Gene

Enciclopedia del Novecento I Supplemento (1989)

Gene

Burke H. Judd

sommario: 1. Introduzione. 2. Il mendelismo. 3. La teoria cromosomica dell'eredità.  4. La scoperta dell'associazione (linkage). 5. La mutazione. 6. La funzione del gene. 7. ‟Un gene - un enzima". 8. Il materiale genetico. 9. La doppia elica del DNA. 10. Definizioni operative del gene. 11. L'effetto di posizione. 12. La ricombinazione intragenica. 13. La funzione definita attraverso il saggio di complementazione.  14. La questione della colinearità. 15. Il codice genetico. 16. Meccanismi d'azione del gene. 17. L'analisi del codice genetico. 18. La transcriptasi inversa. 19. La regolazione genica nei Batteri e nei virus. 20. L'operone. 21. Numero e dimensioni dei geni. 22. I geni sezionati. 23. Il sezionamento differenziale. 24. Famiglie multigeniche. 25. Il riordinamento dei geni. 26. Elementi genetici mobili. 27. Disgenesi ibrida. 28. I retrotransposoni. 29. Trasposizione di geni durante lo sviluppo. 30. Prospettive future. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Il gene, come viene attualmente concepito sia dallo scienziato sia dalla persona colta non specialista, conserva soltanto una pallida rassomiglianza con le astratte unità di trasmissione dei caratteri ereditari postulate da Mendel nel 1865. Noi ora sappiamo che il materiale genetico è costituito da acido nucleico strutturato in catene polimeriche di nucleotidi. Abbiamo decifrato il codice rappresentato da particolari sequenze di nucleotidi e abbiamo acquisito una notevole comprensione del meccanismo attraverso cui, a partire da quel codice, si formano i prodotti del gene necessari per lo sviluppo e il funzionamento di tutti gli organismi. Una rapida scorsa all'evoluzione delle nostre conoscenze sul gene, la più fondamentale delle unità biologiche, fornisce un quadro affascinante di come la scienza proceda per svelare i misteri della vita.

Per comprendere il gene e come esso funzioni è necessario studiare in dettaglio oggetti molto più piccoli e molto più grandi del gene stesso: da una parte è necessario sezionare i geni fino a raggiungere il livello chimico più fondamentale, dall'altra i geni devono essere inquadrati nel contesto delle loro funzioni concertate a dirigere lo sviluppo del più complesso organismo pluricellulare. L'indagine sulla natura del gene comporta non soltanto l'elaborazione di nuovi metodi tecnici, ma anche l'ideazione di nuove teorie accompagnate da più avanzate sintesi concettuali.

2. Il mendelismo

Il cammino attraverso cui si è giunti all'attuale concezione del gene, precisa e dettagliata sia dal punto di vista fisico sia da quello biologico, è stato punteggiato da numerose svolte decisive. Il primo passo, fondamentale per le sue conseguenze, fu rappresentato dagli esperimenti di incrocio fra piante, eseguiti da G. J. Mendel, un frate agostiniano di Brünn (l'attuale Brno, in Cecoslovacchia). Nello studio degli schemi dell'eredità Mendel adottò una metodologia sperimentale e dei presupposti concettuali del tutto diversi rispetto ai suoi predecessori. Mendel scelse caratteri diversi della pianta di pisello, classificabili in maniera non ambigua, ne seguì la trasmissione ereditaria in numerosi esemplari nati dagli ibridi e applicando ai risultati ottenuti un'analisi statistica fu in grado di formulare le sue fondamentali leggi dell'ereditarietà. Mendel, per primo, descrisse il comportamento di coppie di ‛fattori unitari', determinanti caratteri specifici, che segregano e si assortiscono come unità, trasmessi alla progenie (uno per coppia da ogni genitore) in rapporti prevedibili.

Prima delle ricerche di Mendel e ancora all'epoca dei suoi esperimenti, la teoria vigente era che l'ereditarietà consistesse in un processo di trasmissione diretta di caratteristiche dai genitori ai figli. Lo stesso Darwin sosteneva una teoria del genere: egli pensava che ogni parte del corpo producesse delle particelle (‛pangeni'), che in qualche modo si sarebbero concentrate nelle cellule germinali. Questa teoria, chiamata ‛pangenesi', era molto simile, concettualmente, a una teoria elaborata nell'antica Grecia da Ippocrate, il quale postulava che tutte le parti del corpo rilasciassero degli elementi (‛gemmule') al momento della copula.

La teoria di Mendel, secondo cui l'eredità è indiretta, nel senso che non è il carattere stesso a essere trasmesso, ma una qualche unità determinante, ha rappresentato il primo grande passo nello sviluppo del concetto di gene. L'idea di unità discrete che conservano la loro identità, anziché mescolarsi come in una miscela liquida nella progenie, era così profondamente diversa dalle concezioni sostenute dagli scienziati dell'epoca, che non ebbe alcuna risonanza. La pubblicazione in cui Mendel descrisse il suo lavoro fu del tutto ignorata per 34 anni, finché De Vries, Correns e von Tschermak, ognuno indipendentemente dagli altri, la menzionarono a sostegno dei propri esperimenti di incrocio.

Nel corso dei 34 anni durante i quali lo scritto di Mendel fu ignorato furono fatti alcuni progressi scientifici, che resero l'opera di Mendel più comprensibile e accettabile. Durante quel periodo A. Weismann, sulla base del suo lavoro teorico e sperimentale, elaborò la teoria del plasma germinale, secondo cui la linea germinale costituisce una linea continua di cellule, e avanzò l'ipotesi che le strutture somatiche delle piante e degli animali superiori si sviluppassero a partire dalla linea germinale, di generazione in generazione. Questa separazione fra linee cellulari germinale e somatica ridusse notevolmente il significato ereditario del soma e mise in discussione la concezione, molto diffusa ma attribuita originariamente a Lamarck, secondo cui i caratteri acquisiti potevano essere ereditati. Benché l'ipotesi dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti fosse stata messa in dubbio da altri già molto tempo prima - fin dall'epoca di Aristotele - è chiaro che gli scritti di Weismann hanno avuto un gran peso nel dimostrare quanto fosse debole ogni prova addotta a suo sostegno.

Per svariate ragioni l'attenzione dei ricercatori si focalizzò sul nucleo della cellula, in quanto elemento di importanza fondamentale nella fecondazione e nel processo di divisione cellulare. Fu durante gli anni ottanta del secolo scorso che nel nucleo furono individuati i cromosomi e si cominciò a studiare e a descrivere il loro comportamento durante la mitosi e la meiosi. Van Beneden osservò che le metà figlie dei cromosomi in una cellula mitotica si separano e passano ai poli opposti, e che durante la meiosi il numero dei cromosomi si riduce alla metà del numero di cromosomi presenti in un uovo fecondato. Egli notò, nel verme nematode Ascaris, che al momento della fecondazione l'uovo e lo spermatozoo contribuiscono in egual misura al complemento cromosomico dell'embrione. Che le cellule somatiche contenessero un numero di determinanti doppio rispetto alle cellule germinali era stato postulato per deduzione da Mendel in base ai risultati dei suoi incroci. Questo importante fatto non fu, tuttavia, riconosciuto dai contemporanei di Mendel e probabilmente fu questa una delle ragioni cruciali per cui il significato degli esperimenti di Mendel non fu apprezzato.

3. La teoria cromosomica dell'eredità

Al momento della riscoperta dello scritto di Mendel, nel 1900, i tempi erano maturi non solo per un'accettazione incondizionata dei principi da lui formulati, ma anche per l'estensione di quei concetti all'ipotesi che i cromosomi fossero alla base dell'ereditarietà. Fino al 1920 circa, i genetisti furono impegnati nel tentativo di convalidare la teoria cromosomica dell'ereditarietà mendeliana. A mano a mano che questa teoria si andava delineando si trovavano prove circostanziate a suo favore. Il comportamento dei ‛fattori unitari' di Mendel corrisponde biunivocamente a quello dei cromosomi durante la divisione cellulare e la fecondazione. La descrizione più chiara e dettagliata di questa corrispondenza fu fornita da Sutton nel 1920. Sutton notò che i cromosomi somatici della cavalletta si presentano in coppie nettamente diverse e suggerì l'ipotesi che l'appaiamento di cromosomi paterni e materni e la loro successiva separazione durante il processo di formazione del gamete potessero costituire la base fisica dell'ereditarietà mendeliana.

W. S. Sutton si era laureato con E. B. Wilson, un collega di C. E. Mcclung all'epoca in cui questi formulò l'ipotesi che il sesso maschile fosse determinato dal cromosoma accessorio, chiamato oggi cromosoma X. Benché le cose stiano in maniera esattamente opposta rispetto all'ipotesi di McClung, egli aveva intrapreso una strada che avrebbe prodotto importanti risultati. La giusta relazione fra determinazione del sesso e assetto cromosomico fu in seguito stabilita dalla Stevens, nel 1905, nel caso del coleottero Tenebrio. La Stevens scoprì che nel maschio esiste una coppia di cromosomi eteromorfi, la coppia XY, dove Y è più piccolo di X, mentre la femmina possiede la coppia XX. Questo schema di determinazione del sesso, dipendente dalla natura dei cromosomi, costituì la prima associazione diretta di un carattere con i cromosomi, e la teoria cromosomica dell'eredità ricevette un'importante convalida dal fatto che, entro breve tempo, questo meccanismo di determinazione del sesso fu riscontrato in altri insetti e poi in vari altri animali.

