Geo-diritto

Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

Geo-diritto

NNatalino Irti

di Natalino Irti

Geo-diritto

sommario: 1. Prima nozione di geo-diritto. 2. Forma spaziale e territorialità. 3. Confine: la funzione inclusiva. 4. Confine: la funzione esclusiva. 5. La s-confinatezza dell'economia globale. 6. La concezione monistica di Fichte. 7. Il luogo come fondamento (Schmitt). 8. Lo spazio come dimensione (Kelsen). 9. L'atopia della rete telematica. 10. L'incapacità autoregolatrice dell'economia. 11. Ordine giuridico del mercato o mercato degli ordini giuridici. 12. L'effetto compensativo dei diritti dell'uomo. 13. Artificialità normativa e accordi fra Stati. □ Bibliografia.

1. Prima nozione di geo-diritto

Il termine 'geo-diritto' designa lo studio delle relazioni tra norma giuridica e punti dello spazio. È stato introdotto in Italia, se non ci si inganna, soltanto nel 2001 (v. Irti, 2001); ma la cultura tedesca conosce, già dai primi decenni del secolo scorso, trattazioni di Geojurisprudenz.

Lo svolgimento del tema congiunge insieme definizioni teoriche e disegno storico. I due profili non sono separabili: scoperte della scienza, applicazioni tecniche, nuove forme dell'economia concorrono nel disvelare la misura spaziale del diritto.

Questa misura è propria della norma giuridica, la quale non è concepibile senza determinazioni di luogo e di tempo. L'obbligo giuridico, al pari di ogni altra specie di dovere, riguarda la condotta di uno o più soggetti in un dato punto dello spazio e in un dato momento del tempo. La norma giuridica ha sempre bisogno di un dove e di un quando: essa vale e vige, si applica e si attua, nelle due dimensioni. Si direbbe kantianamente che spazio e tempo sono forme a priori del diritto, categorie ordinatrici e unificatrici dei fenomeni regolati.

La validità spaziale serve a raccogliere i molteplici fenomeni nell'unità di un luogo (come la validità cronologica a raccoglierli nell'unità di tempo). Secolari dottrine assegnano alla norma giuridica i predicati di astrattezza e generalità, regolando essa classi di azioni e rivolgendosi a classi di soggetti. Ma l'indefinita apertura, che pur impedisce alla norma di esaurirsi nel singolo caso, finirebbe per dissolverla in cieca molteplicità: qui soccorrono i criteri unificanti di spazio e di tempo, onde la norma si circoscrive e determina.

Questo appoggiarsi della norma ai punti dello spazio, nei quali le statuizioni giuridiche possono applicarsi e attuarsi, costituisce propriamente il contenuto del geo-diritto.

La denominazione serve a tradurre, entro il quadro del nostro tempo, il problema - già individuato da Federico Carlo di Savigny (v., 1849; tr. it., pp. 31 e 119) - della 'sede' dei rapporti giuridici, cioè del diritto a cui essi appartengono o sono sottoposti.

2. Forma spaziale e territorialità

I problemi geo-giuridici non erano estranei né ignoti agli Stati nazionali d'Occidente, ove però si configuravano come mere questioni di territorio. Insegna ancora la dottrina delle scuole risultare lo Stato dalla sintesi di popolo, territorio, sovranità. Concetti e metafore, teorie e immagini, esprimono il rapporto fra Stato (e, dunque, potestà di prescrivere e di coercire) e superficie della Terra: lo Stato ha un territorio; lo Stato è un territorio; lo Stato abita in un luogo; il territorio è la casa dello Stato.

E sempre, o perlomeno spesso, ricorre la figura geometrica della sfera, la quale indica, da un lato, il racchiudersi della forma in se stessa e, dall'altro, un luogo di punti equidistanti da quel centro, che è la potestà sovrana dello Stato. Non un'estensione uniforme e indistinta, omogenea e lineare, ma nuclei di eccezionale densità, fisionomie particolari e inconfondibili.

Alla piattezza di una mera estensione si contrappongono le forme statuali, costituite di un territorio e su un territorio, non separabili da quelle porzioni del globo in cui sta la loro essenza.

3. Confine: la funzione inclusiva

Il concetto di confine ebbe, e tuttora ha, importanza straordinaria. Una famiglia di parole - 'limite', 'termine', 'confine' - serve a designare il divieto di oltrepassamento, a distinguere il dentro e il fuori. Il confine, rompendo la continuità estensiva della superficie, determina un luogo, questo o quel luogo della Terra (v. Cacciari, 2000, p. 75). I beni immobili non sono concepibili senza determinazione di confini: anzi, s'identificano e fanno tutt'uno con essi.

Il confine circoscrive e individua, divide e separa, e - prime tra le altre funzioni - include ed esclude. La funzione inclusiva genera l'appartenenza: appartiene, ossia è parte di un tutto, chi si trova al di qua del confine. Costui è cittadino, membro della civitas. Coloro che stanno dentro il confine si chiamano perciò conterranei: essi non soltanto abitano una medesima e unica terra, ma da essa provengono. La conterraneità non è estendibile a tutti gli uomini, che pure dimorano sulla superficie del globo, ma raccoglie soltanto coloro che hanno origine da un certo luogo. Conterraneità implica determinazione di luogo; il luogo postula determinazione di confini. Senza confini, e dunque senza la separatezza da altri, gli uomini né appartengono né si dicono 'conterranei'. I confini generano la forma spaziale dello Stato, e così di regioni, città, villaggi e di ogni altro gruppo insediato sulla Terra.

