GIMIGNANI, Giacinto

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 54 (2000)

GIMIGNANI, Giacinto

Angela Negro

Figlio del pittore Alessio e di Dianora Tognelli nacque a Pistoia e fu battezzato nel duomo di quella città il 23 genn. 1606.

La sua formazione si compì verosimilmente a margine dell'attività paterna, che non dovette tuttavia superare i limiti di un ristretto ambito provinciale. Il linguaggio del padre, nitido e austero, solo occasionalmente sfiorato dai modi di Santi di Tito, di M. Rosselli e di B. Poccetti, come indica la produzione nota di Alessio, databile complessivamente dal 1598 al 1635, non risulta aver lasciato tracce consistenti nell'opera del G., se non per la solida base disegnativa che rimarrà elemento costante del suo percorso.

L'attività del G., sondata dapprima da Di Domenico Cortese (1967) è stata delineata globalmente da Fischer Pace (1973) con successive ricognizioni parziali anche sulla produzione di disegni (1979); nuovi aggiornamenti sono venuti da Negro (1997) e da Fagiolo dell'Arco (1998).

La presenza del pittore a Roma è documentata per la prima volta da un pagamento di 180 scudi in data 24 maggio 1630 da parte della Camera apostolica per la copia di un dipinto nelle Stanze Vaticane. L'inserimento del giovane pittore nella città papale dovette giovarsi della presenza in città di due patrizi pistoiesi, molto introdotti nella corte di Urbano VIII Barberini: F. Bracciolini e soprattutto il giovane prelato Giulio Rospigliosi, letterato e collezionista di grande caratura, che diverrà poi papa col nome di Clemente IX (1667-69). La protezione accordata da Rospigliosi al G. per quasi un trentennio, e al figlio di lui Ludovico, anch'egli pittore, sarà un supporto determinante per la carriera di entrambi.

Nel 1632 il G. fu pagato per un intervento in palazzo Barberini alle Quattro Fontane, identificato con la lunetta nella cappella affrescata con il Riposo in Egitto da Fischer Pace (1973, pp. 181-183; 1979, p. 23) sulla base di un disegno preparatorio dell'Istituto nazionale della grafica, cui è da aggiungersi un altro foglio in collezione privata spagnola (Mena Marquez, 1985).

L'intervento venne compiuto sotto la direzione di Pietro Berrettini da Cortona, e a fianco di G.F. Romanelli e P.P. Baldini, pagati per somme assai superiori ai 50 scudi corrisposti al G., giustificata da una più ampia partecipazione al cantiere. Da essi il G. risulta quasi indistinguibile sul piano stilistico, tanto forte è la comune acquiescenza verso i dettami del maestro, progettista ed esecutore egli stesso di parte della decorazione. Nell'orbita di Berrettini si svolse comunque il decollo romano del G., come indicano i due principali biografi, Pascoli e Pio.

Le prime opere autonome e di stretta derivazione cortonesca, come il Pasce oves meas di Castel San Pietro sopra Palestrina del 1632, pagatogli dal cardinal Francesco Barberini o il Mosè salvato dalle acque (Roma, collezione Ducrot; Fagiolo dell'Arco, fig. 12) si distinguono per la netta scansione dei volumi e il taglio imponente e pausato delle figure.

Prevale quindi, fin d'ora, una vocazione classicista che guarda all'antico (forse attraverso l'imponente classificazione dei reperti promossa a margine della corte barberina da Cassiano Dal Pozzo) ma anche a Raffaello, al Domenichino e a G. Reni.

La corrispondenza di G. Rospigliosi del quarto e del quinto decennio del 1600 è illuminante per chiarire il graduale inserirsi del pittore nell'ambiente artistico romano grazie al suo protettore. Rospigliosi aveva iniziato la sua carriera di Curia come segretario del cardinale di S. Onofrio, Antonio Barberini senior, fratello di Urbano VIII e protettore della congregazione di Propaganda Fide e non è casuale che nel 1634 il G. risulti abitare proprio nel palazzo di Propaganda, da una lista di pittori aggregati al sodalizio sottoposto agli annuali versamenti dell'Accademia di S. Luca (Noack). Proprio in quell'anno, del resto, egli firmò un dipinto per la cappella interna al palazzo, con l'Adorazione dei magi, caposaldo della sua prima produzione romana.

