GALLIA

Enciclopedia Italiana (1932)

GALLIA

Léopold Albert CONSTANS
Giacomo DEVOTO
Secondina Lorenzina CESANO
Pietro ROMANELLI
Mario NICCOLI

. Gli antichi davano il nome di Gallia al paese compreso fra il Mediterraneo, le Alpi, il Reno, l'Oceano e i Pirenei. Le frontiere naturali, il Massiccio Centrale, i quattro grandi fiumi - il Rodano, la Senna, la Loira e la Garonna - facevano di questo paese un'unità geografica assai spiccata. Ad essa corrispondeva l'unità etnica manifestatasi fin dall'alba dei tempi storici.

Sommario. - La Gallia prima dei Galli p. 305; Le invasioni dei Celti, p. 306; I varî popoli della Gallia, p. 306; Organizzazione sociale e politica. L'unità della Gallia, p. 307; La civiltà materiale, p. 307; I Galli e la guerra, p. 308; Religione, p. 308; Lingua, p. 309; Arti, p. 310; Monetazione, p. 310; Primi contatti fra Galli e Romani, p. 311; La provincia romana, p. 311; Gallia cristiana, p. 318.

La Gallia prima dei Galli. - Età paleolitica. - Il territorio della Gallia è stato abitato molto presto. Quando la Gran Bretagna non formava ancora un'isola, ma era unita al continente, delle tribù di cacciatori abitavano gli altipiani che sovrastano la Senna e la Somma; sono state trovate a Chelles (Seine-et-Marne) e a Saint-Acheul (presso Amiens) tracce della loro civiltà, caratterizzata dalla selce scheggiata. Il clima era allora quasi tropicale, l'uomo aveva da combattere con le belve feroci, con l'ippopotamo, l'elefante e il rinoceronte. A questo periodo, detto il paleolitico inferiore, segue quello del paleolitico medio o di Le Moustier (grotta di Le Moustier, Dordogna). Il clima allora si cambiò completamente, venne gran freddo, apparvero il mammut e l'orso grigio, l'uomo fu costretto a cercare rifugio nelle caverne. La civiltà paleolitica offre a questo punto lo spettacolo di un Medioevo; gli arnesi di lavoro, pur essendo più svariati, erano più piccoli e più grossolani. Poi nell'epoca seguente, nel paleolitico superiore, appare un mirabile rinascimento. Il clima, pur rimanendo freddo, è più mite; l'uomo abita sempre nelle caverne, sulla riva dei fiumi; ma può uscire per lunghe cacce, nelle quali incontra antilopi, renne, cavalli selvaggi. Il taglio della selce raggiunge una vera perfezione, e, ciò che più conta, l'uomo ha le prime manifestazioni d'arte: le figure di animali scolpiti, incisi o disegnati sulle pareti delle grotte del sud-ovest (soprattutto la grotta degli Eyzies, Dordogna) rivelano facoltà di osservazione, un senso estetico, e una sicurezza di mano veramente straordinaria. Alla fine di questo periodo l'uomo inventa anche una specie di scrittura, rivelataci dai ciottoli dipinti di Mas-d'Azil (Ariège).

Alle varie fasi di questo meraviglioso periodo di civiltà, che presenta il paleolitico superiore in Gallia, sono stati dati nomi presi in prestito dai varî luoghi dove questa civiltà si era manifestata. Cominciando dal più antico fino al più recente, si distingue l'aurignaciano da Aurignac (Alta-Garonna), il solutréano da Solutré (Saône-et-Loire), il magdaléniano da La Madeleine (Dordogna), l'aziliano da Mas-d'Azil (Ariège).

Età neolitica. - In un'epoca che si riporta molto approssimativamente fra l'anno 10.000 e l'anno 6000 avanti l'era volgare comincia una nuova era di civiltà: è l'età neolitica, caratterizzata dall'uso di armi e di strumenti di pietra levigata. A quest'epoca appartengono pure gl'inizî della ceramica. Ma il fatto più notevole è che l'uomo impara a coltivare la terra, le si attacca e a lei ricorre per i bisogni della vita; in ricambio le dedica la sua esistenza, adora la Madre-Terra come la sorgente misteriosa di tutta la vita. Se l'età precedente è quella dei cacciatori, questa è l'età degli agricoltori. Il clima è diventato più dolce, i ghiacciai si sono ritirati sulle cime dei monti, la lotta per l'esistenza diventa meno rude. Fin da quest'epoca si costituiscono le grandi terre di grano della Gallia; la Limagne (pianura dell'Allier) viene conquistata sulla palude, la Beauce viene bonificata. Si organizzano sugli altipiani rocciosi dei centri di difesa - i futuri oppida - si tracciano strade, si stabiliscono mercati. La Borgogna, terra fertile e chiave delle strade che uniscono la Gallia del sud con la Gallia del nord, sembra essere stata allora la regione più abitata. È questione discussa se la civiltà neolitica sia creazione di un popolo nuovo o sia dovuta ai paleolitici. (V. anche francia: Preistoria).

