GENGA, Gerolamo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 53 (2000)

GENGA, Gerolamo

Monica Grasso

Figlio di Bartolomeo, nacque a Urbino nel 1476 (Vasari; Pungileoni).

Il suo percorso artistico rimane ancora oggi in parte oscuro, poiché la fonte principale per ricostruirne la biografia è tuttora la "vita" vasariana, non priva di lacune e inesattezze cronologiche.

Scarsa è infatti la documentazione, soprattutto riguardo all'attività giovanile essenzialmente pittorica. Inoltre, sono oggi scomparsi alcuni suoi importanti cicli decorativi; poche sono le opere autografe rimaste; e troppe le opere pittoriche sulle quali il dibattito attributivo è rimasto insoluto.

Più verificabile e documentata è l'attività architettonica svolta nella maturità per i duchi di Urbino. Del ruolo di scenografo e ideatore di apparati, svolto presso la stessa corte e ricordato dalle fonti, non rimangono né prove documentarie né testimonianze grafiche. Di una possibile produzione scultorea fa fede per ora solo la testimonianza vasariana, mentre la sua attività di disegnatore e fornitore di modelli per oggetti ornamentali, ugualmente ricordata dalle fonti, sembra essere confermata anche dalla recente attribuzione di alcuni disegni per maioliche (Wilson). Verrebbe così a configurarsi un profilo sempre più ricco e completo di artista rinascimentale, aperto a tutte le espressioni artistiche.

Secondo Vasari, il G. fu istradato a dieci anni dal padre all'arte della lana, ma, avendo manifestato una precoce vocazione artistica, gli fu consentito di dedicarsi invece alla pittura, che apprese presso alcuni imprecisati maestri urbinati "di poco nome" (p. 315).

Primo vero maestro del G. fu, secondo Vasari, Luca Signorelli, presso il quale andò quando aveva quindici anni, quindi verso il 1491. La maggior parte degli studiosi colloca invece questo incontro nel 1494, quando Signorelli era a Urbino per dipingere lo stendardo di S. Lucia. Il G. seguì quindi il maestro nei luoghi dei suoi principali cantieri: a Cortona (dove Signorelli fu nel 1495), nella Marca d'Ancona (forse a Loreto, dove Signorelli fu nel 1496) e a Orvieto (1499-1503), dove si sarebbe particolarmente distinto negli affreschi della cappella di S. Brizio in duomo. I tentativi di individuare la mano del G. nei cantieri signorelliani, compresi quelli non espressamente menzionati da Vasari, come il chiostro di Monteoliveto Maggiore dove Signorelli fu nel 1497-98, sono stati oggetto di lungo dibattito senza trovare una conclusione unanime (Patzak, 1908; Petrioli Tofani, 1968 e 1969).

Sempre secondo Vasari, lasciata la bottega del Signorelli, il G. si trasferì presso la bottega di Pietro Vannucci, detto il Perugino, negli stessi anni in cui vi lavorava Raffaello suo concittadino e amico, rimanendovi circa tre anni e applicandosi soprattutto allo studio della prospettiva. Questo secondo alunnato, non precisabile cronologicamente né confermato da alcun documento, è stato accettato dalla critica poiché è confermato dal linguaggio pittorico del G. e collocato nei primissimi anni del Cinquecento.

La prima data documentata nella biografia del G. è il 1504. Il 4 aprile di questo anno, infatti, Elisabetta Gonzaga, duchessa di Urbino, e il podestà Alessandro Ruggieri, in qualità di esecutori testamentari del vescovo Giampietro Arrivabene, incaricarono il G. e Timoteo Viti della decorazione della cappella dedicata ai Ss. Martino e Tommaso Cantauriense nel duomo di Urbino.

Di tale decorazione rimane solo la pala d'altare del Viti, mentre il ciclo di affreschi è andato distrutto. La collaborazione con Timoteo Viti, di alcuni anni più anziano, continuò anche l'anno seguente, poiché un documento datato al 20 marzo 1505 testimonia che entrambi gli artisti ricevettero un pagamento relativo a un lavoro per il tabernacolo del Ss. Sacramento in duomo, opera ugualmente andata distrutta.