Le vicende della commissione sono chiarite in una lettera di Rospigliosi al fratello Camillo a Pistoia del 12 ag. 1634. Il pittore era stato proposto dal suo protettore al cardinal Barberini per un dipinto destinato alle monache agostiniane dello Spirito Santo alla colonna Traiana. Sfumata l'occasione a lavoro iniziato, Rospigliosi pagò personalmente l'opera pensando di fare spedire a Pistoia il quadro compiuto "con grandissima soddisfatione di chi l'ha visto" (Negro, 1997, p. 200). La sfortunata vicenda fruttò però al G. l'incarico di quattro quadri da parte del cardinale Barberini, di cui due per la chiesa di S. Maria della Concezione e uno per le sue stanze, tutti dispersi a differenza della pala d'altare per la cappella di Propaganda Fide.

L'opera è indicativa di quanto le scelte del pittore stessero ormai divergendo dal cortonismo più ortodosso: le figure, grandeggianti con scolpita evidenza come in un fregio classico, sono condotte con un segno fermo e inciso e campiture cromatiche squillanti e cristalline. Vi affiora l'attenzione crescente del G. verso gli artisti francesi gravitanti, nel quarto decennio del secolo, intorno alla corte barberina: non solo Poussin, indicato già da Pascoli e poi da tutta la storiografia successiva come parametro essenziale della sua formazione (e imitato nella sua produzione più severa e neoraffaellesca che occupa proprio gli anni Trenta del secolo), ma anche C. Errard, J. e P. Lemaire, J. Stella e P. Mignard. Una pleiade di pittori oltremontani, tutti più o meno attratti dal binomio Cassiano-Poussin. Nello studio dell'antico e nel retaggio raffaellesco, rivitalizzato dai grandi esempi del Domenichino e di Reni, essi individuavano un percorso obbligato verso l'espressione degli affetti, la chiarezza atteggiata del gesto, la valenza ideale delle immagini, valori cui il G. stesso si manterrà sostanzialmente fedele per tutto il suo percorso.

Nel 1639 il G. partecipò, unico italiano in una compagine tutta francese, alla commissione di sedici quadri con soggetti tratti dalla Gerusalemme liberata per F.A. d'Estrées, ambasciatore straordinario a Roma della Corona di Francia, poi collocati nel palazzo La Ferté-Senneterre a Parigi e quindi dispersi, che vide impegnati al suo fianco Errard, Mignard, Perrier e P. Lemaire, come risulta dal contratto, rinvenuto da Fischer Pace (1973, p. 169). Di mano del G. è l'Incontro di Rinaldo ed Armida nella foresta incantata firmato e datato 1640 e oggi al Museo di Bouxwiller in Alsazia, dove sono conservati altri due pezzi della serie già attribuiti al G. dalla studiosa, ma ricondotti da Boyer e Brejon de Lavergnée (pp. 231-237) rispettivamente a Errard (Rinaldo lascia Armida) e a Mignard (Goffredo di Buglione curato da un angelo).

Un secondo dipinto del G. menzionato nel contratto, disperso e di cui non si conosce il soggetto, potrebbe forse corrispondere alla Fuga di Erminia documentata da un suo disegno all'Ashmolean Museum di Oxford, e da un altro all'Albertina di Vienna, in piena consonanza tematica con il dramma pastorale Erminia sul Giordano scritto da G. Rospigliosi per il teatro Barberini e rappresentato nel carnevale 1633.

La grande tela di Bouxwiller sottolinea comunque per lucidità di visione e splendore cromatico l'affinità stilistica del G. con il milieu artistico d'Oltralpe, peraltro molto apprezzato dallo stesso Rospigliosi.

