GENI E AMBIENTE NELLO SVILUPPO DEL COMPORTAMENTO

XXI Secolo (2010)

Geni e ambiente nello sviluppo del comportamento

Igor Branchi

Cenni storici

Il fenotipo di un organismo, il complesso delle sue caratteristiche morfologiche e funzionali, è determinato dall’influenza reciproca tra i geni (ovvero il genotipo) e l’ambiente in cui esso cresce e vive. Tale concetto risale ai primi anni del 20° sec., quando Archibald Garrod, un medico inglese, in collaborazione con William Bateson, biologo inglese, studiò alcune famiglie i cui membri presentavano gravi anomalie del metabolismo. Egli ne identificò la causa in un’alterazione genetica che impediva all’organismo di effettuare specifiche reazioni chimiche. Inoltre Garrod osservò come le conseguenze negative associate a questa alterazione po­tevano essere evitate modificando la dieta del paziente, ossia prescrivendogli di non assumere sostanze che non era in grado di metabolizzare. Tali studi dimostrarono per la prima volta come, a seconda del patrimonio genetico dell’individuo, l’ambiente – in questo caso la dieta – determini il fenotipo – ovvero lo stato di salute del paziente. Nonostante queste ricerche, l’importanza dell’influenza reciproca tra geni e ambiente nel determinare le traiettorie di sviluppo di un organismo fu trascurata per un lungo periodo e, durante il secolo scorso, due diverse posizioni si sono confrontate senza trovare una conciliazione. La prima sosteneva che i geni determinano lo sviluppo di un organismo, mentre la seconda attribuiva tale ruolo all’ambiente.

In realtà, tale disputa era vivace già da secoli, anche se non si parlava di geni e ambiente ma di innato e appreso, e personaggi illustri nel campo della scienza e della filosofia avevano sostenuto l’una o l’altra posizione. Per es., il filosofo John Locke nel 17° sec. credeva che le esperienze avessero un ruolo predominante nella formazione dell’individuo. Al contrario, Charles Darwin nel 19° sec. riteneva che l’educazione e l’ambiente incidessero poco e che la maggior parte delle caratteristiche dell’individuo fosse innata. Durante la seconda metà del 20° sec. questo dibattito, che prese il nome di nature vs nurture (ovvero inclinazione naturale contro educazione), vide l’affermazione della fazione che sosteneva l’idea del determinismo genetico, in base alla quale ogni aspetto della fisiologia e del comportamento poteva essere prevalentemente imputato all’azione di uno specifico gene. Come conseguenza, i media cominciarono a riportare notizie riguardanti l’identificazione di questo o quel gene specifico responsabile di uno dei tanti aspetti della natura umana, come l’omosessualità o la felicità. Dall’ultima decade del 20° sec., la comunità scientifica – e più lentamente l’opinione pubblica – sta riscoprendo i risultati ottenuti da Garrod e non crede più a una contrapposizione netta, ritenendo semmai che sia i geni sia l’ambiente partecipino nel determinare le traiettorie di crescita che danno forma all’individuo. Oggi si parla infatti di nature via nurture, ossia natura attraverso l’educazione (Bateson, Martin 1999; Ridley 2004).

Fattori genetici

Da secoli, anche quando non si possedevano le attuali e relativamente ampie nozioni di genetica postmendeliana, vengono prodotti – mediante metodi tradizionali di selezione – animali e vegetali che nel genoma hanno specifiche combinazioni di geni. In particolare, allevatori e coltivatori sanno che determinate caratteristiche fenotipiche possono essere riprodotte nella nuova generazione incrociando individui che presentano le caratteristiche di interesse. Grazie a questo metodo, sono state allevate e selezionate specie di animali domestici o da reddito dalle caratteristiche fisiche o comportamentali considerate utili. Per es., sono stati selezionati il cane da pastore perché è abile a obbedire ai comandi del proprietario e a gestire il gregge e il cane da caccia perché, quando individua la preda mediante l’olfatto, ne segue la traccia fino a stanarla. La controprova che tali caratteristiche comportamentali sono dovute a fattori genetici deriva dal fatto che queste si perdono quando la razza viene incrociata con altre.

Anche nella specie umana i fattori genetici esercitano un effetto che, sebbene raramente determinante, risulta forte e pervasivo. Tra i pochi esempi di come i geni possano determinare il fenotipo umano in modo più o meno diretto, uno riguarda la fenilchetonuria. Questa patologia appartiene alla classe, menzionata in precedenza, delle gravi anomalie del metabolismo. In particolare, un individuo che soffre di fenilchetonuria ha ereditato da entrambi i genitori una forma modificata del gene che codifica l’enzima in grado di degradare la fenilalanina, un amminoacido assai comune nella dieta. Ciò provoca un accumulo di fenilalanina nell’organismo che, oltre un certo livello, risulta tossica, compromettendo lo sviluppo del cervello e causando un ritardo mentale. Quindi, chiunque sia portatore di questa anomalia genetica svilupperà la patologia. Solo nel caso in cui questa sia diagnosticata precocemente e venga somministrata una dieta priva di fenilalanina, l’individuo non si ammalerà. Questo però rappresenta un caso di modulazione dell’effetto genico da parte dell’ambiente, argomento di cui si tratterà diffusamente nei prossimi paragrafi. A eccezione delle patologie appena menzionate, le prove dell’influenza dei fattori genetici sul comportamento nella specie umana sono quasi esclusivamente indirette. Al fine di valutare tale influenza, anche nel caso di tratti comportamentali particolarmente complessi, si possono utilizzare le tecniche della genetica quantitativa.

Genetica quantitativa

La genetica quantitativa persegue lo scopo di chiarire quanto le differenze individuali siano dovute ai geni oppure all’ambiente, senza tuttavia fornire dettagli su quali geni o fattori ambientali siano responsabili di tali differenze (Plomin, DeFries, McClearn, McGuffin 20004). In questi studi sono utilizzati prevalentemente due tipi di ricerche: quella su individui adottati e quella su individui gemelli.