Il 29 marzo 1507, inoltre, il G. stipulò un contratto, ancora al fianco di Timoteo Viti, con i Priori di Urbino per l'esecuzione di un vessillo municipale, di cui non rimane traccia (Alippi).

Secondo Vasari, invece, dopo il soggiorno presso il Perugino, il G. si recò a Firenze dove "studiò tempo assai" (p. 316); quindi si stabilì a Siena per alcuni anni presso Pandolfo Petrucci, al quale decorò diverse stanze del suo palazzo cittadino. Solo alla morte del Petrucci (avvenuta nel 1512) rientrò a Urbino alla corte di Guidubaldo I da Montefeltro, per il quale eseguì alcune bardature per cavalli, nonché gli affreschi della cappella Arrivabene. Questa sequenza cronologica, palesemente in contrasto con i dati storici, poiché Guidubaldo morì nel 1508, è complicata dalla testimonianza di Baldi che ricorda la presenza del G. a Urbino proprio per allestire l'apparato funebre di Guidubaldo I e dalla menzione di Vasari circa la partecipazione del G. anche agli apparati per l'ingresso in Urbino di Eleonora Gonzaga, sposa di Francesco Maria Della Rovere nei festeggiamenti svoltisi tra il 1509 e il 1510 (Vasari; Pinelli-Rossi).

Ma se il soggiorno fiorentino, pur giustificato dal linguaggio pittorico del G., non può essere precisato in alcun modo, e il ritorno a Urbino in questi anni non è suffragato da alcun documento, la presenza del G. a Siena è invece confermata per gli anni 1510-11. Nel 1510, infatti, il G. stimava a Siena un dipinto del Perugino e nel 1511 ricevette il pagamento per la coperta d'organo del duomo e fece da padrino al figlio primogenito di Giovanni Antonio Bazzi, detto il Sodoma (Sricchia Santoro, 1990).

La decorazione di palazzo Petrucci costituisce tuttavia ancora oggi un problema complesso. Innanzitutto perché la decorazione non si trova più in loco e gli affreschi superstiti sono stati per lo più staccati e sono oggi smembrati tra diversi musei, secondariamente perché la critica ha ravvisato nel ciclo anche la partecipazione di Signorelli e di Bernardino di Betto, detto il Pinturicchio, dando inizio a intricate disquisizioni attributive circa i singoli frammenti e, infine, perché ne rimane incerta l'esatta cronologia.

Solitamente se ne colloca l'esecuzione in prossimità del matrimonio tra il figlio di Petrucci e Vittoria Piccolomini avvenuto nel 1509, ma non è stata esclusa l'ipotesi di una realizzazzione in due tempi con un avvio del G. al seguito di Signorelli alla fine del Quattrocento (Petrioli Tofani, 1983; Sricchia Santoro, 1982 e 1990). Il G. avrebbe eseguito in collaborazione con il maestro i due riquadri conservati alla National Gallery di Londra, raffiguranti il Trionfo della Castità e Coriolano fermato da Veturia e Volumnia, mentre interamente di sua mano sarebbero le due scene presso la Pinacoteca di Siena, raffiguranti la Fuga di Enea da Troia e il Figlio di Quinto Fabio Massimo che riscatta da Annibale i prigionieri romani.

Complessivamente la decorazione esprime componenti di cultura umbra e signorelliana, tipica degli anni a cavallo tra la fine del XV e l'inizio del XVI, con riferimenti anche al Perugino del Collegio del cambio. La componente di gusto antiquariale, particolarmente evidente nel Figlio di Quinto Fabio Massimo che riscatta da Annibale i prigionieri romani, ha fatto ipotizzare un soggiorno romano del G. anteriore alla stesura degli affreschi senesi (Sricchia Santoro, 1990).