Il G. visse in questi anni a stretto contatto con la comunità oltremontana: nel 1637 abitò in via Rasella, zona brulicante di presenze francesi (e vicina alla "reggia" dei Barberini) col servitore "Jacomo Loret", poco distante da Pierre Mignard, documentato con alcuni connazionali in via della Madonna di Costantinopoli. E in via Rasella è ancora segnalato dagli Stati d'anime di S. Nicola in Arcione nel 1639 con un altro servitore francese prima di passare nel 1640 in una casa di strada Felice (oggi via Sistina) nell'isolato di Trinità dei Monti dove pose la sua residenza romana permanendovi fino alla morte.

In questo fortunato decennio il pittore mantenne vivi anche i rapporti con i committenti toscani: nel 1636 compì un grande Dipinto per l'altare di S. Rocco nel duomo di Pistoia, di cui oggi sopravvivono solo pochi frammenti. Una commissione procuratagli da Bracciolini e Rospigliosi e pagatagli nel 1638 la ragguardevole cifra di 354 scudi a seguito delle ripetute richieste epistolari di quest'ultimo. La foto che documenta il quadro prima della sua distruzione nell'ultima guerra, ne testimonia l'impianto solenne (con gli otto santi protettori di Pistoia sovrastati dalla Vergine e il Redentore) che sembra memore della cultura emiliana, soprattutto di Reni e del Guercino, con una condotta pittorica puntuale e disegnativa ancora testimoniata dai pochi frammenti superstiti (Falletti, p. 44). Di questi anni è anche una coppia di grandi storie bibliche in collezione Corsini a Firenze: Cristo e la samaritana al pozzo, firmato e datato 1637, e Rachele che nasconde gli idoli (firmato e datato 1638) dove ancora a Pietro da Cortona guardano le tipologie dei personaggi, rigorosamente disposti su un unico piano, mentre i volumi scolpiti, la policromia limpida e timbrata e gli stessi paesaggi di fondo ricordano il classicismo più limpido e antiquariale di area bolognese, di A. Carracci, dell'Albani e del Domenichino. Nel 1637 dipinse per la villa Medici a Roma una tela per un soffitto con Ero e Leandro oggi nel Museo civico di Pistoia (trasferita dagli Uffizi) ispirata a una favola ovidiana di stesso soggetto che F. Bracciolini aveva rielaborato in uno scritto per le nozze di Taddeo Barberini e Anna Colonna (Ero e Leandro: favola marittima di Bracciolino dell'Api, Roma 1630) e risolta in una riuscita simbiosi di nobiltà formale e di intenso lirismo. Infine, nel 1642 il G. dipinse a Roma il S. Sebastiano curato da s. Irene per l'altare Baldinotti in S. Domenico a Pistoia, firmato e datato e tornato di recente nella sede originaria.

Il 18 nov. 1640 il G. sposò, in S. Lorenzo in Lucina, Cecilia, figlia del pittore veronese Alessandro Turchi. La coppia si stabilì nella casa di via Felice dove fu allietata da otto figli: Ludovico, nato nel 1643, Filippo (1648) ed Eleonora (1650). Seguirono Eulalia, Felice e Alessandra, nate a Firenze rispettivamente nel 1653, 1655 e 1658, e, di nuovo a Roma, Alessio (1661) e Francesco (1666).

Il classicismo morbido e raffinato di Turchi, che era a quel tempo al vertice della sua carriera romana e apprezzatissimo dai collezionisti (anche francesi) soprattutto per la sensualità distillata delle sue scene profane, incise direttamente sulla produzione del Gimignani. Lo attesta una sequenza di opere tutte collocabili sullo scadere del quinto decennio come la Sacra Famiglia in S. Maria dell'Anima, firmata e datata 1640, l'Allegoria della Speranza in collezione Pallavicini, o anche la pala con S. Agostino e il Bambino Gesù in S. Pudenziana del 1640 o l'Adorazione dei magi a Bourgley House (collezione marchese di Exeter) firmata e datata 1641. Tutti dipinti in cui la gamma cromatica tende a smorzarsi e i volumi sono ammorbiditi da soffici infusioni di ombre.