Le migrazioni Indoeuropee. - Nel corso del terzo millennio un grande avvenimento europeo viene a modificare l'aspetto della Gallia: popoli venuti secondo ogni probabilità dalle rive del Baltico invadono l'Occidente dell'Europa, vi portano una lingua nuova - il tronco comune da cui sono derivate le lingue indoeuropee - e un nuovo sentimento dell'organizzazione politica e della legge morale. Dal punto di vista industriale questa civiltà è caratterizzata dalla conoscenza del rame.

I Liguri. - Il più antico nome del popolo che, secondo gli scrittori greci, avrebbe abitato nella Gallia è quello di Ligii o Liguri. Nonostante la teoria di G. Sergi secondo la quale i Liguri sarebbero una razza dolicocefala venuta dall'Africa orientale, sembra che i Liguri (v.) debbano essere considerati come discendenti diretti degl'Indoeuropei. Del resto non è il caso di parlare di una razza ligure; questo nome deve servire per designare uno stato politico e sociale, nel quale si erano fusi elementi etnici molto diversi. Pare che esista un'affinità fra la comunità linguistica detta italo-celtica e il nome ligure, che corrisponderebbe a un grande impero occidentale costituitosi nel secondo millennio. Quest'età che dal lato politico può dirsi l'età ligure, è, considerata dal punto di vista archeologico, l'età del bronzo. (Per i ritrovamenti dell'età del bronzo, v. francia: Preistoria).

Le invasioni dei Celti. - Dal principio del sec. VII una serie di migrazioni successive, che hanno durato per alcune centinaia d'anni, portarono nelle varie regioni della Gallia i Celti. Erano essi pure degl'Indoeuropei; prima di spandersi per la Gallia, fondarono una grande nazione renana, da una parte e dall'altra del Reno. L'uso di un nuovo metallo, il ferro, con cui essi fabbricavano le lunghe caratteristiche spade, è il segno particolare di questa civiltà che prende il nome da Hallstatt (v.), nell'Alta Austria, una delle più notevoli stazioni della prima età del ferro (900-500 a. C.). Il periodo seguente, o la seconda età del ferro, è designato dagli archeologi col nome della stazione svizzera di La Tène presso Neuchâtel; e rappresenta la civiltà dei Galli dell'epoca storica (per i ritrovamenti archeologici v. la tène, civiltà di; gallica, civiltà). I popoli che i Romani hanno designato sotto il generico nome di Galli sono le varie popolazioni dei Celti, che, con ondate successive invasero la Gallia e l'Italia settentrionale fra il 700 e il 400 a. C.; nomi come i Senoni, i Boi, i Lingoni, si ritrovano ai tempi di Cesare da ambo i lati delle Alpi. Non è possibile farsi una chiara idea dei movimenti dei popoli conquistatori sul territorio della Gallia; quel che si può dire con certezza è che tre regioni del territorio gallico resistettero per varie contingenze più a lungo delle altre alle loro invasioni. Nella Gallia del SO. i Celti si urtarono contro gl'Iberi, un popolo di origine ignota, forse proveniente dall'Asia, venuto dalla Spagna in un'epoca non precisata. Infine all'E. del Rodano i Liguri resistettero meglio che altrove, e da questa mescolanza nacque una popolazione mista che si può chiamare celto-ligure. Però qui intervenne un terzo elemento, l'elemento greco, che esercitò notevole influenza sullo sviluppo di questa parte della Gallia. Prima vennero i Rodî, fondando degli stabilimenti allo sbocco dei fiumi, poi i Focesi, che verso il 600 fondarono Marsiglia.

