CARDANO, Gerolamo

Enciclopedia Italiana (1930)

CARDANO, Gerolamo

Ettore CARRUCCIO
Giovanni Vidari

Nato in Pavia il 24 settembre 1501 (secondo il Bertolotti, nel 1506), morto in Roma il 21 settembre 1576, fu uno degl'intelletti più forti e insieme degli spiriti più bizzarri del Cinquecento italiano. Figlio illegittimo del giurista milanese Fazio (1445-1524), che coltivò con interesse anche gli studî matematici, ebbe un'infanzia e una fanciullezza travagliose e sventurate, fra le intermittenti cure paterne e i maltrattamenti della madre; avviato agli studî di grammatica, aritmetica, astrologia, dialettica a Pavia e a Milano, li compì poi a Padova (1524-25), centro allora fervidissimo di studî filosofici e di dispute accese fra neoplatonici, aristoielici e averroisti. Nominatovi dapprima rettore della Universitas artistarum, poi dottore in medicina, il C. condusse una vita varia ed errabonda fra Padova e Milano fino al 1534, quando da Filippo Archinto fu incaricato d'insegnare geometria, aritmetica e astronomia nelle scuole palatine. Da allora, cominciò la sua celebrità: specie per la disputa con Niccolò Tartaglia sulla formula di risoluzione delle equazioni cubiche.

Tale formula (v. algebra, n. 38), detta anche oggi cardanica, scoperta da Scipione dal Ferro, era stata poi ritrovata dal Tartaglia che l'aveva confidata al C. sotto il suggello del segreto (1539), espressa mediante oscure terzine. Ma il C., ricostruita la dimostrazione e addentratosi nello studio del casus irreducibilis, credette, attribuendo al Tartaglia quel che gli spettava, di potere rivelare il segreto nell'Ars Magna (Norimberga 1545) dove fu pubblicata per la prima volta anche la risoluzione algebrica delle equazioni di 4° grado, scoperta dal discepolo del C., Ludovico Ferrari. Il C. ha visto anche l'altro lato del problema di risolvere le equazioni: non solo la risoluzione algebrica ma anche la risoluzione numerica (v. Ars Magna, cap. 38, DeRegula aurea, in Opera omnia, IV, p. 273). Ivi s'insegna la risoluzione delle equazioni di qualunque grado (in C. 3° e 4°), e in particolare l'estrazione delle radici col metodo delle parti proporzionali. Il C. vede benissimo che per iteratas operationes semper propinquius licet accedere alle radici cercate. (L'importanza di questa scoperta del C. era stata rilevata da P. Cossali in Origine e trasporto in Italia dell'Algebra. II, Parma 1797, p. 316, e Genocchi in Ann. di mat. n. 1855, p. 166; v. approssimazione, 1v).

Dopo l'Ars Magna, il C. pubblicò altri importanti scritti matematici, come l'Opus novum de proportionibus e la Regula Aliza (Basilea 1570). Con la fama di grande matematico si univa quella di grande medico: operazioni e cure, che avevano un po' del miracoloso e che erano, in verità, esaltate da lui con un tono di mago e di taumaturgo, gli avevano creato una rinomanza mondiale, tanto che veniva chiamato nel 1556 alla corte di re Cristiano III di Danimarca, dove però non volle recarsi, e pochi anni dopo a Edimburgo dall'arcivescovo G. Hamilton, dove infatti si recò, sostando a Parigi e, nel ritorno, a Londra, dove fu trattenuto e colmato di donì da re Edoardo VI.

L'ultima parte della vita del C. fu invece contrassegnata da sventure e persecuzioni. La condotta delittuosa e poi la condanna a morte del figlio primogenito; le ribalderie dell'altro figlio, unico rimastogli, le denigrazioni e calunnie di avversarî e nemici gli conturbarono la vita prima a Pavia e a Milano, poi a Bologna, dove si era trasferito nel 1562, e dove anche, forse per accusa di tendenze eretiche, subì per qualche mese la prigionia. Trascorse gli anni dal 1571 alla morte in Roma, dove il pontefice Gregorio XIII gli aveva assegnato una pensione.

