BRUTO, Giacomo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 14 (1972)

BRUTO, Giacomo

Anne Jacobson Schutte

La vita del B. può essere ricostruita soltanto sulla base degli atti del processo da lui subito come eretico recidivo davanti al tribunale dell'Inquisizione di Palermo nel 1590: atti che contengono anche un riassunto del primo processo da lui subito nel 1589 (Archivo General de Simancas, Inquisición de Sicilia, leg. 167).

Gli atti di un processo non sono certamente fonti del tutto degne di fede e si mostrano nel caso del B. particolarmente insoddisfacenti. In primo luogo, quando il processo terminò molti documenti (tra cui erano anche quelli relativi alle dichiarazioni del B. circa la sua fede religiosa) furono tradotti dall'italiano in spagnolo e sunteggiati ad uso del Supremo Consiglio dell'Inquisizione spagnola. Inoltre C. A. Garufi, che nel 1916 pubblicò uno studio sulla vita del B. basato sui documenti di Simancas, sunteggiò la maggior parte del materiale utilizzato, volle emendarlo nei punti ove credeva di rinvenire errori dei notai e infine tradusse di nuovo (o parafrasò) in italiano tutti i documenti esaminati, tranne uno. Nessuno studioso dopo il Garufi ha esaminato il testo originale dei documenti, né è stato compiuto alcun tentativo per verificare o correggere la storia raccontata dal B.: una storia piena di episodi non plausibili e di dubbia cronologia, che può derivare da mera volontà di drammatizzare le proprie vicende, da vuoti di memoria, dalla volontà precisa di sviare gli inquisitori, o da tutte queste cause unite insieme.

Quando nell'estate del 1589 comparve per la prima volta davanti all'Inquisizione sotto l'accusa di essersi espresso in modo favorevole nei riguardi della dottrina e della pratica protestante, il B. aveva circa trentasei anni. Nato tra il 1551 e il 1553 da famiglia cattolica a Villanova d'Asti, egli - stando al racconto reso in tribunale - cominciò a deviare dalla fede cattolica all'età di undici o dodici anni, quando divenne amico di Sebastiano Visca, un insegnante di latino della sua città, che nel documento viene indicato come un "luterano-calvinista". (In base a quanto sostiene A. Pascal nel suo studio sulla Riforma a Saluzzo, sembrerebbe che il Visca appartenesse ad un movimento calvinista piuttosto diffuso a Saluzzo e in Savoia, movimento di cui si occupò l'Inquisizione nel 1571: forse il Visca era in rapporti di parentela con una delle principali figure di questo movimento clandestino, la contessa di Visca, per conto della quale fece vari viaggi a Ginevra per acquistare libri per i suoi correligionari).

Per cinque anni - continua il racconto del B. - il Visca e i suoi figli lo educarono al calvinismo. Da loro egli apprese a non credere alla reale presenza di Cristo nell'eucarestia, all'intercessione dei santi, alla confessione individuale, alle preghiere per i morti, ai sacramenti della cresima, dell'ordine e della penitenza, ai voti di celibato e al digiuno fatto per acquistare meriti. All'indottrinamento ricevuto dalla famiglia Visca si aggiunse la lettura "in Calvino ed in altri libri di ministri di Ginevra" e la sua visita a Ginevra in compagnia di Sebastiano Visca. Sebbene la madre cercasse di dissuaderlo dall'abbandonare la fede cattolica, il B. - fino alla completa abiura resa nelle prigioni dell'Inquisizione nel 1589 - non cessò mai di aver fede nelle dottrine eretiche apprese in giovinezza.

A diciassette anni, tuttavia, il B. entrò nell'Ordine degli eremiti agostiniani. Sebbene egli non chiarisse all'Inquisizione i motivi della sua decisione, è possibile credere con il Garufi che egli, di fronte all'inasprimento nella sua regione della lotta contro l'eresia, abbia deciso di assumere una posizione nicodemita per mascherare la sua vera fede. Seguiti, presso gli agostiniani sia in Italia sia a Parigi, studi di latino, di retorica, di logica, di teologia e di storia secolare, il B. si dimostrò persona inquieta, dubbiosa sull'opportunità di conservare la sua falsa posizione di frate. A Lucca - affermò poi - incontrò un inglese che lo convinse ad abbandonare il monastero e a cercare rifugio a Ginevra. Dopo aver lasciato l'abito nei sobborghi di quella città, fu accolto da un cugino di primo grado (forse - secondo lo Jalla - un membro della famiglia Buzino o di quella Mus, famiglie che avevano lasciato Villanova d'Asti per la cittadella calvinista). Il cugino lo introdusse presso vari ministri ginevrini che lo sollecitarono ad aderire apertamente al calvinismo (e - aggiunge il Garufi, senza però indicare la fonte su cui si basa - ad entrare nell'Accademia). Il B., tuttavia, non si sentiva pronto a questo passo definitivo; e perciò potrà poi dire all'Inquisizione nel 1589 che non avendo aderito ufficialmente ad una Chiesa calvinista non poteva essere accusato di comunione con gli eretici.