I varî popoli della Gallia. - Grazie ai Commentarii di Cesare integrati con Strabone e con Plinio, conosciamo un numero abbastanza grande di popoli celti abitanti nella Gallia nel sec. I e II a. C., e siamo in grado di fissarne le sedi in modo preciso, tanto più che spesso la città principale della civitas costituita da un popolo gallo ha preso alla fine del periodo gallo-romano il nome di questo popolo, e che le diocesi del Medioevo si sono formate generalmente nell'ambito delle antiche civitates. Ci limiteremo ad enumerarle.

Cesare (Bell. Gall., I, 1) distingue nella Gallia indipendente, ossia in quella che era fuori della Narbonese, tre parti: nel centro i Celti o Galli propriamente detti, fra la Senna, la Marna e la Garonna; al nord della Senna e della Marna i Belgi; al sud della Garonna gli Aquitani.

La Celtica. - I popoli più potenti della Gallia centrale erano: gli Arverni, nella distesa centrale con capitale l'oppidum Gergovia; i Biturigi Cubi; i Carnuti che abitavano nel paese della Loira fra Blois e Sully e si estendevano al nord fino alla Senna (capitale Cenabum, Orléans); gli Edui, fra la Saône e la Loira (capitale Bibracte sul monte Beuvray); i Sequani, fra la Saône, il Rodano, il Giura, il Reno e i Vosgi (città principale Vesontio, Besançon). Attorno agli Arverni viveva un certo numero di popoli di minore importanza, molti dei quali erano loro vassalli: Vellavî (Velay) e Gabali, Ruteni (Rodez), Cadurci (Cahors), Petrocorî (Périgueux), Lemovici (Limoges). Gli Edui avevano per clienti i Segusiavi, gli Ambarri, i Mandubî, i Boi. All'est dei Sequani, dall'altra parte del Giura, gli Elvezî occupavano il territorio della Svizzera attuale. All'ovest dei Biturigi i Pittoni occupavano il Poitou; al sud di essi i Santoni (Saintes) popolavano la Saintonge da una parte all'altra della Charente; ancora più a sud, confinando con l'Aquitania, vi erano i Biturigi Lemovici, i Boi del paese di Buch, i Nitiobrogi. Al nord della Loira e all'ovest dei Carnuti vi erano gli Aulerci della Normandia, frazionati in tre tribù: Cenomani (le Mans), Eburovici (Évreux) e Diablinti; sulla Loira i Turoni (Tours), gli Andi (Angers), i Namneti (Nantes); al di là i popoli dell'Armorica, fra i quali i più potenti erano i Veneti che tenevano nei seni del Morbihan una grande flotta commerciale e militare. Gli altri popoli dell'Armorica erano: gli Osismi all'estremità della penisola; i Coriosoliti, sulla costa nord, i Redoni (Rennes), gli Unelli nel Cotentin, gli Esuvi, i Lexovî (Lisieux). Nel bacino della Senna i Lingoni, occupavano l'altipiano di Langres, poi venivano i Senoni (Sens) e i Parisî (Parigi).

Belgio. - I popoli Belgi, i più bellicosi fra i Galli, erano quei Celti che erano per ultimi arrivati in Gallia (verso il 300). Cesare (Bell. Gall., II, 4,1) dice che essi "provenivano dai Germani", e i più notevoli fra di loro, i Nervî e i Treveri, rivendicavano origine germanica (Tac., Germ., 28); ciò va inteso in senso geografico e non etnografico, nel senso, cioè, che essi conservavano il ricordo di essere venuti dalla Germania. Però alcuni fra di loro, i più vicini al Reno, avevano una certa mescolanza di sangue germanico. Nel cuore del territorio belga si trovava il potente popolo dei Nervî, fra la Schelda e la Sambre. All'est essi avevano per vicini, lungo la Mosa, i Paemani, i Condrusi (Condroz), gli Atuatuci; al nord i fieri Eburoni che popolavano la foresta delle Ardenne; all'ovest gli Atrebati (Arras); a sud i Viromandui (Vermandois), i Remi (Reims) popolo ricco e pacifico. All'est dell'Oise, sull'Aisne, abitavano i Suessioni (Soissons); all'ovest di questo fiume i Bellovaci (Beauvais); al sud dei Suessioni i Meldi (Meaux) confinavano coi Parisî e con la Celtica; i Veliocassi e i Caleti popolavano la bassa Senna e il paese di Caux, gli Ambiani (Amiens) vivevano nella vallata paludosa della Somme. Lungo la Manica dietro a Boulogne e fino a Bruges, abitavano i Morini; le bocche della Schelda, della Mosa e del Reno erano occupate dai Menapî. Infine all'est, nella vallata della Mosella, erano stabiliti i Leuci, i Mediomatrici e i Treveri. È incerto se si debbano considerare come Belgi o come Celti.

