verso Bologna, incarico che provocò scalpore, "giudicando che ad una repubblica di Venetia non si dovesse mandare un artegiano", come "Iacomo di Pellegrino Ingrati pellizzaro", ma "qualche nobile et onorato cittadino" (Ghirardacci, p. 114).

La tradizionale contrarietà dell'aristocrazia di maggior tradizione era destinata a cedere di fronte a uomini come il G. che, se anche erano matricolati tra gli artigiani, in realtà controllavano consolidati patrimoni - probabilmente prodotti non soltanto attraverso l'esercizio di un'arte, ma soprattutto con speculazioni immobiliari e l'attività del prestito - e avevano qualità individuali e appoggi nelle famiglie in lotta per il governo cui offrivano il loro servizio: la memoria di questa contrarietà all'ascesa del G. può essere all'origine dell'aneddoto, riportato soltanto da Ghirardacci (p. 198), per cui l'ammissione nel Consiglio ristretto cittadino del G. sarebbe stata favorita da Achille Malvezzi e fieramente contrastata da Giovanni (II) Bentivoglio che, non ottenendo di farlo escludere perché non ancora insignito cavaliere (per cui il fatto si collocherebbe prima del 1459), si sarebbe vendicato in effigie facendosi ricamare sugli abiti un "cane pellizzone" tenuto in soggezione dalla minaccia di una verga. Tuttavia l'episodio così narrato si presenta di dubbia interpretazione, forse travisato tanto nei nomi quanto nelle date, giacché il G. fu sostanzialmente sempre vicino ai Bentivoglio, al cui potere anche i suoi figli rimasero strettamente organici fino agli inizi del Cinquecento.

In concreto la prima ambasceria a Venezia si risolse in un successo personale, il primo di una serie di incarichi in cui il G. si specializzò, divenendo uno dei prototipi di quella figura del diplomatico moderno allora in via di formazione. Nello stesso tempo, con i capitoli concessi da papa Niccolò V nel 1447, si avviava una stagione di più stabile governo mediato su Bologna da parte del papa, basato sul controllo reciproco tra i legati pontifici e la magistratura - espressione dei maggiorenti - dei Sedici riformatori dello Stato di libertà, sancito da ulteriori pattuizioni e dai capitoli di Paolo II (1466) fino a una fase di "quasi signoria" bentivolesca: evidentemente, in quel biennio cruciale a livello più generale, il G. seppe porre le basi anche per un'affermazione individuale che si sostanzia in tutta una serie di missioni diplomatiche per il reggimento bolognese.

All'inizio del 1449 ritornò a Venezia come ambasciatore; fu poi a Firenze nel febbraio 1450 e a Ferrara dal 15 maggio 1451; nel gennaio 1452, insieme con Virgilio Malvezzi e Nicolò de' Poeti, organizzò l'accoglienza a Federico III d'Asburgo.

Dal 1453 si possono seguire le vicende del grande successo del G., vicinissimo ai due poli del potere cittadino: in quell'anno fu inserito da Niccolò V nella magistratura dei Sedici riformatori; il 26 luglio dello stesso anno andò ambasciatore a Roma per progettare l'ipotetica crociata contro i Turchi che avevano appena conquistato Costantinopoli e venne nominato conte del Sacro Palazzo lateranense; nel febbraio 1454 trattò con successo con la signoria di Borso d'Este a Ferrara la concessione di importanti franchigie commerciali e fiscali in regime di reciprocità, per cui fu anche insignito della cittadinanza onorifica delle città di Ferrara, di Modena e di Reggio (altri privilegi ricevette sempre dal marchese di Ferrara il 16 giugno 1460); nell'aprile seguente era a Roma per trattare l'atteggiamento da tenere verso il condottiero Giacomo Piccinino, che agiva fuori del quadro tracciato dalla pace di Lodi; nel maggio successivo fu scalco generale alle sontuosissime nozze tra Sante Bentivoglio e Ginevra Sforza (che, proprio per l'eccessivo sfarzo, incorsero nelle ire del legato cardinal Bessarione); lo stesso anno figura tra gli statutari che sovrintesero alla nuova redazione degli statuti bolognesi voluta sempre dal Bessarione e, nel 1455, accompagnò lo stesso cardinale a Roma per il conclave in cui fu eletto Callisto III.