Scomparso di scena Turchi (che morì nel 1644) il G. si riaccostò nel pieno del quinto decennio a un classicismo nitido e statuino che guarda ancora ai francesi e a Poussin (sempre imitato a livello lessicale senza mai sfiorarne lo spessore speculativo) come nel Martirio di s. Erasmo di S. Maria della Pietà in Vaticano del 1640 (distrutto ma noto attraverso disegni) o nella splendida Morte di Virginia ora in collezione milanese, del 1644 (Negro, 1997, p. 205). Ma fu soprattutto il Domenichino e il classicismo bolognese più algido e illustre a polarizzare la sua attenzione, dove le scene, sacre o profane che fossero, furono declinate con scrittura nitida e taglio retorico.

Così avviene nelle due lunette con Storie dei martiri persiani nella cappella Filonardi in S. Carlo ai Catinari (di cui una con la Distribuzione delle elemosine è firmata e datata 1641) e nel grande affresco con la Visione di Costantino nel battistero Lateranense, dove il G. interviene all'esordio del quinto decennio sotto la direzione di Andrea Sacchi, a fianco di pittori come A. Camassei, C. Magnoni e l'esordiente C. Maratti, assai più sensibilizzati dai modi del maestro. Un incarico di grande prestigio che sottolinea gli stretti legami del pittore con la cerchia di papa Urbano, promotore dell'impresa. In questo clima si spiega bene l'apprezzamento dimostrato al G. anche da alcuni satelliti della corte papale: così A. Giori, maestro di camera di Urbano VIII e poi cardinale, che commissionò al G. una Flagellazione per S. Maria in Via a Camerino, sua città d'adozione, nel 1643, e G.M. Roscioli, subentrato nella stessa carica che annoverava nella sua collezione un'Andromeda del G. acquistata per 50 scudi nel 1638, o ancora i Gavotti che secondo il Pio, possedettero molti suoi quadri.

La partenza di G. Rospigliosi per Madrid come nunzio papale in Spagna nell'aprile 1644 e soprattutto il disciogliersi della corte barberina con la morte di Urbano VIII (29 luglio 1644) e la fuga in Francia dei "nepoti" privarono il pittore di gran parte delle relazioni che avevano fino allora sostenuto la sua carriera. Il G. troverà nuovi spazi presso i Pamphili, decorando con fregi affrescati nel palazzo a piazza Navona la Sala delle donne illustri (1648) e poi quella delle Storie romane e partecipando con lavori imprecisati alla decorazione della villa di Bel Respiro.

Nella compagine dei decoratori del palazzo di città, che comprendeva anche Camassei, G.A. Galli detto lo Spadarino e G. Brandi, il G. è quello che più degli altri si accostò al versante pamphiliano del classicismo, quello marmoreo e antichizzante che darà spazio ad A. Algardi, a F. Duquesnoy, a F. Cozza e a G.F. Grimaldi. Gli affreschi del palazzo di piazza Navona, limpidi e composti, con figure allineate a bassorilievo su fondi di paese, testimoniano bene, a questa data, quello che fu sempre uno dei filoni più battuti dal G., le storie antiche bibliche o mitologiche che entrarono a far parte, con la loro dignità, di tante collezioni italiane e straniere. Per un pubblico colto e di media levatura la sua produzione assicurava, del resto, soggetti illustri e "all'antica" a prezzi contenuti, rispetto agli irraggiungibili dipinti della triade Cortona-Sacchi-Poussin, dei maestri ancora operanti a Bologna come il Guercino e il Reni, o di pittori più giovani, ma assai più ricercati, come Romanelli. Non è un caso che l'inventario della casa del pittore, steso dopo la morte, ci fornisca un lungo elenco di storie di Alessandro, di Enea, di Scipione ma anche di episodi biblici accostati ai soggetti sacri o ad allegorie morali.