Da Ginevra - racconta il B. - ritornò agli agostiniani, prima a Pavia e poi a Garegnano. Ben presto, tuttavia, passò all'Ordine dei serviti in qualche luogo del Piemonte (la sua dichiarazione non è al riguardo precisa). I suoi confratelli rimasero talmente colpiti dalle sue capacità che promossero subito la sua ordinazione al sacerdozio. Egli cominciò così a predicare la dottrina cattolica e a celebrare messa, senza peraltro credere - dichiarerà egli stesso - né alle proprie parole né ai propri atti. Ma il suo bisogno di movimento non era soddisfatto; perciò decise di partire alla volta di Roma, ove ebbe incontri con alcuni calvinisti francesi ai quali assicurò che si sarebbe trasferito definitivamente a Ginevra al termine del suo viaggio in Italia. Stando al suo racconto, dopo Roma egli si recò a Napoli, in Sicilia, in Spagna, in Portogallo, in Francia e in Germania. In un luogo imprecisato di questo itinerario incontrò un vescovo della sua "patria" che cercò di ricondurlo alla Chiesa cattolica. Il B. lo derubò dell'anello con sigillo e in seguito, con l'aiuto di un complice tedesco, compilò alcuni documenti i quali attestavano che durante il suo viaggio aveva espletato incarichi affidatigli da quello stesso vescovo (il Garufi preferisce pensare che fu il vescovo a fornire tali documenti al B. per garantirgli un tranquillo ritorno in Italia, e che la storia del furto venne inventata dall'Inquisizione per screditare ulteriormente la già debole difesa del Bruto).

Intorno al 1587 - continua il racconto delle avventure del B. - si diresse a sud, verso Verona, dove rimase per dieci mesi come cappellano con cura di anime. Qui venne colto dal rimorso per i suoi passati rapporti con l'eresia e decise di andare a Roma a chiedere perdono al papa per i suoi errori. Un frate francese di Verona, che aveva trascorso molto tempo a Roma, gli consigliò, tuttavia, "di non ricarsi a baciare i piedi all'anticristo", dato che non era stato ancora colpito da scomunica o da censura, e gli disse che si sarebbe trovato meglio tra i "luterani". Il B., ciononostante, si recò a Roma e chiese una udienza al papa con il proposito di chiedergli un'elemosina. Non essendo riuscito ad incontrarsi con il pontefice, decise di andare a Napoli e, in un secondo tempo, a Palermo, ove si guadagnò la vita insegnando il latino.

Sebbene in seguito negasse di aver predicato l'eresia nel Regno di Napoli, ove d'altra parte - sottolineava il B. - l'Inquisizione era tanto vigile, sembra sicuro che egli fu in contatto con quegli eretici di Palermo che erano riusciti in qualche modo ad evitare la detenzione. Nell'estate del 1589 il B. fu denunciato al S. Uffizio per aver lodato la fede e la condotta dei "luterani", e, in modo particolare, la loro carità che egli contrapponeva al rifiuto del papa di concedergli un sussidio. Dagli atti del processo si ricava che egli fu trovato in possesso di libri eretici, sebbene egli si difendesse affermando di possedere soltanto un piccolo volume in ottavo di versi in lode di Martino Lutero, che teneva per pura curiosità.

Nella sua difesa il B. contestava la validità di varie testimonianze: quelle, secondo le quali durante la detenzione nelle prigioni dell'Inquisizione egli aveva vantato gli onori e l'assistenza finanziaria che avrebbe avuto una volta uscito dal carcere da "luterani" locali e stranieri, compreso un cugino di Lutero; quelle, secondo le quali si era preso gioco di numerose credenze cattoliche e aveva difeso le dottrine eretiche; quelle, secondo le quali aveva dichiarato di aver intenzione di discutere con i propri giudici in materia di fede, come aveva fatto un eretico a Milano; e infine quelle, secondo le quali il B., ricordando l'esempio di un "luterano" bruciato a Roma, avrebbe affermato che morire per la fede luterana e calvinista era un martirio. Il B. ammise soltanto di aver potuto fare una o due di queste ridicole affermazioni, quando, però, il pensiero di essere costretto a compiere l'umiliante atto di pubblica penitenza lo aveva sconvolto; sosteneva di voler sinceramente vivere e morire nella Chiesa cattolica.L'8 ott. 1589 il B. fu fatto salire su un palco eretto nella piazza Bologna di Palermo per fare la sua pubblica abiura. L'11 novembre, dopo esser stato ridotto allo stato laico dal vescovo di Ugento, egli ascoltò la sentenza, ritenuta pietosa dall'Inquisizione: dieci anni di galere regie che dovevano essere seguiti da una reclusione per il resto della vita in un monastero, ospedale o prigione.