Il G., nelle sue ripetute residenze romane, seppe costruirsi una crescente familiarità con la Curia papale che gli valse la concessione di svariati privilegi: già il 17 maggio 1456 Callisto III con suo breve gli concesse l'esercizio del dazio del vino e delle carni per sé e per i suoi eredi nel territorio di Castel de' Britti; quando nel maggio 1459 Pio II si trovava a Bologna in viaggio per il congresso che a Mantova doveva ancora una volta preparare una reazione contro i Turchi, fu ospite del G. e lo ricompensò con la concessione del cavalierato (in quell'occasione gli avrebbe anche concesso di cambiare definitivamente il nome di famiglia: "fecerlo cavaliere et volle si chiamasse de' Grati", Ghirardacci, p. 170; Bologna, Biblioteca universitaria, Mss., 3908, caps. LXXV); il 13 settembre seguente, con documento dato da Siena, ancora Pio II aggiunse, volendo ulteriormente onorare il valore del G., il privilegio per cui "domus seu progenies tua de Gratis, cum tuis ac eorum haeredibus et successoribus […], ac bona tua et eorum presentia et futura, mobilia et inmobilia […] in civitate nostra prefata, ac diocesi et teritorio Bononiensi ubilibet consistentia" erano fatti esenti "ab omnibus et singulis datiis […] ad instar ecclesiarum, seu ecclesiasticarum personarum", anche quando queste imposte fossero previste "ex forma statutorum" del Comune di Bologna.

Tra il sesto e il settimo decennio del XV secolo il G., ormai affermato, continuò a ricoprire cariche pubbliche (risulta gonfaloniere per il quartiere di Porta Stiera nel maggio-giugno 1458, nel maggio-giugno 1460 e nel settembre-ottobre 1463) e a compiere ambascerie. In particolare tra novembre 1461 e marzo 1462 fu di nuovo a Roma (ed è l'unica ambasceria di cui restano tre suoi dispacci originali, editi da Malvezzi de' Medici, pp. 183-187) presso il pontefice, dove pare di intendere che si dibattesse di nuovi capitoli con Bologna, che poi non furono evidentemente conclusi, e dove egli lamentava di essere chiaramente trattenuto senza costrutto per molto più tempo del necessario, poiché - mentre il reggimento bolognese reclamava il suo ritorno - il papa lo vincolava all'accompagnare a Bologna il legato, probabilmente per rimarcare - con un segnale appunto di tipo "diplomatico" - il persistere della soggezione bolognese a Roma. Probabilmente il G. rientrò soltanto al seguito del legato, che giunse a Bologna il 25 marzo 1462. Lo stesso anno venne inviato a Faenza e a Imola per concorrere alla composizione delle divergenze fra Astorre e Taddeo Manfredi.

Dopo la conclusione di queste vicende si hanno di nuovo notizie del G. a partire dall'8 ag. 1464, quando - insieme col fratello Cristoforo e col figlio Alessandro - partì per Venezia per poi aggregarsi in Ancona, con due galee fatte armare dalla sua città, al tentativo di crociata che si esaurì per la morte improvvisa di Pio II; caduto ammalato, dovette a propria volta trattenersi a Chioggia, dove fu curato nel convento domenicano prima di fare ritorno a Bologna.

Il G. trascorse gli ultimi anni ai vertici della vita bolognese, tanto nelle occasioni di rappresentazione pubblica del potere familiare quanto nei luoghi del potere effettivo: egli infatti fu dei riformatori (portati al numero complessivo di ventuno dal breve di Paolo II del 21 genn. 1466) presieduti da Giovanni (II) Bentivoglio e divenuti non più temporanei ma vitalizi a sanzione del loro carattere di ristretta oligarchia sotto un "quasi signore".

Dopo avere testato il 26 dic. 1466, il G. morì a Bologna il 31 dicembre successivo (perciò si trova a volte indicata erroneamente quale data della morte il 1467, non essendosi tenuto conto dell'uso cronologico dello stile della Natività) e fu sepolto - con onoranze funebri pubbliche pagate dal governo cittadino, a riconoscimento della sua opera - nella chiesa di S. Maria dei Servi di Bologna, presso cui sorgevano le case di famiglia e cui aveva destinato cospicui lasciti.

La chiesa bolognese dei Servi fu oggetto di attenzione da parte della famiglia Grati anche in seguito: ancora oggi vi si può vedere il monumento sepolcrale del G. e del figlio Andrea, fatto innalzare dal nipote Giacomo iunior nel 1504 e attribuito alla mano di Vincenzo Onofri (attivo 1495-1524); presso l'Arch. di Stato di Bologna, Famiglia Grati-Fantuzzi, Scritture Grati, b. 1, si conserva una lettera non firmata (probabilmente in copia di poco successiva alla morte del G.) diretta "alli Reverendi Frati de' Servi in ordine di far la cappella […] conforme alle nostre forze" nel rispetto degli "obligi scriti nel testamento di detto messer Iacopo Grato, fatto sotto li 26 decembre 1467".