Le adozioni creano coppie di individui con una data percentuale di geni in comune che non condividono lo stesso ambiente, o almeno lo stesso ambiente postnatale, perché nel caso dei gemelli, anche se separati subito dopo la nascita, essi hanno condiviso un ambiente comune per i primi nove mesi dopo il concepimento, ossia il grembo materno. Lo studio di tali coppie permette di stimare il contributo genetico alle somiglianze all’interno di una data famiglia. Le adozioni creano anche coppie di individui geneticamente non imparentati che condividono lo stesso ambiente familiare. In questo secondo caso, si potrà descrivere il contributo ambientale alle somiglianze all’interno della famiglia. Per chiarire, si prenda in considerazione uno studio condotto su genitori e figli: essi condividono sia i geni (in questo caso, il 50%) sia l’ambiente. Nel caso di un’adozione, si potranno distinguere genitori ‘genetici’ e genitori ‘ambientali’. I primi saranno quelli che danno in adozione i propri figli e condividono con questi i geni, mentre i secondi saranno i genitori che ricevono figli in adozione e condividono con loro l’ambiente. Confrontando i genitori al contempo ‘genetici’ e ‘ambientali’ con quelli solo ‘ambientali’ e/o solo ‘genetici’, si potrà dedurre l’influenza genetica su un dato tratto fenotipico. Per es., nel caso in cui la correlazione, ovvero la somiglianza, per un dato tratto sia maggiore tra genitori ‘genetici’ e figli rispetto a quella tra genitori ‘ambientali’ e figli, si potrà desumere che l’influenza genetica è superiore a quella ambientale. Il paradigma sperimentale che si usa nelle adozioni, basato su genitori ‘genetici’ e ‘ambientali’, può essere sfruttato anche nel caso dei fratelli, che potranno anch’essi essere definiti ‘genetici’ oppure ‘ambientali’.

Tali studi hanno permesso di osservare in che modo geni e ambiente partecipino nel dare forma a tratti complessi, come nel caso di una data risposta comportamentale. Per es., la capacità cognitiva generale sembra avere una correlazione simile se si considerano genitori ‘genetici’ e figli oppure genitori ‘ambientali’ e figli.

Il secondo approccio per studiare l’influenza dei geni sul comportamento nella specie umana è il confronto tra gemelli. In questo caso, la natura ha fornito ai ricercatori delle condizioni perfette per un esperimento genetico. Infatti, i gemelli nati dallo stesso ovulo (gemelli monozigoti o identici) sono dei cloni naturali, ovvero condividono il 100% dei geni, quindi, se i fattori genetici sono importanti nel determinare un dato tratto fenotipico, gli individui gemelli risulteranno più simili di quanto possano esserlo parenti di primo grado, come i fratelli, che condividono il 50% dei geni. In realtà, è possibile utilizzare un confronto ancora più efficace di quello tra gemelli monozigoti e fratelli allo scopo di distinguere il contributo di geni e ambiente, ovvero quello tra gemelli monozigoti e gemelli dizigoti o fraterni (nati da due ovuli diversi). Questi ultimi, come i fratelli, hanno il 50% dei geni in comune ma, come i gemelli monozigoti, condividono l’ambiente di vita fin dal concepimento, permettendo quindi, rispetto ai gemelli monozigoti, di escludere le influenze dovute alla condivisione dell’ambiente intrauterino. Lo studio dei gemelli, come quello sulle adozioni, è risultato molto utile per analizzare l’influenza relativa di geni e ambiente, soprattutto su tratti assai complessi come quelli riguardanti il comportamento e le malattie comportamentali. In questo modo, per es., è stato possibile valutare come il rischio di sviluppare la schizofrenia sia del 17% se si ha un gemello dizigote malato, ma salga al 48% nel caso di un gemello monozigote malato, suggerendo una forte influenza genetica per quanto riguarda la vulnerabilità a questa patologia.

I due metodi, delle adozioni e dei gemelli, possono essere combinati al fine di raggiungere una capacità di analisi maggiore, come nel caso dello studio dei gemelli monozigoti cresciuti in ambienti diversi in seguito ad adozione. In questo caso, ipotizzando che un dato comportamento dipenda esclusivamente dai geni, i gemelli adottati si comporteranno nello stesso modo, mostrando una correlazione pari a 1. Invece, se il comportamento dipende dai geni solo per il 50%, i gemelli monozigoti mostreranno una correlazione per quel comportamento pari a 0,50 e così via. In tutti gli studi, la correlazione, ovvero la similitudine, per lo stesso tratto comportamentale tra due gemelli non ha mai raggiunto il valore 1, dimostrando come i geni non determinino per intero come si è fatti ed evidenziando l’importanza delle esperienze e dell’ambiente.

Al fine di valutare la dimensione degli effetti genetici nel determinare un dato tratto, si usa l’indice di ereditabilità, detto anche, più semplicemente, ereditabilità, che misura la proporzione della varianza fenotipica tra individui dovuta alla varianza genetica. Tale parametro genetico ha un valore ben preciso e stimabile, compreso tra 0 e 1. Per meglio comprendere l’ereditabilità, si cita l’esempio del calcolo di questo indice per la statura di una data popolazione. La statura è chiaramente influenzata da fattori sia genetici (le caratteristiche dei genitori) sia ambientali (per es., la dieta) e l’ereditabilità si valuterà considerando quanto la differenza di altezza tra gli individui sia da attribuire a variazioni genetiche rispetto alla variazione totale (genetica e ambientale). Più il valore dell’ereditabilità si avvicina a 1, maggiore è la porzione di varianza fenotipica spiegata dalla varianza genetica. Quindi, se le differenze di statura dipendessero solo dai geni l’ereditabilità sarebbe pari a 1. Al contrario, nel caso le differenze fossero dovute interamente a fattori ambientali, l’ereditabilità sarebbe pari a 0. Nel caso della statura, il valore dell’ereditabilità cambia da popolazione a popolazione, ma in linea di massima oscilla tra 0,6 e 0,9, indicando che il contributo genetico è preminente, sebbene l’ambiente (in particolare, l’alimentazione durante le prime fasi della vita) abbia anch’esso un’influenza rilevante. Altri esempi di ereditabilità, valutata attraverso numerosi studi di genetica quantitativa, sono quelli del quoziente intellettivo, la cui stima oscilla tra 0,3 e 0,7, oppure quelli riguardanti il livello di socievolezza, timidezza, emotività o attività, che presentano un in­dice di ereditabilità variabile tra 0,2 e 0,5.