L'individuazione di un legame diretto fra la trasmissione ereditaria di un ‛fattore unitario' mendeliano (denominato ‛gene' da Johannsen nel 1909) e un cromosoma specifico fu resa possibile dalle ricerche di T. H. Morgan e collaboratori sul moscerino della frutta Drosophila. Morgan osservò che in Drosophila il colore degli occhi, bianco o rosso, era trasmesso ereditariamente secondo uno schema mendeliano, lo stesso schema attraverso cui era trasmesso il sesso di un individuo. In altri termini, il carattere occhio bianco era trasmesso da una femmina (XX) sia ai figli sia alle figlie, mentre i maschi (XY) lo trasmettevano soltanto alle figlie. Il carattere occhio bianco è recessivo rispetto al carattere occhio rosso, sicché una femmina ibrida, portatrice di entrambe le forme del gene (‛alleli'), ha gli occhi rossi; metà delle sue uova avrà l'allele bianco, l'altra metà quello rosso. L'allele bianco trasmesso a un figlio produrrà occhi bianchi, perché, essendo maschio (XY), possiederà soltanto una copia del gene, dal momento che il cromosoma Y non contiene questo gene. Il meccanismo di trasmissione del carattere ‛colore degli occhi', corrispondendo al meccanismo di trasmissione dei cromosomi determinanti il sesso, fornì una prova convincente del fatto che il gene responsabile del colore degli occhi doveva in effetti essere trasportato dal cromosoma X.

4. La scoperta dell'associazione (linkage)

Ben presto nel laboratorio di Morgan per lo studio della genetica di Drosophila, presso la Columbia University, furono scoperti molti altri caratteri mutanti la cui trasmissione risultava legata al sesso. Gli esperimenti di incrocio che interessavano due o più di questi geni dimostrarono che i geni in questione erano associati, ovvero che tendevano a essere ereditati insieme. Talvolta i geni associati si separavano formando associazioni ricombinate nella progenie. Questo processo di ricombinazione fu spiegato, dal gruppo di Morgan, nell'ambito della teoria cromosomica dell'eredità, postulando che i geni fossero localizzati lungo il cromosoma in ordine lineare. A. H. Sturtevant, un membro del gruppo di Morgan, intravide la possibilità di utilizzare la ricombinazione sporadica tra due geni legati al sesso per costruire una mappa delle posizioni dei geni nel cromosoma. Lo schema era basato sulle osservazioni citologiche di Janssens, il quale aveva notato che i cromosomi di ogni coppia si appaiavano entrando in stretto contatto reciproco per tutta la loro lunghezza durante la meiosi e quando si separavano, al momento della divisione cellulare, sembravano restare uniti, incrociandosi, in corrispondenza di determinati punti (chiasmi). Morgan postulò che i cromosomi materno e paterno, in questa posizione, potessero scambiarsi dei segmenti in corrispondenza di un chiasma. Sturtevant utilizzò la frequenza di questi scambi (crossingover) per misurare la distanza fra geni, assumendo che la distanza fosse proporzionale alla frequenza di scambio. La sua mappa di sei geni legati al sesso, pubblicata nel 1913, mostrava una disposizione lineare dei geni lungo il cromosoma X; questa mappa costituì un potente strumento per definire i geni e per esaminare in maggior dettaglio il modo in cui i geni sono organizzati entro i cromosomi.

5. La mutazione

Mentre si cominciava a comprendere la natura particellare dei geni, disposti in sequenze lineari nei cromosomi, fu individuata un'altra loro caratteristica: il fatto che i geni possono cambiare forma, cioè mutare, e che la nuova forma può essere trasmessa alla progenie. La variante occhi bianchi, in Drosophila, comparve nel 1910 come mutazione spontanea del normale colore rosso. Un ulteriore mutamento nello stesso gene fu osservato, un anno più tardi, dal gruppo di Morgan, quando il carattere occhi bianchi mutò in quello occhi eosin (color rosso eosina). Questi eventi dimostrarono che un gene può esistere sotto forma di alleli multipli, che possono trasformarsi l'uno nell'altro, benché con una frequenza molto bassa, tanto che, di solito, un determinato allele viene ereditato immutato.

H. J. Muller è stato il primo a dimostrare, nel 1927, che i geni possono essere mutati sperimentalmente facendo uso di radiazioni ionizzanti (raggi X). Anche questo nuovo passo avanti fu caratterizzato da innovazioni sia teoriche sia tecniche. Muller formulò l'ipotesi che mutazioni letali per un organismo fossero, con ogni probabilità, molto più frequenti di quelle capaci di alterarne l'aspetto senza ucciderlo. Egli inoltre già sapeva, sulla base delle mutazioni studiate in Drosophila, che la maggior parte delle mutazioni sono recessive, cioè vengono espresse soltanto se entrambi i cromosomi contengono gli alleli mutati. Questo fatto rendeva lo studio di una nuova mutazione molto difficoltoso, perché la mutazione avrebbe potuto essere mascherata dall'allele normale dominante; ma Muller ideò uno schema di accoppiamento che risolse il problema. Il sistema, noto come ClB, consisteva di un cromosoma su cui erano localizzati un soppressore di crossing-over (C), una mutazione letale recessiva (l) e una mutazione dominante che produceva occhi a barra (B). Si trattava di un cromosoma X che non poteva sopravvivere a causa della mutazione letale, ma che poteva essere presente in una femmina a condizione che l'altro suo cromosoma X fosse normale. Una tale femmina eterozigote avrebbe trasmesso il cromosoma X normale al 50% dei suoi figli maschi, mentre l'altro 50% sarebbe morto allo stato embrionale per aver ricevuto il cromosoma letale.

Muller, dopo aver sottoposto a radiazioni ionizzanti maschi portatori di cromosomi X normali e aver fatto accoppiare questi maschi con femmine ClB/X normale, poté riconoscere le figlie portatrici di X irradiato/ClB, perché avevano gli occhi a barra. Queste femmine, a loro volta, furono fatte accoppiare con maschi normali. In tutti quei casi in cui l'irradiazione di un cromosoma X aveva indotto una mutazione letale, la femmina portatrice non poteva avere figli maschi perché entrambi i suoi cromosomi X contenevano un letale; essa invece sopravviveva, in quanto i letali si trovavano in geni diversi, cioè non erano allelici. Lo schema di accoppiamento ideato da Muller permise la misura degli effetti mutageni dei raggi X; con alcune modifiche questo schema è tuttora usato in Drosophila per scoprire mutazioni indotte dai più svariati agenti mutageni.

6. La funzione del gene

Durante i primi anni del Novecento si cercò anche di capire come funzionasse il gene. Nel 1902 Garrod, studiando l'alcaptonuria, una malattia umana che fa sì che le urine risultino nere a causa dell'escrezione di acido omogentisico, giunse alla conclusione che dovesse trattarsi di una condizione ereditaria. Egli avanzò l'ipotesi che la malattia fosse dovuta all'assenza di un ‛fermento' (un enzima, secondo la terminologia moderna), indispensabile allo svolgersi di una reazione particolare, controllata enzimaticamente, nell'ambito del metabolismo dei composti azotati. Bateson, ispirandosi all'idea di Garrod, eseguì, con i propri collaboratori, approfondite ricerche biochimiche sulle antocianidine presenti nei petali dei fiori e sulle melanine responsabili della pigmentazione del mantello degli animali, e giunse a ricavare descrizioni dettagliate di schemi di eredità mendeliana dovuti a particolari geni che controllano la presenza e la specificità di determinati enzimi.

7. ‟Un gene - un enzima"

Il ruolo svolto dai geni nel controllo delle catene di reazioni biochimiche divenne più chiaro in seguito alle ricerche condotte su mutanti di Insetti e Funghi, che portarono all'identificazione di intermediari metabolici in alcune catene di reazioni. Furono Beadle e Tatum (v., 1941) che, lavorando col fungo Neurospora, idearono uno schema per identificare particolari mutazioni intervenute in geni coinvolti in specifici percorsi biochimici. Il fungo Neurospora normale è capace di crescere su un terreno semplice, chimicamente definito, mentre i ceppi mutanti no; tuttavia i mutanti sono in grado di crescere se al terreno vengono aggiunte altre sostanze nutritive. Individuando con precisione quale composto fosse necessario aggiungere al mezzo di coltura per consentire la crescita di un mutante particolare, si potè identificare il blocco metabolico. Attraverso l'analisi di una serie di mutanti che avevano bisogno di composti chimicamente correlati, si poté ricostruire un intero percorso metabolico. La biochimica di alcuni percorsi metabolici avanzò rapidamente e si giunse a conoscere nei dettagli la natura e l'attività degli enzimi implicati. Inoltre l'analisi genetica di mutanti deficitari nei confronti di un determinato enzima dimostrò che questa deficienza era dovuta all'alterazione di un singolo gene e come tale era ereditata. Queste scoperte portarono Beadle a concludere che i geni controllano in qualche modo la struttura e l'attività degli enzimi proteici; egli fu indotto a formulare l'ipotesi ‟un gene - un enzima", che costituì l'ipotesi di lavoro per gran parte delle ricerche successive sulla funzione del gene.