Assai diversa è la cultura espressa nella Trasfigurazione (Pinacoteca di Siena) dipinta come coperta d'organo per il duomo di Siena nel 1511 e prima opera documentata del G. non andata distrutta, poiché vi appare evidente l'influenza del Perugino e di Raffaello, nonché secondo alcuni del Sodoma. Emerge infatti nella composizione una maggiore padronanza spaziale, una concezione monumentale delle figure e un uso più audace dello scorcio prospettico.

In relazione alla prima attività pittorica del G., compresa tra l'alunnato presso Signorelli e la Trasfigurazione di Siena, sono da segnalare alcuni dipinti intorno ai quali è ancora acceso il dibattito attributivo. Tale è il caso di un gruppo di opere di area marchigiana come l'Annunciazione di S. Domenico a Cagli, gli Evangelisti della tribuna di S. Francesco a Mercatello, la Fascia venatoria del palazzo ducale di Urbino, la cui assegnazione al G. rimane molto dubbia (Fontana, 1981; Colombi Ferretti). Più volte riproposte e con più ampi consensi, sono invece le tavolette di predella del Museo di Altenburg e la Madonna della Misericordia della collezione Douglas Proby, Elton Hall presso Peterborough, che mostrano riferimenti sia al Signorelli sia al Perugino. In particolare, la Madonna della Misericordia potrebbe essere stata eseguita a Urbino, vista la presenza di due copie in area urbinate.

Ancora molto discussa è l'attribuzione al G. del Martirio di s. Sebastiano degli Uffizi di Firenze, secondo alcuni databile al 1505 circa per l'influenza del Perugino e delle novità fiorentine di quegli anni, secondo altri da espungere decisamente dal suo catalogo.

Un gruppo di opere testimonierebbe infine la produzione del G. nel primo decennio del Cinquecento di soggetti devozionali, destinati alla committenza privata, soprattutto variazioni sul tema della Madonna con Bambino e della Sacra Famiglia, vicine alla coeva produzione raffaellesca (Madonna con Bambino e s. Giovannino e Madonna con Bambino, s. Giovannino e s. Antonio da Padova della Pinacoteca di Siena; Madonna con Bambino del Museo civico di Colle Val d'Elsa; Sacra Famiglia del Castello Sforzesco di Milano).

Il 12 sett. 1513 a Cesena, il G. stipulò con i padri agostiniani un contratto di committenza per un polittico destinato alla cappella maggiore della chiesa di S. Agostino e comprendente una tavola centrale con Disputa sulla Immacolata Concezione, una cimasa con Annunciazione, una predella con Storie di s. Agostino e due Beati agostiniani nei pilastrini laterali. La pala non fu terminata prima del 1518 e fu messa in opera solo nel 1520.

La pala di Cesena è la prima vera testimonianza dell'arte del G. al momento in cui raggiunge la maturità stilistica. Andata smembrata durante le spoliazioni napoleoniche, oggi la grande tavola centrale con la Disputa sull'Immacolata Concezione è conservata a Milano alla Pinacoteca di Brera, mentre la cimasa con l'Annunciazione è rimasta in loco. Della predella, la tavoletta con S. Agostino che battezza i catecumeni è conservata all'Accademia Carrara di Bergamo, quella con S. Agostino che distribuisce l'abito dell'Ordine al Columbia, South Carolina Museum of Art, quella con la Vocazione di s. Agostino è in una collezione privata milanese (Colombi Ferretti; Morandotti). Il G. rivela qui una cultura composita ma aggiornatissima agli esiti più recenti dei maestri contemporanei quali Michelangelo e Raffaello che, unita alla concitazione di gesti e panneggi, testimonia un precoce anticlassicismo assai prossimo all'arte di Lorenzo Lotto.

