GERARDO da Borgo San Donnino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 53 (2000)

GERARDO da Borgo San Donnino

Raniero Orioli

Originario di Borgo San Donnino (l'attuale Fidenza presso Parma), non è nota la sua data di nascita.

Le principali notizie su di lui, antecedenti al 1254, ci sono pervenute attraverso la Cronica di Salimbene de Adam, il quale lo conobbe personalmente ed ebbe modo di apprezzarne le qualità umane e intellettuali. Il cronista parmense ci descrive infatti G. come "giovane morigerato, onesto e mite" (p. 664), qualità che - unite a singolare memoria, intelligenza speculativa e conoscenza delle Sacre Scritture, riconosciutegli da Angelo Clareno - sono all'origine e spiegano, insieme con una pervicace ostinazione, le vicende che lo ebbero tragico protagonista.

G. si formò in Sicilia dove, dopo aver insegnato grammatica, entrò nell'Ordine francescano. Il padre provinciale Matteo da Piazza lo inviò a Parigi perché completasse gli studi teologici e nel dicembre del 1247 si trovava nel convento dei minori di Provins dove venne a contatto con esponenti della corrente gioachimitica all'interno dell'Ordine ed ebbe in tal modo l'opportunità di approfondire, in un ambiente congeniale, una scelta che già da tempo doveva aver maturato. Salimbene infatti, nel parlare del proprio soggiorno a Provins, afferma di avervi incontrato un suo conterraneo, Bartolomeo Guiscolo e lo stesso G., i quali avrebbero a più riprese cercato di avvicinarlo alla loro causa facendogli leggere le opere di Gioacchino da Fiore nonché l'Expositio super Hieremiam prophetam, uno scritto erroneamente attribuito all'abate florense in cui le istanze escatologiche, pur presenti nel pensiero di quest'ultimo, vengono drammaticamente esasperate.

Nonostante il tono critico e distaccato che Salimbene usa nel descrivere le personalità di Bartolomeo e G., quasi a voler frapporre fra sé e i due una netta discriminante, non è da escludere che a questo periodo sia da ricondurre, se non la "conversione" al gioachimismo dello stesso cronista, almeno un rafforzamento della sua adesione a siffatte teorie che all'epoca non erano ancora esclusive della corrente degli spirituali o di coloro che si richiamavano all'osservanza dello spirito primigenio di Francesco, ma appartenevano per così dire al patrimonio culturale di tutto l'Ordine. Salimbene aveva già, prima di Provins, partecipato alle riunioni che a Hières si tenevano alla presenza di Ugo di Digne, "magnus Ioachita", come "magnus Ioachita" era lo stesso Bartolomeo Guiscolo e come sarebbero stati il ministro generale dell'Ordine, Giovanni da Parma, e lo stesso Salimbene, anche se il cronista parmense per l'improvvisa morte di Federico II nel 1250 si convinse ad abbandonare l'adesione a un escatologismo che aveva prefigurato nell'imperatore svevo la figura dell'Anticristo.

Nel febbraio-marzo 1248 G. risiedeva a Sens e si trasferì poi nello Studium di Parigi, dove rimase per quattro anni, dal 1248 al 1252, salvo una parentesi che lo vide a fianco del maestro generale dell'Ordine in Grecia e a Costantinopoli; in tale occasione Giovanni da Parma avrebbe inviato G. in Romania quale visitatore presso i conventi minoriti.

Nel 1252 G. ottenne il grado di lettore di teologia nel convento parigino. La sua permanenza nello Studio coincise con un momento particolarmente delicato dell'ormai ventennale tensione che caratterizzava i rapporti tra maestri secolari e i nuovi ordini mendicanti. Quello che nelle sue originarie motivazioni poteva apparire uno scontro dettato da interessi corporativistici assunse in quegli anni una valenza di ben più ampia portata mettendo a confronto due diverse e contrapposte concezioni ecclesiologiche.

Tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta del XIII secolo domenicani e francescani avevano ottenuto il privilegio di una cattedra presso la facoltà teologica dello Studio parigino. Si era in tal modo affermato, se non concluso, un processo di integrazione nel tessuto sociale a tutti i livelli da parte dei due nuovi ordini, la cui singolarità, in relazione alla fattispecie che qui interessa, non era dovuta alla specificità del messaggio pauperistico quanto al fatto che, dipendendo direttamente dalla Curia romana, sfuggivano al controllo dell'autorità ecclesiastica ordinaria. Significativamente i pontefici avevano affidato ai domenicani prima e poi ai francescani il compito di perseguire gli eretici, affiancando il vescovo in un suo compito istituzionale, ma di fatto esautorandolo, grazie a una sommatoria di poteri esercitati in un ambito giurisdizionale ben più ampio di quello diocesano. D'altra parte l'autorità ecclesiastica ordinaria, sempre più integrata quando non compromessa con il secolare, si rivelava incapace di fornire una risposta adeguata alle istanze evangeliche e pauperistiche, di cui invece gli eretici si facevano portatori, facilitati nel loro proselitismo da comportamenti non sempre conformi al dettato evangelico del clero secolare e di parte della gerarchia. I privilegi che di mano in mano venivano concessi dai pontefici agli ordini mendicanti minacciavano in tal modo di scalzare il tradizionale sistema ecclesiastico che vedeva la cura animarum affidata per la quasi totalità al vescovo e attraverso questo ai parroci; il tutto con conseguenze negative di indubbio rilievo sia per il prestigio del vescovo stesso sia sul piano patrimoniale.

Da parte loro i maestri secolari cercarono di reagire alla lenta ma costante penetrazione nell'Università di Parigi di domenicani e francescani agendo su due fronti, tentando cioè di delegittimarne la funzione pastorale e colpendo questi ordini con gli strumenti normativi e corporativistici in loro possesso. Nel 1252 in una riunione segreta, nel tentativo di bloccare la situazione prima che venisse del tutto compromessa, i maestri decretarono, infatti, il divieto agli ordini religiosi di aprire nuovi collegi oltre a quelli già esistenti.

La risposta degli ordini mendicanti non si fece attendere e a un'azione di pretto stampo corporativistico, quale la sospensione delle lezioni voluta dai secolari al fine di protestare contro l'eccessiva durezza dimostrata dall'autorità nei confronti degli studenti, essi risposero rifiutandosi di aderire alla "serrata". A questo episodio, nel corso del 1253 e nei primi mesi del 1254, se ne aggiunsero altri, con esiti alterni e coinvolgenti lo stesso pontefice Innocenzo IV, senza peraltro che si potesse giungere a una soluzione.

In questo clima di conflittualità permanente e di precari equilibri, G. nel 1254 pubblicò la Concordia Novi et Veteris Testamenti di Gioacchino da Fiore premettendo a essa un Liber introductorius in evangelium aeternum: come dice Manselli, "la sua opera appariva a Parigi nel momento meno favorevole storicamente".

Gioacchino da Fiore nella Concordia aveva proposto un criterio interpretativo delle Sacre Scritture per certi versi innovativo rispetto alla precedente esegesi. Vedeva infatti nelle Scritture il processo di manifestazione della Trinità tra gli uomini e divideva la storia dell'umanità in tre periodi di cui il primo, quello del Padre, era espresso dal Vecchio Testamento, il secondo, quello del Figlio, dal Nuovo e il terzo, dello Spirito Santo, che non avrebbe avuto una sua propria "scrittura" ma sarebbe stato contraddistinto dalla capacità di "leggere" il Testamento, non più nel suo significato letterale ma alla luce di uno spiritualis intellectus, di una conoscenza che supera e trascende la lettera. Grazie a una sorta di parallelismo tra le prime due età, Gioacchino lasciava intravedere la possibilità di determinare l'età dello Spirito Santo nelle sue più significative espressioni. Così come l'età del Padre era caratterizzata da un ordo coniugatorum e quella del figlio da un ordo clericorum, il terzo status sarebbe stato conformato a un ordo monachorum che, dotato di una intelligentia spiritualis, sarebbe stato in grado di conoscere e far conoscere la Sacra Scrittura nel suo più alto valore, ed essa, nel superamento del significato letterale, si sarebbe posta evangelium aeternum. L'abate florense inoltre, come un vero profeta biblico, lasciava intendere che si era giunti ormai al termine dell'età del Figlio e che si approssimava l'avvento dell'età dello Spirito Santo; essa, in analogia con le precedenti fasi della storia dell'umanità, sarebbe stata preceduta da persecuzioni e dall'avvento dell'Anticristo; tuttavia Gioacchino aveva avuto l'avvertenza di evitare l'applicazione del proprio metodo esegetico in modo automatico e si era ben guardato dal determinare il modo e il momento del passaggio.