8. Il materiale genetico

Durante la prima parte del Novecento furono condotte anche molte ricerche sulla natura chimica del materiale genetico. Queste ricerche erano cominciate con il lavoro di Miescher (v., 1871), che aveva descritto una sostanza, chiamata ‛nucleina', isolata dai nuclei dei globuli bianchi del sangue. Si dimostrò che questa sostanza consisteva di proteine e di acido nucleico, un insolito composto organico contenente una considerevole quantità di fosforo ma niente zolfo. Si scoprì poi che esistevano due tipi di acidi nucleici, uno contenente lo zucchero desossiribosio, l'altro lo zucchero ribosio. Dall'idrolisi dell'acido desossiribonucleico (DNA) si ricavavano due purine, adenina (A) e guanina (6), e due pirimidine, timina (T) e citosina (C). Nell'acido ribonucleico (RNA) la timina era sostituita dall'uracile. Si dovette attendere fin dopo il 1950 perché Chargaff e collaboratori stabilissero che nel DNA i rapporti fra C e G e fra A e T erano unitari, benché la quantità di C + G non fosse necessariamente uguale a quella di A + T. Questa scoperta si dimostrò un fattore essenziàle nel promuovere la ricostruzione della struttura del DNA (v. acidi nucleici) portata a termine da Watson e Crick nel 1953 (Watson e Crick, però, non citarono, nel loro articolo, il lavoro di Chargaff).

Benché si sapesse che il DNA si trova essenzialmente nei nuclei cellulari, all'inizio si pensava che gli acidi nucleici possedessero una struttura troppo semplice per poter costituire il materiale genetico. D'altra parte si sapeva che le proteine sono composti complessi, di vario tipo e di grandi dimensioni. L'opinione che solo le proteine potessero possedere la specificità necessaria a costituire il materiale genetico prevalse fin quasi alla metà degli anni quaranta. Nel 1944 Avery, McLeod e McCarty (v., 1944), perfezionando una ricerca incominciata da Griffith nel 1928, dimostrarono che il DNA è capace di trasformare un ceppo di Pneumococcus in un altro. Si sapeva che il batterio Pneumococcus esiste in varie forme appartenenti a classi sierologicamente distinte, che differiscono per la composizione mucopolisaccaridica della capsula. Qualche volta le cellule in coltura possono perdere la capsula; ciò fa sì che i batteri perdano sia la loro specificità tipologica sia la loro patogenicità. Le colture di queste cellule assumono anche un aspetto ruvido, mentre la coltura del batterio virulento si presenta liscia e brillante. Griffith scoprì che, quando si iniettavano in un topo cellule appartenenti al ceppo ruvido di tipo II, il topo restava sano; se però si iniettavano cellule ruvide di tipo II insieme con un estratto di cellule virulente di tipo III, previamente uccise, il topo si ammalava. Dal topo infetto si potevano estrarre cellule lisce e virulente di tipo III. È stato questo il primo caso osservato e documentato di trasformazione genetica. La prova fornita da Avery e collaboratori che il ‛principio trasformante' è il DNA è molto importante, se si considera che il carattere conferito dal DNA alle cellule batteriche e alla loro progenie è dovuto a un mucopolisaccaride.

Benché gli esperimenti di trasformazione fornissero risultati inequivocabili, persisteva ancora un certo scetticismo circa il fatto che gli acidi nucleici costituissero effettivamente il materiale genetico. A fugare gli ultimi dubbi contribuirono altri esperimenti, in particolare quelli condotti da Hershey e Chase, i quali, nel 1952, mostrarono che quando il batteriofago T2 infetta il suo ospite, E. coli, in pratica soltanto l'acido nucleico viene effettivamente inoculato nelle cellule batteriche, mentre l'involucro proteico virale resta fuori. L'acido nucleico inoculato è quindi sufficiente a dirigere la replicazione e la maturazione di nuove particelle virali, compresa la sintesi degli involucri proteici. Questo tipo di prove sperimentali e osservazioni come quella fatta nel 1948 da Vendrely e Vendrely che, nei bovini, il contenuto di DNA nei tessuti somatici è di 6,5 pg per nucleo, mentre negli spermatozoi è di 3,4 pg (si sapeva che con la meiosi la quantità di materiale genetico viene ridotta alla metà), convinsero i ricercatori del fatto che gli acidi nucleici costituissero il materiale da cui sono composti i geni.

9. La doppia elica del DNA

La fase veramente esplosiva nell'evoluzione del concetto di gene prese l'avvio nel 1953, quando J. D. Watson e F. H. C. Crick proposero il loro celebre modello della struttura del DNA. Watson e Crick si basarono sui dati biochimici concernenti la composizione del DNA, in particolare sui rapporti equimolari fra adenina e timina e fra guanina e citosina, descritti da Chargaff. C'erano inoltre i dati ricavati mediante cristallografia a raggi X da Wilkins e Franklin, che indicavano che il DNA era formato da due catene elicoidali. Watson e Crick suggerirono che la struttura del DNA consistesse in due catene di nucleotidi avvolte a elica l'una sull'altra a formare una sorta di scala a chiocciola. Un nucleotide è costituito da uno zucchero (il desossiribosio nel DNA), da una base azotata purinica o pirimidinica (A, G, T o C nel DNA) e da un gruppo fosforico. Queste unità nucleotidiche formano lunghe catene legandosi l'una all'altra tramite legami covalenti tra il radicale fosforico dell'una e lo zucchero della successiva. Le due catene di una molecola a doppia elica si formano e si appaiano in modo tale che le sequenze delle basi risultino complementari: a un'A di una catena è contrapposta una T nell'altra e viceversa; lo stesso vale per le due basi O e C. Le basi puriniche e pirimidiniche si appaiano all'interno della doppia elica quasi come i gradini di una scala a chiocciola, mentre i gruppi fosforici e le molecole di zucchero si uniscono a formare i montanti della scala.

Il modello di Watson e Crick influì immediatamente sulle idee dei genetisti, perché era evidente che la sequenza delle basi lungo la catena polinucleotidica poteva codificare l'informazione genetica e, inoltre, dal momento che le due catene sono complementari, il processo di replicazione può consistere nella separazione delle due catene e nella sintesi di due nuove catene formate sullo stampo delle precedenti e perciò a esse complementari. Questo processo di replicazione produce due molecole a doppia elica identiche, ognuna delle quali può essere trasmessa a una cellula figlia al momento della divisione cellulare.

10. Definizioni operative del gene

Nel frattempo la concezione del gene, considerato dal punto di vista operativo, dovette subire una profonda revisione. Sulle prime, grazie al lavoro della scuola di Morgan, il gene era stato concepito come un'unità suscettibile di essere definita in termini di tre tipi di operazioni: la ricombinazione, la mutazione e la funzione. Dalla loro capacità di combinarsi con i geni vicini si era dedotto che i singoli geni fossero unità distinte disposte in ordine lineare all'interno del cromosoma. Il gene era anche considerato un'unità capace di mutare formando nuovi alleli; inoltre lo si concepiva come un'unità funzionale in grado di produrre un fenotipo specificando un enzima.

11. L'effetto di posizione

Per un certo periodo di tempo sembrò che le unità definite in termini delle summenzionate operazioni fossero coestensive; ma parecchie scoperte fatte nella prima metà del Novecento indussero i ricercatori a correggere questa opinione. In primo luogo la scoperta di un ‛effetto di posizione', fatta da Sturtevant nel 1925, dimostrò che la funzione di un gene è influenzata dalle regioni adiacenti del cromosoma. Sturtevant aveva studiato una mutazione che produce, in Drosophila, occhi a barra (bar). Nel 1936 Bridges e Muller, indipendentemente l'uno dall'altro, dimostrarono che la mutazione bar era dovuta a una duplicazione in tandem di un piccolo segmento del cromosoma X; lo stesso Sturtevant era giunto a questa conclusione basandosi su dati di ricombinazione genetica. Talvolta, quando due cromosomi contenenti la duplicazione si appaiano, i segmenti duplicati possono appaiarsi in maniera sfalsata, nel senso che il doppione destro di un cromosoma si appaia al doppione sinistro dell'altro. Quando il crossing-over si verifica in corrispondenza del segmento duplicato, ne risulta una triplicazione in un cromosoma e il ripristino della sequenza singola normale nell'altro. Il confronto, fatto da Sturtevant, fra femmine portatrici di duplicazioni in entrambi i cromosomi X e femmine portatrici di una triplicazione in un cromosoma e di una sequenza normale nell'altro mostrò che la seconda configurazione produce un fenotipo più accentuatamente anormale della prima, ancorché entrambe, complessivamente, contengano quattro repliche della sequenza. Oggi si conoscono molti esempi di effetti di posizione in vari organismi e si suppone che in qualche modo i geni si influenzino reciprocamente e possano costituire livelli di organizzazione superiori, al di là della singola unità ricombinabile e mutabile che specifica un enzima.