Benché sia da ricordare che il G. nel contratto per il polittico di Cesena affermò di essere "pictore in Fiorenza", nel febbraio 1513 è possibile che il G. fosse alla corte di Urbino per l'allestimento della Calandria di Bernardo Dovizi, detto il Bibbiena, come suggerisce una tradizione culturale che da sempre ha accostato il nome del G. quale scenografo della corte urbinate a questo importante evento, senza tuttavia disporre di alcuna prova documentaria.

Negli anni successivi il soggiorno del G. in Romagna è testimoniato da numerosi documenti: il 27 febbr. 1516 stimava a Rimini un'opera di Gerolamo da Cotignola, il 17 dicembre riceveva a Cesena un primo pagamento per il polittico agostiniano e lo stesso anno risulta attivo nella chiesa di S. Maria del Monte presso Cesena, benché non rimangano tracce dell'opera (Grigioni; Pinelli-Rossi). Nel 1517 due atti notarili ne confermano la presenza a Cesena, mentre nel 1518, oltre a ricevere il 18 marzo il saldo per il polittico, il G. stipulò il 24 aprile un contratto per la decorazione ad affresco della cappella Lombardini in S. Francesco a Forlì, oggi scomparsa. Lo stesso anno acquistò a Cesena un terreno, e gli nacque il figlio Bartolomeo, che diverrà suo collaboratore nelle opere architettoniche della maturità (Pinelli-Rossi). La sua presenza a Cesena è ancora documentata al 6 dic. 1519; mentre il 1° luglio 1522 il pagamento per una tavola eseguita per la famiglia Fattiboni di Cesena e oggi scomparsa, venne riscosso dal fratello Agostino, circostanza che dimostra l'assenza del G. dalla città.

Secondo Vasari questo lungo soggiorno coinciderebbe con l'esilio mantovano del duca Francesco Maria Della Rovere, costretto nel 1516 a lasciare il Ducato di Urbino, al quale il G. avrebbe così testimoniato la sua fedeltà.

Solitamente avvicinata al soggiorno romagnolo è la Sacra Famiglia del Musée des beaux-arts di Nantes, abbastanza concordemente attribuita al G. anche in base al disegno preparatorio del Musée Condé di Chantilly (Colombi Ferretti). Più problematica l'assegnazione al G. della cosiddetta "Stufa di ignudi", in realtà una michelangiolesca Lavanda dei piedi conservata al Musée des beaux-arts di Strasburgo. Terminati i lavori in Romagna, dove è ancora presente nel 1519, abbiamo una lacuna di circa tre anni fino al 1522, quando il G. tornò a Urbino da Roma, latore di una lettera per il duca Francesco Maria Della Rovere, che aveva nel frattempo recuperato il suo Ducato. È forse da inserire in questi anni l'esecuzione della pala romana con Resurrezione di Cristo commissionatagli da Agostino Chigi per la chiesa di S. Caterina da Siena in via Giulia della neonata Arciconfraternita dei Senesi.

Le vicende costruttive della chiesa, che non si ritiene sia stata iniziata prima del 1519, e il linguaggio dell'opera rendono verosimile una datazione agli anni 1520-22 circa, benché non siano mancate le proposte di posticiparla al quarto decennio del Cinquecento (Petrioli Tofani, 1968). L'opera è l'unica firmata dal G. e se ne conoscono disegni preparatori alla Galleria nazionale di Oslo e alla National Gallery of Scotland di Edimburgo. La complessa costruzione prospettica basata su un incrocio di diagonali, l'ampio uso dello scorcio, i violenti contrasti luministici testimoniano l'abbandono della struttura tradizionale ancora presente nella pala di Cesena. Evidenti i riferimenti alle ultime opere di Raffaello e alle sperimentazioni dei manieristi toscani. Alla Resurrezione di Cristo è stato avvicinato cronologicamente lo Sposalizio mistico di s. Caterina della Galleria nazionale d'arte antica di Palazzo Barberini a Roma. L'opera, abbastanza concordemente attribuita al G. anche sulla base dei disegni preparatori, mostra un linguaggio ancora più composito viste le suggestioni nordiche evidenti nell'interno domestico (Colombi Ferretti; Cordellier).