È importante sottolineare come l’ereditabilità e la correlazione per un dato tratto comportamentale siano due misure ben distinte. Per meglio capire tale differenza, si prendano in esame, per es., due parenti di primo grado come genitore e figlio e si ipotizzi che essi siano simili per un dato tratto comportamentale al 50% e quindi che il valore della correlazione sia pari a 0,5. In questo caso, l’ereditabilità, che tiene conto non solo della varianza fenotipica, ma anche di quella genetica, avrà un valore pari a 1. Infatti, l’ereditabilità è indicata dal rapporto tra il valore della correlazione – in questo caso pari a 0,5 – e la percentuale dei geni in comune, ovvero il 50%, che può essere indicato come 0,5. Concludendo, è bene ribadire che l’ereditabilità si riferisce al contributo genetico alle differenze individuali all’interno di una data popolazione in un dato momento, e non al fenotipo di un singolo individuo.

Fattori ambientali

I fattori ambientali possono essere definiti come tutte le influenze non dipendenti da fattori genetici, comprendenti gli eventi prenatali e quelli biologici non genetici che si verificano dopo la nascita come, per es., le malattie e l’alimentazione (Plomin, DeFries, McClearn, McGuffin 20004).

Come detto in precedenza, i geni influenzano profondamente la costituzione fisica e il comportamento. Lo studio dell’intelligenza misurata con il metro impreciso del quoziente intellettivo insegna che due gemelli monozigoti risultano simili, due fratelli mostrano una similitudine minore e due perfetti estranei hanno una correlazione pari a zero. Riassumendo, più aumenta­no i geni in comune più è simile il quoziente intellettivo. Quindi, i geni intervengono nel dare forma a quest’ultimo. Tuttavia, una serie di considerazioni mette in evidenza come anche l’ambiente e le esperienze siano fondamentali. Infatti, il quoziente intellettivo sta crescendo, generazione dopo generazione, molto rapidamente nella popolazione: ben tre punti per decade. Le cause di questo rapido cambiamento dell’intelligenza umana sono ambientali. Le nuove generazioni vivono in ambienti sempre più stimolanti e vengono nutrite sempre meglio. Questo permette un maggiore sviluppo delle capacità e del quoziente intellettivi. Tutto ciò dimostra, dunque, come le esperienze educative, alimentari, sociali, emotive – soprattutto durante i primi anni di vita – influenzino profondamente i tratti comportamentali.

In effetti si è consapevoli dell’enorme importanza dell’esperienza legata all’educazione e alla cultura. Se si pensa alla lingua parlata, agli usi alimentari, al modo di curare la prole di ciascuna comunità risulta chiaro che come si è fatti dipende in larga parte dalle esperienze. È importante però sottolineare che i fattori ambientali rilevanti per lo sviluppo non riguardano esclusivamente l’istruzione e l’educazione, perché anche altri eventi, come il rapporto con i genitori o i traumi in età precoce, possono determinare le risposte comportamentali da adulti. La possibilità di stabilire un legame con una figura di riferimento è riconosciuta come un fattore chiave per lo sviluppo della persona. Infatti, l’impossibilità di formare tale legame nella prima infanzia è associata ad alterazioni neuroendocrine e comportamentali permanenti. In particolare, come mostrato da Michael Rutter del King’s college di Londra, l’assenza di un legame con una figura di riferimento nella prima infanzia compromette seriamente la capacità di adattamento sociale. Tale compromissione sembra essere dipendente dalla fase di crescita e proporzionale alla durata del periodo di deprivazione. Durante l’infanzia esiste infatti un periodo critico (v. oltre) che assicura l’apprendimento delle abilità sociali. Se in tale periodo si vive una situazione di isolamento, anche parziale, dagli altri, le competenze sociali adulte saranno inadeguate. I risultati sull’importanza delle cure materne durante i primi anni di vita sono stati confermati da una serie di studi di neuroendocrinologia. Questi studi, condotti tra gli altri da Megan Gunnar dell’Università del Minnesota, dimostrano come, alla fine del loro primo anno di vita, gli individui che non hanno ricevuto livelli adeguati di cure materne mostrano elevati livelli di cortisolo, un ormone prodotto dall’organismo, in seguito a esposizione a eventi stressanti. Tale aumento rappresenta un fattore di vulnerabilità a malattie psichiatriche come la depressione maggiore (Rutter, Moffitt, Caspi 2006).

Programmazione e ipotesi mismatch

La crescente rilevanza riconosciuta ai fattori ambientali, durante le prime fasi di vita, nella formazione della fisiologia e del comportamento di un individuo ha spinto alcuni ricercatori a ipotizzare che il verificarsi di una discordanza (mismatch) tra le caratteristiche dell’ambiente precoce e di quello adulto possa essere alla base dell’insorgenza di una vulnerabilità per diverse malattie.

In base a questa ipotesi, avanzata tra gli altri da Peter Gluckman dell’Università di Auckland in Nuova Zelanda, Mark Hanson dell’Università di Southampton in Gran Bretagna e da Patrick Bateson del King’s college di Cambridge, sempre in Gran Bretagna, l’ambiente precoce influenza in modo così marcato le traiettorie di sviluppo dell’individuo che egli risulta adattato e idoneo, da un punto di vista metabolico e/o comportamentale, in maniera specifica a quel tipo di ambiente. Infatti, nella storia della specie umana, sebbene gli uomini abbiano colonizzato territori dalle caratteristiche ambientali molto diverse, quasi sempre gli individui crescono nel territorio in cui poi vivranno da adulti. Quindi, da un punto di vista evolutivo, un adattamento all’ambiente di crescita risulta estremamente vantaggioso perché prepara ad affrontare quello in cui ci si troverà una volta adulti. Tuttavia, può accadere che i due ambienti non coincidano, facendo sì che l’individuo non sia adattato all’ambiente della vita adulta.

È stato ipotizzato che tale discordanza sia alla base dell’insorgenza di un certo numero di patologie, e in particolare di quelle caratterizzate da una disfunzione metabolica. Per es., se un organismo riceve un apporto nutritivo limitato durante le fasi precoci dello sviluppo, crescerà in modo da avere, da adulto, un basso metabolismo che gli permetterà di affrontare un ambiente simile a quello di sviluppo, ovvero caratterizzato da scarse risorse nutritive. Tuttavia, nel caso egli sia esposto a un ambiente ricco di risorse nutritive, avrà difficoltà a gestire, da un punto fisiologico e comportamentale, una dieta ipercalorica, presentando una maggiore vulnerabilità a patologie caratterizzate da una disfunzione metabolica, come per es. il diabete, che in tempi recenti stanno divenendo sempre più comuni, soprattutto nella società occidentale (Gluckman, Hanson 2008).