Le difficoltà di trovare commissioni nel competitivo ambiente romano portarono in questi anni il G. a realizzare numerose pale d'altare per la provincia, come la Madonna e santi di Castellaro, presso Reggio Emilia (Frisoni, pp. 263 s.) datata 1644, la pala con la Madonna e s. Domenico per Prato Sesia in Piemonte (Venturoli, pp. 233 s.) databile fra il 1646 e il 1652, o quella con Madonna e santi per il duomo di Grosseto, firmata e datata 1648 (Martini, p. 24). In questo periodo diventa frequente anche la produzione di incisioni, spesso riproducenti quadri già realizzati (e in gran parte dispersi) o più raramente destinata all'illustrazione di libri come i dodici rami con Giochi di putti (di cui sei siglati con le iniziali intrecciate e uno datato 1647, con lo stemma del cardinale Carlo de' Medici) poi pubblicati nelle Vitaeet res gestae pontificumRomanorum… a Clemente X usque ad Clementem XII, Roma 1751, e due vedute di battaglie per illustrare il secondo volume del De bello Belgico del gesuita Famiano Strada (Roma 1647).

Proprio il diradarsi delle occasioni professionali, sullo scorcio del quinto decennio, dovette spingerlo a cercare nuove opportunità a Firenze. Nel 1652 il G. lasciò la casa di via Felice, dove l'anno precedente aveva ospitato anche il padre Alessio, e si trasferì a Firenze dove risiedette nel 1653 nella parrocchia di S. Frediano, per spostarsi dal 1655 in quella di S. Felicita, come risulta dagli atti di battesimo delle tre figlie che gli nacquero in quegli anni, conservati presso l'archivio di S. Maria del Fiore.

Nel 1653 il G. lavorò per l'arazzeria medicea, con il cartone per la scena dell'Ingresso di Giovanna d'Austria a Firenze, tessuta in arazzo da P. Fevère e oggi agli Uffizi. Per la corte granducale dipinse anche due grandi quadri con Storie medicee (1656), quanto mai monotoni nella loro diligente ricostruzione storica. Nel 1654 aveva anche firmato e datato l'affresco con il Parnaso in palazzo Niccolini a Firenze: una raggelata e quasi ingenua meditazione sul grande modello raffaellesco delle Stanze Vaticane. Ma significativa è soprattutto la serie di dipinti realizzati per i Rospigliosi di Pistoia, venticinque quadri con storie del Vecchio e del Nuovo Testamento, favole mitologiche e un Ratto delle Sabine collocabili orientativamente fra il 1652 e il 1654 (cinque sono datati) e attualmente divisi fra il Museo Clemente Rospigliosi e la Collezione della Cassa di Risparmio di Pistoia.

La serie, imponente ed eseguita per lo più in sequenza, come indica l'affinità dei soggetti, delle cornici e della condotta stilistica, compone insieme ricordi romani (da Raffaello, dalla Galleria Farnese, dallo stesso Cortona) aggiornandoli con il gusto morbido e decorato della pittura fiorentina del momento, con infusioni di ombre e arredi preziosi, in una dimensione larvatamente sensuale che richiama la cultura di F. Furini, ma anche l'astrazione idealizzante di Dolci. È da sottolineare il livello complessivamente modesto dell'intera sequenza, per cui è stata avanzata l'ipotesi di un forte contributo di aiuti. Il pezzo più significativo è il grande Ratto delle Sabine, firmato e datato 1654 del Museo Rospigliosi: un singolare mélange di spunti pussiniani e cortoneschi, raccolti a freddo in una garbata quanto statica composizione di taglio teatrale.