Apparentemente così conclusa la sua attività pittorica, il G. dal 1522 fino alla data della sua morte svolse per circa trent'anni l'attività di architetto alla corte ducale di Urbino, prima per Francesco Maria e la sua sposa Eleonora Gonzaga, poi alla morte del duca, per il figlio Guidubaldo II Della Rovere. Si tratterà di poche fabbriche ex novo e di molti interventi in fabbriche preesistenti, per lo più quattrocentesche, interventi di restauro, ampliamento o abbellimento delle diverse residenze ducali, spesso oggi alterati dai successivi rifacimenti. Tra i primi lavori vi sono quelli nelle residenze di Pesaro, Fossombrone e Urbino. Per provvedere alla ricerca di marmi pregiati da impiegarsi nell'abbellimento delle dimore ducali, il G. venne inviato a Roma nel 1523, occasione nella quale ebbe frequenti contatti con Sigismondo Chigi.

Nel palazzo di Pesaro il G. ripristinò gli appartamenti ducali, negli anni 1523-31 circa; inoltre gli sono stati ascritti il progetto del cortile d'onore e della loggia prospiciente il giardino segreto, forse completati dal figlio Bartolomeo (Pinelli-Rossi; Eiche, 1998).

Le migliorie apportate alla residenza di Fossombrone, documentate negli anni 1528-38, sono oggi oggetto di dibattito poiché assai alterate da modifiche successive (Pinelli-Rossi).

Di minore entità dovettero essere gli interventi nel palazzo di Urbino. Vasari cita la costruzione di un corridoio di congiunzione tra gli appartamenti dei duchi, lungo il giardino pensile, più probabilmente solo un rifacimento di un corridoio già esistente. A questo alcuni aggiungono anche la sistemazione della terrazza del Gallo (Vasari; Pinelli-Rossi).

In occasione del carnevale del 1527 il G. si dedicò anche alla confezione di alcuni costumi per il giovane Guidubaldo. Non è possibile invece collocare cronologicamente, né collegare a un preciso spettacolo, la famosa "scena satirica" descritta con ammirazione da Sebastiano Serlio, allestita dal G. comunque durante il ducato di Francesco Maria (Pinelli-Rossi). A riprova della sua gratitudine, inoltre, il duca concesse al G. nel 1528 il possedimento della Montagna di Casteldelci, confermato nel 1539 dal figlio Guidubaldo II (Lombardi).

Probabilmente verso il 1529 il G. iniziò il grande impegno della sistemazione della villa Sforza detta Imperiale, presso Pesaro. Provvide all'adeguamento degli appartamenti ducali e diresse la decorazione ad affresco delle sale, affidata per l'esecuzione a una équipe di pittori, tra i quali Francesco Menzocchi, Raffaellino del Colle, Angiolo Bronzino, Dosso e Battista Dossi. I lavori dovettero concludersi nel 1532 circa.

Rimane controverso il ruolo svolto dal G. nella decorazione: per alcuni egli fornì disegni e cartoni ed eseguì direttamente alcuni brani di affreschi, tra i quali il Giuramento di Sermide, nella volta della stanza omonima, per il quale è noto un disegno preparatorio. Per altri, invece, il G. si limitò a organizzare il lavoro e fu coinvolto direttamente solo nell'ideazione delle componenti architettoniche della decorazione, quali le partizioni illusionistiche e i fastigi ornamentali di gusto teatrale. Ma al di là della complessa questione attributiva dei singoli affreschi, alterati inoltre da una ridipintura ottocentesca, la decorazione dell'Imperiale esprime una cultura figurativa aggiornata sugli esiti romani della scuola di Raffaello e sull'opera di Baldassarre Peruzzi alla Farnesina, aggiungendo una personale rielaborazione di questi modelli in senso più scenografico, paesistico e di raffinato gusto antiquariale, tanto da divenire un insostituibile punto di riferimento per decorazioni simili dei secoli successivi.

