Germania

Dizionario di Storia (2010)

Germania


Stato dell’Europa centrale il cui nome, Germania (ossia «Paese dei germani»), fu dato originariamente dai romani ai territori della provincia Belgica nei quali si erano insediati popoli provenienti dalla destra del Reno (condrusi, eburoni ecc.), detti germani. Cesare estese il nome a tutti i territori abitati da popolazioni di quello stesso ceppo. Il nome Deutschland appare invece per la prima volta nella forma Dütisklant nella Kaiserkronik, componimento poetico del 1150, e significa «Paese tedesco» (deutsch deriva dall’antico tedesco diot, gotico thiuda, «popolo»).

Le premesse antiche e altomedievali

La conquista romana fornì una prima sistemazione territoriale della G. occidentale. Durante il regno di Augusto fu sottomessa la regione compresa tra Reno ed Elba. La ribellione di una lega di popoli germanici provocò però la ritirata romana molto più a O, nella G. renana. Sotto Tiberio o Domiziano, i territori soggetti all’impero furono organizzati nelle due province della Germania inferior (capitale Colonia) e superior (capitale Magonza). La prima arrivava fino al mare e si estendeva quasi tutta a O del Reno, mentre la seconda comprendeva una zona a E del fiume (Agri decumates); il confine fu poi fortificato (limes) collegando Reno e Danubio. A partire dal 2° sec. la pressione delle popolazioni germaniche si fece più massiccia e il confine fu più volte minacciato, finché nel corso del 4° sec. le due province furono occupate dai germani, che nel 406 dilagarono in Gallia e in Spagna. I franchi, dominatori della Gallia, intervennero poi nella vita politica della G., instaurando con Clodoveo il loro dominio politico sugli alamanni nell’attuale Franconia e nella Svizzera occidentale (496). Nel 551 anche il vasto regno dei turingi fu sottomesso dai franchi, che nel secolo successivo esercitarono con Dagoberto un’egemonia su tutta l’area germanica. Alla morte nel 638 di Dagoberto, il regno franco, piombato in un lungo periodo di disordini, allentò la presa. Nel corso del 7° e dell’8° sec. il cristianesimo penetrò nell’area germanica per opera di missionari celti e anglosassoni. La cristianizzazione riaprì la strada alla penetrazione dei franchi, nel frattempo riorganizzatisi sotto la dinastia dei Pipinidi, poi detti Carolingi. Carlomagno, grazie a una lunghissima serie di guerre (772-799), sottomise la Sassonia convertendola con la forza e anche il resto della G. cadde sotto il dominio franco. Ciò significò anche l’introduzione delle istituzioni vassallatico-beneficiarie, dalle quali, nei secoli centrali del Medioevo, si sarebbe sviluppata la futura struttura feudale del regno germanico. La G. entrò dunque a far parte dell’impero carolingio (800), seguendone le sorti politiche, finché i primi segni di disgregazione di questo non le permisero di assumere una configurazione autonoma. A Verdun (843) i figli di Ludovico il Pio si divisero l’impero: il regno dei franchi orientali (la G.) spettò a Ludovico il Germanico. Nell’870, a Meersen, l’individualità politica della G. fu confermata, anche se nominalmente essa faceva ancora parte dell’impero, la cui corona spettò nell’881 proprio al re dei franchi orientali, Carlo III il Grosso. Incapace di far fronte alle incursioni vichinghe, Carlo fu deposto nell’887; come re di G. gli successe Arnolfo di Carinzia, imparentato con i Carolingi. Di fatto l’impero carolingio era finito, anche se lo stesso Arnolfo prese per breve tempo la corona imperiale.

Figura

L’età degli Ottoni e dei Sali

Fondamento dell’organizzazione territoriale della G. erano i 5 grandi ducati a base etnica, Sassonia, Baviera, Turingia, Svevia e Franconia, governati da stirpi ducali ereditarie. La monarchia, estintosi il ramo orientale dei Carolingi, era tornata elettiva ed era nelle mani dei duchi. Alla morte di Arnolfo furono eletti re prima Corrado di Franconia (911), poi Enrico di Sassonia (919). Enrico I ottenne grandi successi esterni a O inglobando al regno la Lotaringia, strappata alla Francia, e vincendo a E i vendi. I confini del regno giunsero così a comprendere il Brandeburgo. La necessità di difendersi dagli attacchi degli slavi e degli ungari spinse Enrico a promuovere la costruzione di una linea difensiva di castelli. All’interno, egli sottomise i duchi al potere regio, costringendoli ad accettare la successione al trono del figlio Ottone I (936-973). La politica di quest’ultimo fu diretta a contenere la minaccia degli ungari e a dare incremento alla colonizzazione delle terre slave nell’attuale G. orientale. La sua politica espansionistica lo portò poi a impadronirsi del regno italico, la cui corona egli assunse nel 951; consolidò il suo potere nei confronti dei ducati etnici stroncando numerose rivolte e assegnando i ducati stessi a membri della famiglia. Per creare un contrappeso alla potenza dell’aristocrazia, conferì ai vescovi poteri secolari. Nel 962, Ottone fu incoronato imperatore; il suo impero si fondava su un asse italo-tedesco, che avrebbe rappresentato il nucleo del potere imperiale per tutto il Medioevo. Ottone II (973-983) subì rovesci sia in Italia meridionale sia da parte degli slavi, la cui ribellione fece perdere ai tedeschi il controllo del territorio tra Elba e Oder (983). Suo figlio Ottone III (983-1002) concepì il progetto di una renovatio imperii Romanorum costruita sulla stretta collaborazione con il papato, ma i suoi progetti naufragarono per l’opposizione interna tedesca e per quella stessa dei romani. L’imperatore morì poco dopo, e l’elezione di suo cugino Enrico II (1002-24) rappresentò un momento di ripiegamento sui problemi tedeschi. Alla morte di Enrico il trono passò a Corrado II di Franconia (1024-39), con uno spostamento dell’asse politico tedesco verso le regioni renane, rafforzato dall’annessione – per via ereditaria – del regno di Borgogna (1033). Nei confronti del regno d’Italia, invece, Corrado si segnalò per i tentativi di intervento nella Pianura Padana, dove la crescita del fenomeno cittadino cominciava a spiazzare il potere regio e imperiale. Maggiore respiro ebbe l’azione politica di Enrico III (1039-56), che con il sinodo di Sutri (1046) depose i tre papi espressione della nobiltà romana imponendo il suo candidato, Clemente II, che lo incoronò imperatore nel 1047. Polonia, Boemia e Ungheria furono in vario modo sottomesse all’autorità imperiale tedesca. Enrico si trovò tuttavia di fronte a una vasta rivolta guidata dalla nobiltà feudale tedesca nei territori occidentali dell’impero negli anni 1047-49. Enrico IV (1056-1106), uscito dalla minorità nel 1065, dovette affrontare la rinnovata potenza della grande feudalità e la realtà nuova rappresentata dalle forze cittadine che, a partire dalla regione renana, si andavano organizzando nella nuova istituzione del comune, contestando l’autorità dei vescovi e dei feudatari laici. Vittoriosi, tra 11° e 12° sec., in ambito strettamente urbano, i comuni non riuscirono tuttavia a imporsi sul territorio circostante, controllato dalla grande feudalità. L’azione di Enrico IV, che si appoggiò proprio alle città e alla piccola feudalità, trovò un’opposizione aperta in Sassonia. La vittoria del 1075 contro i ribelli sassoni, a Homburg, giunse nello stesso anno in cui scoppiò il conflitto con papa Gregorio VII sul problema delle investiture ecclesiastiche (➔  investiture, lotta per le). La precaria riconciliazione di Canossa (1077) fu incrinata dai principi tedeschi, che al sovrano opposero un antiré, il duca Rodolfo di Svevia, sconfitto e ferito a morte in battaglia da Enrico (1080). La crisi con la Chiesa continuò e nei suoi ultimi anni Enrico dovette fare fronte alle ribellioni dei figli, Corrado ed Enrico IV; nel 1106 fu costretto ad abdicare e morì. Gli succedette Enrico V (1106-25) che, eletto imperatore con l’appoggio di papa Pasquale II, riprese la politica del padre in materia di investiture ecclesiastiche e per due volte scese in Italia per piegare il papa alla sua volontà; nel 1122 il Concordato di Worms pose fine al conflitto distinguendo, nelle elezioni dei vescovi, l’investitura temporale (prerogativa dell’imperatore) da quella spirituale (che spettava invece al papa). In G. l’investitura temporale precedeva quella spirituale, quindi il controllo del sovrano sulla Chiesa tedesca rimaneva abbastanza saldo. Permaneva il problema di sottomettere all’autorità centrale l’aristocrazia.