4. Confine: la funzione esclusiva

Il confine adempie anche una funzione esclusiva. Dividendo e separando, non lascia oltrepassare. A coloro che, stando dentro, 'appartengono', e dunque si ritrovano nell'esser 'conterranei', sono contrapposti i forestieri, gli uomini di fuori. Georg Simmel ha colto efficacemente questo tratto: "Nella misura in cui una formazione sociale è fusa o, per così dire, solidale con una determinata estensione di territorio, essa presenta un carattere di unicità o di esclusività che non può essere conseguito in altra maniera" (v. Simmel, 1908; tr. it., p. 526). Il confine, individuando un luogo della superficie terrestre, cioè rendendolo individuum (unità non separabile né scomponibile), esclude gli altri: non permette che quelli di dentro e quelli di fuori abbiano una terra in comune. L'esclusività sempre si consegna a un aut-aut.

Istituti e linguaggio del diritto sono costruiti sul carattere dell'esclusività. Esclusivo non può non essere ogni ordinamento giuridico, si direbbe ogni norma: la quale, regolando un caso o una materia, impedisce che essi, nel medesimo istante di tempo, siano disciplinati da altra norma. La normatività giuridica vuole tutto per sé. Come non si possono professare insieme due fedi religiose, così è inconcepibile assoggettare una data materia a due ordini di norme. La scelta di un ordine esclude qualsiasi altro.

Esclusivi, per eccellenza e per definizione, sono i diritti reali, e primo fra tutti il diritto di proprietà. Le cose, individuate dai confini, sono pertinenti al titolare in modo esclusivo: spettano cioè soltanto a lui, e non ad altri. L'aut-aut rivela una stringente e rigida fisicità. Ben a ragione sovranità e proprietà, poiché ambedue indicano signorie piene ed esclusive, furono ricondotte al medesimo concetto, e tenute per analoghe o parallele.

Il Codice civile oggi vigente in Italia (risalente al 1942) definisce la proprietà come "diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo" (art. 832). Al proprietario fondiario spettano due antiche forme di tutela (artt. 950 e 951): la "azione di regolamento dei confini" (actio finium regundorum) e la "azione per apposizione dei termini". Sovranità e proprietà, signoria della norma astratta e signoria del diritto soggettivo, potere pubblico e potere privato: tutti si radunano intorno al concetto del confine escludente, di una limitazione terrestre che, proprio come tale, è in grado di separare e individuare.

5. La s-confinatezza dell'economia globale

La forma spaziale dello Stato raccoglie in sé politica e diritto. Identico l'ambito di vita: lotte ideologiche, competizione tra partiti, farsi e disfarsi di maggioranze parlamentari e di governi, da un lato; dall'altro, susseguirsi di leggi e codici, esercizio di poteri amministrativi e giurisdizionali, stipulazione di contratti privati. Le sfere coincidono, o tendono a coincidere; e sono, ambedue, determinate e individuate dai confini. Ci sono bensì politica estera e diritto internazionale, ma, appunto, come un affacciarsi e protendersi di diritto e politica al di là del confine, onde l'uno si svolge inter nationes e l'altra si fa extera, ossia esce al di fuori e s'indirizza allo straniero.

Questo quadro, così racchiuso e serrato, è messo in pericolo dal capitalismo moderno: modo di economia che, applicando il criterio di divisione del lavoro e producendo in serie, esige mercati sempre più vasti e aperti. La volontà d'indefinito profitto, congiungendosi con le scoperte della scienza e le applicazioni della tecnica, non conosce confini. La sua propria natura sospinge a 's-confinatezza' e 'de-localizzazione'. Il produrre e lo scambiare non richiedono identità né di luoghi né di soggetti: essi si fanno ovunque e con chiunque. Il capitalismo ha tale grado di oggettività e neutralità da considerare i territori degli Stati come spazi di nessuno - o, meglio, come spazi dell'impersonale produrre e scambiare - e da spogliare gli individui dei loro caratteri - religiosi linguistici etnici - riducendoli a mere funzioni del mercato. Tutto ciò che presuppone confine, termine, limite viene minacciato e travolto: il capitalismo, nell'indefinito perseguimento del profitto, ignora la misura, capace di definire ambiti e soggetti, sfere e luoghi. E così, mentre politica e diritto si attardano entro la misura dei confini, e restano fedeli alle vecchie forme spaziali, l'economia capitalistica varca ogni barriera; non distingue cittadini e stranieri (poiché tutti agguaglia nell'omogeneità dello scambio), si espande ovunque, negozia con chiunque, si configura, insomma, come potenza planetaria e globale. La conterraneità perde qualsiasi importanza, e così la storia, che costituisce l'identità di gruppi e di luoghi; giova soltanto la funzionale contemporaneità, ossia la com-presenza sul mercato. Nota finemente Bernard Berenson, in una pagina di diario del 15 gennaio 1955: "Lo spazio è stato ridotto dal tempo, e il tempo stesso ridotto da sempre più rapide comunicazioni" (v. Berenson, 1959, p. 236).