Terminati o quasi i lavori nella villa Sforza, il G. si accinse, per espressa commissione della duchessa Eleonora, alla edificazione di un nuovo fabbricato collegato da un passaggio alla antica villa Sforza e definito come villa Rovere o Imperiale nuova.

I lavori si protrassero fino al 1541 e forse oltre per gli interventi decorativi e la sistemazione dei giardini. Il G. è qui alla sua prima fabbrica ex novo e al suo massimo raggiungimento architettonico. L'Imperiale nuova si snoda scenograficamente su diversi livelli, memore dei grandi esempi del Belvedere bramantesco e della villa Madama di Raffaello così come degli esempi antichi come la basilica di Massenzio o le aule termali. I riferimenti sono però rielaborati con un linguaggio personalissimo che sfrutta al meglio le possibilità decorative del cotto, con una fantasia di stampo davvero manierista.

Per quasi tutto il decennio compreso tra il 1532 e il 1542, il G. si dedicò anche a una serie di interventi architettonici minori nel territorio del Ducato, non tutti oggi facilmente identificabili. A Castel Durante (Urbania) la testimonianza di Vasari ricorda i suoi lavori di restauro nel palazzo ducale, testimoniati anche da alcuni documenti, ma discussi quanto alla precisa individuazione nell'assetto attuale dell'edificio molto rimaneggiato (Pinelli-Rossi).

Negli anni 1532-36 nella stessa Castel Durante intervenne probabilmente anche nel "barco", sorta di casino di caccia del duca, oggi totalmente trasformato (ibid.). Ricordato con grande ammirazione da Vasari è invece il barco di Pesaro (oggi scomparso), nel quale il G. costruì una casa in foggia di finta rovina e una scala, o piuttosto una esedra, di ispirazione bramantesca (Vasari-Milanesi). A Montebaroccio intervenne nel convento del Beato Sante e a Sant'Angelo in Vado nella villa detta il Palazzetto (Pinelli-Rossi).

Vasari ricorda anche l'intervento del G. in S. Maria delle Grazie a Senigallia, rimasto interrotto per la morte di Francesco Maria, avviato quindi prima del 1538, anno della sua morte. I rimaneggiamenti subiti dall'edificio non consentono comunque una valutazione. Anche nella Rocca di Gradara, pure menzionata da Vasari, non è possibile accertare precisi interventi, che non dovettero essere di grande entità; mentre per la chiesa di S. Giovanni Battista, sempre a Gradara, l'attribuzione è motivata solo da un confronto stilistico con il S. Giovanni Battista di Pesaro (Vasari; Pinelli-Rossi).

Solitamente sono attribuiti al G. anche gli apparati funebri allestiti nel duomo di Urbino per la morte di Francesco Maria Della Rovere nel 1538. Alla morte del duca, il G. rimase al servizio del figlio Guidubaldo II e, secondo Vasari, progettò con B. Ammannati la tomba del duca scomparso, nella chiesa di S. Chiara a Urbino. Si tratta di uno degli interventi più discussi del G., poiché mentre alcuni hanno esteso la sua opera anche all'architettura della chiesa, altri hanno negato perfino la paternità del monumento o di ciò che ne rimane (ibid.).

Il nuovo duca consultò il G. anche riguardo a problemi di ingegneria militare, come la fortificazione di Pesaro, di cui il G. diresse brevemente i lavori nel 1538 e nel 1540.

Nel 1539 Marco Vigeri, vescovo di Senigallia e amico del G., essendo allora anche governatore di Bologna, propose ai Quaranta di far eseguire al G. un progetto per la facciata di S. Petronio. Non potendo recarsi personalmente a Bologna, il G. incaricò il figlio Bartolomeo e il genero G.B. Belluzzi di eseguire sul posto i necessari rilievi. Di tale progetto non è mai stata ritrovata alcuna traccia.