Gli Hohenstaufen

La partita tra l’aristocrazia e il re di G. – che in quanto tale, inoltre, era l’imperatore designato – fu giocata soprattutto intorno alla questione della natura elettiva della funzione sovrana. A Enrico V infatti non fu chiamato a succedere sul trono dai principi tedeschi il duca di Svevia Federico, suo successore naturale, bensì Lotario di Supplimburgo, con il risultato che durante tutto o quasi il suo regno (1125-37) questi dovette fare i conti con la ribellione degli svevi. Alla morte di Lotario l’aristocrazia non elesse l’erede designato, Enrico il Superbo duca di Sassonia, ma Corrado III di Hohenstaufen, capo del partito svevo. Erano così gettate le basi della lotta per il controllo della corona tra la casa di Svevia – i cui sostenitori, dal nome del castello di Waibling, furono detti ghibellini – e quella di Baviera e Sassonia, ovvero il partito dei guelfi, discendenti di Guelfo duca di Baviera; la lotta durò per tutto il regno di Corrado III (1138-52) prima di essere temporaneamente bloccata sotto Federico I Barbarossa (1152-90). Lo sforzo degli Hohenstaufen fu quello di costruire un forte potere centrale, utilizzando per l’amministrazione elementi a essi legati – in particolare i ministeriales –, e inserendo l’aristocrazia tedesca in una ferrea piramide feudale che aveva al suo vertice il sovrano. Fu appoggiata anche la costruzione di vaste signorie territoriali affidate a vassalli fedeli, come i Babenberg, che in un primo tempo ottennero la Baviera e poi videro la loro contea d’Austria trasformata in ducato ereditario. Se sul versante meridionale gli Hohenstaufen rafforzarono la loro posizione, lo stesso non può dirsi per il Nord-Est, dove in quello stesso periodo primeggiavano il margravio Alberto l’Orso, che nel 1142 ottenne in feudo la marca del Brandeburgo, e il duca di Sassonia, il guelfo Enrico il Leone. Tornato dalla sfortunata seconda crociata (1147-49), Corrado III si riconciliò con Enrico, che da parte sua aveva lanciato una vera crociata contro vendi e abodriti (1147). Cominciava ad assumere così una propria fisionomia un vero Stato territoriale guelfo, che dalla Sassonia giungeva alle terre al di là dell’Elba, strappate agli slavi anche con una massiccia penetrazione contadina proveniente da Renania, Franconia, Turingia, Sassonia e Paesi Bassi: i contadini (detti ospiti) erano insediati al centro delle terre da dissodare, in nuovi villaggi, dotati di statuti privilegiati. Accanto ai villaggi, nacquero anche vere e proprie città nuove. È l’inizio del processo che portò contadini, cavalieri e mercanti tedeschi a rigermanizzare la parte orientale della G., insediandosi profondamente nel cuore dell’Europa orientale e cambiandone profondamente la fisionomia. Nell’ambito di questa poderosa crescita della G. settentrionale va inquadrata la fondazione di Lubecca (1143), che diventò il principale porto di smistamento delle merci del Baltico quando a Visby, nel 1161, venne fondata la Hansa (➔ anseatica, Lega). Impegnato duramente in Italia, contro i poteri comunali e l’opposizione papale a un’accresciuta presenza germanica nella penisola, Federico I Barbarossa fallì nel tentativo di creare tra Italia settentrionale e G. un blocco capace di fare da efficace contrappeso all’evoluzione del Settentrione tedesco. La sconfitta di Legnano contro la Lega lombarda (1176) ridimensionò le ambizioni italiane del sovrano e riaccese il conflitto con Enrico il Leone. Federico, che era stato elevato all’impero da papa Adriano IV nel 1154, in veste di suo superiore feudale processò Enrico, lo depose privandolo della Baviera e della Sassonia e lo costrinse all’esilio (1181). Lo Stato guelfo fu quindi smembrato tra numerosi feudatari: la Baviera andò a Ottone di Wittelsbach, la Sassonia fu divisa tra l’arcivescovo di Sassonia e Bernardo d’Anhalt, aumentando la frantumazione dell’autorità pubblica. Per tutta la sua carriera politica in effetti Federico, nonostante la sua alta concezione della maestà imperiale, si comportò in G. come un autentico capo fazione, teso soprattutto a concedere privilegi e favori al fine di costruirsi una clientela che fosse in grado di fornire truppe per le sue spedizioni italiane e di controllare il regno durante la sua assenza. La sua sesta discesa in Italia ebbe lo scopo di fare incoronare re d’Italia suo figlio Enrico e di fargli sposare Costanza d’Altavilla, erede del regno normanno (1186). Nel 1190 Federico trovò la morte nella terza crociata. Suo figlio Enrico VI, trascurando l’autentica frontiera germanica (quella del Nord-Est), si impegnò in una dura guerra per far riconoscere i suoi diritti sul regno di Sicilia. Incoronato imperatore nel 1191, dovette poi fronteggiare in G. una rivolta della grande aristocrazia. La sua morte precoce nel 1197 pose fine ai suoi piani di impero universale e precipitò di nuovo la G. nel turbine della guerra civile tra guelfi e ghibellini. La corona fu disputata da Ottone di Bruns­wick, figlio di Enrico il Leone, che fu eletto con l’appoggio dell’arcivescovo di Colonia, e Filippo di Svevia, fratello di Enrico VI e zio del piccolo Federico Ruggero, figlio dell’imperatore defunto. L’appoggio che papa Innocenzo III dette a Ottone mirava a impedire l’unione della Sicilia con la Germania. Ma, incrinatasi presto l’alleanza, il papa scomunicò il guelfo e sostenne la candidatura di Federico II, che nel 1212 riuscì a farsi eleggere re da una parte dei principi tedeschi; la battaglia di Bouvines (1214), vinta dalle armi di Filippo Augusto di Francia, segnò la sconfitta definitiva di Ottone, alleato di Giovanni Senzaterra re d’Inghilterra, a favore di Federico, alleato del re di Francia. Nel 1220 Federico fu incoronato anche imperatore a Roma da papa Onorio III. Prima di lasciare la G., Federico aveva emanato la Confederatio cum principibus ecclesiasticis, con la quale concedeva ai vescovi autentici poteri di governo territoriale rinunciando a imporre nuove tasse sulle terre della Chiesa, a intervenire nella successione dei feudi, a edificare città o fortezze nei domini vescovili. Contemporaneamente in area baltica iniziò a farsi sentire la presenza degli ordini religiosi militari: è del 1201 la creazione dell’ordine dei Cavalieri portaspada per opera di Alberto vescovo di Livonia. Nel 1226 l’Ordine teutonico ricevette, tramite il gran maestro Ermanno di Salza, una bolla che gli attribuiva la Prussia, largamente pagana e ancora da conquistare. La conquista si tramutò in una guerra di sterminio contro i baltici pagani e, sebbene già nel 1234 Gregorio IX concedesse in feudo la Prussia all’Ordine teutonico (che due anni dopo si fuse con i portaspada, espandendosi così in Livonia), solo nel 1283 la conquista del Paese poté dirsi assicurata. Da quel momento si sviluppò la colonizzazione per opera di contadini tedeschi e polacchi. Lo sviluppo delle città prussiane con il passare del tempo finì tuttavia per costituire un contrappeso all’autorità dell’ordine. Nel frattempo l’espansione dei teutonici verso Oriente era stata fermata nel 1242 dai russi di Novgorod. La nascita della Prussia germanica segnò un momento decisivo anche per la crescita economica della Hansa, che in quegli stessi anni aveva dovuto fare i conti con l’intraprendenza dei re di Danimarca, in particolare di Valdemaro II (1202-41). La reazione tedesca si concretizzò nella battaglia di Bornhöved (1227), dove Valdemaro fu sconfitto lasciando così campo libero ai tedeschi sul Baltico. Federico II, impelagato nel problema della crociata, fu scomunicato e dovette fare fronte anche alla politica troppo autonoma del figlio Enrico VII, eletto re di G. (1228), che si faceva interprete di interessi più strettamente tedeschi, appoggiandosi alla piccola aristocrazia di servizio dei ministeriales e alle ricche ed evolute città renane. L’opposizione dei principi costrinse Enrico a concedere, nella Dieta di Worms, la Constitutio in favorem principum (1231), ratificata da Federico II l’anno successivo, con la quale non solo venivano ripristinati gli antichi diritti dei signori feudali sulle città, ma il potere principesco faceva anche grandi passi avanti: i feudatari si riservavano il diritto esclusivo di battere moneta; l’imperatore s’impegnava a non costruire città e castelli nei loro territori senza il loro assenso. Recatosi in G. per porre termine alla fronda del figlio – che aveva stretto un patto con le città dell’Italia del Nord collegate nella seconda Lega lombarda –, Federico lo depose e lo imprigionò: Enrico morì nel 1242 ed erede al trono diventò il secondogenito Corrado. Federico II promulgò infine una grande pace imperiale nella Dieta di Magonza del 1235, che avrebbe dovuto costituire la base per un nuovo assetto legislativo del regno. Preso dai problemi italiani, Federico nei suoi ultimi anni si disinteressò della G., dove alla sua morte (1250) subentrò il figlio Corrado IV. Morto Corrado dopo soli quattro anni, la G. sprofondò nel cosiddetto Grande interregno (1254-73).