12. La ricombinazione intragenica

Un altro evento che costrinse i genetisti a rimettere in discussione la presunta equivalenza delle unità definite da differenti operazioni fu l'osservazione fatta da C. P. Oliver, nel 1940, di una ricombinazione fra alleli di un gene in Drosophila. L'idea che il crossing-over potesse aver luogo all'interno di un gene era addirittura rivoluzionaria e diede l'avvio a una consistente serie di ricerche tese a individuare con esattezza l'unità minima di ricombinazione e i suoi rapporti con gli altri attributi del gene. Esperimenti fatti per classificare decine di migliaia di prodotti meiotici permisero di scoprire numerosi casi di ricombinazione intragenica in organismi superiori, come Drosophila e alcuni funghi. Comunque la soluzione definitiva del problema fu fornita da S. Benzer con i suoi studi riguardanti due geni contigui del batteriofago T4. Benzer individuò più di 2.000 mutazioni nei geni rIIA e rIIB di questo virus; egli elaborò un metodo per mappare le mutazioni relative di un gene rispetto all'altro, che consisteva nell'infettare le cellule ospiti (di E. coli) con due diversi ceppi mutanti di T4 e nell'identificare la progenie ricombinante non mutante. Dal momento che si poteva trattare contemporaneamente un altissimo numero di particelle virali, si poté ottenere una mappa ad alta risoluzione. Benzer stabilì le posizioni precise e le frequenze di ricombinazione di diverse coppie di mutanti e individuò più di 300 differenti siti mutazionali nei due geni adiacenti. Egli quindi confrontò le frequenze di ricombinazione con le misure fisiche della quantità di DNA contenuta nel genoma di T4 e giunse alla conclusione che mutazioni distanti appena due nucleotidi potessero ricombinarsi. Noi oggi sappiamo che è possibile anche la ricombinazione fra coppie di nucleotidi adiacenti.

13. La funzione definita attraverso il saggio di complementazione

Benzer decise di lavorare con i mutanti rII di T4, perché essi producono nelle colture del batterio su gelatina di agar una placca con una particolare morfologia; analizzandoli, Benzer fu in grado di scoprire che, benché tutti i mutanti possedessero fenotipi simili, esistevano in effetti delle variazioni nell'uno o nell'altro dei due geni. Egli poté giungere a questa conclusione applicando un saggio di complementazione elaborato sulla falsariga del classico test per l'allelismo usato nello studio degli eucarioti diploidi. Benzer osservò che un determinato ceppo di E. coli non era in grado di sostenere la crescita di virus T4 mutanti, sia che si trattasse di virus di tipo rIIA, sia che si trattasse di virus di tipo rIIB; tuttavia, quando le cellule ospiti venivano infettate contemporaneamente da entrambi i tipi di virus, si sviluppavano virus maturi. In altre parole, rIIA e rIIB sono portatori di funzioni diverse che possono complementarsi reciprocamente nella cellula doppiamente infettata, in quanto il mutante rIIA produce una funzione run normale e viceversa. È questo un tipico saggio cis/trans del genere descritto da E. B. Lewis per definire una unità genetica funzionale.

Prendendo in prestito dalla chimica la terminologia per definire la relazione spaziale fra siti mutazionali in cromosomi omologhi, si possono descrivere e confrontare le due seguenti configurazioni in cui sono coinvolte due mutazioni recessive, m1 ed m2: m1m2/++ (disposizione cis, in cui m1 ed m2 si trovano nello stesso cromosoma e le rispettive controparti normali [+] nell'altro) ed m1 +/+ m2 (disposizione trans, in cui ogni cromosoma contiene una mutazione). Lewis notò che, se le mutazioni sono alleliche, cioè contenute nella stessa unità funzionale, la disposizione trans risulta mutante, in quanto nessun omologo contiene un gene pienamente normale. La configurazione cis, invece, produce un fenotipo normale, poiché un cromosoma è completamente normale. D'altronde, se le mutazioni m1 ed m2 interessano geni diversi, entrambe le configurazioni risultano normali, perché anche in trans esiste una copia normale di ciascun gene.

Fu Benzer che, nell'adattare il test cis/trans allo studio del batteriofago mutante T4, coniò il termine ‛cistrone' per definire un'unità genetica funzionale. Oggi il cistrone, a parte poche eccezioni, è considerato equivalente al gene. Lo studio dei casi eccezionali che implicano complementazione fra alleli serve a perfezionare il concetto di gene, poiché in alcuni geni la complementazione allelica fornisce indizi su come funzioni la regolazione del gene. Ciò che ora è chiaro è che il gene può mutare in corrispondenza di numerosi siti compresi fra le sue estremità e che ogni singolo sito può essere risolto per ricombinazione. La minima unità mutabile e ricombinabile è un singolo nucleotide, mentre il cistrone comprende vari nucleotidi, il cui numero varia a seconda della funzione del gene.

14. La questione della colinearità

Intorno alla metà degli anni cinquanta la struttura molecolare del gene divenne oggetto di approfondite indagini, suggerite dal modello del DNA di Watson e Crick e dalle previsioni che, sulla base di tale modello, potevano esser fatte circa la struttura e la funzione del gene. Secondo il modello, il codice genetico doveva essere costituito da una sequenza di nucleotidi di quattro tipi diversi. Per verificare questa ipotesi e decifrare il codice furono fatti esperimenti tesi a stabilire come l'informazione contenuta negli acidi nucleici potesse essere tradotta in specifici componenti cellulari. Pauling e i suoi collaboratori mostrarono, nel 1949, che un gene mutante, che provoca nell'uomo l'anemia falciforme, specifica una forma modificata di emoglobina. Ingram in seguito stabilì che la modificazione dell'emoglobina consisteva nella sostituzione di un amminoacido con un altro nella proteina. Da questa scoperta, unita a quanto si era appreso dalle ricerche sulle mutazioni che alterano il funzionamento degli enzimi, risultò evidente che, attraverso un qualche meccanismo, la sequenza degli amminoacidi di un polipeptide dovesse essere determinata dalla sequenza dei nucleotidi di un gene. Una delle domande che allora ci si pose era se l'informazione contenuta nel gene fosse colineare con il polipeptide codificato dal gene. A questa domanda si rispose in due modi differenti: una prima risposta fu fornita dallo studio di una classe di mutazioni che colpiscono l'involucro proteico del virus T4. Sarabhai e i suoi collaboratori selezionarono una sottoclasse di mutanti T4, denominati amber, nei quali la sintesi di una catena polipeptidica è interrotta precocemente. È noto che la catena polipeptidica che costituisce la proteina viene sintetizzata a partire dal gruppo amminico terminale verso quello carbossilico terminale per aggiunta successiva di un amminoacido alla volta; pertanto si pensò che mutanti amber localizzati in diverse posizioni in un gene avrebbero dato luogo a catene polipeptidiche di diversa lunghezza, a seconda della posizione del sito mutante entro il gene. In effetti, quando i mutanti furono mappati, risultò che la posizione di ognuno di essi corrispondeva alla lunghezza della rispettiva catena polipeptidica. Questo risultato indica in maniera molto convincente che esiste una correlazione lineare fra un gene e la proteina da esso codificata. Una prova ancora più precisa di questo fatto fu ottenuta da Yanofsky, il quale identificò una serie di mutanti di E. coli, che presentavano un'alterazione della struttura dell'enzima triptofanosintetasi. Yanofsky e i suoi collaboratori (v., 1967) dimostrarono che ogni mutante differiva dal normale per un solo amminoacido della catena polipeptidica e che la posizione dell'amminoacido sostituito corrispondeva esattamente alla posizione del sito di mutazione nel gene della triptofanosintetasi.

15. Il codice genetico

La determinazione della struttura generale del codice genetico costituì un autentico trionfo scientifico, ottenuto attraverso un'elegante metodologia sperimentale e una brillante elaborazione teorica. I primi a formulare l'ipotesi che la sequenza dei nucleotidi del DNA determinasse una sequenza di amminoacidi furono Dounce, nel 1952, e Gamow, nel 1954. Con questa ipotesi si prospettava la possibilità che le quattro basi contenute nel DNA costituissero un codice suscettibile di essere tradotto in proteine dalla cellula. Queste prime previsioni sollevarono una serie di interrogativi circa la natura del gene: ci si chiedeva quante fossero le basi necessarie per la specificazione di un amminoacido, se il codice contemplasse una qualche forma di interpunzione e se fosse sovrapposto, cioè se una stessa base potesse appartenere a più di una parola ‛scritta' in codice.

La questione della sovrapposizione fu risolta con lo studio di varianti dell'emoglobina: si riuscì a dimostrare che una mutazione implicava la sostituzione di un solo amminoacido nella molecola, anziché di due amminoacidi adiacenti, come sarebbe dovuto accadere se il codice fosse stato sovrapposto.

Riguardo alla questione del numero delle basi necessarie per la specificazione di un amminoacido, era chiaro che una o due basi soltanto non sarebbero state sufficienti, in quanto gli amminoacidi che compongono le proteine sono 20; mentre un sistema costituito da triplette delle quattro basi, e cioè da 43 (64) combinazioni, sarebbe stato più che sufficiente per specificare 20 amminoacidi. Questo problema e il problema dell'esistenza di elementi di interpunzione nel codice furono risolti da Crick e dai suoi collaboratori tramite lo studio di mutanti indotti con la profiavina nel batteriofago T4. Ricerche precedenti condotte su questi mutanti avevano suggerito l'ipotesi che la proflavina agisse sul DNA provocando l'aggiunta o la sottrazione di nucleotidi. Si era giunti a questa conclusione sulla base dell'osservazione che mutazioni indotte con la proflavina potevano essere ricondotte alla normalità trattando i mutanti di nuovo con proflavina, mentre lo stesso effetto non si poteva ottenere usando agenti mutageni la cui azione consisteva nella sostituzione di un tipo di nucleotide con un altro.