Anche se il Liber introductorius di G. non ci è pervenuto, in quanto ne fu ordinata la distruzione, è tuttavia possibile ricostruirne il contenuto, sia pur nella sue linee essenziali, attraverso quanto conservatoci nel verbale della commissione cardinalizia nominata da Alessandro IV con l'incarico di esaminarlo, dagli estratti fattine dagli stessi maestri parigini e dalle glosse di G. a Gioacchino, cui la suddetta commissione fece riferimento e che sono conservate in un manoscritto della Landesbibliothek di Dresda (A.121, edito in Denifle).

G., in sostanza, faceva proprio il criterio esegetico di Gioacchino, esasperandone tuttavia l'aspetto profetico ed escatologico, con esiti per certi versi dirompenti che diedero facile estro agli oppositori degli ordini mendicanti. Il Liber altro non era per G. che una introduzione a tre opere di Gioacchino, la Concordia, l'Apocalipsis nova e lo Psalterium decem chordarum, che egli provvide a commentare e glossare, ma, in netta discordanza con lo stesso abate florense, assunse queste tre opere come evangelium aeternum, come cioè la "scrittura" dell'età informata e dettata a Gioacchino dallo Spirito Santo; scrittura che si sostituiva sia al Vecchio sia al Nuovo Testamento, vanificandoli. G. inoltre dichiarava che il Nuovo Testamento aveva cessato ogni sua funzione a partire dal 1200, mentre l'avvento dell'Anticristo e delle tribolazioni che lo avrebbero accompagnato quali espressioni del passaggio all'età dello Spirito erano, contrariamente a quanto lo stesso Gioacchino aveva sostenuto, temporalmente circoscritte all'anno 1260.

G. aggiungeva poi che, così come l'età del Padre era stata caratterizzata dalle figure di Abramo, Isacco e Giacobbe, e quella del Figlio da Zaccaria, Giovanni Battista e Gesù, l'età dello Spirito Santo sarebbe stata illuminata dalle personalità di Gioacchino, di Domenico e di Francesco, la posizione del quale veniva configurata specularmente a quella di Cristo; un tema quest'ultimo che sarebbe stato presente nella letteratura agiografica francescana successiva, anche se con diversa valenza.

G. assegnava così al proprio Ordine quella funzione primaria che Gioacchino aveva attribuito, in maniera tuttavia più nebulosa e generica, all'ordo monachorum. I viri spirituales, laici e chierici che costituivano l'ordo del terzo status, in G. erano, ancora più dei domenicani, i suoi confratelli francescani; ma soprattutto la intelligentia spiritualis, che avrebbe caratterizzato questi ultimi avrebbe tolto ogni ragion d'essere al clero secolare e alla gerarchia, depositari dell'esegesi di una Sacra Scrittura ormai svuotata di ogni significato.

Se si fa eccezione per l'originale interpretazione delle tre opere di Gioacchino sopra indicate quali essenza costituente dell'evangelium aeternum, gli altri temi si ricollegano al comune bagaglio di una letteratura pseudo-gioachimitica che si stava elaborando a partire dai primi anni Quaranta del XIII secolo. Una letteratura che - strettamente condizionata e correlata agli avvenimenti politici, primo fra tutti la definitiva rottura tra Innocenzo IV e Federico II con la scomunica del 1245 - aveva esasperato l'aspetto escatologico, l'attesa cioè di un'epoca nuova, ritenuta tanto prossima da far sì che il 1260 fosse considerato a tutti gli effetti l'anno gioachimitico per eccellenza.

Il Liber introductorius offrì indubbiamente un'occasione irrepetibile, sia all'autorità ecclesiastica ordinaria sia ai maestri, per procedere contro gli ordini mendicanti e contro lo stesso Gioacchino, il cui ordo monachorum veniva assunto dai mendicanti quale profetica espressione e giustificazione della loro stessa esistenza. Il vescovo di Parigi, Renaud Mignon, inviò alla Curia romana il Liber e la Concordia glossata da G. perché li ritenne fortemente sospetti di eresia. A loro volta i maestri parigini, e primo fra tutti Guglielmo di Saint-Amour, ne compilarono un estratto in cui si elencavano 31 errori, di cui 7 attribuiti a G. e 24 a Gioacchino.