Probabilmente dello stesso genere era la serie, perduta, di dodici dipinti di soggetto mitologico e allegorico che risultano posseduti dal principe Mattias de' Medici in un inventario del 1659: una commissione forse procacciata dalla lettera del 1654 che il pittore indirizzò al principe con un disegno di Aci e Galatea, chiedendo lavoro in termini piuttosto patetici: "et la supplico di aiutare la barca, quale se non sarà aiutata dal vento favorevole di V.A. sarà sommersa da crudeli Aquiloni, de' quali in questo passato ne ho trovati molti, et la maggior parte che li Haveva tenuti, et li teneva in luogo di fratelli" (Pini - Milanesi). Le difficoltà e le gelosie professionali spinsero sempre più il pittore in circuiti provinciali, e in questo clima si collocano i tre dipinti realizzati per Fano, di cui una Sacra Famiglia, nel seminario vescovile, datata 1654, e gli affreschi per le cappelle Borsotti e Boccella in S. Agostino a Lucca, del 1657, di un livello estremamente modesto.

Nel frattempo a Roma la fine del pontificato pamphiliano e l'elezione di Alessandro VII Chigi nel 1655 sembravano offrire al G. nuove opportunità professionali. Non solo: nel 1653 era rientrato a Roma dalla Spagna Giulio Rospigliosi, legato da vecchia amicizia al nuovo pontefice, ed ecco il G. riapparire al suo fianco, come indica una lettera di Rospigliosi al fratello del 26 apr. 1655 (Bibl. apost. Vaticana, Vat. lat. 13367, c. 84).

Solo nel 1661, tuttavia, il G. tornò con la famiglia in pianta stabile a Roma nella casa di via Felice, e venne subito coinvolto da Bernini in alcuni cantieri chigiani di periferia. Nel 1661 firmò e datò il quadro con la Gloria di s. Tommaso di Villanova nella berniniana chiesa di Castelgandolfo, affiancando Berrettini e G. Cortese nella realizzazione delle pale d'altare. Per il quadro esiste un pagamento di 25 scudi "in acconto" del 2 marzo 1661, preceduto da una nota scritta di Bernini, quasi un "visto di cantiere" che sottolinea la dipendenza operativa del G. dal grande architetto (Golzio, p. 403). Le tappe dell'elaborazione del quadro sono scandite da due disegni l'uno a Lipsia (Lo Bianco, p. 124) l'altro in collezione privata (Fagiolo dell'Arco, fig. 21) e da un modello nella Galleria nazionale d'arte antica a Roma (Negro, 1997, p. 403). L'opera si pone come primo termine di confronto del pittore con il linguaggio berniniano: gli scorci prospettici e i vortici luminosi non si addicono tuttavia al G. che compone a freddo la sua macchina devozionale, con una visione rigorosamente frontale e un linguaggio così pacato e disegnativo da sconfinare nel rigore purista. Nella stessa temperie stilistica è costruito il S. Tommaso di Villanova che risana uno storpio in S. Maria di Galloro del 1661, e la Morte di s. Antonio Abate nella collegiata di S. Maria Assunta ad Ariccia del 1667 (Mignosi Tantillo, 1990, I, pp. 102 s.; II, p. 74) tutti quadri appartenenti ai cantieri chigiani diretti da Bernini, dove il classicismo integralista del G. appare inevitabilmente superato dal brio e dagli illusionismi di cui sia Cortese sia lo stesso figlio del G., Ludovico, davano prove estremamente brillanti.

Ancora sotto la direzione di Bernini il G. dipinse nel 1664 a Roma, la tela con Eliseo che purifica le acque di Gerico nella cappella Fonseca in S. Lorenzo in Lucina. La scarsa consonanza col barocco più vertiginoso ed eclatante che stava progressivamente affermandosi (stava sorgendo l'astro del Baciccio), lo spinse ad accettare incarichi periferici, come i due austeri dipinti per la collegiata di Lucignano in Val di Chiana, con S. Carlo che assiste gli appestati del 1661 e il Martirio di s. Lucia del 1666.