Influenza reciproca tra geni e ambiente

Come descritto in precedenza, da alcuni lustri è evidente che considerare natura e ambiente due fattori separati e indipendenti propone un approccio semplicistico e, soprattutto, errato. È infatti ormai chiaro come lo sviluppo del sistema nervoso centrale e del comportamento dipenda da entrambi i fattori e, in particolare, da come questi si influenzano reciprocamente in termini sia di correlazione sia di interazione (Rutter, Moffitt, Caspi 2006).

Correlazioni e interazioni

La correlazione tra geni e ambiente nasce dal fatto che i primi condizionano le risposte individuali a specifici stimoli ambientali, e ciò avviene principalmente mediante due distinti meccanismi.

Il primo è la sovrapposizione tra l’effetto dei geni e quello dell’ambiente nel dare forma a un individuo. Infatti i genitori, oltre a trasmettere ai figli i propri geni, forniscono loro l’ambiente di crescita. Quindi la correlazione è dovuta a tale sovrapposizione, per cui i genitori che trasmettono ai propri figli geni associati a una data risposta comportamentale li fanno crescere in contesti ambientali che tendono a stimolare tale risposta. Per es., i genitori che sono affetti da psicopatologie o da problemi legati alla dipendenza dall’alcol o dalle droghe, da un lato potrebbero possedere, e quindi trasmettere, geni che aumentano la vulnerabilità a tali malattie, ma dall’altro, spesso non riescono con successo nel loro ruolo di educatori, in quanto fanno crescere i propri figli in un ambiente poco formativo. Come descritto nei paragrafi precedenti, le tecniche di genetica quantitativa riescono a identificare il contributo di ciascuno dei due fattori.

Il secondo meccanismo alla base della correlazione geni-ambiente è legato al fatto che gli individui scelgono l’ambiente in cui vivere, e che tale scelta è in parte dovuta al corredo genetico. Si ipotizzi, per es., che un individuo abbia dei geni che creano una predisposizione verso la timidezza e una limitata socievolezza. In conseguenza di ciò, tale individuo tenderà a vivere in un ambiente socialmente poco stimolante, esacerbando la propria naturale tendenza all’isolamento. Simile sarebbe la condizione di un individuo geneticamente dotato di talento per una determinata attività, come quella matematica, musicale oppure atletica. Questo individuo dedicherà più tempo e maggiore dedizione a tale attività, con un ulteriore sviluppo di questa inclinazione. Quindi, sebbene i geni giochino un ruolo primario nella scelta dell’ambiente di crescita e, in generale, di vita, sarà la combinazione degli effetti di entrambi i fattori a determinare il comportamento caratteristico di un dato individuo.

Nel caso dell’interazione, un primo meccanismo con il quale geni e ambiente si influenzano reciprocamente è quello per cui i primi creano la condizione affinché si verifichino dei cambiamenti, ma la direzione di questi ultimi è data dall’ambiente. Usando gli esempi descritti in precedenza relativi al talento per una data attività si può facilmente intuire come, sebbene una persona possieda i geni che predispongono a spiccate capacità musicali, queste ultime non saranno mai sviluppate se l’individuo non avrà la possibilità di venire a contatto con uno strumento o con un ambiente musicale appropriato. Per assurdo, si può ipotizzare che probabilmente il talento di Wolf­gang Amadeus Mozart non si sarebbe mai palesato se fosse cresciuto in una famiglia priva di ogni istruzione musicale, invece di avere un padre musicista, in quanto, nonostante fosse ‘geneticamente’ molto portato per la mu­sica, non avrebbe avuto qualcuno idoneo a istruirlo in questo campo.

Negli ultimi anni, è stato identificato un ulteriore meccanismo che determina l’interazione tra geni e ambiente, tale per cui le esperienze sono in grado di esercitare un’azione diretta sull’attività dei geni. Fino a pochi anni fa si riteneva che le condizioni ambientali non potessero indurre cambiamenti nella struttura dei geni e nel loro livello di espressione. Effettivamente la sequenza del DNA (DeoxyriboNucleic Acid), ossia l’ordine delle coppie di basi, che codifica l’informazione ereditaria necessaria per la costruzione di un organismo, non può essere modificata in dipendenza dell’ambiente, mentre può esserlo l’espressione genica (per i meccanismi molecolari alla base di tale fenomeno, v. oltre). Per meglio illustrare questo fenomeno si può segnalare l’esempio di come le esperienze negative durante le prime fasi dello sviluppo siano in grado di alterare il livello di espressione di geni chiave nel controllo dell’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene alla base della risposta allo stress. In particolare, Michael Meaney, dell’Università McGill di Montreal in Canada, ha mostrato come traumi precoci modifichino l’espressione genica in modo tale da rendere l’asse più reattivo, quando i soggetti sono esposti a eventi stressanti, creando così una vulnerabilità per la psicopatologia (Jablonka, Lamb 2005). In generale, l’interazione non è dovuta unicamente alla sovrapposizione o meno di determinati assetti genetici e specifiche condizioni ambientali, ma i due fattori si influenzano in modo diretto e bidirezionale, modificandosi reciprocamente.

Norma di reazione

Come si è visto, un genotipo non dà luogo a un’unica traiettoria di sviluppo e quindi a un unico fenotipo, ma l’ambiente interviene nel modulare tale traiettoria, rendendo il numero di fenotipi che si possono originare da un genotipo teoricamente pari a infinito. L’insieme delle diverse possibili traiettorie di sviluppo, che variano in modo complesso e imprevedibile a seconda del variare dell’ambiente, è definito norma di reazione. Tale concetto presenta diverse implicazioni di fondamentale importanza nello studio delle basi genetiche del comportamento. Innanzi tutto, la caratterizzazione di un dato genotipo è strettamente dipendente dall’ambiente di studio; in secondo luogo, è errato supporre che il genotipo e l’ambiente contribuiscano in modo cumulativo a dare forma al fenotipo; e, infine, il contributo relativo di ciascun fattore non può essere quantificato.