Per lo stesso vescovo Vigeri il G. eseguì anche un progetto per il duomo di Senigallia, di cui non è possibile verificare l'applicazione nell'edificio, troppo alterato da rifacimenti moderni. Ugualmente difficile da precisare, oggi, l'intervento, documentato all'anno 1543, nel palazzo comunale di Castel Durante (Pinelli-Rossi).

Nello stesso 1543, il G. avviò l'impresa architettonica più importante del suo ultimo decennio: la chiesa di S. Giovanni Battista a Pesaro, la cui costruzione ex novo fu voluta da Guidubaldo II.

Rimasta incompiuta alla morte del G., il duca ne affidò il cantiere al figlio Bartolomeo con l'ordine di seguire il modello paterno; ma neanche Bartolomeo, morto prematuramente nel 1558, riuscì a completarla. Oggi la chiesa appare visibilmente incompiuta nella facciata e nella fiancata, prive dei rivestimenti previsti, così come nell'interno a cui manca la finitura decorativa, interno inoltre alterato da modifiche successive. Rimane chiara comunque l'impostazione spaziale di grande monumentalità, elaborata a partire dal modulo quadrato con calcolati rapporti proporzionali. La planimetria unisce l'impianto basilicale con il forte sviluppo della zona absidale, riprendendo il tema dell'unione tra pianta centrale e longitudinale, già sviluppato da Francesco di Giorgio Martini ed estremamente attuale dopo i progetti di D. Bramante e di Raffaello per il nuovo S. Pietro. La facciata mostra invece l'influenza di L.B. Alberti, nei riferimenti alla facciata di S. Maria Novella e del Tempio Malatestiano (Pinelli-Rossi; Groblewski).

Ancora un progetto destinato all'edilizia sacra è quello per il duomo di Mantova, che richiese al G. nel 1548 il cardinale Ercole Gonzaga, fratello della duchessa Eleonora. Non ne rimane traccia, se non nelle fonti, anche se non è da escludere che il progetto del G. abbia influenzato una fase dei lavori (Pinelli-Rossi).

Non è improbabile che il G. abbia ancora diretto l'allestimento degli apparati in onore del secondo matrimonio di Guidubaldo II con Vittoria Farnese nel 1548, a cui parteciparono il figlio Bartolomeo e Battista Franco. Nonostante la prevalenza dell'attività architettonica nei suoi ultimi anni, Vasari ricorda come il G. volle ancora esprimere la sua passione per la pittura disegnando una Conversione di s. Paolo, tema iconografico divenuto un vero banco di prova della cultura manierista.

Il G. morì nella sua villa, a Le Valle presso Urbino, nel 1551.

Nel testamento, redatto una prima volta il 5 maggio 1547 e una seconda volta poco prima della morte il 28 giugno 1551, lasciò eredi i due figli Bartolomeo e Raffaello. La figlia Giulia aveva sposato l'architetto militare G.B. Belluzzi ed era forse già morta a questa data. Il G. fu sepolto nel duomo di Urbino nella cappella di S. Martino, come testimoniava una epigrafe in loco.