L’ascesa degli Asburgo

Questo periodo caotico per il potere imperiale può in realtà essere fatto iniziare dal 1246, quando, deposto Federico II da papa Innocenzo IV a Lione, la corona fu data dai principi – manovrati dall’arcivescovo di Colonia – prima al langravio di Turingia, Enrico Raspe, poi al conte Guglielmo d’Olanda. Successivamente, altri candidati ancora più estranei alla G. ottennero il titolo di re dei romani, cioè re di G. e imperatore designato: Alfonso di Castiglia e il conte Riccardo di Cornovaglia, eletti contemporaneamente. Di fatto, il potere regio rimase vacante finché gli elettori nel 1273 dettero la corona a Rodolfo I d’Asburgo. La G., priva di una legislazione unitaria, di finanze e di una struttura burocratica comuni a tutto il regno, era un’accozzaglia di Stati territoriali, laici o ecclesiastici, nei quali i principi esercitavano tutti gli attributi della sovranità. A questi principati andavano aggiunte le città libere o imperiali, cioè sottomesse direttamente all’autorità del sovrano. Stroncata dalle sue ambizioni imperiali, la monarchia tedesca, dopo la fine negativa della lotta delle investiture, non aveva avuto più la forza di porre mano alla costruzione di uno Stato unitario nelle terre tedesche. La figura del re e la dieta (l’assemblea dei principi, dei nobili e delle città) erano gli unici elementi unitari. Al di sotto del caos politico era notevole il dinamismo economico delle città del Nord e del Sud-Ovest, lungo le vie d’acqua del Baltico e del Reno, e così pure la forza in ascesa del nuovo Stato monastico-crociato a N-E, la Prussia, e, a S, di Stati territoriali retti da solide dinastie, quali la Baviera sotto i Wittelsbach e l’Austria sotto gli Asburgo. Più a O, nella progredita regione renana, si affacciava alla ribalta politica la casata di Lussemburgo. Furono queste le principali famiglie che si contesero il trono nel Basso Medioevo. Rodolfo d’Asburgo (1273-91) si dedicò soprattutto a rafforzare la sua famiglia, combattendo Ottocaro re di Boemia e ottenendo l’Austria e la Stiria, in aggiunta al Tirolo e ai possedimenti svizzeri che già controllava. Né Rodolfo, né i suoi successori, Adolfo di Nassau (1291-98) e Alberto I d’Asburgo (1298-1308), pensarono mai di cingere la corona imperiale: il re tedesco era ormai un semplice capo casata che svolgeva una sua politica dinastica. Con l’apparizione sul trono nel 1308 di Enrico VII di Lussemburgo la politica regia riprese un respiro più ampio. La sua discesa in Italia, dove fu incoronato imperatore nel 1312, non ebbe però seguito, anche perché la morte lo colse nel 1313. L’unico risultato da lui conseguito riguardò il piano dinastico: la Boemia, tramite matrimonio, andò a suo figlio Giovanni. Si era comunque riaperta la via alle avventure imperiali in terra italiana. Ludovico il Bavaro (1314-47) si fece incoronare dal popolo romano contro la volontà di papa Giovanni XXII e gli elettori di fatto lo abbandonarono, eleggendo al suo posto Carlo IV di Boemia (1346-78), nipote di Enrico VII. Carlo – che prese, in accordo con il papa, la corona imperiale – proseguì nella politica dinastica impadronendosi di Slesia, Moravia e Brandeburgo. Si creò così un nucleo territoriale importante, il cui centro però non era la G., ma la Boemia. Nel 1356, la Bolla d’oro di Carlo IV confermò numero e poteri del collegio elettorale, composto da tre ecclesiastici (gli arcivescovi di Colonia, Treviri e Magonza) e quattro laici (il re di Boemia, il conte del Palatinato, il duca di Sassonia e il marchese del Brandeburgo). Il figlio di Carlo, Venceslao, fu nominato re dei romani mentre il padre era ancora vivo (1376): per la prima volta dopo Federico II un figlio succedeva al padre sul trono tedesco. Nel 1400 i quattro elettori renani deposero Venceslao e dettero la corona a Roberto di Wittelsbach. Alla sua morte (1410), gli elettori si rivolsero alla potente casata di Lussemburgo, eleggendo i due fratelli di Venceslao, che era ancora vivo: ci furono dunque insieme tre re della stessa famiglia, finché la scomparsa dei fratelli lasciò Sigismondo da solo sul trono. Accanto a quelle di G. e Boemia egli aveva, per via ereditaria la corona d’Ungheria: i suoi problemi erano quindi a Oriente, dove si affacciavano sempre più minacciosi i turchi. Anche per questo motivo egli si adoperò per sanare lo scisma nella Chiesa e soffocare l’eresia hussita (Concilio di Costanza, 1414-18). Alla morte di Sigismondo (1437), i regni di Boemia e di Ungheria passarono a suo genero, Alberto II d’Austria (1437-39) e poi a Federico III (1440-93). Forti dei loro possedimenti austriaci, del Tirolo e della Stiria, gli Asburgo avevano posto le basi per un nuovo blocco territoriale egemone in area tedesca. La dimensione sovranazionale del dominio asburgico venne in piena luce quando, per via matrimoniale, con Massimiliano I (1493-1519) entrarono in possesso dell’eredità dei duchi di Borgogna. Il blocco territoriale degli Asburgo, che da questo momento in avanti avrebbero monopolizzato la corona nonostante la permanenza del sistema elettivo, era dunque solo parzialmente tedesco. La potenza imperiale per gli Asburgo fu un fatto familiare, dinastico, non nazionale tedesco: impero e regno germanico cominciavano ad assumere due fisionomie distinte. Agli esordi dell’Età moderna la G. era ormai un semplice agglomerato di piccoli Stati territoriali e di città.

La Riforma protestante e la nascita della Germania moderna

Massimiliano I compì il tentativo di ridare autorità e potere all’impero insidiato dai signori territoriali, dal particolarismo delle città e dei principi elettori. Ma la Dieta di Worms del 1495 negò all’imperatore i poteri per assicurare la supremazia dell’impero sulle tendenze centrifughe; nel 1500 la Dieta di Augusta ribadì il rifiuto a rafforzare un potere centrale di tipo monarchico, ponendo vincoli anche all’iniziativa dell’imperatore nei confronti degli altri Stati europei. Alla morte di Massimiliano (1519) la crisi dell’impero rendeva evidente la debolezza del potere centrale e nello stesso tempo l’impossibilità, senza un processo di unificazione, di assecondare l’affermazione delle grandi energie intellettuali che avevano espresso la grande fioritura dell’umanesimo tedesco e favorire la trasformazione in atto nella vita economico-sociale verso il superamento degli ordinamenti feudali. La stessa tendenza presente nei signori territoriali a porre a freno l’egemonia della Chiesa cattolica in G., come Chiesa di Roma, li rendeva disponibili ad attribuirsi la responsabilità non solo di principi territoriali ma anche di guida spirituale e religiosa dei rispettivi sudditi, anticipando una delle conseguenze della Riforma. La spinta che investì il terreno della religione e della Chiesa come istituzione a seguito dell’iniziativa di M. Lutero (affissione a Wittenberg delle 95 tesi nel 1517) non si manifestò meno forte nella struttura dell’impero e nell’equilibrio tra gli Stati tedeschi. Potenza tipicamente continentale, troppo assorbita dai problemi dell’assestamento interno per potere partecipare, come Francia, Spagna e Paesi Bassi, all’espansione coloniale e alle scoperte oltreoceano, la G. visse il conflitto che attraversò la religione e la Chiesa anche come scontro tra principi schierati pro o contro Lutero, pro o contro l’imperatore Carlo V, impegnato nell’avversare la Riforma. La guerra dei contadini, che nel 1525 attraversò larghe regioni della G. e che si concluse con l’esecuzione di T. Müntzer e con una feroce repressione, appoggiata da Lutero, segnò la confluenza di fattori religiosi e di fattori sociali in uno scontro che sconvolgeva le fondamenta della società esistente. Deciso a schiacciare l’eresia della Riforma, Carlo V non riuscì a dare espansione universale all’impero né a ricondurre all’obbedienza i principi ribelli. La Pace di Augusta del 1555 sanzionò la separazione irrevocabile delle confessioni ma anche la frantumazione territoriale, esasperata dalla fusione di signoria territoriale e opzione religiosa (cuius regio eius religio). La guerra dei Trent’anni, che devastò l’Europa dal 1618 al 1648, pose fine alle guerre di religione, ma sancì definitivamente sia l’impossibilità di liquidare il protestantesimo sia la frantumazione politica e militare della G., divisa in 340 Stati di varia dimensione e potenza.

L’ascesa della Prussia

Gli Stati tedeschi usciti dalla guerra dei Trent’anni non potevano competere né con le grandi potenze europee né, all’interno dell’impero, con l’Austria, sempre più allineata col cattolicesimo della Controriforma, né sul versante orientale. Il particolarismo ostacolava ogni principio di unità politica: l’unico elemento comune rimaneva l’assolutismo del dominio principesco. La seconda metà del 17° sec. vide tuttavia l’ascesa del principato del Brandeburgo. Sulla scia di ingrandimenti ottenuti con la Pace di Westfalia del 1648 il grande elettore Federico Guglielmo (1640-88) allargò la sua area verso altri territori germanici (Magdeburgo, Prussia Orientale) e interloquì con le potenze europee, sfruttando lo sbocco sul Mar Baltico per inserirsi nel gioco del commercio internazionale e degli equilibri navali. Riorganizzando l’esercito e centralizzando l’amministrazione e la gestione finanziaria, Federico Guglielmo anticipò le linee della modernizzazione che sarebbe stata realizzata mezzo secolo più tardi dai re di Prussia. Con l’Editto di Potsdam del 1685 accolse nel Brandeburgo gli ugonotti cacciati dalla Francia, dando un contributo decisivo alla diffusione dello spirito di tolleranza e all’utilizzazione per lo sviluppo economico e culturale di professionalità e imprenditorialità di grande qualità. Quando nel 1701 Federico III di Hohenzollern fu riconosciuto re di Prussia dall’imperatore con il nome di Federico I, l’ascesa della Prussia ebbe la prima consacrazione formale. Federico Guglielmo I (1713-40) consolidò il regno con il potenziamento dell’esercito e dell’amministrazione e curando lo sviluppo dell’economia nello spirito del mercantilismo dominante all’epoca, che con il suo forte protezionismo rappresentava un complemento della costruzione di un’attiva politica statale e di una forte burocrazia. Ma fu soprattutto per impulso di Federico II il Grande (1740-86) che la Prussia si affermò come grande potenza europea, in competizione con l’Austria per l’egemonia sulla Germania. Federico II, campione dell’assolutismo illuminato, senza intaccare la divisione della società in ceti, con particolare rispetto per il ruolo dell’aristocrazia terriera, fornì la Prussia degli strumenti propri dello Stato moderno, dotandola di un’amministrazione per l’epoca esemplare, di una solida organizzazione militare e di una codificazione destinata a gettare le basi dello Stato di diritto, separando i beni della corona da quelli dello Stato. Fu anche l’artefice dell’incessante scontro con l’Austria di Maria Teresa, in un susseguirsi di campagne militari a fianco di alterne coalizioni con Francia e Russia. Riconobbe nel 1744 l’autorità imperiale di Francesco I d’Austria, ma in cambio conquistò la Slesia. La guerra dei Sette anni, 1756-1763, nel corso della quale Federico di Prussia, alleato con la sola Inghilterra, tenne testa alle tre maggiori potenze continentali (Francia, impero asburgico e impero russo), rivelò la straordinaria potenza militare della Prussia, che mantenne il possesso della Slesia e successivamente partecipò alla spartizione della Polonia. L’ascesa della Prussia non rispondeva a un ideale di unificazione nazionale, ma più tradizionalmente al desiderio di egemonia sullo spazio germanico, in antagonismo all’Austria. Tuttavia anche semplicemente nella vecchia logica degli scontri tra grandi potentati dinastici, dopo la guerra di successione austriaca e quella dei Sette anni, il quadro dei rapporti di forza all’interno della G. non fu più lo stesso.