Uno degli esperimenti più noti per descrivere la norma di reazione in modo esaustivo, citato spesso da Richard Lewontin, dell’Università di Harvard, autorevole genetista e autore di fama mondiale, è stato condotto con una pianta della specie Achillea millefolium. In particolare, sette esemplari sono stati divisi in tre parti, usate come talee. La prima è stata piantata a livello del mare, la seconda oltre i 3000 m di altitudine e la terza, infine, a un’altitudine intermedia di 1400 metri. Le talee, ovvero dei cloni uguali al 100% da un punto di vista genetico, si sono sviluppate in maniera assai diversa alle tre altitudini, e nessuna delle 7 piante originarie ha prodotto sempre la pianta più alta o quella più bassa. Questo risultato illustra chiaramente che non è possibile prevedere quale genotipo possa produrre la miglior crescita, senza specificare l’ambiente in cui tale sviluppo avverrà.

Risultati analoghi sono stati ottenuti studiando il comportamento di ratti di laboratorio. Due ricercatori, Roderick M. Cooper e John P. Zubek, alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso studiarono due linee di ratto, generate incrociando tra loro, rispettivamente, gli individui più abili e quelli meno abili. Tale allevamento selettivo aveva permesso di ottenere una linea di animali estremamente abile a trovare la via di uscita in un labirinto e un’altra che invece presentava grandi difficoltà nello svolgere lo stesso compito. Poiché i ratti delle due linee venivano allevati in ambienti identici, si è dedotto che le differenze nel comportamento fossero da imputare unicamente a differenze genetiche (R.M. Cooper, J.P. Zubek, Effects of enriched and restricted early environments on the learning ability of bright and dull rats, «Canadian journal of psychology», 1958, 12, 3, pp. 159-64). Tuttavia, quando i ratti delle due linee vennero allevati in ambienti fisicamente e socialmente impoveriti o arricchiti, la differenza nelle prestazioni tra queste sparì, indicando che l’ambiente può modulare questa risposta comportamentale, determinata dai geni, in modo profondo e imprevedibile (Lewontin 1998).

Fattore temporale: le finestre di opportunità

La convinzione secondo cui un bambino o una bambina o, più in generale, un individuo di qualsiasi specie animale all’inizio della sua vita possa essere considerato un adulto in miniatura è profondamente errata. In base a tale idea riduzionista, si può ipotizzare che qualcosa che fa bene in una certa dose a un adulto, se somministrata a una dose proporzionalmente ridotta fa bene anche a un neonato o a un bambino. Ciò non solo è inesatto, ma può avere conseguenze anche gravi, in quanto la fisiologia di un organismo durante le prime fasi dello sviluppo è, per molti aspetti, sostanzialmente diversa da quella di un adulto. Patrick Bateson, per illustrare questo concetto in modo chiaro, riporta il caso della metamorfosi di un bruco in una farfalla o di un girino in una rana, mettendo così in evidenza i profondi cambiamenti a cui un individuo va incontro nel corso della vita. Anche nella specie umana vi sono dei momenti in cui avvengono cambiamenti importanti, sebbene la metamorfosi non sia altrettanto vistosa (Discontinuities in development and changes in the organization of play in cats, in Behavioral development, ed. K. Immelmann, G.W. Barlow, L. Petrinovich, M. Main, 1981, pp. 281-95).

Il processo di sviluppo, quindi, implica cambiamenti più o meno sostanziali, i quali sono indotti e prendono forma in base all’influenza reciproca tra geni e ambiente. È importante però sottolineare che questi cambiamenti non avvengono in modo uniforme durante l’intero arco di vita, ma esistono finestre temporali, definite periodi critici, in cui essi possono e/o devono avvenire. L’infanzia, per es., è un periodo in cui le esperienze esercitano una grande influenza sull’individuo ed è pertanto un periodo di grande plasticità. Grazie a questa, il cervello ha la capacità di cambiare la propria struttura e funzione in base agli stimoli che l’ambiente gli fornisce.

Periodo critico

Il periodo critico è quello durante il quale l’esperienza risulta essenziale per il corretto sviluppo di un dato circuito o di un insieme di circuiti neurali, ovvero un insieme di neuroni interconnessi che controllano una data funzione, come, per es., la vista o la risposta emotiva. Durante il periodo critico tali circuiti saranno sensibili all’arrivo di stimolazioni prodotte dalle esperienze per continuare a svilupparsi in modo appropriato. Tali stimolazioni provocano un’attività neurale e fanno sì che un preciso schema di connessioni tra cellule nervose sia selezionato per far parte del futuro cervello adulto. Gli altri schemi, che invece non vengono stimolati, verranno persi con la crescita (fenomeno chiamato pruning «potatura»).

I periodi critici sono quindi delle finestre temporali, che si aprono e si chiudono, caratterizzate da particolare sensibilità alle esperienze. In queste fasi, una data esperienza è necessaria per completare il corretto sviluppo di specifici circuiti neurali e, di conseguenza, dei comportamenti che da essi dipendono. Terminati questi periodi, che hanno una differente durata per le diverse funzioni, l’esperienza non avrà più lo stesso effetto. Quindi, se i circuiti cerebrali non sono stati indotti o stimolati in modo appropriato durante queste finestre di opportunità, sarà difficile recuperare.

L’esistenza di periodi critici è messa in evidenza da come si acquisisce larga parte delle capacità. Un esempio classico è il linguaggio. L’apprendimento linguistico avviene durante l’infanzia e la fanciullezza. Si parla come madrelingua quella forma idiomatica con cui si è venuti a contatto durante i primi anni di vita. In seguito, durante l’adolescenza e la fase adulta, si può apprendere una seconda lingua, ma non si è in grado di parlarla come la madrelingua. Nella maggior parte dei casi si manifesta sempre una scioltezza limitata e un accento che tradisce le origini linguistiche. Un altro esempio della plasticità che contraddistingue il cervello durante i primi anni di vita è la capacità di recupero rispetto all’ambliopia (l’occhio pigro), che comporta una diminuzione dell’acutezza visiva. Se si interviene durante il periodo critico, una stimolazione appropriata dell’occhio meno efficiente permette il recupero di una corretta funzionalità visiva.