La reazione della Curia fu di estrema cautela. Nel 1255 Alessandro IV, da poco salito al soglio pontificio, affidò a una commissione, composta da Oddone cardinale vescovo di Tuscolo, Stefano cardinale vescovo di Palestrina e Ugo, cardinale prete di S. Sabina, il compito di esaminare il Liber. Il 7 luglio dello stesso anno la commissione presentò al pontefice un documento conosciuto come "Protocollo di Anagni", dal luogo in cui si tennero le riunioni. Esso è costituito da una prima parte in cui i tre cardinali riassunsero succintamente il pensiero di G., così come era espresso dal Liber introductorius, per concludere drasticamente: "codesti errori e fatuità trovammo in codesto libro, e poiché esso ne è tutto infarcito, non abbiamo voluto dilungarci ritenendo sufficiente quanto esposto per giudicarlo". Di diverso tenore la seconda parte: ben più articolata e analitica, è dedicata all'esame delle opere di Gioacchino in funzione delle premesse gerardiane ma non limitata alle sole tre che nel pensiero di G. dovevano costituire l'evangelium aeternum. Alla presenza dei cardinali Oddone e Ugo - assente giustificato il cardinale Stefano -, Fiorenzo, vescovo di Acri, funse da relatore, mentre altri due religiosi assistettero e controllarono che i passi di Gioacchino venissero citati in modo corretto.

Il procedere del vescovo di Acri è puntuale, quasi pedante; egli delinea i principî informanti il pensiero del florense, manipolandoli tuttavia nel momento in cui li estrapola dal loro più ampio contesto per metterli in connessione con le glosse di Gerardo. Pochi i commenti personali, ma significativi perché riecheggiano le accuse mosse dai maestri parigini, anche se del libello, ben presente al relatore, nel "Protocollo" non si fa cenno. È questo il caso in cui Fiorenzo attribuisce a Gioacchino la colpa di aver giustificato e per così dire esaltato come ispirato dallo Spirito Santo lo scisma della Chiesa orientale: una forzatura non legittimata dalle opere del florense, ma contenuta nell'estratto parigino per il quale "non è l'esattezza il principale obiettivo" (Dufeil).

Il "Protocollo" termina senza alcun giudizio di merito, quasi che i cardinali non intendessero prendere posizione sulla lettura che di Gioacchino forniva il vescovo di Acri. Un silenzio cui corrispose significativamente la cautela di Alessandro IV; una cautela che non è motivata, come vuole il Tocco - che attribuisce il Liber introductorius al ministro generale dei francescani Giovanni da Parma - dal desiderio di portare riguardo alla sua persona, ma dalla necessità di non assecondare il gioco dei maestri parigini nel coinvolgimento degli ordini mendicanti nella loro totalità sulla base della devianza di un solo soggetto.

Un disegno, questo dei maestri, che trova un puntuale riscontro nel Tractatus brevis de periculis novissimorum temporum di Guglielmo di Saint-Amour, la cui prima redazione è, come il "Protocollo", del 1255. In tale opera, il maestro parigino attuava un vero e proprio ribaltamento delle teorie di G., rivendicando alla sola gerarchia ecclesiastica la cura delle anime, escludendo deliberatamente da tale compito non solo i laici ma anche i monaci, negando il diritto di mendicare rivendicato dai nuovi ordini, per concludere che quella Chiesa spirituale che G. aveva ripreso da Gioacchino trasferendola al proprio ordine in realtà altro non era che la sinagoga di Satana precorritrice dell'Anticristo. A Guglielmo risposero puntualmente e ciascuno per il proprio Ordine Bonaventura da Bagnoregio e Tommaso d'Aquino. Da parte sua Alessandro IV non entrò in siffatta polemica e il 23 ott. 1255, con la lettera Libellum quemdam al vescovo di Parigi, fece proprie le conclusioni del "Protocollo" nella sola parte relativa a Gerardo. Il pontefice invitò l'ordinario parigino a ordinare la distruzione del Liber introductorius e della Concordia glossata da G., ma identico trattamento riservò anche al libello dei maestri. Le finalità di Alessandro sono ancora più esplicite nella successiva lettera dell'8 maggio 1256, in cui invitava il presule a maggiore sollecitudine nell'adempimento di quanto gli aveva ordinato nell'ottobre dell'anno precedente, pregandolo tuttavia di avere riguardo a che non venisse compromesso l'Ordine dei francescani.