Nell’Europa napoleonica

L’eco della Rivoluzione francese in G. incoraggiò moti giacobini e separatismi locali filofrancesi, ma non favorì le correnti liberali, escluse da un circuito di grande respiro dalla frammentazione degli Stati tedeschi. Paradossalmente una spinta all’unificazione provenne dalla risposta con la quale le armate napoleoniche ricacciarono attraverso il suolo tedesco le spedizioni controrivoluzionarie di Prussia e Austria. Provocando lo scioglimento del Sacro romano impero e dando vita alla Confederazione renana, la Francia espulse l’Austria dalla G. e promosse di fatto un embrione di unificazione. Invasa dai francesi (1806), costretta all’alleanza contro la Russia, la Prussia affrontò il duplice processo di rinnovamento interno e di ripristino della sua egemonia sugli altri territori tedeschi. Per opera di due riformatori, il barone H.F.K. von Stein e il cancelliere K.A. von Hardenberg, avviò una moderata ma decisa modernizzazione destinata a rafforzare l’amministrazione dello Stato e a consentire la formazione di una struttura sociale affrancata dai residui feudali. L’abolizione dell’ordinamento corporativo e della servitù della gleba e una limitata autonomia comunale, con suffragio censitario, aprirono la strada a una maggiore mobilità sociale e ruppero il monopolio dell’aristocrazia sulla proprietà della terra. Parallelamente la riforma militare promossa da G.J.D. Scharnhorst e A.W.N. Gneisenau allargò parzialmente la base sociale dell’esercito restringendo il monopolio aristocratico. Il consolidamento dello Stato costituì la premessa della guerra antinapoleonica che culminò (ottobre 1813) nella disfatta di Napoleone a Lipsia. Dissolta la Confederazione renana patrocinata dalla Francia, a conclusione del Congresso di Vienna, il 10 giugno 1815, fu creata la Confederazione germanica, con l’adesione di 41 Stati, Prussia e Austria comprese, all’interno della quale il problema dell’unità nazionale tedesca cominciò a porsi con forza crescente. L’Ottocento d’altronde fu il secolo in cui le nazionalità culturali e linguistiche prive di espressione politico-statuale cominciarono in tutta Europa a forzare il quadro definito a Vienna nel 1815 per divenire nazioni politiche libere e indipendenti.  In G. si pose ben presto il dilemma tra una unificazione egemonizzata dalla Prussia e senza l’Austria (soluzione piccolo-tedesca) e quella egemonizzata dall’Austria (soluzione grande-tedesca). L’unione doganale (Zollverein) del 1834 fu il primo cospicuo frutto delle aspirazioni all’unità di forze economiche e culturali, che confluirono nei moti del 1848. Federico Guglielmo IV fu costretto a concedere la Costituzione in Prussia, ma rifiutò, in odio a ogni forma di legittimazione democratica e per timore di scontrarsi con l’Austria, la corona imperiale offertagli dall’Assemblea nazionale. L’aspirazione della Prussia a porsi come artefice dell’unità tedesca subì una battuta d’arresto nel compromesso di Olmütz con l’Austria (1850).

L’unità e il Secondo Reich

Il conflitto con l’Austria per la supremazia sulla G. entrò in una fase nuova quando la gestione degli affari interni ed esteri della Prussia fu affidata (1862) a O. von Bismarck, che operò con abilità, nel quadro delle forze in campo internazionale, per arginare e poi ridurre la presenza dell’Austria. Alla fine di giugno del 1866, la Prussia attaccò e sconfisse l’Austria (➔ austro-prussiana, guerra); la vittoria le consentì di estendere i suoi territori, sciogliere la Confederazione germanica e porsi alla testa di una Confederazione della G. del Nord, con esclusione degli Stati meridionali e dell’Austria, prima tappa dell’unificazione; la seconda fu raggiunta a seguito della guerra franco-prussiana del 1870-71. Il 18 gennaio 1871, forte del consenso anche degli Stati meridionali, Guglielmo I di Prussia fu proclamato imperatore di Germania: era nato il Secondo Reich, per iniziativa dall’alto della Prussia, che oltre ad acquistare un’egemonia territoriale e demografica assoluta rispetto agli altri Stati tedeschi disponeva nel Bundesrat (la rappresentanza degli Stati) di 17 seggi su 58. Il comando delle forze armate spettava al Kaiser, al tempo stesso re di Prussia; il cancelliere del Reich si identificava, per unione personale, con quello prussiano. Il sistema politico dell’impero, composto di 25 Stati e l’Alsazia-Lorena come territorio del Reich, prevedeva l’esistenza di un Parlamento (Reichstag) eletto a suffragio universale (ma con esclusione delle donne), con poteri limitati: il governo rispondeva al Kaiser. L’annessione dell’Alsazia-Lorena (1871), territori appartenenti da secoli alla Francia e da essa ormai completamente assimilati, contravveniva palesemente al principio di nazionalità e umiliava la Francia in una misura che non fu mai accettata dal popolo francese che cominciò a coltivare uno spirito di revanche che fu una delle cause scatenanti della Prima guerra mondiale. La gestione bismarckiana (1871-90) mirò in politica estera a prevenire le mosse della possibile rivincita francese con una serie di accordi internazionali che isolarono la Francia e posero la G. al sicuro da possibili attacchi militari da Occidente e da Oriente. I più importanti furono la Duplice alleanza austro-tedesca del 1879, trasformatasi poi nella Triplice alleanza con Italia e Austria del 1882; il primo e il secondo patto dei tre imperatori (Germania, Austria e Russia) e il trattato di contro-assicurazione con la Russia del 1887. Bismarck fu anche protagonista del tardivo ingresso dell’impero germanico nella gara coloniale, che vide la G. assumere nel 1884 il protettorato del Togo e del Camerun e poi assoggettare rapidamente i territori che formarono l’Africa occidentale e orientale tedesca. In Asia occupò gli arcipelaghi delle Palau, delle Marianne, delle Caroline, delle Marshall e delle isole che furono chiamate di Bismarck. All’interno cercò la stabilizzazione politico-sociale di un Paese in impetuosa e travolgente industrializzazione coniugando il predominio di proprietari fondiari (Junker) e casta militare con la grande borghesia in ascesa. Bismarck combatté le forze che si opponevano al centralismo prussiano (il Zentrumpartei cattolico) o che, come la socialdemocrazia, si ponevano in antagonismo all’ordine sociopolitico costituito. Sul primo versante il Kulturkampf  lo mise in urto con il clero cattolico e direttamente con la Chiesa di Roma. Le organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio furono messe al bando nel 1878, ma la legislazione repressiva non valse a frenarne la crescita legata allo sviluppo industriale del Reich. Maggiore successo ebbe, nel contenere l’ascesa socialdemocratica, lo sviluppo precoce di una legislazione sociale precorritrice del moderno Stato sociale. Il nuovo Kaiser Guglielmo II, salito al trono nel 1888, mostrò ben presto vedute di politica interna e soprattutto estera divergenti da quelle di Bismarck, che fu costretto a lasciare il potere nel 1890 e fu sostituito dal generale G.L. von Caprivi, più attento agli interessi della borghesia rivolti all’alleggerimento della protezione doganale. Anche questi però, avversato dagli ultraconservatori, nel 1894 fu destituito dall’incarico. A partire da allora la politica del Reich fu determinata dal blocco conservatore e militarista, ma soprattutto dal regime personale di Guglielmo II, protagonista di iniziative dirompenti in politica estera protese verso una Weltpolitik, cui davano sostanza l’intensificazione degli sforzi coloniali e soprattutto una imponente politica di armamenti navali, destinata a portare la G. in rotta di collisione con la Gran Bretagna, cosa questa che significava il sovvertimento di una costante della politica estera prussiano-germanica risalente alle guerre settecentesche e metteva in forte imbarazzo l’Italia all’interno della Triplice. La politica imperialista del Kaiser e quella dei militari tedeschi, fatto cadere il patto di controassicurazione, andò peraltro in rotta di collisione anche con gli interessi della Russia nei Balcani, per cui Inghilterra, Russia e Francia, pure tra loro in contrasto a causa delle rispettive mire coloniali in Africa e Asia, finirono per coalizzarsi dapprima nella «cordiale intesa» tra Francia e Inghilterra del 1904 e poi nella Triplice intesa del 1914, fino all’urto frontale della Prima guerra mondiale, che vide peraltro la discesa in campo dell’Italia a fianco dell’Intesa e si concluse con la catastrofica sconfitta della G., dell’Austria e dei loro alleati. Con il Trattato di Versailles la G. dovette restituire l’Alsazia e la Lorena alla Francia, subire rettifiche di frontiera a favore del Belgio, cedere alla Polonia la Posnania e una striscia di territorio che le avrebbe consentito lo sbocco al Baltico attraverso Danzica resa città libera, rinunciare allo Schleswig e a tutte le colonie. Dovette accettare anche l’occupazione della Renania per un quindicennio a opera di forze alleate e la sua definitiva smilitarizzazione. Dovette inoltre cedere alla Francia per un quindicennio il bacino carbonifero della Saar, ridurre ai minimi termini le sue forze armate, riconoscersi responsabile del conflitto e accettare le conseguenti riparazioni che nel 1921 furono quantificate in 132 miliardi di marchi-oro.

