GANDOLFO

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 52 (1999)

GANDOLFO

François Bougard

Figlio del gastaldo di orgine franca Gamenulfo, attivo nel comitatus di Piacenza nel terzo quarto del IX secolo, dovette nascere in quel torno di tempo. G. appartiene a quella cerchia di funzionari e vassalli regi promossi a incarichi di alto rango nel Regno italico, nel corso delle lotte per il potere svoltesi all'inizio del X secolo. Suo padre, forse parente del vescovo di Modena Gamenulfo, aveva svolto la sua carriera - documentata in primo luogo dalle fonti giudiziarie - esclusivamente in ambito locale: le reti di parentela da lui create furono interne al proprio nucleo sociale, a giudicare dallo stesso nome imposto a G. che, ancora raro all'epoca, era anche quello di un importante gastaldo di origine franca, di stanza in quel periodo a Reggio Emilia.

Fin dalla sua prima menzione, al contrario, G. occupa una posizione di rilievo ben superiore a quella che era stata un tempo di suo padre. Il 2 giugno 907 a Pavia in qualità di testimone è il primo a sottoscrivere - suo padre invece non sapeva scrivere - un livello concesso dall'abate di Nonantola a Lamberto, vassallo franco del marchese Adalberto d'Ivrea. La datazione dell'atto, computata secondo gli anni del regno di Berengario, è particolarmente significativa perché testimonia come Adalberto, un tempo sostenitore di Ludovico III di Provenza sconfitto due anni prima da Berengario, fosse rientrato nelle grazie di quest'ultimo. La presenza di G. nella capitale del Regnum e la sua familiarità con la clientela militare di Adalberto si giustificano dal canto loro per il recente e questa volta definitivo sostegno a favore di Berengario da parte della città di Piacenza che, con tutta probabilità, già dal 905 era stata affidata al cognato del re, il supponide Wilfredo II, quale successore del conte Sigefredo. La fedeltà di G. è confermata dal titolo di vassallo imperiale, con una propria clientela vassallatica, con cui G. si qualificherà nel dicembre 918 in occasione di una transazione che fece nel suo comitatus.

La sua vera ascesa politica fu dovuta però a Ugo di Provenza, divenuto re d'Italia nel luglio 926. Nell'estate del 929 il conte di Piacenza, Raginerio, fratello del vescovo Guido e intimo consigliere di Berengario, era rimasto ferito cadendo da cavallo mentre fuggiva dal palazzo di Pavia, ove doveva rispondere, insieme con altri, alle accuse di usurpazione dei beni dell'abbazia di Bobbio. Già nel luglio 930 G. compare attestato a sua volta come conte di Piacenza.

La vicenda di G. testimonia in modo significativo la strategia perseguita da Ugo di Provenza in materia di reclutamento del suo personale politico. Memore della rivolta condotta nel 927 dai giudici Walperto e Gezone-Everardo contro la sua persona, il re Ugo relegò in disparte personalità eminenti, favorendo al contrario l'ascesa di personalità legate al defunto sovrano, ma fino ad allora poco in vista sulla scena politica, quali Milone a Verona, Maginfredo a Parma e, per Piacenza, lo stesso Gandolfo. In questo modo Ugo di Provenza poté rafforzare il proprio potere e nel contempo evitare - il ricordo dell'assassinio di Berengario (924) da parte dello sculdascio Flamberto era ancora ben vivo - eventuali opposizioni da parte di fideles di rango inferiore, mediante la loro ascesa sociale.

Il perseguimento di tale scelta politica è particolarmente evidente in G. che già nell'aprile 931 compare con il titolo di marchese. Le motivazioni di questa promozione sono ignote, e non è neppure certo se essa fu accompagnata dall'affidamento di specifiche responsabilità politico-militari.

Comunque si siano svolti i fatti, G. scompare in modo repentino dalla documentazione, né sappiamo fino a quale data egli abbia svolto le sue funzioni. Non sono noti altresì il luogo e la data di morte.

Suo figlio Bosone non sembra essergli succeduto nell'incarico e, probabilmente, si è avuto un periodo di vacanza nella concessione del titolo fino alla nomina da parte di Ottone I, nel 962, di Riprando come undecimo conte di Piacenza. Proprio quest'ultimo, unitosi in matrimonio con un'esponente della famiglia di Bosone, deve essere considerato il fondatore della dinastia comitale veronese dei Gandolfingi, di cui la storiografia ha per lungo tempo ignorato le origini piacentine.