Dopo sei mesi di pena in una galera comandata da Cesare La Torre, il B. ritrattò la sua abiura. Il 4 maggio 1590, quando un suo compagno di prigionia, lo spagnolo Joan de Molina, stava per informare l'Inquisizione delle bestemmie pronunciate da uno degli ufficiali della galera, il B. gli mise in mano un memoriale con una lettera indirizzata al procuratore fiscale dell'Inquisizione palermitana (questi dirà poi, denunciando il B., che il documento conteneva "buona parte di quello che crede e confessa la chiesa di Ginevra e molti altri dei Regni occidentali").

Nel memoriale (edito per intero in spagnolo dal Garufi) il B. spiegava che dal momento della sua abiura era stato perseguitato dal rimorso di aver negato la verità evangelica e di aver in tal modo offeso la maestà di Dio. Il ricordo dell'ammonizione di Cristo per coloro che lo rinnegavano (Matteo, X, 28) gli aveva infine dato il coraggio di dichiarare la sua fede. In realtà il memoriale più che una positiva confessione di fede evangelica era un attacco contro la fede e la pratica cattolica. E sebbene citasse la Scrittura a sostegno dell'interpretazione della cena del Signore come commemorazione (è questo forse un indizio che la sua posizione dottrinale era essenzialmente calvinista), il B. sottolineava la sua enfasi sull'ipocrisia, le motivazioni mercenarie e la lussuria dei monaci, preti e cardinali.

Dal Garufi in poi si è ritenuto unanimemente che per aver trovato infine il coraggio di dichiarare la propria adesione alle dottrine riformate, il B. deve rientrare nella lista dei martiri protestanti italiani. Un'attenta lettura degli atti del suo secondo processo, tuttavia, porta necessariamente alla conclusione che il suo completo esaurimento fisico e la sua malattia, che lo stavano conducendo ad un serio crollo psicologico (perfettamente comprensibile in un uomo non abituato a dure fatiche fisiche e ad un trattamento brutale) giocarono un ruolo fondamentale nella sua sollecitazione di un martirio. A varie riprese egli aveva dichiarato ai suoi compagni di prigionia sulla galera che stava predicando l'eresia così che l'Inquisizione lo avrebbe tolto dalla galera e condotto davanti a un tribunale. Geronimo Cordaro di Catania, ad esempio, ricordò che egli aveva esclamato: "Io ho fatto una buona cosa, perché ho mandato sessanta capitoli di eresie al S. Ufficio (in realtà il memoriale comprendeva soltanto dieci punti), che sono pronto a sostenere, perché io desidero essere arso e morire una volta, piuttostoché stare in questa galera e morire tante volte, soffrendo tante fatiche colla fame, mali trattamenti ed altre miserie che si passano in galera".

Il 10 luglio 1590 era riconciliato con il S. Uffizio e affidato al braccio secolare. Dopo più di un anno trascorso in prigione, il 28 ottobre 1591 comparve ad un autodafè nella piazza Bologna di Palermo e fu arso.

Fonti e Bibl.: Un breve sunto delle vicende del B. rinvenuto in un elenco settecentesco di eretici bruciati nel Regno di Napoli fu pubblicato da V. La Mantia in Serie dei rilasciati al braccio secolare 1487-1732, Palermo 1904, n. 321. La rielaborazione di C. A. Garufi del fondo di Simancas è Segundo proceso de Jacobo Bruto reconçiliado por la Inquisición del Reyno de Sicilia y relaxado en Palermo al Brazo Seglar con sent. de 10 Julio 1590, in Bull. de la Société d'histoire vaudoise, XXXVVI (1916), 36, pp. 68-96. L'articolo di G. Jalla, La Riforma in Piemonte: guerre franco-sabaude...(1588-1594), ibid., XLIII (1921), 43, pp. 22-24 (ripubblicato in seguito nella sua Storia della Riforma in Piemonte, II, Torre Pellice 1936, pp. 63-65), si limita a ripetere le conclusioni del Garufi aggiungendovi alcune congetture prive di fondamento. Notizie frammentarie su S. Visca si trovano in A. Pascal, Ilmarchesato di Saluzzo e la Riforma protestante durante il periodo della dominazione francese (1548-1585), Firenze 1960, p. 308. Per ulteriori informazioni sull'eresia e l'Inquisizione in Sicilia relative al B. si veda V. La Mantia, Origine e vicende dell'Inquisizione in Sicilia, in Riv. stor. ital., III (1886), pp. 481-598; C. A. Garufi, Contrib. alla storia dell'Inquisizione di Sicilia nei secoli XVI e XVII: ...dagli archivi di Spagna, in Arch. storico siciliano, n.s., XXXVIII (1913-14), p. 269; XI, (1915-16), pp. 385 s.; A. Pascal, La colonia messinese di Ginevra e il suo poeta G. C. Paschali, I, La Riforma protestante in Sicilia, in Boll. della Soc. di studi valdesi, LXII(1934), 62, pp. 118-134; S.Caponetto, Origine e caratteri della Riforma in Sicilia, in Rinascimento, VII (1956), pp. 260-262, 273; Id., Ginevra e la Riforma in Sicilia, in Ginevra e l'Italia, Firenze 1959, pp. 289-305.

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