G. aveva sposato, forse nel 1429, una Caterina (Foscherari per gli alberi genealogici di famiglia; Fasanini per Ghirardacci, p. 114 e per Malvezzi de' Medici, p. 175), da cui nacquero quattro figli (nell'ordine: Andrea, Francesco, Carlo e Alessandro) e almeno una figlia, Fasana, che andò in moglie a Cambio Zambeccari, lettore di diritto nello Studio, e il cui nome in effetti farebbe pensare piuttosto a un omaggio al cognome della madre, se fu una Fasanini.

Andrea continuò all'altezza del padre la tradizione dell'attività diplomatica in servizio della Bologna bentivolesca; Francesco fu dottore dello Studio bolognese; Alessandro, avviato alla carriera ecclesiastica, fu canonico della cattedrale di Bologna.

Carlo continuò anch'egli l'attività diplomatica; fu innalzato al cavalierato da Giovanni (II) Bentivoglio, che lo inviò come autorevole oratore presso gli Sforza, presso Cesare Borgia e poi presso papa Giulio II, di cui avrebbe dovuto riconquistare il favore all'assai compromesso signore di Bologna; egli si volse invece a favorire le posizioni papali. Questo deciso cambiamento di campo lo rese inviso a molti ma valse a conservare la sua famiglia nelle prime file del ceto dirigente cittadino dopo la definitiva affermazione pontificia. Intrecciò stretti legami con gli ambienti romani (la seconda e la terza moglie - Bartolomea Cesarini e Cristofora Margania - furono appunto romane), venne ascritto al ceto senatorio romano e fu ricompensato da Giulio II stesso con il feudo della Porretta tolto ai Sanuti. Morì nel 1519.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Bologna, Riformatori dello Stato di libertà, Libri partitorum, I, cc. 4, 21, 105, 124; Riformatori dello Stato di libertà, Libri mandatorum, X, c. 95; Archivio Grati-Fantuzzi, Scritture Grati, 1453-1748, b. 1 (copia seriore del privilegio del 13 sett. 1459); Bologna, Biblioteca comunale dell'Archiginnasio, Raccolta Malvezzi de' Medici, cart. 24, f. 6: Notizie per la famiglia Grati, o L'ingrati, o Ingrati, con lettere originali dell'imperatore (con l'edizione a stampa del privilegio del 13 sett. 1459, s.d., "ex typographia archiepiscopali" di Bologna); ibid., vol. 40: G.F. Negri, Albero della famiglia senatoria Grati nobile bolognese, con la spiegatura delle attioni memorande d'alcuni uomini segnalati di essa e Ristretto della genealogia et historia della famiglia Grati nobile di Bologna; ibid., cart. 75, f. 7: Signori senatori della casa Grati stati confalonieri e li suoi signori anziani chi furono, principiando dall'anno 1458 all'anno 1722; Ibid., Biblioteca universitaria, Mss., 279, n. 13; 2136.A.2: V. Rinieri, Raccolta delle famiglie di Bologna, et loro fatti et parentadi (1598), c. 360; 3908, caps. LXXV; Corpus chronicorum Bononiensium, a cura di A. Sorbelli, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XVIII, 1, vol. IV, pp. 90, 176, 198, 230, 233, 264, 267, 269, 290, 303, 318 s., 321 s., 327-329, 338, 344, 352, 356; G. Borselli, Cronica gestorum ac factorum memorabilium civitatis Bononie, a cura di A. Sorbelli, Ibid., XXIII, 2, pp. 91, 95, 97-99, 103; C. Ghirardacci, Della historia di Bologna, Ibid., XXXIII, 1, vol. III, pp. 62 s., 100, 113 s., 142 s., 145, 147, 151, 158, 165, 168, 170-173, 177, 180 s., 183-186, 188, 191-193, 198, 215, 309; P.S. Dolfi, Cronologia delle famiglie nobili di Bologna, Bologna 1670, pp. 399 s.; G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, VI, Bologna 1788, pp. 153-155; N. Malvezzi de' Medici, G. G. diplomatico bolognese del XV secolo, in Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le provincie dell'Emilia, n.s., IV (1878-79), pp. 153-187; G. Pantanelli, Tripoli in un documento bolognese del secolo XVI, in L'Archiginnasio, VII (1912), pp. 179-181 (per Carlo); E. Nasalli Rocca, Il cardinale Bessarione legato pontificio in Bologna (1450-1455), in Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le provincie di Romagna, s. 4, XX (1929-30), pp. 46, 53, 55; G. Roversi, L'arca di G. e Andrea Grati probabile opera di Vincenzo Onofri, in Il Servo di Maria. Mensile mariano, LXXX (1967), 2, pp. 29 s.; Inventari dei manoscritti delle biblioteche d'Italia, XC, a cura di M. Fanti, Firenze 1977, pp. 39 s., 69 s.

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