Fonti e Bibl.: G.B. Belluzzi, Diario autobiografico (1535-1541), a cura di P. Egidi, Napoli 1907, pp. 67, 73, 77, 89 s., 120-122, 136; G. Vasari, Le vite… (1568), a cura di G. Milanesi, V, Firenze 1880, pp. 99 s.; VI, ibid. 1881, pp. 315-322, 492-499; A. Lazzari, Memorie di G. e Bartolomeo Genga, Urbino 1800; L. Pungileoni, Elogio storico di Timoteo Viti, Urbino 1835, pp. 74-81; A. Alippi, Spigolature di archivio, in Il Raffaello, XII (1880), 5, pp. 69 s.; B. Patzak, Die Renaissance und Barokvilla in Italien, III, Die Villa Imperiale bei Pesaro, Leipzig 1908; C. Grigioni, Un secolo di operosità artistica nella chiesa di S. Maria del Monte presso Cesena, in Rassegna bibliografica dell'arte italiana, XVII (1914), pp. 17 s.; B. Patzak, in U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XII, Leipzig 1920, pp. 386-389, s.v.G., Girolamo; A. Venturi, Storia dell'arte italiana, IX, Milano 1932, pp. 597-606; XI, ibid. 1938, pp. 864-880; P. Rotondi, Il palazzo ducale di Urbino, I, Urbino 1950, pp. 392 s.; A.M. Petrioli Tofani, La "Resurrezione" del G. in S. Caterina a strada Giulia, in Paragone, XV (1964), 177, pp. 48-58; Id., Una predella giovanile di G. G., in Festschrift Ulrich Middeldorf, Berlin 1968, pp. 206-212; Id., Per G. G., in Paragone, XX (1969), 229, pp. 18-36; Id., Per G. G., II, ibid., 231, pp. 39-56; A. Pinelli - O. Rossi, G. architetto, Roma 1971 (con ampia bibliografia e regesto dei documenti); M. Groblewski, Die Kirche S. Giovanni Battista in Pesaro von G. G. (tesi di dottorato, Università di Ratisbona, 1975), Regensburg 1976; W. Fontana, Scoperte e studi sul G. pittore, Urbino 1981; Itinerari rovereschi nel Ducato di Urbino, Urbino 1981, ad indicem; F. Sricchia Santoro, Ricerche senesi, II, Il palazzo del magnifico Pandolfo Petrucci, in Prospettiva, 1982, n. 29, pp. 24-31; A.M. Petrioli Tofani, in Urbino e le Marche prima e dopo Raffaello (catal.), a cura di M.G. Ciardi Dupré Dal Poggetto - P. Dal Poggetto, Firenze 1983, pp. 355-358, 362 s.; W. Fontana, ibid., pp. 359-362, 363-365; A. Colombi Ferretti, G. G. e l'altare di S. Agostino a Cesena, Bologna 1985 (con ampia bibliografia); G. Dassori, La chiesa di S. Giovanni Battista, in L'isauro e la foglia, Pesaro-Urbino 1986, pp. 272-299; L. Arcangeli, G., Girolamo, in La pittura in Italia. Il Cinquecento, Milano 1988, II, pp. 724 s.; F. Sricchia Santoro, G. G., in Domenico Beccafumi e il suo tempo (catal.), Milano 1990, pp. 254-265; T. Wilson, G. G., designer for maiolica?, in Italian Renaissance pottery, London 1991, pp. 157-165; S. Eiche, G. G. the architect: an inquiry into his background, in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, XXXV (1991), 2-3, pp. 317-323; Id., A prologue to the Villa Imperiale frescoes, in Notizie da Palazzo Albani, XX (1991), 1-2, pp. 99-119; D. Cordellier, in L'oeil du connaisseur. Hommage à Philip Pouncey, Paris 1992, pp. 45-48; F.V. Lombardi, G. G. (1476-1551). Conferenza del 4 ag. 1991, Villa Verucchio 1992; A. Morandotti, G. Genga. Disputa sull'Immacolata Concezione, in La Pinacoteca di Brera. Scuole dell'Italia centrale e meridionale, Milano 1992, pp. 126-131; Id., G. G. negli anni della pala di S. Agostino a Cesena, in Studi di storia dell'arte, 1993, 4, pp. 275-290; F. Todini, Una "Sacra Famiglia" di G. G., ibid., pp. 291-294; P. Persi - R. Sartori, Ville e grandi residenze nell'Urbinate e nell'alto Metauro, Urbino 1995, pp. 75, 78 s., 104; F. Mariano, Architettura nelle Marche. Dall'età classica al liberty, Fiesole 1995, ad ind.; M.R. Valazzi, La città dei duchi, in Pesaro nell'età dei Della Rovere, Venezia 1998, pp. 196, 198-200; T. Scalesse, Le fortificazioni roveresche, ibid., p. 214; S. Eiche, I Della Rovere mecenati dell'architettura, ibid., pp. 231-263.

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