Crick e i suoi collaboratori ottennero una serie di retromutanti indotti con la proflavina da una mutazione del gene r11B, a sua volta indotta con la proflavina. Le retromutazioni in un certo numero di casi mappavano come doppie mutazioni all'interno del gene rIIB e la seconda lesione era localizzata in prossimità del sito della mutazione originaria. I nuovi mutanti, una volta separati dai mutanti originari, si comportano anch'essi come mutanti rIIB. Crick partiva dall'ipotesi che la sequenza nucleotidica costituisse un codice che veniva letto da un prefissato punto iniziale. Su questa base, se la mutazione originaria fosse consistita nella delezione di un nucleotide, allora l'aggiunta di un nucleotide nelle immediate vicinanze della delezione avrebbe ripristinato la funzione del gene. La mutazione ‛meno' avrebbe potuto essere controbilanciata da una mutazione ‛più' indotta nelle sue vicinanze, poiché in tal caso solo un breve segmento del gene sarebbe stato letto fuori fase e avrebbe quindi codificato gli amminoacidi sbagliati. Sulla base di questo ragionamento si poterono suddividere i mutanti in mutanti di tipo ‛più' e mutanti di tipo ‛meno'. Questi esperimenti permisero un'osservazione estremamente interessante e istruttiva, e cioè che, se si piazzavano contemporaneamente o tre mutanti ‛più' o tre mutanti ‛meno' nel gene rIIB, si otteneva un fenotipo normale o quasi normale: se ne dedusse che tre nucleotidi codificano un amminoacido e che l'aggiunta o la sottrazione di tre nucleotidi al gene riporta in fase la cornice di lettura del gene, sicché la maggior parte della proteina viene sintetizzata correttamente. Questa deduzione fu effettivamente confermata quando il codice e il meccanismo attraverso cui viene espresso furono decifrati.

16. Meccanismi d'azione del gene

Gli anni sessanta videro notevoli progressi in due vaste aree di importanza fondamentale per la comprensione approfondita del gene. In primo luogo incominciò a svilupparsi la biochimica dei meccanismi d'azione del gene, soprattutto attraverso l'analisi degli enzimi che catalizzano la sintesi degli acidi nucleici e delle proteine. Questi studi portarono a comprendere in termini generali i meccanismi di replicazione degli acidi nucleici e il modo in cui l'informazione è trasferita dagli acidi nucleici alle proteine, e condussero alla decifrazione del codice genetico, costituito da triplette di nucleotidi (‛codoni'). Il secondo settore in cui si registrarono grandi progressi fu la genetica dei virus e dei Batteri, nel cui ambito si mossero i primi passi verso la comprensione dei meccanismi di regolazione del gene.

Per quel che riguarda la prima area di ricerca non è necessario, in questa sede, esaminare in dettaglio i risultati della ricerca biochimica, ma è importante indicare in termini generali lo stato attuale delle conoscenze in questo campo, dominato in massima parte dalla biochimica e dalla biologia dell'RNA. Fin dalla metà degli anni cinquanta era stato suggerito che l'RNA potesse essere un intermediario nel trasferimento dell'informazione dal DNA alle proteine, in quanto studi al riguardo dimostravano che l'RNA era coinvolto nella sintesi delle proteine. Si scoprì che, in seguito a infezione di cellule di E. Coli con un virus, veniva sintetizzata una specie di RNA caratterizzato da una vita media molto breve; tale RNA poteva in effetti formare molecole ibride col DNA virale. Questo fatto suggerì l'ipotesi che l'RNA a rapida degradazione contenesse sequenze complementari rispetto a quelle del DNA virale. La scoperta di un enzima, chiamato ‛RNA-polimerasi DNA-dipendente', in grado di catalizzare la sintesi di RNA soltanto in presenza di DNA, e la dimostrazione che, in effetti, l'RNA neosintetizzato possiede una sequenza di basi complementare a quella del DNA usato come stampo, fornirono una prova determinante del fatto che l'informazione codificata nel DNA può essere trascritta nell'RNA. A queste scoperte seguì la dimostrazione che l'RNA è trascritto a partire da uno solo dei due filamenti del DNA; ciò significa che un filamento codifica senso e l'altro antisenso. Dopo la trascrizione, l'RNA messaggero maturo viene trasportato attraverso la membrana nucleare e si associa strettamente ai ribosomi, che costituiscono il sito di sintesi delle proteine. Il concetto di trasferimento dell'informazione dal DNA alle molecole di RNA messaggero (mRNA), che a loro volta sono tradotte in sequenze di amminoacidi nelle proteine, divenne l'ipotesi di lavoro per le ricerche in questo campo.

L'elemento di collegamento che rende possibile l'accurata traduzione dei codoni dell'mRNA in sequenze di amminoacidi nelle proteine è un'altra specie di RNA, chiamato ‛RNA di trasferimento' (tRNA). Per ogni amminoacido esiste una specie di tRNA che si combina con esso, lo trasporta al ribosoma, riconosce il codone relativo, contenuto nell'mRNA, man mano che l'mRNA si sposta lungo il meccanismo di assemblaggio, e colloca l'amminoacido in prossimità della catena polipeptidica nascente, in modo che possano formarsi i necessari legami chimici. Tutto ciò avviene nel citoplasma della cellula.

17. L'analisi del codice genetico

Dal 1961 al 1967, circa, il codice genetico fu completamente decifrato, per merito soprattutto delle ricerche di Nirenberg, Ochoa e Khorana. Il metodo adottato consisteva in sostanza nell'uso di un sistema in vitro per la sintesi proteica. Uno dei componenti fondamentali del sistema in vitro era l'RNA, che fungeva da stampo per specificare la sequenza degli amminoacidi della catena polipeptidica da sintetizzare. Usando RNA sintetico, costituito da una sequenza nota di nucleotidi, e osservando quali amminoacidi venivano inseriti nella catena polipeptidica nascente, fu possibile determinare il codone o i codoni relativi a ognuno dei venti amminoacidi presenti negli organismi. A queste ricerche fecero seguito numerosi esperimenti tesi a dimostrare che il codice è universale, cioè che in tutti gli organismi viventi si verifica la stessa corrispondenza fra codone e relativo amminoacido. Le uniche eccezioni a questo fatto sono rappresentate da alcuni codoni presenti nel DNA mitocondriale; recentemente si è poi scoperto che uno dei codoni che indicano il termine della traduzione nella maggioranza degli organismi in effetti codifica un amminoacido nei Ciliati.

Dal momento che esistono quattro tipi di nucleotidi (A, G, C, T) e che una sequenza di tre nucleotidi specifica un amminoacido, in totale esistono 64 codoni (43). Gli amminoacidi presenti negli organismi sono soltanto venti, quindi il codice genetico risulta alquanto ridondante: in diversi casi parecchi codoni specificano uno stesso amminoacido. Tre codoni fungono da segnali per il termine della traduzione dell'RNA messaggero in catene polipeptidiche. Uno di questi codoni è il segnale amber, che interviene in un tipo di mutazioni del virus T4 discusso in precedenza. In queste mutazioni un codone che normalmente indica un amminoacido è trasformato nella sequenza amber. Questi mutamenti, comunque, sono in grado di svilupparsi se la cellula ospite è portatrice di una mutazione che sopprime il codone amber (suppressor mutation); tale mutazione modifica uno dei geni dell'RNA di trasferimento, in modo che l'RNA in questione si accoppi al codone amber come se questo codificasse per un amminoacido. Gli altri codoni di terminazione sono chiamati ochre e opal; anche per questi codoni si conoscono mutazioni che li sopprimono.

18. La transcriptasi inversa

La nostra conoscenza del dispositivo di espressione del gene si è andata approfondendo col passare del tempo, tanto che attualmente conosciamo molti dettagli dei segnali di inizio e di terminazione della trascrizione dell'mRNA e della traduzione dell'mRNA in proteine; gli stessi enzimi che catalizzano le diverse reazioni sono piuttosto ben caratterizzati. Tuttavia solo nel 1970 si scoprì un altro aspetto veramente fondamentale della trasmissione dell'informazione genetica. In quell'anno Baltimore e Temin, indipendentemente l'uno dall'altro, dimostrarono l'esistenza di una DNA-polimerasi RNA-dipendente prodotta da virus oncogeni a RNA. Questo enzima, chiamato ‛transcriptasi inversa', catalizza la sintesi di DNA usando come stampo una molecola di RNA. Risultò immediatamente chiaro che il flusso di informazione genetica non è rigorosamente unidirezionale dal DNA all'RNA e poi alla proteina. Questo fatto è particolarmente importante, perché significa che i virus a RNA sono capaci di costruire copie dei propri cromosomi fatte di DNA, che possono quindi essere integrate nei cromosomi della cellula ospite. Tramite questo meccanismo il cromosoma virale integrato viene replicato e trasmesso alle cellule figlie dall'ospite a ogni divisione cellulare. Nelle cellule germinali queste copie integrate del virus possono essere trasmesse alle generazioni successive. Noi ora sappiamo che l'integrazione e il distacco di queste sequenze virali possono determinare effetti importanti nell'ospite, producendo mutazioni e condizioni oncogene. Tutto ciò ha conseguenze molto importanti sull'architettura genetica dell'ospite: di questo argomento parleremo in un prossimo capitolo.

19. La regolazione genica nei Batteri e nei virus

L'altro settore in cui, durante gli anni sessanta, si registrarono rapidi progressi fu lo studio del controllo dell'attività genica nei Batteri e nei virus. Un'insolita caratteristica riguardante la disposizione dei geni fu scoperta nel batterio Salmonella typhimurium da M. Demerec, il quale notò che i geni implicati in passaggi successivi di una serie di reazioni metaboliche erano, nella maggior parte dei casi, raggruppati insieme. Ames e i suoi collaboratori scoprirono che questi gruppi di geni sono regolati coordinatamente come se costituissero una serie multifunzionale sotto il controllo di un singolo segnale.

