BRANDI, Giacinto

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 14 (1972)

BRANDI, Giacinto

Antonella Pampalone

Figlio di Giovanni di Vincenzo, nacque a Poli nel 1621 (cfr. Vicariato di Roma, S. Lor. in Lucina, licenze matrimonio, 6 sett. 1640).

Vincenzo, vissuto tra la fine del XVI secolo e la prima metà del XVII, è citato come artista dal Ticozzi, il quale, erroneamente, gli assegna ad allievo Carlo Lamparelli da Spello, scolaro, invece, del nipote Giacinto. A tutt'oggi la sua attività è interamente sconosciuta. Il figlio di lui Giovanni è noto come disegnatore di fregi decorativi e arabeschi. Originario di Firenze, si trasferì molto giovane a Poli, dove è menzionato in un atto notarile del 1617 (Cascioli). Nel 1620 era citato, come ricamatore, in un elenco di artisti decoratori (Bertolotti, 1855). Si stabilì a Roma intorno al 1630 per permettere al figlio Giacinto di frequentare le più importanti scuole di pittura. Qui "fece prove d'uomo eccellente" (Baldinucci), tanto che il 14 ott. 1636 risulta esser stato presente alla seduta dell'Accademia di S. Luca, della quale era entrato a far parte.

Il B., giovanissimo, fu messo dal padre nella bottega dell'Algardi e quindi, nel 1633, in quella di G. G. Sementa. Gli insegnamenti appresi dal pittore bolognese furono utili per lui perché lo indirizzarono in senso definitivo verso l'arte emiliana che, ad opera del Lanfranco, diverrà il sostrato culturale del suo fare (ma del Lanfranco sarà alunno solo per un anno, 1646-47). È lecito supporre che il più lungo apprendistato (sino al 1646) lo abbia compiuto presso il proprio cognato Giovan Battista Magni, modenese, decoratore di fregi e fogliami, accompagnandolo nei suoi giri di lavoro a Roma e a Napoli. Il 19 sett. 1640 il B. aveva sposato Maria Teresa Cagier (Cagieri, Cascieri) dalla quale ebbe numerosissimi figli. Il 1º febbraio del 1647 entrò come sodale nell'Accademia dei Virtuosi al Pantheon e già il 28 dic. 1651 partecipava alle sedute dell'Accademia di S. Luca. È scarsamente nota la produzione dei primi anni: nel 1650 aveva terminato la decorazione su tela, già lodata dai contemporanei, del soffitto di S. Maria in via Lata, e nel 1653 gli venivano rilasciati 153 scudi a saldo degli affreschi con scene mitologiche in due stanze del palazzo Pamphili a piazza Navona (Ragguagli borrominiani, pp. 99s.), per i quali lo stesso Innocenzo X gli conferì il titolo di cavaliere. Sono lavori che esprimono l'educazione lanfranchiana, ma rivelano tutte le possibilità che la vena classica del B. aveva nel trasformarsi in barocca. Impegnato con le commissioni per le chiese di S. Nicolò e S. Benedetto di Fabriano, l'artista si dedicò più intensamente alla produzione su tela, mostrando una certa intelligenza nella scelta delle voci pittoriche più intense e feconde. La Donna col compasso (Roma, Galleria Spada) e l'Ebbrezza di Noè (Roma, Galleria Corsini) lo situano ancora in un clima caravaggesco, sia pur mediato dal Lanfranco, così come la Resurrezione di Gesù (1655) della chiesa di S. Angelo Magno di Ascoli Piceno risente l'influenza del Guercino; ma il Lot e le figlie (Roma, Galleria Corsini) è fondamentale per comprendere l'importanza di un'altra lezione, quella di Mattia Preti che, in quel tempo, era visto con diffidenza dall'ambiente artistico romano. Prima del 1663 (Mola) il pittore eseguì l'opera che segna la sua maturità artistica, i Santiquaranta martiri per la chiesa romana delle Stimmate. Il disegno (Roma, coll. privata) e il bozzetto preparatorio (Ginevra, Musée d'Art et d'Histoire) testimoniano la fusione, attuata in questo dipinto, di tutti i mezzi espressivi acquisiti dal Brandi. Negli anni 1663, '64, '65 risulta assente da Roma (v. Borghini).

La fama raggiunta dopo quest'opera fu tale che l'artista venne considerato tra i primi del suo tempo, come conferma un giudizio di M. Preti il quale, scrivendo nel 1665 a don Antonio Ruffo, collezionista messinese, afferma che, rispetto al Mola, al Ferri e al Maratta, il B. "è più pittore di tutti tre e meglio" (Ruffo, 1916). Tuttavia, nel settimo decennio del secolo, il pittore aderì in maniera sempre più appariscente ai moduli stilistici del barocco, forse più per obbedire ai desideri dei committenti che per uno scadimento della sua vena; molte opere di questo periodo, peraltro, devono riferirsi alla scuola: spesso si tratta di una produzione destinata alla provincia (S. Gregorio in estasi per il duomo di Monte Porzio Catone; Iss. Giacinto e Rocco, per la chiesa di S. Pietro a Poli, ecc.).