Dati recenti suggeriscono che anche tratti comportamentali assai complessi, ritenuti quasi indipendenti dalle esperienze precoci, sono invece influenzati dall’ambiente in cui si è cresciuti. Un programma nato nel 1995 negli Stati Uniti, chiamato Head start e mirato a migliorare le condizioni di crescita delle persone più disagiate, aveva lo scopo di aumentare il quoziente intellettivo esponendo i bambini a un ambiente ricco di stimoli durante la fase di vita prescolare. Però, nonostante le grandi aspettative, i dati raccolti molti anni dopo sugli individui ‘arricchiti’, ormai adulti, sono apparsi in un primo momento assai deludenti: nessuno o pochi miglioramenti del quoziente intellettivo erano stati indotti dall’arricchimento. Tuttavia, una più accurata analisi dei dati, in un secondo momento, ha messo in evidenza come, sebbene il quoziente intellettivo non fosse stato influenzato, altri aspetti del comportamento, legati maggiormente alla vita sociale ed emotiva, fossero sensibilmente migliorati. Infatti questi individui, rispetto a quelli non esposti all’arricchimento, conducevano una vita di coppia più stabile e duratura e più raramente andavano incontro al divorzio, avevano una cerchia di amici più ampia, riuscivano a inserirsi nella vita lavorativa con maggiore successo e più raramente commettevano azioni illegali. In altre parole, queste persone sembravano essere in possesso di competenze emotive e sociali più elaborate, che permettevano loro una migliore integrazione sociale e affettiva.

L’importanza dell’ambiente precoce nel dare forma alle competenze emotive e sociali dell’adulto è stata evidenziata anche in individui cresciuti in condizioni di forte deprivazione sociale ed emotiva (come in alcuni orfanotrofi dell’Unione Sovietica e dei Paesi dell’Europa dell’Est prima della caduta del muro di Berlino). Questi individui, da adulti, presentavano problemi comportamentali, ancora una volta concernenti soprattutto la sfera cognitiva ed emotiva. Tali problemi sono stati in parte risolti dall’adozione, ma solo se avvenuta in un momento sufficientemente precoce.

Nel loro insieme, queste ricerche hanno evidenziato che un ambiente ricco di stimoli durante l’infanzia è fondamentale per sviluppare appropriate competenze sociali e che l’effetto dell’ambiente è prevalente durante una finestra temporale che si sovrappone ai primi anni di vita. È opportuno comunque sottolineare come, sebbene i periodi critici siano presenti prevalentemente durante l’infanzia, anche da adulti si possono acquisire nuove abilità. Nell’età adulta però l’apprendimento avviene con maggiore difficoltà e in maniera più grossolana rispetto all’infanzia. È stato ipotizzato infatti che la differenza tra l’infanzia, e quindi il momento in cui si vive in un periodo critico, e l’età adulta non concerne la qualità dell’apprendimento, ma piuttosto la sua velocità.

In conclusione, gli esempi appena forniti sui periodi critici mettono in evidenza come quello temporale sia un fattore chiave nel determinare la dinamica dell’interazione tra geni e ambiente. L’effetto di una data interazione, infatti, dipenderà non solo dalla presenza di un certo assetto genetico e dal verificarsi di una specifica condizione ambientale, ma anche dal mo­mento in cui, durante l’intero arco della vita, questi eventi vengono a interagire.

Influenza tra geni e ambiente nello sviluppo delle patologie

Tale influenza gioca un ruolo chiave nell’insorgenza e nella progressione della maggior parte delle malattie. La direzione e l’intensità di un effetto clinico associato a una data variante genetica cambiano al variare dell’ambiente. In altre parole, il rischio genetico per la malattia, anche grave, si modifica a seconda dell’ambiente. Di conseguenza, un individuo può ereditare una predisposizione per una malattia, anche molto grave, ma potrebbe non svilupparla mai perché non viene esposto a un certo fattore ambientale scatenante. Tale concetto è stato ben illustrato dalla metafora coniata da Judith Stern dell’Università di Davis in California (UC Davis): «I geni caricano l’arma, ma è l’ambiente a tirare il grilletto».

La probabilità di insorgenza di una data malattia è strettamente associata al rischio ambientale e le conseguenze di quest’ultimo variano notevolmente da individuo a individuo. Per es., in seguito all’esposizione a un rischio, indipendentemente dalla sua gravità, alcuni individui soffriranno per le gravi conseguenze, mentre altri risulteranno quasi o completamente illesi. Ciò avviene perché la malattia si manifesta solo nel caso in cui si verifica una data interazione tra geni e ambiente. Per meglio chiarire questo concetto è bene citare un esempio: l’esposizione a una dieta particolarmente ricca per un lungo periodo di tempo può portare alcuni individui, ma non altri, a sviluppare il diabete mellito di tipo 2. Questa patologia è caratterizzata da un’anormalità nella produzione ed efficacia dell’ormone insulina, che rende l’organismo incapace di mantenere il livello di glucosio del sangue al di sotto di una certo valore. Nell’insorgenza di questa malattia, il fattore genetico è ciò che determina le differenze individuali nella vulnerabilità, mentre l’esposizione a una dieta ricca è il fattore ambientale che può indurre lo stato patologico. Ne consegue che entrambi i fattori devono essere presenti affinché il diabete si manifesti. Questa situazione riguarda comunque una larga parte delle malattie che si sviluppa grazie alla combinazione di geni di suscettibilità e fattori di rischio ambientale. Per es. patologie come il cancro o le malattie neurodegenerative insorgono quando un individuo possiede nel proprio genoma determinati geni di suscettibilità e viene esposto a condizioni quali il fumo, le sostanze psicoattive, le infezioni o l’assenza di attività sportiva.

I fattori genetici alla base di una suscettibilità individuale a una data patologia non sono solo quelli presenti dalla nascita ed ereditati dai genitori. Come descritto in precedenza, l’ambiente, in particolar modo quello sperimentato durante i periodi critici delle prime fasi dello sviluppo, è in grado di variare l’attività di un gene modificando profondamente il suo livello di espressione. Di conseguenza, la suscettibilità a una data patologia potrebbe non essere ereditata, ma insorgere a causa di determinate esperienze verificatesi durante periodi critici che hanno modificato sostanzialmente il livello di espressione genica. È stato infatti dimostrato che eventi traumatici avvenuti durante l’infanzia cambiano in modo permanente l’attività di geni chiave per il funzionamento cerebrale, come nel caso dei geni che permettono la sintesi delle neurotrofine (una classe di molecole scoperte dal premio Nobel Rita Levi-Montalcini), creando una vulnerabilità per la psicopatologia. È infatti noto come i traumi infantili possano incidere sul processo di crescita anche con conseguenze assai gravi, creando i presupposti per una maggiore vulnerabilità alla depressione. In particolare, è stato osservato che più alto è il numero di traumi subiti, maggiore è la vulnerabilità (Caspi, Moffitt 2006).