Donde segue che gli uomini, non cessando di appartenere ai luoghi storici e pure entrando nella sconfinata dimensione dell'economia, si avvertono quasi divisi, scissi nella loro originaria unità. Non più individui, ma 'dividui': una duplicità che lacera e turba, e mette in forse l'elementare e stabile certezza del 'dove siamo'. Su quest'intrinseca 'dis-misura' dell'economia torneremo più innanzi; ne bastino ora un accenno e un preannuncio.

6. La concezione monistica di Fichte

Fra i pensatori che primi colsero il dissociarsi di sfera politico-giuridica e ambito economico un posto d'onore spetta, per rigore di analisi e ardimento di soluzioni, a Johann Gottlieb Fichte. Lo Stato commerciale chiuso (Der geschlossene Handelsstaat), risalente al 1800, s'industria a ricondurre politica, diritto ed economia entro una ferma e definita unità. Il carattere di esclusività, che vedemmo dominare gli istituti giuridici, viene anche applicato al sistema economico: "Ogni uomo è cittadino di uno Stato o non è tale: parimenti, ogni prodotto di un'attività umana appartiene alla sfera commerciale di esso o no; non si dà un terzo caso" (v. Fichte, 1800; tr. it., p. 35). Libero commercio e moneta comune potevano ben concepirsi nell'Europa cristiana, ma, frantumatasi quest'ultima nella molteplicità degli Stati nazionali, è evidente che a ciascuno Stato debbano corrispondere una sfera economica e una moneta territoriali. La chiusura del territorio, determinando unità e identità dello Stato, è altresì chiusura del commercio. Insomma, la ragione esige che "lo Stato si chiuda completamente a ogni commercio all'estero, formi d'ora in poi un corpo commerciale così separato, come finora ha formato un separato corpo giuridico e politico" (ibid., p. 116).

Rotta l'unità dell'Europa cristiana e scomposta la superficie di questa parte del globo nella molteplicità degli Stati nazionali (che sono forme, chiuse ed esclusive, di politica e diritto), che senso ha mai il rapporto commerciale tra un cittadino e uno straniero? Il diritto si sforzerà di attirarli e stringerli nella sfera di un solo Stato, poiché non è concepibile un diverso luogo, estraneo ai singoli territori statali, in cui quei soggetti possano incontrarsi e stipulare negozi. L'aut-aut dell'esclusività torna in modi forti e perentori: la negazione di luoghi terzi, neutrali e 'de-statalizzati', riconduce tutti gli scambi all'alternativa di appartenere o non appartenere all'ordinamento del singolo Stato. Non si può non appartenere a un ordinamento; non si può appartenere che a un solo ordinamento: "non si dà un terzo caso". Fichte percepisce, con acuta e sottile sensibilità, l'impazienza degli scambi di liberarsi dai vincoli territoriali, di farsi un loro proprio luogo in cui i soggetti non siano più cittadini e stranieri, ma puri homines oeconomici. La sua risposta è nella rigida chiusura del territorio.

7. Il luogo come fondamento (Schmitt)

Per elevarsi da così vario intreccio di ragioni, politiche, economiche e giuridiche, al piano della teoria generale, i problemi di geo-diritto dovranno attendere due discordi autori del Novecento: Carl Schmitt e Hans Kelsen. Qui la relazione fra norma e spazio assume l'importanza di un criterio decisivo.

Ha la data del 1950 il grande libro Der Nomos der Erde, ma preannunci e anticipazioni si colgono già in pagine schmittiane degli anni trenta. Il diritto ha fondamento negli atti primordiali di occupazione e ripartizione della terra. L'occupazione di terra "costituisce per noi all'esterno (nei confronti di altri popoli) e all'interno (con riguardo all'ordinamento del suolo e della proprietà entro un territorio), l'archetipo di un processo giuridico costitutivo" (v. Schmitt, 1950; tr. it., p. 25). Questo atto originario viene interpretato da Schmitt come evento storico e come categoria logica: esso determina una forma spaziale da cui discende ogni altro istituto e criterio di diritto. Ordinamento e localizzazione, Ordnung e Ortung, coincidono appieno: la superficie terrestre - occupata, resa 'individua' dai confini, unita verso l'esterno e l'interno - si fa così luogo, spazio costitutivo e principio di ogni diritto. Il nomos (che nella propria radice ha il 'dividere' e il 'pascolare') è perciò "la forma immediata nella quale si rende spazialmente visibile l'ordinamento politico e sociale di un popolo" (ibid., p. 59).

Il diritto - questo il profilo che più tocca il nostro discorso - non si proietta sullo spazio; non discende, per così dire, dalla volontà prescrittiva verso l'uno o l'altro punto della terra, mercé una scelta affatto arbitraria e casuale, ma è tutt'uno con la determinazione spaziale di un popolo. Il suo essere, la sua storica concretezza e comprensibilità logica è nel radicamento terrestre.