Entro il 1666 aveva eseguito la tela per l'altare e la decorazione a fresco nella cripta del duomo di Gaeta che ci rivela la sua posizione di decoratore rispetto alle esigenze barocche; concepisce, infatti, l'opera a fresco (di cui sono andati perduti due ovati del soffitto) secondo il principio del "quadro riportato", sortendo un effetto ibrido, anche se gradevole. Nel 1668 fu eletto principe dell'Accademia di S. Luca. Entro l'anno seguente doveva aver terminato, per la chiesa milanese di S. Maria della Vittoria, il dipinto S. Carlo che comunica gli appestati, uno dei temi più volgarizzati dalla, Chiesa. che il B. realizza in modo ligio alle esigenze pietistiche e secondo i propri canoni espressivi. Lungo tutto l'ottavo decennio del secolo il B. mantenne una produzione ad alto livello, anche se aumentarono le commissioni per le chiese romane, i nobili e i collezionisti (e, fra questi, gli stranieri); ma il prestigio raggiunto era tale da fargli ottenere, già nel 1671, l'incarico di decorare S. Carlo al Corso.

Fra il 1673 e il 1684 diresse tutti i lavori decorativi, compresi gli stucchi, che furono eseguiti su suo disegno; e quando furono scoperti gli affreschi del presbiterio, del transetto (1677: v. Pietro da Cortona, in corso di stampa) e della volta (1679), ebbero gli elogi e i consensi dell'ambiente artistico e culturale: nel catino absidale, dove gli si ripropose il tema di S.Carlo fra gli appestati, trovò un abile partito nel rappresentare la realistica scena - racchiusa entro i bordi figurati di un arazzo - con mezzi illusionistici; al centro della volta, dove dipinse La caduta degli angeli ribelli, il contrasto spaziale e quello coloristico rispondono in pieno ai principi decorativi del tempo.

Tuttavia nel complesso la decorazione riassume la tendenza classica che aveva in Carlo Maratta l'esponente principale. E proprio col Maratta, fra il 1674 e il '77, il B. ebbe a competere, per la tela con il Martirio di s. Biagio in S. Carlo ai Catinari, la cui sostanza cromatica favorisce i giochi luministici e chiaroscurali (Fokker). E la stessa tecnica adottò per le tre tele in S. Andrea al Quirinale, iniziate nel 1675 e condotte a termine, probabilmente, dopo l'80, come si arguisce dal mutamento della tavolozza che, a partire da questa data - per influenza del Baciccia - addolcisce i toni e si fa più luminosa.

Il matrimonio, celebrato il 20 marzo 1681, fra la figlia Maria Isabella (nata nel 1662) e Filippo Roos (Rosa da Tivoli), suo alunno, turbò profondamente il B. che non volle dare il consenso alle nozze, da lui considerate segno di asservimento della cultura cattolica mediterranea a quella nordica e protestante, e di decadimento del prestigio sociale che la sua arte gli aveva procurato. Licenziò la sua scuola e affrontò ormai solo, o quasi, i molti impegni. Il 9 ott. 1680 aveva firmato il contratto per la decorazione della volta di S. Silvestro in Capite. Prescelto per questo lavoro dallo stesso Maratta, il B. si propose nuovamente di colpire la fantasia dello spettatore mediante una scomposizione radiale della figurazione, ispirata alla volta del Gesù del Baciccia. L'effetto ottenuto è però inferiore al risultato che il pittore si era prefisso e, forse per ciò, per la decorazione della chiesa di Gesù e Maria, completata entro il 1686, aderì ancora una volta al sistema di una serie di tele riportate in trompe-l'oeil. Alla fine del 1687 gli fu ordinata una tela con la Fede che scaccia l'eresia per la stanza "delle Famme" nel palazzo reale di Torino (Griseri), finita nel febbraio 1688 (Schede Vesme, III, pp. 976 s.). Quasi al termine della carriera, l'arte del B. si ricollega con le proprie premesse: logica conclusione di un artista eclettico, ma coerente. Nel Martirio di s. Andrea (1685, Roma S. Maria in via Lata) si ritrova lo stesso cromatismo acceso, l'identica qualità della luce e del rilievo fisico dei corpi dei Santi Quaranta delle Stimmate. E questi elementi, fusi in un tono più cupo e sommesso, sono presenti nelle ultime opere del B.: si ricordi, per esempio, La Trinità in S. Francesca Romana. Le sette tele di palazzo Taverna, commissionate dalla famiglia Gabrielli dopo il 1688, si ricollegano con il fregio dipinto quasi quaranta anni prima per il pal. Pamphili di piazza Navona. La loro importanza è fondamentale per chiarire non solo la continuità artistica del B., ma la sostanza del suo barocco.

Rieletto principe dell'Accademia di S. Luca per due anni consecutivi (1684-85), il B. morì tra il 18 e il 19 genn. 1691, all'apice della gloria.

I disegni, conservati a Roma (Gabinetto Nazionale delle Stampe), a Firenze (Gabinetto dei Disegni degli Uffizi), a Venezia (Biblioteca dell'Accademia di Belle Arti), a Vienna (Albertina), a Düsseldorf (Staatliche Kunstakademie) e a Minneapolis (Institute of Arts), ecc., documentano ampiamente l'orientamento del gusto dell'artista e rivelano la sua notevolissima intuizione plastica.

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