Un notevole progresso nella comprensione del controllo coordinato dei geni fu determinato da un modello proposto nel 1961 da F. Jacob e J. Monod. Questi autori avevano studiato in E. coli certe mutazioni che interferivano con le varie tappe del metabolismo del lattosio nel batterio. Già si sapeva che, quando le cellule crescono in un mezzo contenente lattosio, vengono prodotti gli enzimi necessari per l'utilizzazione di questo zucchero; in assenza di lattosio la sintesi di tali enzimi cessa. Jacob e Monod identificarono parecchie classi di mutazioni che inibivano in qualche modo la capacità della cellula di utilizzare il lattosio. Una classe di mutazioni modificava l'attività di questo o quell'enzima, lasciando immutati gli altri enzimi coinvolti nel processo metabolico. Un'altra classe di mutazioni interferiva con la capacità della cellula di reprimere la sintesi degli enzimi in assenza di lattosio. Jacob e Monod ipotizzarono che il controllo dei geni implicati in questo processo avvenisse al livello della trascrizione, cioè della sintesi dell'mRNA. Secondo il modello di Jacob e Monod, tutti i geni del gruppo, posti l'uno accanto all'altro nel cromosoma, sono trascritti in un'unica molecola di RNA messaggero; in assenza di lattosio una molecola speciale (repressore) si lega al cromosoma per impedire la trascrizione. Gli stessi autori ipotizzarono inoltre che il lattosio, se presente, si legasse alle molecole di repressore rimuovendole dal cromosoma, in modo che la trascrizione potesse aver luogo.

20. L'operone

Jacob e Monod chiamarono operone (operon) l'intera serie di geni e di unità regolatrici; i geni che specificano le strutture degli enzimi furono chiamati geni ‛strutturali'. I due ricercatori postularono l'esistenza di un gene ‛repressore', destinato a codificare la molecola di repressore, e di un gene ‛operatore', corrispondente al sito cui la molecola di repressore si lega per fermare la trascrizione. Un'analisi approfondita delle classi di mutanti confermò l'esistenza del gene repressore, della sequenza operatore e dei geni strutturali. Inoltre, accanto all'operatore, si scoprì un sito promotore, cui l'RNA-polimerasi si lega per iniziare la trascrizione. Un tipo di mutazioni del gene repressore fa sì che le cellule producano grandi quantità di repressore. Sfruttando questo fatto, W. Gilbert e B. Müller-Hill isolarono e purificarono il repressore e confermarono che si trattava in effetti di una proteina, capace di legarsi direttamente a una specifica sequenza di DNA, in corrispondenza del sito operatore.

Anche la genetica e la biologia molecolare del batteriofago lambda (λ) contribuirono moltissimo alla comprensione dell'importanza della disposizione e dell'organizzazione dei geni nella regolazione delle loro funzioni. Il ciclo vitale del batteriofago lambda (λ) è piuttosto complesso, in quanto, nell'infettare una cellula ospite, il batteriofago deve ‛decidere' se percorrere il ciclo litico, replicando il proprio cromosoma, sintetizzando le proteine della capsula e assemblando particelle virali mature, oppure reprimere queste funzioni e integrarsi nel cromosoma dell'ospite. M. Ptashne isolò il repressore implicato in questi passaggi regolatori e mostrò che si tratta di una proteina capace di riconoscere specifiche regioni del DNA a doppia elica del cromosoma virale e di legarsi a esse.

L'operone del lattosio è un sistema inducibile in cui l'attività genica è controllata mediante repressione: si tratta di un controllo negativo. Anche il sistema λ esercita in primo luogo un tipo di controllo negativo, ma possiede pure aspetti di controllo positivo, nel senso che la trascrizione di alcuni segmenti del cromosoma è accelerata dalla presenza di una particolare proteina. Si conoscono diversi operoni a controllo positivo nei Batteri: uno di questi è l'operone implicato nel metabolismo dell'arabinosio in E. coli. In questo caso lo zucchero si combina con una proteina a formare un complesso regolatore attivo, che a sua volta si combina con una sequenza dell'operone per stimolare attivamente la trascrizione.

L'analisi molecolare e genetica dei geni virali e batterici ha portato a modificare sotto parecchi aspetti il concetto di gene. In primo luogo è risultato chiaro che spesso il controllo delle attività degli altri geni da parte dei geni regolatori avviene attraverso una proteina specifica codificata appunto dai geni regolatori, come nel caso del repressore per il lattosio; d'altra parte esistono alcune sequenze di nucleotidi nel DNA, che sono vitali pur non codificando per alcun polipeptide, come nei casi del promotore e dell'operatore per il lattosio. Un'altra caratteristica interessante è che, per funzionare adeguatamente, alcuni geni devono essere raggruppati in serie, chiamate operoni, che vengono trascritte coordinatamente. Se passiamo a esaminare l'organizzazione e la regolazione dei geni negli organismi eucanoti, il quadro cambia notevolmente. Di particolare rilevanza è la scoperta che raramente, se non mai, batterie di geni controllati coordinatamente sono organizzate come operoni; inoltre esse presentano una complessità inaspettata, per quel che riguarda l'organizzazione e la funzione.

21. Numero e dimensioni dei geni

A mano a mano che si esaminavano sotto l'aspetto biochimico e genetico i genomi di organismi superiori, emersero alcuni fatti problematici. In primo luogo risultò chiaro che negli eucarioti le dimensioni del genoma variano ampiamente da specie a specie, e per di più non esiste quasi alcuna correlazione fra le dimensioni del genoma e la complessità di sviluppo dell'organismo. Per esempio, mentre gli esseri umani possiedono circa 3 × 109 paia di nucleotidi per assetto di cromosomi, alcuni anfibi ne posseggono ben più di 1011; Drosophila possiede circa 1,5 × 108 paia di nucleotidi, mentre un insetto molto simile a Drosophila, la zanzara, possiede una quantità di DNA circa sei volte superiore.

La seconda scoperta fu che porzioni piuttosto consistenti dei genomi degli eucarioti consistono di sequenze ripetute di DNA. Alcuni di questi segmenti sono ripetuti fino a un milione di volte per genoma, ma la maggior parte delle sequenze ripetitive, in quasi tutti gli organismi, si presentano in un numero di copie per genoma che oscilla da 100 a 10.000. La quantità di sequenze ripetute varia piuttosto ampiamente da specie a specie, ma le differenze non bastano a spiegare il paradosso della mancata correlazione fra dimensioni del genoma e complessità di sviluppo.

Il problema di quanti geni siano presenti nel genoma di un organismo è stato affrontato in vari modi per parecchio tempo. Muller studiò la questione in Drosophila, registrando le frequenze di mutazione in corrispondenza di diversi loci e applicando un test statistico, basato sul ripetersi di mutazioni in determinati loci, per calcolare il numero totale di loci. Comunque il metodo più diretto fu quello adottato da B. H. Judd e collaboratori, i quali tentarono di ottenere mutazioni in ogni gene compreso in un piccolo segmento di un cromosoma, accumulando un gran numero di mutazioni, tutte relative alla regione prescelta. L'analisi genetica e citologica della regione saturata di mutazioni mostrò una correlazione piuttosto buona fra il numero di geni e il numero di bande che appaiono nei cromosomi politenici giganti delle ghiandole salivari della larva (v. genetica: Citogenetica). Quando si misura la quantità di DNA in queste bande, il contenuto medio di nucleotidi risulta di circa 25.000 paia, ovvero di 25 chilobasi (kb). Hochman pervenne più o meno allo stesso risultato studiando il minuscolo quarto cromosoma di Drosophila. Questi calcoli indicano che il numero totale di geni necessari per dirigere lo sviluppo e il funzionamento di Drosophila è inferiore a 10.000. Molto più importante è, comunque, il concetto che i geni degli eucarioti sono molto grandi e contengono una quantità di DNA molto maggiore di quella necessaria per codificare le proteine. A complicare il problema intervennero le osservazioni fatte dai biologi molecolari, secondo cui le copie di RNA isolate dai nuclei delle cellule sono considerevolmente più grandi degli mRNA maturi. Inoltre la maggior parte dell'RNA nucleare originale viene degradata rapidamente e non lascia mai il nucleo per raggiungere il citoplasma, ove associarsi ai ribosomi ed essere tradotta in polipeptidi. I tempi erano maturi perché il concetto di gene subisse una sorprendente trasformazione.

22. I geni sezionati

Lo sviluppo, verificatosi nei primi anni settanta, delle tecniche per inserire nuova informazione genetica nel DNA di virus o di plasmidi batterici permise di isolare e purificare geni specifici in quantità sufficienti a caratterizzarli dal punto di vista molecolare. Questi metodi di DNA ricombinante in un primo tempo si dimostrarono soprattutto utili nella manipolazione di geni virali e batterici, ma ben presto i progressi fatti in tale campo permisero l'estensione di queste tecniche allo studio dei geni degli eucanoti.