Radicamento sul quale incombe la minaccia del moderno capitalismo, quel produrre e scambiare che non conosce né luoghi né confini. Schmitt ne ha dolorosa consapevolezza: "Proprio qui, nel campo dell'economia, l'antico ordinamento spaziale della terra perse evidentemente la sua struttura" (ibid., p. 302). Che ne è dunque del diritto? È concepibile un ordine giuridico che si sciolga dai luoghi, dal suo essere terrestre? A questi interrogativi Schmitt proverà a dare risposta o con l'ambigua dottrina del Grossraum o, negli anni del dopoguerra, con una sorta di moltiplicazione di nomoi, onde si trascorre dalla presa di possesso terrestre a quella industriale e aerea dell'oggi. La concretezza esistenziale del nomos sembra cedere alla descrizione tecnico-economica di sfere di dominio: il nomos non è in grado, per le sue proprie radici terrestri, di conquistare gli spazi mercantili.

8. Lo spazio come dimensione (Kelsen)

Il rapporto tra diritto e spazio - che abbiamo visto ragionato da Fichte nella teoria dello 'Stato commerciale chiuso' e poi innalzato da Schmitt a principio originario e costitutivo - viene nettamente invertito nella dottrina kelseniana. Qui lo spazio è ridotto a pura dimensione, a misura arbitraria della validità normativa. Non c'è alcun legame intrinseco e genetico, ma soltanto la volontà di determinare un campo di vigenza, di circoscrivere spazialmente il dover essere della norma. Il 'dove' applicativo non sta all'origine, non è fondamento, ma ambito voluto e deliberato dalla norma. La quale, dispiegando la propria validità nello spazio e nel tempo, ha pur bisogno di modalità cronologiche e topografiche. La modalità topografica della norma designa uno spazio astorico, indipendente dalle origini della comunità e dalla divisione primeva. La norma è sradicata dai luoghi. Essa ha soltanto una dimensione spaziale, in cui si proietta con arbitraria artificialità.

Il carattere di artificialità va messo nella luce più chiara. Dove Schmitt scorge un rapporto primordiale, un diritto che è insieme concreto ordine e spazio storicamente determinato, Kelsen agisce con meri contenuti normativi. Non più confini della terra da cui provengono tutti gli istituti giuridici, ma ambiti di vigenza, artifici spaziali, disegnati dalla volontà normativa. La quale non è certo capricciosa e fortuita, ma pur slegata da radici terrestri è capace di darsi la dimensione spaziale che sia considerata, di volta in volta, più utile e opportuna. Si direbbe: dimensione costituita, e non fondamento costitutivo.

Gli è che per Kelsen, "giuridicamente, la fatticità non dice nulla", e che il territorio si configura come semplice 'elemento del contenuto normativo'. "Come la norma è valida in qualche tempo, così essa è valida in qualche luogo" (v. Kelsen, 1920; tr. it., p. 105). L'essere dell'Ordnung schmittiano nasce da un dato luogo; il dover essere kelseniano sceglie 'qualche luogo'. E perciò esso non si spaurisce dinanzi alla volontà sradicante dell'economia, la quale, nella sua 'dis-misura' spaziale, non minaccia alcun principio originario: richiederà, al più, una diversa e più ampia sfera di validità. Il processo dinamico del diritto, onde dalla Grundnorm si generano gradi successivi di disposizioni generali e particolari, non viene colpito dalla latitudine planetaria dell'economia. Non ci sono antiche divinità né nomoi terrestri che si ritirino in misteriose cavità: la catena produttiva di norme può funzionare ancora.

Anche la categoria del tempo presenta la stessa diversità di indirizzo. Nella teoria schmittiana del nomos, il tempo del diritto è tutt'uno con la durata del gruppo: fino a che le radici non siano recise, e sconvolta o rovesciata l'originaria occupazione della terra, l'ordine giuridico permane. Qui la categoria giuridica del tempo coincide con la storicità dell'evento fondativo. I conterranei sono tali perché hanno una memoria comune. La forma del diritto è spazio-temporale o, meglio, storica e localizzata. Nella concezione di Kelsen e, aggiungerei, in una qualsiasi dottrina dell'artificialità normativa il tempo indica soltanto una modalità cronologica di validità: arbitraria, sostituibile e modificabile al pari della modalità topografica. Come non si danno giuridicamente conterranei, ma semplici destinatari della norma, e come lo spazio viene ridotto ad ambito applicativo, così anche il tempo è consegnato alla determinazione del legislatore. È un tempo astratto (per usare le parole di Gerhart Husserl), che ordinariamente riguarda e anticipa il futuro, ma che può rivolgersi anche al passato (è il caso delle norme retroattive), qualificando e valutando fatti già accaduti. Non c'è alcun vincolo, né di luoghi, né di gruppi, né di comune memoria: il tempo si muta in categoria artificiale, manovrabile dalla volontà umana. Alla rammemorante terrestrità del nomos subentra l'effimera discontinuità, la nichilistica provvisorietà della volontà normativa. La forma spazio-temporale è risolta, o dissolta, in mero contenuto di proposizioni giuridiche. La fatticità non parla all'orecchio di Kelsen, il quale, riducendo o degradando spazio e tempo a campi di vigenza normativa, obbedisce a quella stessa razionalità tecnica che regge la moderna economia di mercato. Max Weber indica la razionalità giuridica e la semplificazione concettuale del diritto privato tra gli elementi fondativi del capitalismo.