La Repubblica di Weimar

L’abdicazione del Kaiser (novembre 1918), piegato dalla sconfitta militare, diede via libera alla proclamazione della Repubblica. Le condizioni di pace condizionarono in modo drammatico e decisivo il nuovo regime fino alla sua crisi finale e all’avvento della dittatura hitleriana. La sollevazione di cui furono protagoniste nell’immediato dopoguerra le minoranze della sinistra socialista e comunista fu duramente repressa dal governo socialdemocratico. Nel 1919 si tennero le elezioni per l’Assemblea nazionale costituente, che si riunì a Weimar. Ridimensionata territorialmente, economicamente e militarmente dal Trattato di Versailles, la G. ebbe con la Costituzione del 1919 un ordinamento politico sulla carta tra i più avanzati dell’epoca. Per la prima volta nella storia della G. unita erano affermati il principio della sovranità popolare e il primato del sistema parlamentare, temperato dai poteri conferiti al presidente della Repubblica. La Costituzione legittimò l’esistenza e la funzione delle organizzazioni sindacali. Il Reich acquistò la struttura di uno Stato federale, con 17 Länder dotati di eguali poteri e autonomia. La base politica della Repubblica fu costituita dai partiti democratici della cosiddetta coalizione di Weimar, la socialdemocrazia, il centro cattolico, il partito democratico (espressione dei liberali di sinistra); lo sforzo di allargare il consenso a destra, verso l’ala conservatrice del liberalismo tedesco, fornì con G. Stresemann l’uomo di Stato e il ministro degli Esteri di maggiore statura della Repubblica. Sotto il profilo internazionale la Repubblica fu sfibrata dalla lotta per la revisione del Trattato di Versailles, dal pagamento delle riparazioni ai vincitori, dal superamento dei controlli militari imposti con il trattato di pace. La politica di adempimento di Stresemann indicò la via per un onorevole reinserimento della G. tra le potenze, ma fu violentemente osteggiata dalla destra nazionalista e dall’agitazione nazionalsocialista, che alimentò la leggenda della «pugnalata alla schiena» per identificare nella democrazia la protagonista della sconfitta militare del 1918. Le aspettative di una grande trasformazione politica e sociale furono deluse: nel 1925 l’elezione alla presidenza del maresciallo P.L. von Hindenburg, alla morte del socialdemocratico F. Ebert, segnò l’inversione di tendenza. A partire dalla fine degli anni Venti la crisi mondiale ebbe in G. uno dei suoi epicentri. Colpito dalla grande depressione, il sistema politico fu messo in crisi dalla gestione extraparlamentare del cancelliere H. Brüning, quanto dalla demagogia nazionale e sociale del Partito nazionalsocialista (NSDAP, Nationalsozialistische deutsche Arbeiterpartei) di A. Hitler, che dal 1930 al 1932 lavorò sistematicamente per la distruzione della Repubblica democratica, promettendo l’uscita dalla crisi, che aveva creato diversi milioni di disoccupati, attraverso la restaurazione di uno Stato forte, nel nome di una unità nazionale fondata su razzismo e antisemitismo.

Hitler e la creazione del Terzo Reich

Il 30 gennaio 1933 Hitler ebbe da Hindenburg il mandato di cancelliere del Reich. Il Partito nazionalsocialista, che nelle elezioni (novembre 1932) aveva ottenuto un terzo dei seggi al Reichstag, formò un governo minoritario con i nazionalisti. Sin dai suoi esordi il nuovo governo si caratterizzò per lo scardinamento del sistema democratico e la persecuzione degli avversari politici e di interi gruppi sociali come ebrei e zingari. L’incendio del Reichstag (1933) offrì il pretesto per la sospensione dei diritti civili. Il 23 marzo 1933 Hitler ebbe i pieni poteri da un Parlamento privato di una parte dei suoi membri, dichiarati decaduti o impossibilitati a prendervi parte dalla prepotenza nazista. La fine delle autonomie dei Länder e la loro sottomissione al Reich segnarono l’inizio del duplice processo di distruzione di ogni potere autonomo e di accentramento in un sistema retto dal principio del capo (Führerprinzip): alla fusione tra Stato e partito unico nazionalsocialista si accompagnò l’epurazione dall’apparato statale di ogni elemento non affidabile per ragioni razziali o politiche. La costruzione del vertice del regime fu completata alla morte di Hindenburg (1934), quando Hitler assunse, con la più alta carica dello Stato, il comando supremo delle forze armate. Sciolto il sindacalismo libero, la legge sull’ordinamento del «lavoro nazionale» (1934) stabilì l’ordinamento gerarchico delle imprese e la subordinazione dei lavoratori alle autorità aziendali da una parte, alle organizzazioni di massa del regime dall’altra; le organizzazioni giovanili e femminili del partito nazista avevano già concorso a prefigurare una colossale macchina di organizzazione del consenso. L’obiettivo del regime di assoggettare il popolo tedesco a un processo di uniformazione e di livellamento collettivo delle coscienze fu conseguito grazie allo sviluppo della propaganda e al controllo centralizzato della stampa e dell’organizzazione della cultura sotto la direzione di J. Goebbels e alla creazione di mezzi coercitivi e intimidatori su scala di massa, come i campi di concentramento, per chi, ad arbitrio del regime, era escluso dalla «comunità popolare» (Volksgemeinschaft). Nella versione nazista l’antisemitismo tradizionale fu assolutizzato a legge biologica fondamentale della sopravvivenza e dello sviluppo del popolo tedesco. Una legislazione discriminatoria fu imposta con le leggi di Norimberga del 1935, che miravano a costringere gli ebrei, una volta segregati dalla vita civile, ad abbandonare il Reich. Il pogrom del 9 novembre 1938 segnò il preludio di una pressione crescente verso la loro espulsione: il clima di esasperazione collettiva fu artificiosamente alimentato nel quadro della preparazione psicologica della guerra, tanto più dopo che la conquista dell’Austria (➔ Anschluss) a marzo aveva accresciuto sensibilmente il numero degli ebrei soggetti alla sovranità tedesca. Il razzismo era una componente organica del progetto di dominazione continentale hitleriano e fu gradualmente sviluppato dalla politica estera del Terzo Reich. Decisivo fu per Hitler il sostegno delle forze armate, che già ne avevano appoggiato l’ascesa al potere. Il riarmo promosso dal regime, con lo smantellamento dei residui vincoli di Versailles, consolidò i legami tra il nazionalsocialismo e la Wehrmacht e garantì non solo, con l’assorbimento della disoccupazione, la pace sociale necessaria per affrontare la congiuntura bellica, ma anche la strumentazione tecnico-militare per perseguire gli obiettivi dell’espansionismo tedesco. Dopo l’annessione del Saarland (1935), il regime realizzò, una dopo l’altra, le sue rivendicazioni territoriali: nel 1938, all’Anschluss austriaco e all’annessione dei Sudeti seguirono la distruzione dei resti della Cecoslovacchia e la marcia di avvicinamento alla Polonia, prima tappa dell’espansione a E come direttrice per la conquista dello spazio vitale (Lebensraum): una direttrice racchiusa nel protocollo segreto del patto tedesco-sovietico del 23 agosto 1939 (Patto Molotov-Ribbentrop), cui fecero seguito l’aggressione alla Polonia e lo scatenamento della Seconda guerra mondiale, accanto a Italia e Giappone. La guerra esaltò ed esasperò i tratti oppressivi del sistema nazista: nel giugno 1941 con l’aggressione all’Unione Sovietica essa compì un ulteriore salto di qualità, proponendosi come guerra di annientamento. La G. nazista, conquistata l’Europa occidentale e settentrionale senza tuttavia infrangere la resistenza britannica, coltivò il sogno di un «nuovo ordine europeo», fondato su una gerarchia di popoli e di razze gravitanti attorno al Terzo Reich, arrivando a pianificare lo sfruttamento di milioni di lavoratori forzati e ad attuare lo sterminio di milioni di ebrei (➔ Shoah). Sconfitta dalla coalizione delle potenze alleate, la G. subì infine l’invasione del proprio territorio. La capitolazione senza condizioni dell’8 maggio 1945 segnò l’epilogo del Terzo Reich.

L’occupazione quadripartita

La G. sconfitta fu sottoposta all’occupazione congiunta di Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica e Francia. Divisa in quattro zone d’occupazione, secondo gli accordi di Potsdam (1945) avrebbe dovuto essere trattata come un’unica entità economica. Privata di un governo centrale, fu soggetta a misure di denazificazione, smilitarizzazione e controllo sulla produzione industriale; inoltre le fu imposto l’obbligo di fornire riparazione soprattutto ai Paesi più duramente colpiti (Francia e Unione Sovietica). A Norimberga fu celebrato (1945-46) il processo contro i principali esponenti nazisti responsabili di crimini di guerra e contro l’umanità. Sul piano territoriale, furono posti sotto amministrazione sovietica la Prussia orientale, sotto amministrazione polacca i territori a oriente dei fiumi Oder e Neisse; furono così precostituite le nuove frontiere della G., quali sarebbero state fissate nel 1990, ed essa dovette ricevere la massa delle popolazioni tedesche cacciate dall’Europa orientale, come ritorsione per gli spostamenti etnici e demografici imposti in quell’area dal regime nazionalsocialista. L’incipiente conflitto fra Est e Ovest e la Guerra fredda posero una pesante ipoteca sulla ricostruzione unitaria della Germania. Mentre nelle zone occidentali prevalse presto il criterio di passare a una politica di rapida ricostruzione e restituzione ai tedeschi dell’amministrazione, nella parte orientale della G., l’Unione Sovietica si preoccupò essenzialmente di garantirsi le riparazioni per i danni di guerra subiti e di intervenire sul piano strutturale con la riforma agraria, destinata a spezzare il latifondo (e con esso la casta dei Junker), come permanente garanzia di sicurezza contro la rinascita del militarismo prussiano. I segni della divisione parvero irreversibili dal settembre 1946, quando ebbero inizio i preparativi per l’aggregazione delle zone occidentali in un’unica amministrazione, con l’obiettivo di procedere a una ricostruzione della G. svincolata da ogni pregiudiziale punitiva; il disaccordo sugli aspetti specifici della questione tedesca risultò esasperato dalla più generale divergenza di interessi tra le potenze, in una contrapposizione di schieramenti sempre più globale. Quando (giugno 1948) le potenze occidentali attuarono nella parte ovest della G. la riforma monetaria, decisiva per rilanciare la ricostruzione economica e politica, l’Unione Sovietica rispose con il blocco di Berlino, che innescò una delle fasi di più acuta tensione della Guerra fredda. In questo contesto, le potenze occidentali promossero la creazione di un Consiglio parlamentare destinato a elaborare il disegno di un ordinamento costituzionale per l’area unificata occidentale, a condizione che fosse rispettato il principio di un largo decentramento su base federale: si profilava quindi la rottura dell’unità statale e nazionale della Germania.