Si studiarono con la massima attenzione le sequenze nucleotidiche della regione prossima al sito di inizio della trascrizione, in quanto si pensava che la regolazione dell'attività genica avvenisse principalmente al livello della trascrizione. Quando si confrontarono le sequenze presenti in un gene donato molecolarmente a partire dal cromosoma con le sequenze rinvenute nel suo mRNA maturo, risultò evidente che in molti casi i due tipi di sequenze erano molto diversi. Tutte le sequenze di mRNA sono presenti nel DNA cromosomico, ma nel cromosoma esistono anche sequenze addizionali non rinvenibili nell'mRNA. Studiando i fenomeni che fanno seguito alla trascrizione si scoprì che in un primo tempo tutte le sequenze cromosomiche costitutive di un determinato gene sono trascritte, ma in un secondo momento l'RNA subisce un processo di sezionamento (splicing): alcuni segmenti della trascrizione originaria vengono estromessi dall'RNA, mentre le sequenze che codificano le proteine sono riunite insieme a formare l'mRNA maturo. I segmenti eliminati, chiamati introni, vengono degradati piuttosto rapidamente nel nucleoplasma; non si sa se essi svolgano una qualche funzione. I segmenti riuniti insieme a formare l'mRNA si chiamano esoni perché escono dal nucleo (e vengono tradotti). I geni sezionati e il sezionamento delle loro trascrizioni furono studiati originariamente usando copie di adenovirus tratte da cellule di mammifero infettate. I risultati così ottenuti furono estesi e si ebbe la conferma che gli introni esistono, virtualmente, in tutti i geni degli eucarioti anche se, negli eucarioti inferiori, come il lievito, si presentano con una frequenza molto più bassa.

23. Il sezionamento differenziale

La sorprendente complessità dei geni degli eucarioti, descritta nel capitolo precedente, non è stata ancora spiegata, ma esistono alcune interessanti indicazioni sul significato funzionale di tale organizzazione. Esistono prove sperimentali che in alcune proteine gli introni segnano i confini di domini funzionali. Un fatto ancora più importante è che il sezionamento differenziale in alcuni casi è utilizzato per produrre proteine differenti da uno stesso gene. In Drosophila l'enzima alcooldeidrogenasi assume due forme diverse nella larva e nell'insetto adulto. Entrambe le forme dell' enzima sono prodotte dallo stesso gene utilizzando diversi schemi di sezionamento per congiungere diverse combinazioni di esoni nei due stadi del ciclo vitale. Un altro esempio riguarda l'ormone calcitonina, un peptide prodotto dalla ghiandola tiroide. Grandi quantità di mRNA per la calcitonina si rinvengono anche nell'ipotalamo, che però contiene ben poca calcitonina. Nell'ipotalamo è, però, presente un'altra proteina, chiamata calcitonin-gene-related-product (CGRP). È possibile dimostrare che sia la calcitonina sia la CGRP sono prodotte a partire dalla stessa trascrizione primaria usando schemi di sezionamento alternativi. Ancora non si sa quale sia il fattore che controlla l'uso di questi schemi differenti nei diversi tessuti o nei diversi stadi della vita. Le ricerche miranti a chiarire i meccanismi di controllo della trascrizione e della traduzione si basano su tecniche di clonaggio molecolare e su tecniche di sequenza applicate ai nucleotidi che si trovano nelle regioni poste alle due estremità dei geni. Si sono riscontrate delle somiglianze nelle sequenze di queste regioni appartenenti a geni diversi, ma allo stato attuale delle ricerche è possibile solo formulare delle congetture circa le loro funzioni.

24. Famiglie multigeniche

Come è stato detto in precedenza, il raggruppamento di geni implicati in passaggi successivi di uno stesso percorso metabolico è un fatto che si verifica piuttosto comunemente nei procarioti. Negli eucarioti esistono alcuni gruppi di geni che costituiscono famiglie multigeniche, ma sono del tutto diversi dagli operoni. Certi geni, come quelli che codificano gli istoni, presentano sequenze pressoché identiche, sono disposti in tandem, in successione, nel cromosoma e funzionano simultaneamente. Altri geni, per esempio quelli che codificano le globine, sono sì correlati, ma non identici, e funzionano in momenti diversi del ciclo di sviluppo. La globina embrionale viene prodotta molto precocemente nel corso dello sviluppo; fa poi seguito la sintesi delle catene di globina fetale, a loro volta sostituite dalle catene adulte dopo la nascita. I geni relativi presentano alcune omologie, ma sono attivati e disattivati singolarmente. Un fatto interessante è che questi geni sono disposti in gruppo nel cromosoma sostanzialmente nello stesso ordine in cui si esprimono durante lo sviluppo. Comprese nel gruppo vi sono alcune sequenze globino-simili non più funzionali, in quanto hanno subito delezioni che ne hanno rimosso segmenti essenziali. Queste sequenze si chiamano ‛pseudogeni' ed è possibile che rappresentino vestigia evolutive di geni un tempo funzionali, i cui ruoli siano stati assunti da altri membri del gruppo.

25. Il riordinamento dei geni

Un altro aspetto della multiforme natura del gene si ricava dallo studio dei geni che codificano le molecole di anticorpi (immunoglobuline). Si sa da molto tempo che possono esistere numerosissime molecole di anticorpi diverse, ciascuna con una sequenza particolare che le permette di riconoscere un antigene specifico e di legarsi a esso. Quel che si ignorava, fino a qualche tempo fa, era se ogni tipo di anticorpo fosse codificato da un gene diverso; se le cose stessero così, sarebbero necessari probabilmente milioni di geni differenti soltanto per la specificazione di anticorpi. Quando fu possibile ricorrere alle tecniche di clonaggio e di sequenza dei geni, si ottenne un risultato stupefacente: durante la maturazione di una plasmacellula che produce un anticorpo, le sequenze di DNA che codificano le catene di immunoglobuline vanno incontro a un riordinamento fino a formare un'unica combinazione codificante. Pertanto ogni plasmacellula produce soltanto anticorpi costituiti da una determinata sequenza di amminoacidi.

La diversità fra tipi di anticorpi dipende dalla loro struttura: ogni molecola consiste di due catene polipeptidiche pesanti e di due catene polipeptidiche leggere, ognuna delle quali possiede una regione variabile e una regione più o meno costante (v. immunologia e immunopatologia: Immunologia generale). L'analisi molecolare mostra che nelle cellule embrionali esistono soltanto due geni, appartenenti a cromosomi diversi, che codificano la parte costante della catena leggera (CL), mentre sono almeno 200 i geni che codificano la regione variabile (VL). Nel caso della catena pesante, esiste un gruppetto di circa otto geni che codificano la regione costante (CH) e circa 200 geni VH. La specificità di un anticorpo è determinata da quali componenti VL e CL, da una parte, e VH e CH, dall'altra, si uniscono a formare i due tipi di catene, oltre che, naturalmente, dalla particolare combinazione di catene leggere e pesanti. Questo sistema combinatorio consente la produzione di moltissimi tipi diversi di anticorpi. Il meccanismo di giunzione V-C e la sua regolazione restano tuttora misteriosi; è chiaro, comunque, che la giunzione è un evento variabile e implica numerose sequenze di giunzione (J), il che dà luogo a un ulteriore differenziamento dei tipi di anticorpi.

26. Elementi genetici mobili

Per completare il quadro delle conoscenze attuali relative al gene, dobbiamo prendere in considerazione una classe insolita di elementi genetici, capaci di muoversi all'interno del genoma. Questi elementi, noti come transposoni, sono stati rinvenuti praticamente in tutti gli organismi dai Batteri alle piante e agli animali superiori. La prima a descriverli fu Barbara McClintock, che li scoprì nel corso dei suoi esperimenti col mais. La McClintock notò che alcune delle mutazioni che stava studiando erano somaticamente instabili, nel senso che il gene, nella pianta, veniva espresso in lembi di tessuto normale intercalati a tessuto mutante. Ella notò anche che questo stato instabile poteva essere trasmesso lungo la linea germinale, ma che il gene mutante instabile spesso andava incontro a ulteriori mutamenti, compreso il ritorno alla normalità. L'analisi genetica effettuata dalla McClintock mostrò che le instabilità erano dovute a elementi genetici, che ella chiamò ‟elementi di controllo" (controlling elements), i quali non avevano una posizione fissa nel cromosoma. Questi elementi mobili sono capaci di inserirsi all'interno o in prossimità di un gene ostacolandone il normale funzionamento. D'altra parte questi elementi sono anche suscettibili di venir rimossi e spesso la loro rimozione consente il ritorno a un funzionamento normale o pressoché normale.

Usando tecniche di DNA ricombinante divenne possibile donare elementi mobili ed esaminarne le strutture molecolari. Fra i primi a essere esaminati sono stati gli elementi che provocano mutazioni nel batterio E. coli: ne sono stati trovati quattro tipi principali, disseminati per tutto il cromosoma di E. coli, ed è stato dato loro il nome di ‛sequenze di inserimento' (insertion sequences, IS). Le IS non solo possono muoversi, ma, se sono presenti a coppie, possono spostarsi come un'unità, trasportando con sé in una nuova posizione tutti i geni interposti fra esse.