9. L'atopia della rete telematica

Si è notato che la volontà di profitto non conosce frontiere, che il suo proprio luogo è dovunque si producano merci e si svolgano scambi. Già il 'dovunque' è di per sé globale: esso, trascendendo le determinazioni storiche dei luoghi, copre terra, mare e aria. La globalizzazione è nell'intrinseca logica del capitalismo; il produrre in serie per anonime masse di consumatori esige mercati sempre più vasti, e così converte il mondo in unico e immane mercato. Davvero illuminante che i trattati europei attribuiscano all'Unione lo scopo di 'creare' uno 'spazio senza frontiere interne': cioè di costituire uno spazio economico, un artificiale luogo di produzione e scambio sciolto dalla storicità dei confini. L''interno' è puro mercato.

Globalizzazione significa propriamente 'caduta dei confini'. Se i confini - come sopra abbiamo visto - generano l'identità dei luoghi, segnano l'appartenenza (linguistica, etnica e religiosa) degli uomini, raccolgono i dimoranti nell'unità di una terra e i tempi nell'unità di una storia, ebbene la globalizzazione determina il declino di questo mondo. Il mercato globale riduce i luoghi a un 'dovunque', tutti fungibili e sostituibili, tutti misurati dal grado di profitto. Distendendosi al di sopra dei confini, il mercato 'de-localizza' e 'de-storicizza' gli uomini, e li chiama a specifiche funzioni nel sistema del produrre e dello scambiare. Tratti fuori dai luoghi, spogliati di identità e di storia, risolti nelle funzioni di mercato, gli uomini mai si ritrovano insieme (ma sempre l'uno contro o di fronte all'altro), e mai confluiscono in forme di unità. La 'uni-formità', ossia la regolarità ripetitiva, tiene luogo dell'unità.

I fenomeni globali - di cui si è tracciato un rapido e scarno profilo - conservano, per così dire, la fisicità di terra, acqua e aria. Ma assumono un diverso e inaudito carattere nel congiungersi con la tecnologia elettronica. Qui la tecnica non soltanto - come pure è accaduto nel Novecento - supera i confini, trascende le ideologie, raccorda e collega tutti i laboratori del mondo; ma genera anche un 'non-luogo', uno spazio astratto e artificiale, che non risiede nella fisicità di alcun punto terrestre. Il computer non è un mezzo per stare nel mondo: esso crea il suo proprio mondo, nel quale si può entrare o non entrare, navigare o non navigare. Parole, suoni e figure non sono né qui né lì, ma nel puro spazio telematico.

La globalità del mercato - o, meglio, dei mercati di singoli beni - non indica soltanto, per usare una formula schmittiana, la presa di possesso di terra, acqua e aria, ma si configura come l'occupazione dello spazio elettronico, ossia di un 'sopra-mondo', che, per sua propria natura, non conosce confini, e si dilata come e dove la tecnica permette. Lo spazio europeo senza frontiere interne vi assume la modesta importanza di una scheggia, di un frammento ancora contaminato dalla fisicità territoriale.

I fenomeni globali determinano una diversa concezione di tempo e spazio. La società agricola e la società del primo industrialismo ragionano per criteri di distanza e di durata. Al distacco tra punti dello spazio corrisponde l'intervallo tra momenti del tempo: per farsi vicini occorre un principio e una fine del viaggio; partenza e arrivo designano insieme il segmento geografico e cronologico. Ma velocità di trasporti e rapidità di comunicazioni, come annullano la distanza e costruiscono un indistinto 'ovunque', così sopprimono la durata e la convertono in pura simultaneità. Né il succedersi delle 'simultaneità', cioè dei singoli istanti di tempo in cui le parti decidono e attuano i negozi di scambio, genera una vera e propria durata. Qui non c'è propriamente nulla che duri, che si faccia nella memoria del passato e nella continuità tra lo ieri e l'oggi. Rimane soltanto l'ora, la registrazione meccanica del quadrante, che serve a misurare la quantità del produrre o dello scambiare in singole unità di tempo.

10. L'incapacità autoregolatrice dell'economia

Il problema giuridico del 'dove' si presenta con terribile gravità. La sfera di politica e diritto rimane, appunto, una sfera: individuata dai confini, racchiusa in antiche mura. L'economia, sciogliendosi da ogni vincolo e alleandosi con la tecnologia elettronica, si espande in mondo e sopra-mondo, in spazi reali o virtuali, che sono pure stazioni del produrre e dello scambiare.

Quale diritto regge e governa tale fenomeno? Sono in grado le norme di varcare i confini e di impossessarsi di fenomeni planetari? È forse possibile ricondurre a unità economia, diritto e politica? La densità di questi interrogativi viene talora sciolta mercé la sbrigativa asserzione che il mercato globale, di per sé, esprime un suo proprio diritto. Si vuole così immaginare - ricorrendo a un esempio - che gli autori di un negozio di scambio si trovino in una sorta di terreno neutrale, astorico e apolitico, dove pattuiscono di trasferire la proprietà di un bene verso il corrispettivo di un prezzo. E che codesto accordo sia capace, fuori da ogni legge statale, di farsi, esso stesso, fonte di giuridica normatività, vincolante e obbligatorio per i contraenti.