Figura

La nascita di due entità statuali separate

Lo sviluppo di un ordinamento statuale autonomo nella zona di occupazione occidentale sfociò nel maggio 1949 nella proclamazione della Repubblica federale di Germania (RFG), con Bonn come capitale provvisoria. La rivendicazione della riunificazione avrebbe costituito, insieme alla pretesa di essere l’unica parte della G. legittimata a parlare a nome dell’intero popolo tedesco, un motivo costante dell’identità politica dello Stato tedesco-occidentale. Eletto il primo Bundestag, il primo presidente della Repubblica federale fu l’esponente liberaldemocratico T. Heuss e K. Adenauer, leader dell’Unione democratico-cristiana (CDU), divenne cancelliere. Parallelamente, nello stesso anno, entrò in vigore lo Statuto d’occupazione con il quale le potenze occidentali fissavano le competenze residue e la misura dei controlli che avrebbero continuato a esercitare sulla G. (nel 1951 furono aboliti i limiti posti alla legislazione autonoma della RFG e soprattutto le fu riconosciuta la facoltà di gestire una propria politica estera, fino allora riservata alle autorità alleate). A questo processo di creazione della RFG e di suo inserimento nell’orbita occidentale, l’Unione Sovietica aveva reagito favorendo la costituzione anche all’Est di uno Stato separato. Sotto la guida del partito egemone nel settore orientale, il Partito di unità socialista (SED), sorto nel 1946, con la presenza non solo nominale di altri partiti, fu convocato un Congresso del popolo che elaborò una Costituzione: con la proclamazione di quest’ultima, il 7 ottobre 1949, nacque la Repubblica democratica tedesca (RDT). Ebbe così inizio la vicenda dei due diversi Stati tedeschi, avamposti di due contrapposti schieramenti politici e ideologici.

La Repubblica federale di Germania

Sotto la guida di Adenauer, la RFG ebbe come obiettivi prioritari il consolidamento della sua collocazione nello schieramento occidentale e la politica di isolamento della RDT, senza mai rinunciare formalmente all’istanza della riunificazione della Germania. Adenauer perseguì la più stretta associazione della RFG con il campo occidentale e in particolare con gli Stati Uniti, anche come garanti militari della sicurezza nei confronti del blocco sovietico. Con il Trattato generale del 26 maggio 1952 le potenze alleate accordarono alla Repubblica federale il massimo di sovranità compatibile con i suoi residui impegni a salvaguardia soprattutto della sicurezza; un’ulteriore barriera fu frapposta tra le due parti della G., nel 1961, con l’erezione del muro di Berlino da parte della RDT. Inserita saldamente nella ricostruzione economica dell’Occidente, la RFG si avviava anche a partecipare agli oneri militari, fra contrastanti reazioni internazionali e nella stessa opinione pubblica tedesca, cospicui settori della quale erano contrari a un nuovo coinvolgimento militare. L’adesione della RFG all’Unione Europea occidentale e alla NATO segnò, nel 1955, l’acquisto di fatto della piena sovranità da parte di Bonn. Nel maggio 1957 la firma del Trattato di Roma, istitutivo della CEE, sancì la partecipazione della RFG, su un piede di parità con gli altri Stati, al processo d’integrazione, nel cui ambito essa assunse un ruolo di protagonista grazie al suo peso economico. Al tempo stesso la RFG si servì delle istituzioni europee per ottenere consensi e copertura al proprio punto di vista sulla questione tedesca e dei rapporti tra le due Germanie. Caratteristica della gestione di Adenauer, coincidente anche con gli anni più acuti della Guerra fredda, fu l’intransigente rifiuto di qualsiasi riconoscimento della RDT, sviluppato soprattutto con la «dottrina Hallstein» formulata dall’omonimo guirista e politico che vedeva nella RFG l’unica rappresentante del popolo tedesco nel suo complesso. Adenauer lasciò il cancellierato nel 1963; la fine della sua gestione del potere segnò una svolta nella politica interna, in coincidenza con il nuovo clima internazionale di superamento della Guerra fredda. Dal punto di vista degli schieramenti politici Adenauer fece della CDU e della sua alleata bavarese, l’Unione cristiano-sociale (CSU) di F.J. Strauss, il perno della coalizione di governo, con l’appoggio di partiti minori e in particolare dei liberaldemocratici. L’isolamento del Partito socialdemocratico (SPD) perseguito da Adenauer rafforzò il monopolio del potere da parte della CDU, accesamente anticomunista (il Partito comunista tedesco, di scarso rilievo, fu l’unico in Europa occidentale messo fuori legge) e ispirata in campo economico-sociale da una visione solidaristico-organicistica. L’eredità di Adenauer fu raccolta, nel triennio 1963-66, da L. Erhard, artefice e ideologo del boom economico degli anni 1950. Il suo cancellierato e quello del successore K.G. Kiesinger (1966-69) segnarono il passaggio a una fase più dinamica, sia in politica interna, sia in quella estera. Già Kiesinger, alla guida di una «grande coalizione» che segnò l’ingresso nel governo della socialdemocrazia, aveva dato un segnale delle istanze nuove che premevano sulla RFG; la contestazione studentesca degli anni 1967-69 rappresentò uno spartiacque, poiché non fu solo espressione di uno scontro generazionale, ma incarnò una richiesta di democratizzazione della società e di autonomia internazionale, raccolta dall’elettorato nelle elezioni federali del 1969, che consentirono la formazione di un governo con esclusione della CDU. Nacque così la coalizione social-liberale (1969-82), che ebbe come primo cancelliere W. Brandt, presidente della SPD, uomo del dialogo con l’Est europeo e con la RDT. La gestione Brandt fu caratterizzata dallo sviluppo della Ostpolitik, nel suo duplice significato di superamento dei guasti del passato nazista e di prospettiva duratura di riconciliazione e promozione dei rapporti con l’Europa orientale. La reimpostazione delle relazioni con l’URSS rese possibile anche l’avvicinamento tra i due Stati tedeschi, con l’abbandono della pretesa di rappresentanza unica: il trattato fondamentale tra RFG e RDT del 1972, che pose fine alla Guerra fredda tra le due G., svelenì gli aspetti più accesamente conflittuali del problema tedesco. Nel 1974, a Brandt successe H. Schmidt, che promosse una politica di contenimento del deficit di bilancio e consolidò il prestigio internazionale della RFG. Gli incipienti limiti imposti allo Stato sociale furono alla base del venir meno di molti consensi alla SPD, mentre il peggioramento della situazione politica trovò riscontro in una recrudescenza del fenomeno terroristico, manifestatosi fin dai primi anni Settanta (➔ Baader-Meinhof). La svolta conservatrice auspicata dalla CDU fu resa possibile nel 1982 dal rovesciamento di fronte del Partito liberale democratico (FDP): negli anni successivi la coalizione tra CDU e FDP, guidata da H. Kohl, perseguì una linea di netto ridimensionamento dello Stato sociale.

La Repubblica democratica tedesca

Nel quarantennio della sua esistenza (1949-90), la RDT seguì un percorso politico completamente diverso dalla RFG. Nata con l’ambizione di fornire un’alternativa socialista alla rinascita del capitalismo nella parte occidentale della G., dovette affrontare le difficoltà di un’area geografica basata in larga prevalenza su attività agricole. La costruzione forzata di un’industria di base, a partire dal polo industriale della Sassonia e dall’uso di una riserva di energia «sporca» come la lignite, fu all’origine del relativo successo economico che negli anni 1960 e 1970 portò la RDT ai massimi livelli produttivi nell’ambito del blocco sovietico. La rivolta operaia del 1953, che da Berlino Est dilagò in altre località della RDT e fu poi repressa sanguinosamente dalle forze sovietiche, fu forse l’esempio più vistoso del costo di uno sviluppo modellato sull’esempio dell’URSS e ulteriormente squilibrato dall’esigenza di fornire a quest’ultima le riparazioni imposte dalla Conferenza di Potsdam. Durante la gestione di W. Ulbricht, segretario generale del Partito socialista unificato di G. (SED) dal 1950 al 1971 e capo dello Stato dal 1960 al 1973, si manifestarono i tratti che avrebbero caratterizzato la storia della RDT: sistema politico di fatto a partito unico, radicale processo di trasformazione dell’economia e forte protezionismo sociale. La trasformazione dell’economia si basò da un lato sulla crescita dell’industria siderurgica, meccanica e chimica, dall’altro sulla statalizzazione più estesa possibile in tutti i settori produttivi. La scarsità di materie prime accentuò rapidamente la dipendenza dalle forniture dell’URSS. L’integrazione nel COMECON con gli altri Paesi del blocco socialista, a partire dal 1955, assicurò l’inserimento in un mercato internazionale retto dai principi dell’economia collettivista e l’uso della tecnologia più avanzata dell’URSS; solo con l’avvio della gestione di E. Honecker, segretario generale della SED dal 1971 e capo dello Stato dal 1976, si perseguì uno sviluppo più orientato verso la produzione di beni di consumo e il soddisfacimento di bisogni primari della popolazione. Il sistema mantenne una sua misura di efficienza fin quando fu sostenuto dai rifornimenti e dagli scambi con gli altri Paesi del COMECON. L’erogazione di servizi sociali procurò un certo consenso da parte della popolazione, malgrado il sistema politico non consentisse partecipazione popolare né libertà di espressione culturale, ma il regime di controllo poliziesco non permise di porre salde radici politiche al regime, che fu fortemente screditato dalle ripetute fughe verso l’Ovest. Tuttavia, fin quando non fu travolta dalla resistenza dei capi della SED a prendere coscienza della grande trasformazione avviata in tutti i Paesi dell’Est dalle riforme di M.S. Gorbačëv in URSS, la RDT riuscì a conservare un suo pur precario equilibrio. Dopo il trattato fondamentale sulle relazioni con la RFG (1972), la RDT ottenne il massimo consolidamento della sua situazione internazionale: la visita nella RFG di E. Honecker (1987), ricevuto a Bonn con gli onori dovuti a un capo di Stato straniero, sembrò quasi convalidare la tesi della RDT dell’esistenza di due Stati tedeschi. Alla vigilia delle celebrazioni per il 40° anniversario della fondazione della RDT si manifestò la crisi che portò al dissolvimento dello Stato: la crescita inarrestabile delle fughe verso l’Ovest, acuitasi nell’estate 1989, mise in evidenza le gravi difficoltà del Paese, privo ormai di sostegni dall’Est, economici e politici. Quando nel novembre 1989 la pressione popolare costrinse all’estromissione di Honecker, allora ebbe inizio una rapida e pacifica dissoluzione del regime.