La politica fondiaria di G. fu particolarmente significativa per le nuove tendenze perseguite dall'aristocrazia laica del X secolo. Suo padre possedeva beni in due distinte zone del contado piacentino, una nelle vicinanze immediate della città, in località detta "super argele", un'altra nell'Oltrepò pavese nelle località di Ziano Piacentino e Rossago. G. non sembra al contrario aver posseduto beni fondiari in prossimità della città, sia per scelta, sia perché quelli provenienti dal patrimonio paterno vennero assegnati in eredità al fratello di G., Gamenulfo, attestato in modo occasionale solo nell'892. I suoi sforzi si concentrarono al contrario nell'estendere le sue proprietà nell'Oltrepò, come attesta l'acquisto di un'intera curtis a Fabbiano, dotata anche di un mulino sul torrente Tidone, e lo stabilirsi nelle località vicine di Viadano e di Santa Maria della Versa nonché nel castrum di Vigalone. Con tutta probabilità egli risiedette nel castrum di Portalbera, la cui posizione lungo il Po, ai confini dei territori di Piacenza e Pavia, deve avergli garantito cospicue entrate con i proventi del ripatico. Questa politica fondiaria fu compiuta in parte ai danni degli antichi proprietari: G. si compromise infatti con gli usurpatori dei beni dell'abbazia di Bobbio, in particolare a Borgoratto Mormorola, località posta a sudovest del suo comitatus, ma a differenza dei già ricordati Raginerio e Guido, rispettivamente conte e vescovo di Piacenza, restituì i beni impunemente occupati, prima che si tenesse il grande processo, svoltosi a Pavia nel 929. Fu soprattutto suo figlio Bosone a godere in pieno i frutti di questa politica fondiaria: alla fine del X secolo egli si insediò infatti nel castrum di Nibbiano, lungo il corso superiore del Tidone, dal quale poté estendere il suo potere nell'area occidentale del comitato, dagli Appennini fino al Po: un vasto dominio signorile che, alla fine degli anni Venti dell'XI secolo, fu in gran parte riassorbito dagli Obertenghi, da poco tempo unitisi con i Gandolfingi di Piacenza, attraverso un'accorta politica matrimoniale.

Fonti e Bibl.: G. Tiraboschi, Storia dell'augusta badia di S. Silvestro di Nonantola, II, Modena 1785, nn. 68, 81 (quest'ultimo doc. ried. in: Codex diplomaticus Langobardiae, a cura di G. Porro Lambertenghi, in Hist. patriae Monumenta, XIII, Augustae Taurinorum 1873, n. 535); Miracula s. Columbani, a cura di H. Bresslau, in Mon. Germ. Hist, Scriptores, XXX, 2, Hannoverae 1934, pp. 1013 s.; G. Tononi, Un contedi Piacenza (sec. X), in Boll. storico piacentino, II (1907), p. 273; L. Cerri, I "Conti" di Piacenza (secc. IX-XI), in L'Indicatore ecclesiastico piacentino, LVI (1925), p. XIV; C.G. Mor, L'età feudale, I, Milano 1952, pp. 121, 194; E. Hlawitschka, Franken, Alemannen, Bayern und Burgunder in Oberitalien (777-962). Zum Verständnis der fränkischen Königsherrschaft in Italien, Freiburg i.B. 1960, pp. 181 s.; V. Fumagalli, Le origini di una grande dinastia feudale: Adalberto-Atto di Canossa, Tübingen 1971, pp. 58 s.; Id., Vescovi e conti nell'Emilia occidentale da Berengario a Ottone I, in Studi medievali, s. 3, XIV (1973), p. 171; A. Castagnetti, Le due famiglie comitali veronesi: i San Bonifacio e i Gandolfingi-Di Palazzo, in Studi sul Medioevo veneto, Torino 1981, tav. II; R. Pauler, Das Regnum Italiae in ottonischer Zeit. Markgrafen, Grafen und Bischöfe als politische Kräfte, Tübingen 1982, p. 176; F. Bougard, Entre Gandolfingi et Obertenghi. Les comtes de Plaisance au Xe et XIe siècles, in Mélanges de l'École française de Rome, Moyen Âge, CI (1989), pp. 11-66; P. Bonacini, Giurisdizione pubblica ed amministrazione della giustizia nel territorio piacentino altomedievale, in Civiltà padana. Archeologia e storia del territorio, V (1994), pp. 76, 91; P. Cammarosano, Nobili e re. L'Italia politica dell'Alto Medioevo, Roma-Bari 1998, pp. 265 s.

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