Studi su modelli animali

Questi studi hanno permesso di definire meglio il ruolo dell’influenza reciproca tra geni e ambiente nello sviluppo di un organismo; per es. hanno contribuito a illustrare come la presenza di un polimorfismo, ovvero l‘esistenza di diverse forme di un dato gene (chiamate alleli), ognuna caratterizzata da una diversa efficienza funzionale, interagisca con l’ambiente nel dare forma al fenotipo. Inoltre le ricerche di base stanno contribuendo a delucidare i meccanismi molecolari all’origine di questo fenomeno (Meaney 2001; Suomi 2006; Branchi 2009).

Numerosi lavori di importanza storica che hanno contribuito a descrivere l’interazione tra geni e ambiente sono stati condotti sulle scimmie della specie Macaca rhesus dal gruppo di ricerca diretto da Stephen J. Suomi, del National institute of child health and human development, uno dei National institutes of health statunitensi. Tali lavori, condotti sia in laboratorio sia sul campo, hanno messo in evidenza le differenze comportamentali presenti in una popolazione di macachi. Per es., il 5-10% degli individui della popolazione studiata esibisce un comportamento impulsivo pronunciato e ridotte competenze sociali. Queste differenze nel comportamento sono state associate a variazioni nei livelli di acido 5-idrossindolacetico (5-HIAA, 5-HydroxyIndoleAcetic Acid), un metabolita del neurotrasmettitore serotonina, e, di conseguenza, sono state associate a modifiche nel metabolismo della serotonina stessa. In particolare, macachi che mostrano bassi livelli di 5-HIAA esibiscono alti livelli di aggressività e viceversa. Questi cambiamenti neurochimici sono stati a loro volta associati al polimorfismo del gene per il trasportatore della serotonina (5-HTT, 5-HydroxyTryptamine-Transporter), per cui gli individui che portano la forma corta (s, short) del gene per 5-HTT, che conferisce una bassa efficienza nella trascrizione e quindi nella espressione del gene, hanno livelli più bassi di 5-HIAA ed esibiscono un’aggressività più pronunciata rispetto agli individui portatori dell’allele lungo (l, long). È importante notare come tale associazione tra polimorfismo genico e comportamento in età adulta sia lineare soltanto se si considerano gli individui deprivati della madre o cresciuti da una madre che trascura la prole. Invece, nel caso di individui cresciuti da una madre che cura e accudisce la prole, il polimorfismo del gene per 5-HTT non condiziona più il comportamento adulto e tutti gli individui esibiscono bassi livelli di aggressività e alti livelli di affiliazione. Tali risultati mostrano in modo chiaro l’esistenza di un’interazione tra il gene per 5-HTT e l’ambiente di crescita (ovvero il livello di cure materne) per cui, a seconda della forma allelica presente in un individuo, l’ambiente può influenzare il fenotipo comportamentale adulto.

Anche studi condotti sul topo di laboratorio hanno dato un contributo importante alla descrizione di come geni e ambiente si influenzano reciprocamente; per es. è stato dimostrato come giovani topi di tre diverse linee murine, ognuna con determinate caratteristiche genetiche, se cresciute in diversi laboratori di ricerca, e quindi in diversi ambienti, si sviluppano in modo tale per cui non vi è una linea che risulta sempre la più esplorativa, o la più timorosa e così via (J.C. Crabbe, D. Wahlsten, B.C. Dudek, Genetics of mouse behavior. Interactions with laboratory environment, «Science», 1999, 284, 5420, pp. 1670-72). Benché questi studi avessero lo scopo principale di mettere in mostra la difficoltà di replicare un determinato dato in diversi laboratori, hanno fornito, anche se in modo indiretto, un chiaro esempio di interazione tra geni e ambiente.

Ulteriori ricerche hanno utilizzato animali geneticamente modificati. Sebbene i primi studi di questo tipo non fossero stati pensati specificamente per descrivere l’interazione tra geni e ambiente, essi hanno fornito delle prove indirette: per es., una serie di lavori condotti dal gruppo di ricerca di Hans-Peter Lipp del Neuroscience center di Zurigo su un modello murino della malattia di Alzheimer, al fine di comprendere le basi biologiche della patologia. Gli animali utilizzati erano geneticamente modificati per una proteina che gioca un ruolo chiave nell’insorgenza della patologia, la proteina β-APP (β-Amyloid Precursor Protein). Nel primo lavoro, i ricercatori hanno descritto come i topi portatori della manipolazione, una volta adulti, esibissero capacità di apprendimento e memoria significativamente ridotte rispetto ai controlli. In un secondo lavoro, mirato a comprendere se tali effetti insorgessero durante le prime fasi dello sviluppo, gli sperimentatori hanno sottoposto gli animali a una serie di test comportamentali. Tali esami, oltre a misurare il profilo neurocomportamentale fornivano ai soggetti sperimentali un’importante forma di stimolazione ambientale. Inaspettatamente il secondo studio, non replicò il risultato ottenuto in precedenza sugli individui adulti. Al fine di spiegare quest’apparente discrepanza, i ricercatori di Zurigo hanno ipotizzato che la stimolazione durante la fase di sviluppo avesse appiattito la differenza di apprendimento e memoria tra topi mutanti e quelli di controllo. Questa ipotesi è stata confermata in un terzo esperimento, in cui è stato dimostrato che la mutazione genetica interagisce con l’ambiente di crescita nel dare forma alle abilità cognitive degli animali geneticamente modificati. Quindi, nel loro complesso, questi studi hanno evidenziato che gli effetti della manipolazione del gene per la proteina β-APP dipendono dall’ambiente di crescita.

Altri studi hanno mostrato interazioni fra geni e ambiente che si verificano durante la vita adulta. Per esempio, topi knockout (ovvero topi in cui un dato gene è stato reso inattivo) per una subunità del recettore N-metil-D-aspartato (NMDA) del glutammato, uno dei principali neurotrasmettitori chimici del sistema nervoso centrale, presentano una chiara incapacità ad apprendere un compito di discriminazione di due oggetti, uno familiare e uno non familiare. Questo tipo di incapacità scompare quando i topi knockout vengono esposti a un ambiente arricchito per un periodo di circa un mese e mezzo.