L'asserzione - poco o punto ragionata, poco o punto raccordata a una qualche teoria o filosofia del diritto - sembra ignorare o dimenticare taluni decisivi profili. Intanto, che quel favoleggiato accordo, lungi dal nascere in primordiale estraneità, è tutto intriso e popolato di istituti dei diritti statali (o, diciamo, di diritti di fonte autoritativa, nazionali o europei che siano). Esso presuppone l'antitesi giuridica tra 'mio' e 'tuo', onde possa dirsi che si scambiano il mio bene e il tuo denaro. Quell'antitesi non è in rerum natura, ma è concepibile soltanto all'interno di un ordinamento il quale, dunque, sta prima dell'accordo, e non sorge da esso. Proprietà e moneta sono già istituti giuridici, cioè appartengono a un diritto diverso da quello generato dal nudo accordo. C'è poi da aggiungere che, quando gli accordi non siano osservati e gli obblighi restino inadempiuti, le parti rivolgono l'estremo appello alla potestà coercitiva degli Stati: dove si dimostra che quegli obblighi e accordi non bastano a se stessi, e sempre attingono la loro vincolante giuridicità da una fonte esterna.

Si è detto sopra che la tesi qui discussa non si raccorda ad alcuna filosofia o teoria generale del diritto, il che dovrebbe pur accadere, poiché l'assunzione dell'accordo a fonte originaria di diritto conduce al più rigido 'solipsismo negoziale': la sovranità è trasferita dallo Stato al singolo accordo, e questo si fa vincolante in forza del pactum est servandum, o di altra Grundnorm.

Nel medesimo arsenale rientra il consunto fondamento della 'autonomia privata', come di dotazione che spetti per natura a ogni uomo. Ma delle due l'una: o l'autonomia si aggancia a una norma autorizzante che le stia prima e sopra, e allora essa perde il carattere originario (è, appunto, autonomia, e non sovranità); o l'autonomia si presenta da sola e rifiuta qualsiasi derivazione da altra norma, ma allora non è più autonomia, bensì sovranità. E di nuovo ci troveremo dinanzi allo spettacolo di innumerevoli accordi che, facendosi originari e sovrani, si esauriscono nell'atto stesso del loro accadere.

Il monopolio statale della forza - che, aggiungendo paura a convenienza, sospinge le parti ad adempiere alle obbligazioni assunte - costituisce la risposta più sicura al solipsismo giuridico degli accordi o alla rinascente lex mercatoria. L'economia globale deve di necessità appoggiarsi al diritto degli Stati, i quali soltanto possono garantire l'appartenenza dei beni e l'attuazione coercitiva degli accordi (v. Irti, 1998). Sicché vien qui spontaneo ridire, con Thomas Hobbes (Leviathan, XVIII), la "semplice verità, che i patti, essendo solo parole ed emissioni di fiato, non hanno alcuna forza per obbligare, contenere, costringere e proteggere qualcuno se non quella che si ha dalla pubblica spada, cioè dalle mani non legate di quell'uomo o assemblea di uomini che ha la sovranità, e le cui azioni sono avallate da tutti e adempiute con la forza di tutti, riunita in esso". Ma la 'pubblica spada' - cioè, il detentore, statale o non statale, del potere coercitivo - non concede protezione su semplice istanza delle parti. Il concedere sempre è un valutare e ammettere: se l'affare economico non riceve giudizio favorevole, e dunque se gli scopi dei privati sono ritenuti avversi o incompatibili con gli scopi del potere coercitivo, quest'ultimo nega la propria tutela, o addirittura incrimina e persegue le parti. Ritorna qui l'esclusività come nota insopprimibile di ogni specie e tipo di potere, il quale vuole tutto per sé e non tollera che altri ordini lo penetrino e riducano.

L'indefinita moltiplicazione delle sovranità non è soltanto anti-statalistica, ma pure radicalmente anti-democratica, se appena si rifletta che, nei moderni Stati democratici, titolare della sovranità è il popolo, e che le volontà individuali sono sottomesse alla volontà generale. La collocazione degli accordi in un immaginario stato di natura giova a sottrarli al principio costitutivo di ogni democrazia e finisce per riaprire l'antagonismo, d'altronde mai sedato, tra volontà popolare e libertà dell'homo oeconomicus. E qui si mostra che, almeno sul terreno politico-giuridico, la globalizzazione è una categoria essenzialmente negativa: si risolve, cioè, in una serie di rifiuti e di estraneità: nei confronti di politica, Stato, autorità, e, dunque, dei principî fondativi degli stessi regimi democratici.

11. Ordine giuridico del mercato o mercato degli ordini giuridici

Il problema è piuttosto che gli Stati, gli ordinamenti giuridici degli Stati, si offrono alla scelta dell'economia: la quale, distendendosi sull'intero globo e potendo impiantare produzione e scambio qui o lì, calcola costi e benefici dei singoli diritti, e preferisce l'uno all'altro. Così, all'ordine giuridico del mercato subentra il mercato degli ordini giuridici: questi si offrono in concorrenza, lusingando e sollecitando la scelta delle imprese (v. Irti, 1998). Non più il diritto determina il luogo dell'economia, bensì l'economia sceglie il luogo del diritto.