L'esame dei siti cromosomici dove sono stati rinvenuti i transposoni mostra che questi elementi possono inserirsi in molte posizioni all'interno del cromosoma. Perché l'inserimento dei transposoni possa avvenire, le due catene di DNA del cromosoma si spezzano in punti leggermente diversi, alla distanza di 5 ÷ 8 nucleotidi. Questo taglio sfalsato fa sì che su entrambe le catene di DNA rimanga un breve segmento di catena singola. L'inserimento dei 5 ÷ 8 nucleotidi mancanti su ogni catena, a opera di enzimi di riparazione, dà luogo a una duplicazione della sequenza di 5 ÷ 8 basi fra i punti di rottura, in corrispondenza delle giunzioni di inserimento. In alcuni casi si è visto che anche dopo rimozione i brevi segmenti duplicati restano, come fossero un'impronta lasciata dal transposone. Ora si sa che alcuni transposoni non hanno bisogno di essere rimossi per spostarsi in una nuova posizione, perché interviene il seguente meccanismo: il transposone viene trascritto in una copia a RNA, dopodiché avviene la sintesi di una copia a DNA, catalizzata dall'enzima transcriptasi inversa. La nuova copia a DNA viene duplicata e può quindi inserirsi, probabilmente grazie all'intervento di enzimi capaci di effettuare tagli sfalsati (staggered), nel Sito bersaglio del DNA cromosomico.

27. Disgenesi ibrida

Esistono molteplici indizi del fatto che gli elementi trasponibili svolgono un ruolo importante nel differenziamento genetico dei genomi dei diversi organismi. In Drosophila, per esempio, circa il 20% del genoma è costituito da DNA a sequenza ripetuta. Gli elementi trasponibili, che compongono parecchie famiglie differenti, rappresentano una grossa frazione di queste sequenze ripetute.

Un esempio di quanto drasticamente i transposoni possono cambiare i genomi è dato dal fenomeno chiamato ‛disgenesi ibrida', che si riscontra in Drosophila. In tutti i ceppi di Drosophila melanogaster provenienti da popolazioni selvatiche è presente un elemento mobile disperso, P, che invece non è presente nei ceppi allevati per anni in laboratorio. L'elemento P nei ceppi selvatici è molto stabile, ma, se si incrocia un maschio di tipo P con una femmina appartenente a un ceppo di laboratorio (di tipo M), la progenie ibrida mostra alti livelli di sterilità, tassi di mutazione da 100 a 1.000 volte superiori alla norma, rottura e riordinamento cromosomici e alte frequenze di non disgiunzione cromosomica. L'analisi degli ibridi e della loro progenie mostra che gli elementi P vanno incontro a un'esplosione di replicazioni o di inserimenti in nuovi siti cromosomici nelle cellule germinali dell'ibrido P/M, dando luogo a cellule germinali non vitali e a frequenti mutazioni nelle cellule che sopravvivono. Si suppone che l'elemento P sia stabilizzato negli individui appartenenti al ceppo P dalla presenza di un repressore, probabilmente codificato da un gene dell'elemento P. Quando vengono introdotti in un individuo ibrido, dove non esiste repressore, perché il citoplasma dell'uovo è stato prodotto da una femmina M, gli elementi P non sono più repressi e si moltiplicano ad alta velocità nelle cellule germinali.

28. I retrotransposoni

Una delle famiglie di elementi trasponibili comuni alla maggior parte degli eucarioti è costruita in base allo stesso schema secondo cui si moltiplicano i virus oncogeni a RNA dei Vertebrati, e in effetti presenta alcune analogie con questi ultimi. Come detto precedentemente, il virus oncogeno a RNA si replica in una copia a DNA, tramite la transcriptasi inversa, e quindi il DNA provirale può inserirsi in un cromosoma. Questi elementi di DNA provirale si comportano come le famiglie di transposoni chiamati retrotransposoni, scoperti in molti organismi, dal lievito e da Drosophila ai topi e agli esseri umani. I retrotransposoni, tuttavia, non sono in grado, a quanto si sa, di formare virus a RNA maturi, capaci di infettare altri organismi; in effetti vengono trasmessi solo verticalmente, alla progenie. Comunque, alla luce delle analogie evidenziate, è lecito chiedersi se i Retrovirus, che rappresentano un importante fattore tumorigeno nei Vertebrati, si siano evoluti da progenitori transposoni, o se, viceversa, i retrotransposoni siano retrovirus degenerati incapaci di dar luogo a particelle virali mature.

29. Trasposizione di geni durante lo sviluppo

Il sistema usato dalle cellule di lievito per lo scambio (switch) dei tipi sessuali presenta alcune analogie col movimento dei transposoni, tanto da dar adito all'ipotesi che i geni mobili possano svolgere, nel processo di espressione del gene e nel processo di sviluppo, un ruolo ancora più importante di quanto risulti attualmente. Per quel che riguarda il tipo sessuale, le cellule aploidi di lievito sono o di tipo a o di tipo α; cellule a e α possono fondersi a formare uno zigote diploide. In alcuni ceppi di lievito le cellule slittano quasi a ogni generazione da un tipo sessuale all'altro. Il meccanismo con cui si realizza lo switch incominciò a essere compreso quando si scoprì che vicino al locus del tipo sessuale esistono geni a e α silenti. Apparentemente lo switch sessuale avviene quando una copia di un gene silente si inserisce nel locus del tipo sessuale e il gene che vi si trovava precedentemente viene spostato. A ogni divisione cellulare α sostituisce a o viceversa nel 90% dei casi; nel 5% delle cellule il gene è sostituito da un gene dello stesso tipo e nel rimanente 5% non avviene alcuna sostituzione. La dimostrazione che lo switch avviene attraverso questo rimpiazzamento ‛a cassetta' si ebbe quando i geni silenti furono donati e trattati con tecniche di sequenza e quindi confrontati con le sequenze del locus del tipo sessuale seguendo particolari casi di switch.

La trasposizione di geni è anche il meccanismo tramite il quale i tripanosomi variano le loro glicoproteine di superficie per eludere la sorveglianza del sistema immunitario dell'ospite. Una grossa parte del genoma del tripanosoma consiste di geni che codificano glicoproteine di superficie varianti (variant surface glycoproteins, VSG). Soltanto un gene VSG viene espresso in un determinato momento e si tratta del gene che, in quel momento, si trova in un sito specifico, chiamato locus di espressione. Un gene VSG può sostituirne un altro nel locus di espressione; ciò dà luogo alla comparsa di una nuova e diversa VSG sulla superficie del parassita. Questi switches avvengono, presumibilmente, per trasposizione; così ogni volta che un'ondata di nuovi parassiti fa la sua comparsa nel flusso sanguigno i parassiti in questione sono portatori di una nuova VSG. Dal momento che si genera una nuova ondata di parassiti ogni 7 ÷ 10 giorni circa, il sistema immunitario dell'ospite non riesce a reagire abbastanza in fretta da distruggere l'invasione dei parassiti.

30. Prospettive future

L'evoluzione del concetto di gene è veramente un prodotto della scienza del ventesimo secolo. Dai fattori unitari postulati da Mendel alle sequenze di DNA caratterizzate dal punto di vista molecolare, i progressi delle nostre conoscenze relative al gene sono stati spettacolari. Siamo entrati nell'era dell'ingegneria genetica a livello molecolare. Non solo possiamo donare e sezionare geni specifici per scoprire da quali sequenze nucleotidiche siano composti, ma possiamo anche modificare le sequenze secondo schemi precisi e quindi analizzare come i geni così assemblati vengano espressi. Sono stati messi a punto vettori di vario genere che permetteranno la trasformazione di cellule con geni modificati. Alcuni di questi vettori sono stati costruiti a partire dalle sequenze mobili discusse in precedenza. Un esempio di questo tipo di vettori è dato dall'elemento P in Drosophila, che viene usato per trasferire un gene donato in un embrione in via di sviluppo, onde determinare come il nuovo gene funzioni durante lo sviluppo. Un elemento P viene modificato rimuovendone alcune sequenze nucleotidiche interne e sostituendole con un gene di struttura nota. Questo elemento viene quindi mescolato con altri elementi P, che posseggono le normali sequenze interne, ma che sono stati privati delle estremità, in modo che non possano integrarsi. Questa miscela di DNA viene infine iniettata in embrioni di Drosophila, dove gli elementi P dotati di sequenze interne normali producono tutti gli enzimi necessari, mentre quello con estremità normali, che trasporta il gene da studiare, usa tali enzimi per integrarsi in un cromosoma dell'ospite. Il funzionamento del nuovo gene durante lo sviluppo dell'embrione può essere valutato in base alla sua capacità di esprimersi al momento opportuno e nel tessuto giusto.

Questo tipo di tecniche per il trasferimento artificiale di geni si trova ancora a uno stadio di sviluppo rudimentale. Si può effettuare la trasformazione di cellule di Mammiferi in coltura e, in effetti, sono stati riportati alcuni casi di geni trasformanti introdotti in embrioni di topo. È possibile che in futuro si riesca a sostituire effettivamente geni difettosi con geni normali usando tecniche di trasformazione.

Benché si siano fatti rapidi progressi nella comprensione della struttura e del funzionamento del gene, il numero dei quesiti che tuttora aspettano una risposta è veramente molto alto. I principali interrogativi ruotano soprattutto intorno alla questione dei meccanismi di regolazione del gene e di interazione fra geni. Restano pressoché sconosciuti i fenomeni che riguardano i livelli superiori dell'organizzazione del gene. Non sappiamo come i geni siano controllati coordinatamente durante lo sviluppo, né comprendiamo l'importanza del modo in cui gruppi di geni sono organizzati all'interno dei cromosomi, così come ignoriamo se le relazioni spaziali fra cromosomi nella matrice nucleare siano importanti per il funzionamento del gene. Siamo comunque in procinto di ottenere le risposte a questi e ad altri interessanti interrogativi.

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