Il processo di riunificazione

Contrariamente alle aspettative del nuovo presidente del Consiglio H. Modrow, che sperava di negoziare un’unificazione concordata con la RFG per salvaguardare la specificità della RDT, Bonn, per bocca del cancelliere H. Kohl, non lasciò sussistere alcun dubbio che qualsiasi aiuto alla G. orientale era subordinato alla prospettiva di un suo rapido assorbimento nelle strutture statali della RFG. L’apertura del «muro» di Berlino e l’avvio della libera circolazione tra le due G. (9 novembre 1989) aveva rapidamente trasformato la pacifica rivoluzione del novembre nella richiesta pura e semplice di adozione del modello occidentale. Le elezioni del marzo 1990 per la nuova Volkskammer (il Parlamento della RDT) videro la vittoria dei partiti conservatori, che più decisamente puntavano all’annessione della G. orientale da parte della RFG. La RDT, con l’intesa per l’unificazione monetaria ed economica (1° luglio 1990), sacrificò di fatto la sua sovranità a quella della Repubblica federale, che impose il passaggio immediato dall’economia statalizzata all’economia di mercato, aprendo una crisi senza precedenti nel tessuto sociale delle regioni orientali. Il 1° luglio 1990 fu la tappa decisiva nel processo di assorbimento della RDT, formalizzato con l’unione politica del 3 ottobre successivo. Presupposto fondamentale di quest’ultima era stata la definizione con le potenze, e in particolare con l’Unione Sovietica, del nuovo statuto internazionale della G., in sostituzione di fatto di un trattato di pace che dopo la Seconda guerra mondiale non era mai stato concluso. In questo contesto, fu anche confermata la linea Oder-Neisse come confine orientale della G. unificata, formalmente riconosciuta come frontiera tra G. e Polonia nel trattato sottoscritto nel novembre 1990. Gli accordi dell’autunno 1990, pertanto, oltre a ripristinare l’unità della G., chiusero definitivamente le pendenze della Seconda guerra mondiale.