Questo fenomeno - argutamente ed efficacemente definito come 'classica corsa al ribasso' - esprime due caratteri di grande rilievo. Da un lato, che gli ordini giuridici si sono ormai sciolti da fondamenti storici, da nomoi terrestri, e che tutti, o quasi tutti, si risolvono nell'artificialità del tecnicismo. Inattesa vittoria della teoria kelseniana, attuata nell'arbitraria determinazione dei luoghi, nell'uso normativo dello spazio, nel restringere o nell'allargare il campo di validità del diritto. L'artificialità dello spazio kelseniano - quanto diverso dal concreto stabilirsi e ordinarsi del nomos! - si rivela fraterna all'artificialità tecno-economica: anch'essa ignora i confini storici, si proietta all'esterno in pura dimensione di quantità, è mutevole e variabile secondo le circostanze. Osserva Ernst Jünger con la consueta finezza: "i confini scompaiono non solo in quanto fenomeni, ma nel loro stesso significato, nel loro intrinseco valore. E con essi scompare il nomos, la potenza deputata alla loro salvaguardia" (v. Jünger, 1959; tr. it., p. 231).

L'altro carattere è in ciò: che la concorrenza fra i diritti statali, l'offerta sul mercato degli ordini giuridici, risale (e non può non risalire) a decisioni politiche. Le lamentevoli analisi intorno al declino della politica, al tramonto delle ideologie, alla riduzione delle sovranità nazionali, dimenticano che il rapporto tra Stato ed economia è tutto rimesso alla volontà di parlamenti e governi. Non c'è la necessità di un destino, ma la responsabilità di una scelta. Quando i mercati sono assunti a criteri regolativi dell'agire, e l'indefinito incremento del profitto a scopo degli scopi, allora la politica ha dichiarato la propria resa; e questa resa è, ancora e sempre, una decisione politica. I politici che asseverano l'oggettività dei mercati o la neutralità delle tecnocrazie si vocano al suicidio: 'becchini di se stessi', diceva Marx e ripetono oggi autorevoli descrittori del nostro tempo (v. Cacciari, 1994, p. 125). È nella decisione della politica se ridurre l'ordine giuridico a merce, offerta in concorrenza alle grandi imprese e all'economia globale, o se stipulare accordi inter-statuali e stringere l'economia nei luoghi prescelti dal diritto.

Poiché altri soggetti, provvisti di autorità coercitiva, non si scorgono all'orizzonte storico, e certuni, che in qualche modo si delineano, sempre dipendono dalla revocabile volontà degli Stati; soltanto questi ultimi, mediante accordi di vario contenuto e ampiezza, sono in grado di inseguire e disciplinare i fenomeni dell'economia globale. La necessità di appoggiarsi alla protezione degli Stati, così nella tutela della proprietà come per l'osservanza dei negozi e la difesa coercitiva dei diritti, attribuisce o restituisce agli ordini giuridici statali un immenso potere. Anche l'accesso alla rete telematica è suscettibile di disciplina e di controllo statali (e qui - ancora si ripete per definitiva chiarezza - lo 'statale' indica qualsiasi autorità coercitiva che, direttamente o indirettamente, proceda dalla volontà degli Stati). A ben vedere, il difetto e l'inefficienza di accordi inter-statali, che sembrano lasciare l'economia alla lotta selvaggia e piratesca delle imprese, determinano in realtà il dominio degli Stati più forti: non c'è mai un vuoto, ma sempre l'imperium di potenze egemoni.

12. L'effetto compensativo dei diritti dell'uomo

Si ricollega a questo tema, e prende perciò posto in una trattazione di geo-diritto, la rinascita dei diritti umani, ossia di una sorta di universalismo giuridico che accompagna l'espandersi dell'economia globale. Il fenomeno esigerebbe più disteso approfondimento. Qui basti osservare che - caduta l'ideologia messianica del comunismo, istauratosi il dominio planetario dell'economia di mercato, erosa la sovranità degli Stati nazionali - la dottrina dei diritti umani è apparsa soccorrevole e protettrice. Come i singoli, ridotti a mere funzioni del mercato globale, perdono qualsiasi identità e sono fatti estranei ai luoghi e alla storia, così l'uomo, concreto e determinato, si dissolve nell'universale umanità. Il genere 'uomo', tra biologico e mistico, assorbe le specie innumerevoli, i destini singolari e irripetibili.

Non si vuol soltanto segnalare che la protezione giuridica, poiché consiste nell'efficace titolarità di pretese e nel concreto vincolo di obblighi, è sempre tutela di questo o quell'uomo, qui e ora, ma porre in luce che codesta globalità di diritti è il 'corrispettivo' spirituale, il consolatorio surrogato, offerto agli uomini dalla globalità tecno-economica. Come se la solitudine trovasse compensazione nell'appartenenza al medesimo genere biologico.