Il rigore classicista perseguito con costanza per tutto il suo percorso lo rese idoneo a immagini di forte valenza devozionale come erano probabilmente tre stendardi domenicani realizzati per il giubileo del 1675, perduti ma documentati dalle fonti (Chracas, 13 ott. 1725, n. 1278) uno dei quali attraverso un disegno del Courtauld Institute di Londra (Fagiolo dell'Arco, fig. 25). E altrettanto bene il suo stile si prestava a divulgare quelle composizioni allegoriche di significato morale nelle quali un modello insuperato era stato Poussin, grazie anche ai suggerimenti di G. Rospigliosi. Significativo in questo senso è il grande quadro con il Tempo che strappa le ali ad Amore firmato e datato 1664, oggi sul mercato milanese, che si avvicina nel tema all'affresco con l'Allegoria della Verità realizzato in palazzo Cavallerini a Roma in quello stesso anno, già pubblicato da L. Salerno (Il palazzo Cavallerini a via dei Barbieri, in Palatino, VIII [1964], pp. 13 s.). Allo stesso genere appartiene la splendida Allegoria della Fortuna che premia l'Ignoranza e respinge la Virtù già in collezione privata inglese, e acquistata per la Galleria nazionale d'arte antica di Roma, di cui esiste un disegno preparatorio a Boston (Museum of fine arts). Il quadro fu poi riprodotto dal G. in un'incisione del 1672 (Miller, 1986, pp. 446-449) e registrato nell'inventario dopo la morte del pittore. Il dipinto, ricordato da un epigramma di Giovanni Michele Silos (Pinacotheca sive Romana pictura et sculptura libri duo…, Roma 1673, n. 289) si allinea ai numerosi quadri di soggetto morale prodotti nella corte chigiana (si pensi soprattutto alla Fortuna che premia l'Ignoranza di S. Rosa oggi al Getty Museum di Malibu) e sembra adombrare la situazione professionale spesso non felice del pittore, che secondo Pio "ebbe pochissima fortuna".

Relegato ormai a un ruolo di secondo piano, il G. continuava a comporre quadri biblici e di storia per collezionisti anche di gran livello come i Chigi (per i quali realizzò nove "favole" copiate dalla Galleria Farnese per il palazzo di Formello) e probabilmente la regina Cristina di Svezia, donde molti suoi dipinti passarono nella raccolta del cardinale Decio Azzolino (Montanari). Rimase però tagliato fuori dalle maggiori imprese pontificie, e anche le canonizzazioni promosse da G. Rospigliosi, divenuto papa Clemente IX nel 1667, lo videro defilato rispetto al ruolo determinante assunto da L. Baldi, anche lui pistoiese, e dal figlio dello stesso G., Ludovico, assai apprezzato dal nuovo pontefice. Gli restarono incarichi di rilevanza minore o, ancora una volta, periferici, come i cinque dipinti per l'oratorio gesuita di St Jaume a Marsiglia, oggi trasferiti nel Musée des beaux arts, databili orientativamente fra il 1663 e il 1668, come indicano le date apposte a due delle tele, la Comunione della Vergine e l'Adorazione dei magi (Gloton, p. 32), il modesto quadro con il Martirio di s. Sebastiano nella collegiata di S. Stefano a Bracciano del 1669, e i quattro dipinti, assai poveri, di Amelia, dove due figlie del pittore erano monache nel monastero benedettino di S. Magno: un S. Liborio, nel duomo, firmato e datato 1672 e tre tele nella chiesa di S. Michele Arcangelo, fra cui un Arcangelo Michele del 1677.

Anche le numerose opere di Perugia nel convento benedettino di S. Pietro, ebbero una motivazione di carattere personale: qui infatti Alessio, il figlio del G., prese l'abito nel 1677, e in quell'anno è documentata la presenza del pittore nel cenobio. A questi anni risalgono i cinque dipinti che ancora vi si trovano, fra cui un Totila dinanzi a s. Benedetto datato 1676. Opere intonate a un classicismo composto e senza esiti innovativi, che adottò come sempre i più vari spunti, dal Domenichino di Grottaferrata (due Storie dei ss. Mauro e Placido) al rilievo di Bernini per il portico di S. Pietro (Pasce oves meas).