Da parte sua l'Ordine si mosse in perfetta consonanza con gli intendimenti della Curia. G. venne rispedito in Sicilia, privato del titolo e della funzione di lettore e inibito a ogni forma di attività pastorale. Giovanni da Parma, che con il suo indulgere a istanze gioachimitiche aveva rischiato di compromettere il futuro dell'Ordine, subì pressioni tali che nel 1257 lo portarono alla rinuncia al generalato e a un processo che il suo successore, Bonaventura, onde evitare ulteriori danni, avrebbe curato che si concludesse con una condanna relativamente mite.

Diverso invece il trattamento riservato a Gerardo. Richiamato a Parigi nella seconda metà del 1258, venne giudicato da una commissione presieduta dallo stesso Bonaventura, da un anno ministro generale. Di fronte alla sua ostinazione, la condanna fu inevitabile e severa. G. fu ritenuto colpevole di eresia, scomunicato e condannato al carcere perpetuo. Anche se il suo insegnamento non sembra aver avuto alcun seguito né discepoli, il rischio corso dall'Ordine era stato tale che "occasione istius Ghirardini ordinatum est ut de cetero nullum scriptum extra Ordinem publicetur, nisi prius fuerit per ministrum et diffinitores in provinciali capitulo approbatum" (Salimbene, p. 670).

G., senza mai abdicare alle proprie convinzioni, languì in carcere per ben diciotto anni e morì in Sicilia nel 1276, senza conforti religiosi, privato della sepoltura ecclesiastica e inumato in terra non consacrata: "sepultus in angulo orti" (ibid., p. 341).

Fonti e Bibl.: Salimbene de Adam, Cronica, a cura di G. Scalia, Bari 1962, I, pp. 340 s.; II, ibid. 1966, pp. 659-670; Angelo Clareno, Chronica seu historia septem tribulationum, a cura di A. Ghinato, Roma 1959, pp. 103 s., 125 s.; H. Denifle, Das Evangelium aeternum und die Commission zu Anagni, in Archiv für Literatur- und Kirchengeschichte, I (1885), pp. 99-142; F. Tocco, Studii francescani, Napoli 1909, pp. 193-222; G. Bondatti, Gioachinismo e francescanesimo nel Dugento, Assisi 1924, pp. 67-85 e passim; E. Benz, Joachim. Studien, II, Die Exzerptsätze der Pariser Professoren aus den "Evangelium aeternum", in Zeitschrift für Kirchengeschichte, LI (1932), pp. 415-455; H. Grundmann, Federico e Gioacchino da Fiore, in Atti del Convegno internazionale di studi federiciani… 1950, Palermo 1952, pp. 88 s.; D.L. Douie, The conflict between the seculars and the mendicants at the University of Paris in the thirteenth century, London 1954, pp. 1-30; R. Manselli, La "Lectura super Apocalipsim" di Pietro di Giovanni Olivi. Ricerche sull'escatologismo medioevale, Roma 1955, pp. 106-118, 140, 164, 212; B. Töpfer, Eine Handschrift des Evangelium aeternum des Gerardino von Borgo San Donnino, in Zeitschrift für Geschichtswissenschaft, VIII (1960), pp. 156-163; M. Reeves, The influence of prophecy in the later Middle Ages. A study in joachimism, Oxford 1969, passim; M.-M. Dufeil, Guillaume de Saint-Amour et la polémique universitaire parisienne. 1250-1259, Paris 1972, pp. 123-126, 166-168, 172 s. e passim; F. Rotolo, S. Bonaventura e fra G. da B.: riflessi del gioachinismo in Sicilia, in O theologos. Cultura cristiana di Sicilia, II (1975), pp. 263-297; D. Ciccarelli, "Studia", maestri e biblioteche dei francescani in Sicilia, in Francescanesimo e cultura in Sicilia. Atti del Convegno… Palermo… 1982, Palermo 1987, pp. 181-207; M. Cusato, Le mouvement franciscain au XIII siècle dans un registre dissident: François d'Assise, Césaire de Spire et Gérard de Borgo San Donnino, in Heresis, XIII-XIV (1990), pp. 293-321; B. Töpfer, Il regno futuro della libertà. Lo sviluppo delle speranze millenaristiche nel Medioevo centrale, Genova 1992, pp. 149-155, 176-179; Enciclopedia Italiana, XVI, p. 654; Repertorium fontium historiae Medii Aevi, IV, p. 696; Dict. d'hist. et de géogr. ecclésiastiques, XX, coll. 719-721; Lex. des Mittelalters, IV, 2, col. 1315.

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