Ci si guarda dall'indicare e costruire il fondamento dei diritti umani; e, mentre i credenti invocano la fede religiosa e la dignità metafisica della persona, i 'laici' oscillano smarriti tra storia, natura e ragione, né tuttavia chiariscono di quale storia si parli e di quale natura o ragione. E non s'avvedono, o non dicono, che ambedue sono oggi dominate dalla tecnica e che la ragione scientifica sfrutta e manipola cose e animali, sconvolge la 'naturalità' del concepire e del nascere, determina forme del corpo e modi della psiche. Ragione e natura non sono più antiche sedi di stabilità e certezza, ma potenze artificiali, fraterne a quella tecno-economia che pur dovrebbero raffrenare e governare con la difesa dei diritti umani. Gli storicisti, marxiani e non marxiani, che intraprendono il 'ritorno alla ragione' (per risalire a un vecchio libro di Guido De Ruggiero) o il ritorno alla natura, trovano la natura manipolata dallo sfruttamento tecnico e la ragione scientifica complice di questa artificiale costruzione. I vecchi ordini giuridici, ancorché minacciati e indeboliti, garantiscono, o sono in grado di garantire, la concreta attribuzione e attuazione di pretese individuali; i diritti umani, privi di fondamento e di difese coercitive (le quali sempre hanno riguardo a singoli soggetti, che vantino specifici e determinati interessi), si disperdono nella genericità enfatica di carte, dichiarazioni e protocolli d'intesa.

13. Artificialità normativa e accordi fra Stati

I problemi geo-giuridici ormai si delineano con sufficiente chiarezza. Mercato globale e comunicazione telematica hanno varcato ogni confine e determinato il divario tra sfera politico-giuridica e spazio economico. Codesta scissione, che lacera anche l'uomo e lo rompe in un dividuus (l'uno, legato ai luoghi; navigante, l'altro, nella rete telematica), investe il diritto. Il quale, mentre provvede a tutelare il godimento di beni materiali e la quotidianità dei negozi, è chiamato al contempo a inseguire e raggiungere i fenomeni globali (donde, è da credere, la rinascente antitesi tra diritto civile e diritto commerciale). Al fine di sottomettere gli 's-confinati' spazi del produrre e dello scambiare, il diritto deve farsi, anch'esso, 's-confinato', e dunque sciogliersi dai nomoi terrestri e protendersi oltre la storica singolarità dei luoghi. L'artificiale spazialità, teorizzata da Kelsen, meglio si addice al geo-diritto del nostro tempo, dove giova non la fedeltà ai luoghi, ma l'ardito 'oltre-passamento'.

C'è - come più volte si è sottolineato - una profonda fraternità tra spazialità normativa, sciolta da radici telluriche, ed espansione planetaria della tecno-economia: ambedue artificiali, prodotte dal volere umano; ambedue indifferenti ai contenuti e, dunque, dominate dal nichilismo di pure forme. Come il negozio di scambio può riguardare qualsiasi bene, e tutto riduce a merce e calcola in termini di danaro; così la norma, sradicata e de-storicizzata, accoglie qualsiasi contenuto, e tratta spazio e tempo come semplici modalità del proprio vigore. Questa fraternità permette, soltanto essa, di adeguare la misura della regola alla misura del regolato.

E poiché il mercato globale né è capace di esprimere un suo proprio diritto (e come potrebbe, se esso si dissolve nella solipsistica e indefinita molteplicità degli accordi?), né è comunque munito di garanzie coercitive, spetta agli Stati, mercé trattati internazionali, instaurare l'ordine giuridico dell'economia. Quando non siano stati conclusi trattati, gli Stati più forti, sotto pretesto di interpretare il corso della storia e di difendere gli universali diritti dell'uomo, assumeranno il dominio del mondo e cureranno di volgere in loro vantaggio i fenomeni della globalità. Nulla c'è di più proprio e favorevole per il rinsaldarsi dell'imperium che l'enfatica lode dell'autoregolazione del mercato o l'appello agli universali diritti dell'uomo: l'impotenza di ambedue (e per indefinita dispersione dei negozi, e per disarmata genericità della norma) apre la strada all'unica e vera potenza degli Stati egemoni. I quali - ed è insieme un applicare e rovesciare la concezione nomistica di Fichte - in luogo di ricondurre diritto, politica ed economia entro la sfera fisica del potere statale, estendono quest'ultimo fino all'estremo punto di espansione degli affari (di quegli affari, come è ovvio, di cui assumono patrocinio e tutela).

Il geo-diritto si trova, dunque, all'interno di una scissione dolorosa. Da un lato, gli antichi luoghi, stretti a difesa di storicità e identità; dall'altro, il dilatarsi dell'economia che abbatte confini e prende propria dimora nel 'dovunque' del profitto (basti pensare a ciò che accade in Italia, dove, erosa la sovranità statale, la polarità corre tra i nomoi delle Regioni e l'artificiale spazio del mercato europeo). Da un lato, insomma, geo-diritto ancora congiunto a geografia, cioè a determinazioni spaziali dei gruppi; dall'altro, geo-diritto proteso a impossessarsi della geoeconomia e, dunque, contrastante o secondante la planetaria volontà di profitto. I due rami o volti del geo-diritto si incontrano, o dovrebbero incontrarsi, nel punto comune della decisione politica, a cui sempre spetta di dar risposta ai problemi dell'umano convivere. È sua responsabilità scegliere l'uno o l'altro assetto dell'economia, orientarne i modi di sviluppo, stabilire quelle connessioni con i luoghi che la dispongano alla disciplina del diritto.

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