La Germania unita: Kohl e la costruzione del nuovo soggetto nazionale

L’atto politico più rilevante che accompagnò il compimento formale dell’unificazione fu costituito dalle elezioni pantedesche del dicembre 1990. Il calo della partecipazione elettorale indicò l’esistenza di riserve nella popolazione di entrambe le parti del Paese: all’Ovest il timore di compromettere con i costi dell’unificazione il benessere raggiunto, all’Est la sfiducia in una rapida ripresa dell’economia e la paura di rimanere a lungo cittadini di seconda classe. La CDU-CSU conservò la maggioranza relativa; subì una nuova sconfitta la SPD, che confermò in particolare lo scarso consenso di cui godeva nella parte orientale. Gli sviluppi della G. unita furono segnati dalla difficoltà di unificare veramente le due parti della G., con l’assorbimento della ex RDT nell’ordinamento giuridico, politico e sociale della RFG, aggravata dallo squilibrio economico, dalla persistenza di diverse culture politiche, dalla delusione di molte aspettative. L’epurazione della pubblica amministrazione e la mancanza di una classe dirigente dell’Est contribuirono ad accentuare i problemi dell’unificazione. Nei primi anni Novanta il governo di coalizione tra CDU, CSU e FDP, guidato da Kohl, privilegiò i problemi di ordine interno, limitando in parte l’azione della G. sulla scena internazionale. Tuttavia già nel 1991 la guerra del Golfo e, successivamente e con maggiore urgenza, le crisi nella ex Iugoslavia e in Somalia posero il problema di un rinnovato ruolo del Paese nel consesso mondiale. Al termine di un acceso dibattito politico, il Bundestag autorizzò pertanto la partecipazione al blocco navale contro Serbia e Montenegro (luglio 1992), l’invio di aerei in Bosnia (marzo 1993) e l’adesione alla missione dell’ONU in Somalia (apr. 1993). Nel luglio 1994, infine, la Corte costituzionale dichiarò compatibile con il Grundgesetz (la legge fondamentale della Repubblica federale tedesca, poi divenuta, con poche variazioni, Carta costituzionale della G. unita) l’impegno militare anche in aree esterne alla NATO, purché di volta in volta sottoposto all’approvazione del Bundestag. Di fronte al nuovo scenario dell’Europa orientale dopo il crollo del comunismo, la G. di Kohl rafforzò i rapporti diplomatici con i Paesi dell’Est europeo e con la Russia, con cui fin dal 1992 aveva stipulato un accordo per la cancellazione dei rispettivi debiti e la tutela dell’autonomia dei tedeschi residenti nella regione del Volga. Nel conflitto tra Turchia e indipendentisti curdi la scoperta che i turchi facevano uso di armi di provenienza tedesca (1992, 1994 e 1995) e l’atteggiamento ambiguo del governo tedesco nei confronti dei curdi che chiedevano asilo politico (1994-95) suscitarono violente reazioni da parte dei curdi residenti in Germania. Sul piano europeo, infine, l’impegno all’interno della Comunità, sancito nel 1992 con la firma del Trattato di Maastricht, si andò concretizzando negli anni successivi nella costruzione dell’Unione monetaria europea: nonostante il timore per la scomparsa del marco, moneta simbolo di un cinquantennio di prosperità e libertà, accomunasse in un atteggiamento fortemente critico verso Kohl esponenti di ceti e gruppi politici tra loro diversi, la G. aderì all’euro quale membro del primo gruppo di Paesi nel 1998. All’interno si dovettero fronteggiare anzitutto gli effetti della recessione che tra il 1992 e il 1993 aveva colpito duramente l’economia del Paese. La risposta fu basata su tagli alle spese, a partire da quelle sul personale, adottate dalle imprese più importanti in accordo con i sindacati, e su una politica economica governativa che, a prezzo di pesanti sacrifici, sembrò assicurare al Paese le condizioni richieste per aderire all’Unione monetaria. Sul piano politico, la pressione dell’opinione pubblica impose l’adozione di una serie di misure per contenere le tensioni sociali che l’unificazione aveva acuito: nel novembre-dicembre 1992 furono bandite numerose organizzazioni neonaziste, nel maggio 1993 vennero posti limiti alla concessione del diritto d’asilo e l’anno successivo furono inasprite le pene contro gli atti di violenza razzista. Nonostante le difficoltà, la CDU e il suo leader Kohl mantennero tuttavia una solida base di consenso: nel 1994 a R. von Weizsäcker (CDU), in carica dal 1984, successe, come presidente della Repubblica, R. Herzog anch’egli della CDU, mentre le elezioni riaffermarono il primato della coalizione CDU-CSU e FDP. Gli ultimi contingenti militari inglesi, francesi e statunitensi lasciarono Berlino sancendo il definitivo successo della politica del governo. Intanto la disoccupazione era esplosa, soprattutto nell’Est, con tassi di crescita drammatici; né la politica di rigore per affrontare il deficit prodotto dal trasferimento di risorse dall’Ovest dava i risultati sperati. Il lungo governo di Kohl si andò quindi progressivamente indebolendo, nonostante i successi conseguiti sul piano internazionale e la capacità di assorbire gli effetti sociopolitici più pericolosi dell’unificazione. Nell’ottobre del 1994 si tennero per la seconda volta dall’unificazione le elezioni legislative, che riaffermarono il primato della coalizione formata da CDU-CSU (41,4%) e FDP (6,9%) nei confronti dell’alleanza di SPD (36,4%) e Verdi (7,3%), ma evidenziarono un calo dei partiti di governo (soprattutto dei liberali) a fronte di una sostanziale ripresa del blocco avverso: cancelliere federale fu rieletto Kohl, ma con un margine di soli 10 voti. La PDS (Partei des demokra­tischen Sozialismus), grazie al malcontento nei confronti di una politica economico-sociale che sembrava dimenticare le ragioni dei Länder orientali, rafforzò la sua posizione all’Est, dove ottenne un complessivo 17,7%, riuscendo a entrare nel Bundes­tag, mentre il buon risultato dei Verdi spinse la CDU a trattare con loro, fino all’elezione del verde A. Vollmer alla presidenza del Bundestag. Il nuovo governo Kohl si trovò a dovere ancora far fronte a una situazione socioeconomica segnata da perduranti difficoltà. Così, nel 1995, i problemi economici, apparentemente risolti dal risanamento finanziario del 1994, si riproposero, con un forte calo dell’occupazione e della produzione industriale. Nel febbraio, dopo aver accettato le restrizioni del 1994, i sindacati dei lavoratori metallurgici proclamarono il primo sciopero dopo undici anni, ottenendo un aumento dei salari e una diminuzione dell’orario di lavoro (marzo 1995). Fin dall’inizio del 1996 fu chiaro che la G. non era in condizione di rispettare i parametri di Maastricht. Incoraggiato dai positivi risultati delle elezioni regionali in Baden-Württemberg, Renania-Palatinato e Schleswig-Holstein (marzo 1996), Kohl annunciò nell’aprile 1996 un programma di austerità per il 1997 (approvato nel sett. 1996), mirato a limitare il deficit al di sotto del 3% allo scopo di adeguarsi ai canoni d’ingresso nell’Unione monetaria europea. Accusato dall’opposizione e dai sindacati per il suo carattere antisociale e approvato in un clima di forte tensione (con scioperi e proteste antigovernative, culminate in un’imponente manifestazione a Bonn, nel giugno 1996), il piano del governo non diede, tuttavia, i risultati sperati. In questo contesto la SPD  seguitava a mostrare un atteggiamento cauto nei confronti di una trasformazione che rischiava di avere come prezzo lo smantellamento dello Stato sociale, mentre da un altro versante, la Bundesbank e il suo governatore H. Tietmeyer indicarono nell’ingresso nell’Unione monetaria una minaccia alla stabilità del Paese e ne auspicarono il rinvio. Alla dichiarazione di Tietmeyer, sia pure successivamente smentita, Kohl e Waigel reagirono violentemente, condannando l’ingerenza della Banca federale nelle azioni del governo: un inequivocabile segnale, per l’opposizione e l’opinione pubblica, di una grave crisi politica e di consenso che colpiva il cancelliere federale e i suoi ministri. Si venne così a formare un vero e proprio schieramento trasversale, composto da larga parte dell’opposizione ma anche da membri della maggioranza, tutti detrattori dell’Unione Europea e più di una volta si accennò a un possibile rinvio generale del progetto. Ma qualunque ipotesi al riguardo fu tenacemente respinta da Kohl che riteneva imprescindibile un varo puntuale dell’euro. Mentre il cancelliere annunciava comunque, nell’aprile 1997, la sua intenzione di ricandidarsi nelle politiche del 1998, la SPD sceglieva G. Schröder come candidato alla Cancelleria al posto del più ortodosso e meno carismatico presidente del partito, O. Lafontaine. Schröder si presentava come un innovatore rispetto alla tradizione del partito d’origine. Alcuni gruppi e partiti politicamente appartenenti all’area della sinistra occidentale sembravano cercare un compromesso tra un’istanza ormai accettata di contenimento della spesa pubblica (e di riduzione, quindi, dell’area di intervento del welfare) e un’attenzione alle fasce sociali più deboli. Schröder, anche senza rifarsi alla scelta comunitaria, ricalcava in parte quei modi e quei temi, accentuando soprattutto la necessità della terza via. Il suo programma elettorale presentava quali punti qualificanti: il rafforzamento dell’economia, la stabilizzazione finanziaria, la modernizzazione del welfare e della pubblica istruzione, la lotta alla criminalità, la continuità in politica estera, la lotta alla disoccupazione attraverso la concertazione sociale, una revisione delle misure adottate dal governo Kohl in merito alle pensioni, e l’abrogazione delle leggi sul licenziamento e l’assistenza alle malattie. Poco diverso da quello socialdemocratico, e accomunato a esso da una sostanziale cautela nel definire i tempi e i costi delle politiche promesse, il programma democristiano insisteva da parte sua sull’inderogabilità di una grande riforma fiscale, sulla continuità in materia di energia nucleare, su una linea di maggiori controlli sull’immigrazione. Tuttavia, nonostante alcuni segnali di ripresa, il 1998 fu l’anno in cui i disoccupati e i senzatetto raggiunsero cifre mai registrate dalla fine della Seconda guerra mondiale e in questo quadro Kohl non riuscì, contrariamente a quanto aveva fatto nel 1994, a rovesciare i pronostici puntando su un’immagine di solidità e sicurezza. Il partito di Schröder vinse le elezioni (sett. 1998). La SPD conquistò il 40,9% dei voti (298 seggi al Bundestag), la CDU/CSU il 35,2% (245 seggi), i verdi il 6,7% (47 seggi), la PDS il 5,1% (35 seggi). Per la destra il voto costituì una secca sconfitta: nessuno dei tre partiti, DVU (Deutsche Volks­union), Republikaner e NPD (Nationaldemokratische Partei Deutschlands), riuscì a superare la soglia di sbarramento del 5% che condizionava, secondo la legge elettorale, l’ingresso al Bundestag, mentre i liberali dell’FDP ottennero il 6,2% (44 seggi), decisi a non partecipare a un governo con i socialdemocratici. Il governo di coalizione tra socialdemocratici e verdi, formato da Schröder nell’ottobre 1998, incontrò nel primo anno grandi difficoltà. Dopo la sconfitta di entrambi i partiti nelle elezioni regionali in Assia (febbr. 1999), forti tensioni tra le forze politiche scoppiarono in occasione dell’intervento militare in Iugoslavia (marzo-giugno 1999). Nel marzo 1999, inoltre, Lafontaine si dimetteva dalla carica di ministro delle Finanze, di presidente della SPD (al suo posto venne eletto il mese successivo Schröder) e di deputato, e accusava Schröder di eccessiva moderazione nella politica sociale ed economica, mentre solo nel maggio il Parlamento approvava, contro l’opposizione della CDU, una legge in materia di immigrazione che attribuiva, a partire dal 1º gennaio 2000, la cittadinanza tedesca a tutti i nati da genitori immigrati residenti nel Paese da almeno otto anni e in possesso di un permesso di soggiorno illimitato. Le elezioni europee del giugno successivo penalizzarono fortemente i partiti di governo, tuttavia la presenza della SPD sulla scena politica del Paese era stata rafforzata dall’elezione del socialdemocratico J. Rau alla presidenza della Repubblica (maggio 1999) e, nel settembre dello stesso anno, dalla nomina di E. Welteke, anch’egli esponente del maggior partito di governo, alla direzione della Bundesbank, in sostituzione del democristiano Tietmeyer. Con il 2000, la posizione di Schröder sembrò rafforzarsi. I contrasti fra verdi e SPD in materia nucleare trovarono, infatti, una prima soluzione nell’accordo tra governo e industrie che limitava a 32 anni la vita di ciascuna delle 19 centrali nucleari tedesche (la chiusura dell’ultima centrale era perciò prevista per il 2021). Anche sul piano della politica sociale, il governo ottenne importanti successi. Nel gennaio 2000 imprenditori e sindacati sottoscrissero un Patto per il lavoro che introduceva il criterio della produttività come misura dei livelli retributivi assieme al principio della flessibilità nelle rivendicazioni sindacali, consentiva l’intervento dell’esecutivo sulle richieste sindacali e poneva fine all’inderogabilità della soglia dei 60 anni per l’età pensionabile. Nel luglio dello stesso anno il Parlamento approvò la riforma che riduceva il carico fiscale di famiglie e imprese e aboliva le imposte sui capital gains derivati dalla vendita di quote di capitale di società tedesche. Nel dicembre, infine, Schröder ottenne l’assenso dei sindacati sul suo progetto di riforma del sistema pensionistico, progetto peraltro fortemente attaccato dall’opposizione e dall’ala sinistra della stessa SPD. Di fronte ai numerosi atti di violenza xenofoba e antisemita, spesso giunti fino all’omicidio, che avevano costellato la recente vita politica del Paese, Schröder si faceva intanto portavoce di una proposta di scioglimento del Partito nazionaldemocratico (NPD). Sul finire del 1999 la CDU, per parte sua, era stata investita da un grave scandalo che aveva coinvolto in prima persona Kohl. Implicato nello scandalo, anche il presidente del partito W. Schäuble si era dimesso (febbr. 2000) e al suo posto era stata eletta A. Merkel (apr. 2000). Nel 2001 il governo ottenne importanti successi: il Parlamento approvò nel maggio la riforma pensionistica che introduceva un sistema integrativo privato e riduceva di 3 punti il livello delle pensioni, mentre nell’ottobre la SPD otteneva nelle elezioni regionali di Berlino la maggioranza relativa dei voti e dava vita a una nuova coalizione con la PDS. Nel novembre 2001, contro l’opposizione dei Verdi e di una parte del suo stesso partito, Schröder otteneva il voto di fiducia del Bundestag, necessario alla partecipazione della G. all’intervento militare in Afghanistan (ottobre). Le elezioni del 2002 videro la conferma della maggioranza al governo, ma si ebbe anche la ripresa dell’alleanza CDU-CSU. L’elezione alla carica di presidente federale di H. Köhler (2004), cristiano-democratico, fu un altro segno di ritrovata forza dei due partiti. L’azione intrapresa da Schröder per il rilancio dell’economia (riduzione della spesa per il welfare e crescente flessibilità nel mercato del lavoro) determinò una crisi in seno alla SPD, conclusa (2005) con la nascita di una nuova formazione alla sua sinistra, Lavoro e giustizia sociale - L’alternativa elettorale (WASG). Schröder ottenne viceversa importanti consensi interni con la decisione di opporsi all’intervento statunitense in Iraq. All’indomani dell’esito di sostanziale parità tra il polo di sinistra e quello di destra alle elezioni anticipate del 2005, la carica di cancelliere fu affidata ad A. Merkel, prima donna alla guida del governo federale nella storia del Paese. La situazione di equilibrio impose la formula governativa della «grande coalizione» fra cristiano-democratici e socialdemocratici, con un accordo di governo basato sul compromesso tra la necessità di proseguire negli sforzi di ammodernamento e il rilancio dell’economia da una parte, e la massima preservazione possibile dello Stato sociale dall’altra. Nel 2009, dopo che la crisi economica aveva imposto impopolari misure fiscali e massicci tagli alla spesa pubblica, le elezioni hanno determinato il varo di una nuova coalizione di governo, in cui al posto dei socialdemocratici, nettamente sconfitti, sono subentrati i liberali.

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