I topi geneticamente modificati sono stati utilizzati anche come modelli per lo studio delle basi biologiche delle malattie di tipo neurologico. L’utilizzo di questi modelli ha chiaramente mostrato il ruolo cruciale giocato dall’ambiente nell’insorgenza e nella progressione di queste patologie. Nel caso di modelli murini geneticamente modificati della malattia di Huntington, in cui l’espressione del gene della proteina huntingtina è stata alterata, gli animali sviluppano alterazioni comportamentali e vanno incontro a una neurodegenerazione nell’ambito di specifiche aree cerebrali. Questi effetti possono essere neutralizzati, o almeno rallentati significativamente, tramite l’esposizione a un ambiente arricchito. È importante sottolineare che i risultati ottenuti con studi su modelli animali sono stati successivamente confermati da studi epidemiologici condotti su esseri umani, in cui veniva evidenziato il ruolo dell’ambiente nel modulare l’effetto clinico della mutazione della huntingtina (Nithianantharajah, Hannan 2006).

Nel caso dei disordini psichiatrici, l’influenza reciproca tra geni e ambiente nel dare forma alla patologia è caratterizzata da un alto grado di complessità. Di conseguenza lo studio di queste malattie in modelli animali è estremamente impegnativo e, fino a ora, pochi studi hanno affrontato questa problematica. Tra questi, uno studio recente ha mostrato come una linea murina in cui è stato inattivato il gene della fosfolipasi C1 manifesti una serie di deficit comportamentali che presentano un’omologia funzionale con quelli dei pazienti schizofrenici, solo se gli animali sono esposti a determinate condizioni ambientali (McOmish, Burrows, Howard et al. 2008). Un altro studio ha evidenziato il ruolo dell’interazione tra geni e ambiente durante le fasi postnatali precoci nel determinare alterazioni nella capacità di rispondere allo stress. In particolare, topi knockout per il recettore dell’ormone di rilascio della corticotropina, a seconda dell’ambiente di crescita (ovvero la deprivazione o meno della madre per lunghi periodi di tempo), mostrano un’alterazione dell’attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene che è stato ipotizzato essere alla base della vulnerabilità a disordini psichiatrici, come la depressione maggiore (Schmidt, Oitzl, Müller et al. 2003).

In conclusione, è importante notare che lo studio su modelli animali degli effetti dell’interazione tra geni e ambiente pone le basi per l’identificazione di target molecolari che potranno essere utilizzati nello sviluppo di agenti terapeutici innovativi, in grado di migliorare i sintomi di una data patologia, anche riproducendo o potenziando gli effetti benefici degli stimoli ambientali stessi (Nithianantharajah, Hannan 2006).

Meccanismi molecolari

Come detto in precedenza, recentemente è stato osservato che le esperienze possono modificare profondamente il livello di attività dei geni, ovvero quanto sono espressi. L’influenza dell’esperienza e dell’ambiente in generale sull’attività dei geni è definita effetto epigenetico, in quanto produce una modifica dell’attività di un gene senza cambiare le istruzioni contenute nel DNA. I meccanismi molecolari che permettono alle esperienze di influenzare l’espressione dei geni sono molteplici. Tra questi, forse quello maggiormente caratterizzato consiste nella modificazione della struttura della cromatina, ovvero del complesso costituito dalla molecola di DNA e da diversi tipi di proteine attorno alle quali quest’ultima è avvolta, tra le quali gli istoni sono da considerare le principali. La struttura della cromatina è particolarmente compatta in quanto deve permettere alle molecole di DNA presenti in una cellula di essere contenute nel nucleo: il DNA di una cellula umana, che se fosse ‘svolto’ avrebbe una lunghezza complessiva di oltre 2 m, viene così a essere contenuto in pochi millesimi di millimetro.

L’organizzazione del DNA in cromatina non ha solamente una funzione di impacchettamento, ma anche di regolazione di processi cellulari come la trascrizione. Infatti, il primo passo per l’espressione dei geni, che consiste nella produzione di proteine a partire dalle informazioni in essi contenute, è la trascrizione, ossia il trasferimento dell’informazione dal DNA all’RNA (RiboNucleic Acid). Affinché questo trasferimento si compia la macchina molecolare deputata alla trascrizione dovrà accedere all’informazione codificata nella molecola di DNA e leggerla. Tuttavia, tale informazione può essere difficilmente fruibile nel caso in cui la struttura della cromatina sia così compatta da risultare inaccessibile. Dunque la cromatina, a seconda della sua struttura, che dipende da una serie di modifiche chimiche concernenti prevalentemente gli istoni, determina se un gene sarà espresso ad alti o bassi livelli. Negli ultimi anni, diversi gruppi di ricerca hanno dimostrato che le esperienze, e in particolare quelle vissute durante l’infanzia, sono in grado di modificare la struttura della cromatina o il livello di metilazione di un gene, alterandone così l’espressione per lunghi periodi di tempo. Quindi, a seconda delle esperienze e dell’ambiente in cui si è cresciuti o si vive, i geni saranno più o meno attivi, non solo influenzando direttamente il funzionamento del cervello e il comportamento, ma anche indirettamente creando il presupposto per diverse forme di interazione tra geni e ambiente (Tsankova, Renthal, Kumar et al. 2007).

Conclusioni

Occorre ricordare come ancora oggi, purtroppo, l’importanza delle variabili legate all’esperienza, dette epigenetiche, nella modulazione dell’espressione genica siano sottovalutate sia in ambito sperimentale sia a livello medico. L’idea di un determinismo genetico, ovvero di una pressoché totale determinazione delle caratteristiche degli organismi da parte dell’informazione genetica, è ancora molto diffusa, sebbene un numero crescente di studi descriva il ruolo di primo piano dell’influenza reciproca tra geni e ambiente nello sviluppo di un individuo. Al fine di ottenere risultati scientifici significativi, in particolar modo nel campo dello studio del comportamento e delle malattie neurologiche e psichiatriche, un approccio basato sulla consapevolezza del ruolo di primo piano giocato dall’interazione tra geni e ambiente permetterà un’analisi approfondita ed esaustiva (Bateson, Martin 1999; Ridley 2004; Rutter, Moffitt, Caspi 2006).

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