Le opere del C. sono quasi tutte scritte in latino, e trattano di matematica, astronomia, fisica, medicina, musica, filosofia. In esse il sapere medievale circa la costituzione del mondo e le credenze superstiziose circa le proprietà occulte della materia, le simpatie fra i corpi e la possibilità degli oroscopi e vaticinî, hanno indubbiamente una grandissima parte; tuttavia sono anche in esse i segni evidenti di una mente che si sforzava di verificare o criticare o correggere sulla base della propria esperienza e riflessione quell'ammasso di credenze e di teorie; e che intuiva spesso in problemi particolari, metodi di ricerca e soluzioni più o meglio fondate delle tradizionali: p. es., in fisica sono memorabili, oltre l'anello di sospensione che porta il suo nome, le sue ricerche per determinare i rapporti di densità di alcuni corpi in base alla loro diversa rifrazione o alla diversa resistenza opposta ai proiettili, le sue osservazioni circa la resistenza del mezzo nella velocità dei corpi lanciati, la sua dimostrazione dell'impossibilità del moto perpetuo; in chimica, egli ebbe chiare intuizioni dell'ossigeno e dell'acido carbonico; in geologia, diede, in opposizione alle fantasticherie medievali, una giusta spiegazione delle conchiglie ritrovate sulle montagne; in psicologia pedagogica sono note le felici osservazioni di lui circa la possibilità di educare ciechi e sordomuti (De utilitate ex adversis capienda, De subtilitate, XIV e XVII).

Nel campo della filosofia il C. ha nel suo secolo una posizione propria, che si potrebbe dire media fra quella del Telesio e quella del Bruno. Rimane bensì ancora invischiato nella terminologia aristotelica, come appare dalla sua maggiore opera filosofica, il De subtilitate (Basilea 1547 2ª ed. 1664, ripubbl. nel vol. III delle Opere), vera enciclopedia scientifica del tempo, e dall'altra, che in certo modo riproduce la prima, De rerum varietate (Basilea, 1557); ma anche si professa pronto ad abbandonare, per amore della verità, Aristotele e si appella spesso, nel confutarlo, all'esperimento (De Subtil., II). Quindi lo abbandona nella dottrina della forma, che per lui si riduce all'aspetto particolare dei corpi; in quella della materia, che per lui non è più pura e semplice potenza, bensì atto essa stessa; in quella delle proprietà della materia, che per lui sono riducibili a due, caldo e umido, essendo il freddo e il secco semplici privazioni; in quella degli elementi, che per lui sono tre, aria, terra, acqua, essendo il fuoco un accidente o un modo d'essere della materia (De subtil., II). Ma al di sotto di tutte le disputazioni aristoteliche e delle varie tesi fra le quali egli si dibatte, ferveva nell'animo del C. il concetto dell'animazione universale, dalle pietre e dai metalli fino alle piante e all'uomo (De subtil., II; De natura, 296). Che se egli afferma ancora che la terra è immobile al centro del mondo (De subtil., II), e si attiene in massima alla visione antropocentrica, pure dice esplicitamente che si può dubitare se ci sia nell'universo un fine (De natura, 292), e cerca di spiegare i fenomeni per vie e cause naturali. Nell'uomo distingue la mens, che è eterna, che non laborat quia in tempore non est, dall'intelletto che è res ipsa quae intelligitur (De subtil., XIV). Ma la cognizione umana, legata com'è ai sensi, non può attingere la sostanza delle cose, e vaga soltanto intorno a esse con similitudini e misure. Invece nelle conoscenze matematiche l'intelletto s'identifica veramente con la cosa conosciuta, perché esso stesso la crea: scientia mentis, quae res facit, est quasi ipsa res, velut in humanis scientia trigoni, quod habeat tres angulos duobus rectis aequales, eadem ferme est ipsi veritati: unde patet naturalem scientiam alterius generis esse a vera scientia in nobis (De arcanis aeternitatis, cap. IV). In questa proposizione il Fiorentino (B. Telesio, I, Firenze 1874, p. 212) vede intuito "il fondamento della filosofia moderna, del quale il Vico fu il primo banditore... In C. esso si mostra la prima volta solo a proposito della matematica". Un tale intelletto, che s'identifica con la cosa creata, si direbbe l'essenza di Dio; ma il C., riferendosi forse al coníronto con l'intelletto umano dice: "Dio è qualcosa di assai più alto, più beato, più potente, più degno. Dio non può essere conosciuto: se io lo conoscessi, sarei Dio stesso" (De subtil., XXI).

Acute osservazioni di psicologia morale, come quella che attribuisce al piacere un'origine negativa, dal suo contrasto con il dolore, si trovano sparse nelle sue opere; ma quella fra tutte che ancora oggi è degna di essere letta è l'autobiografia, che egli scrisse negli ultimi anni di vita: soprattutto per la franca schiettezza, rasentante talora il cinismo, onde parla di sé e dei suoi errori, delle sue sventure e debolezze. Da essa appaiono alcuni tratti, che si potrebbero dire patologici, della sua costituzione morale: la sua credenza in un demone che lo assisteva; il godimento che egli provava nel sottoporsi a fisiche torture, come quando, in momenti difficili, si percuoteva con una verga le gambe o si mordeva l'avambraccio sinistro, l'esagerazione evidente con cui denuncia il suo amore sfrenato del gioco, il suo abito del simulare e dissimulare.

Ediz.: Opera Omnia (Lione 1663, voll. 10). L'Autobiografia è stata tradotta, non molto bene, da V. Mantovani (Milano 1821, rist. 1922).

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