Di questa fase estrema è anche l'ultima impresa decorativa in grande: gli affreschi nell'abside della Madonna dei Monti a Roma, commissionati probabilmente dal pistoiese Michele Pacini, seppellito nella chiesa nel 1676. In un momento di classicismo montante e rinnovato, che vedeva la progressiva e irresistibile affermazione di Maratti e l'uscita delle Vite di Bellori, il G., ormai vecchio, tornò a un classicismo nitido e monumentale che sembra meditare sulla "maniera grande" di Reni, e di Sacchi. Ancor più composta in questo senso è la Cena in Emmaus nel refettorio dei barnabiti presso S. Carlo ai Catinari, ultima opera nota del G., firmata e datata 1678.

Il G. morì a Roma il 9 dic. 1681 e fu seppellito, dopo solenni onoranze, cui parteciparono gli accademici di S. Luca, nella chiesa di S. Andrea delle Fratte. La tomba di famiglia, nella prima cappella a destra, decorata con un S. Michele Arcangelo di Ludovico, era stata voluta dallo stesso G. nel 1667, in occasione della morte della moglie Cecilia Turchi; l'iscrizione, dispersa, è documentata da Pascoli e da Forcella.

Il testamento, datato 19 febbr. 1680, aperto il giorno stesso della morte, lasciava al primogenito Ludovico tutto il mobilio, inclusi i quadri, che si trovavano nella casa di via Felice dove padre e figlio avevano abitato e lavorato con quello scambio di esperienze e di affetti di cui parla Pascoli. Ludovico inoltre terminò alcuni dipinti del padre rimasti incompiuti.

Il 30 dic. 1681 venne redatto l'inventario della casa del pittore, significativo per la lunga sequenza di dipinti di cui molti identificabili grazie al soggetto, come originali o repliche di opere altrimenti documentate. La sua vastissima produzione è, del resto, continuamente soggetta ad aggiunte provenienti dal mercato antiquario.

Quadri del G. sono segnalati dagli inventari di alcune delle più illustri famiglie romane quali i Barberini, i Chigi, i Colonna, i Rospigliosi, i Corsini e gli Albani, sicché a ragione Pio può dire che egli "ha adornato con li suoi belli dipinti le migliori gallerie d'Italia".

Oltre ai prediletti quadri di storia e di devozione, il G. si cimentò anche in dipinti con ampi fondi di paesaggio, nella linea Albani-Domenichino-Grimaldi, come le due tele con Storie del Battista della collezione Corsini di Firenze, databili agli inizi del quinto decennio, o nei due dipinti con Paride e Mercurio e il Giudizio di Paride firmati e datati 1675 in collezione privata (Fagiolo dell'Arco, p. 150). Affrontò talvolta anche il genere delle battaglie, come testimoniano la grande Vittoria di Alessandro su Dario, strettamente condizionata dall'affresco di J. Courtois nella Galleria di Alessandro VII al Quirinale, passata alla Christie's di Roma (3 giugno 1997, lotto 463), e numerosi schizzi.

La sua produzione di disegni è vastissima e suddivisa fra le più importanti collezioni del mondo: nuclei consistenti si trovano soprattutto a Roma (Istituto nazionale per la grafica), Düsseldorf (Kunstmuseum), Lipsia (Museum der Bildenden Künste) e Parigi (Louvre, Cabinet des dessins) e nella Casona de Tudenca presso Santander (Collezione già Del Cossio). In essi come nelle incisioni note (circa una quarantina, in prevalenza derivate da dipinti) il ductus grafico compone le scene per lo più su un unico piano, a bassorilievo, con una diligenza e una ferma definizione dei volumi sostanzialmente povere di vigore inventivo e anche di una marcata evoluzione stilistica.

Un ritratto del G. di mano di Giulio Solimena fa parte della sequenza di disegni raffiguranti artisti, realizzati per illustrare le Vite di Nicolò Pio, oggi al Nationalmuseum di Stoccolma.

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