Aquitania. - Gli Aquitani, erano più Iberi che Celti. Essi occupavano la regione fra i Pirenei, l'Oceano e la Garonna. Si conosce il nome di alcune delle loro tribù: gli Ausci (Auch, anticamente Elberris), i Tarbelli (Tarbes?), i Bigerrioni (Bigorre), i Sotiati (Sos), gli Elusati (Eauze), i Cocosati (Coquosa, dell'Itin. Ant., fra Dax e Bordeaux); lo stanziamento dei Sibuzati e dei Tarusati può essere solo ipoteticamente fissato.

Gallia Narbonese. - La provincia romana della Gallia Narbonese o Transalpina, costituita nel 122 a. C. (v. più avanti) si stendeva da Tolosa fino alle Alpi. All'ovest dal Rodano abitavano i Volci Tettosagi fra Tolosa e Narbona, i Volci Arecomici nella regione di Nîmes, gli Elvî nel Vivarese. All'est: i Salluvî, al sud della Duranee, i Voconzî al nord; nel Delfinato e nella Savoia, fra l'Isère, il Rodano e le Alpi, gli Allobrogi. Nelle alte vallate alpine un certo numero di piccoli popoli celto-liguri - Caturigi, Graioceli, Ceutroni, Nantuati, Veragri, Seduni - conservarono fino ai tempi di Cesare la loro indipendenza.

Organizzazione sociale e politica. L'unità della Gallia. - Così la Gallia era abitata nei tempi di Cesare da un insieme di popoli o civitates che, a contarne solo le principali, arrivavano a 60. Queste si suddividevano in pagi, rappresentando il pago tanto un cantone territoriale quanto una divisione dell'esercito. Entro questi pagi vi erano, probabilmente, dei clan. È molto difficile valutare il numero della popolazione in Gallia. I calcoli di E. Cavaignac tendono a provare che questo numero non sorpassasse i 10 milioni. C. Jullian ammette una cifra due o tre volte superiore.

Il regime politico dei popoli gallici era monarchico nei tempi antichi, ma all'epoca di Cesare i re costituivano un'eccezione, e quasi dappertutto il regime monarchico aveva ceduto il posto a una oligarchia dei nobili. Là dove la dignità reale esisteva ancora essa tendeva ad essere non più un potere dinastico, ma una dittatura ottenuta con l'appoggio del partito popolare. E si comprende come Cesare l'abbia favorita in certi casi, per combattere l'influenza della nobiltà e dei druidi. Questi ultimi (v. druidi) formavano una casta religiosa molto potente, alla quale incombeva l'istruzione della gioventù (v. appresso), e la cui influenza sulla politica era considerevole. Attorno ai nobili più ricchi si raggruppava una numerosa clientela. Essi costituivano una specie di feudalismo. Ai tempi di Cesare il potere veniva esercitato nella maggior parte delle città dal più influente dei nobili, dal capopartito più potente. Presso gli Edui (v.) questo capo si chiamava il vergobret, magistrato annuale ed unico, puramente civile. L'esistenza di un vergobret è attestata in due altre città, presso i Santoni e presso i Lexovî. Accanto al magistrato supremo vi era in ogni città un senato, composto a quanto pare di capi dei clan, di coloro che Cesare chiama principes. Sappiamo che il senato dei Nervî contava 600 membri; presso gli Edui non potevano far parte del senato due persone appartenenti alla stessa famiglia. Vi erano nelle città rivalità e odî fra i nobili e fra i partiti che essi dirigevano, che indebolivano molto lo stato. Dissidî analoghi esistevano anche fra un popolo e l'altro. Si può dire che queste lotte intestine, per gli ostacoli che misero all'unione nazionale e per i vantaggi che seppe trarne Cesare, furono la causa principale della disfatta dei Galli nella loro lotta per l'indipendenza. Con tutto ciò, essi avevano molto forte la coscienza della loro comune origine e un'aspirazione generale verso l'unità. Vi erano poi presso di loro delle grandi costituzioni federali. I rappresentanti delle citta galliche usavano riunirsi in certi periodi in vaste assemblee politiche. Vi erano anche delle assise più ridotte dove erano rappresentati solo i popoli della Celtica, o quelli del Belgio. Inoltre presso i Carnuti i druidi si riunivano ogni anno nel centro della Gallia e vi tenevano un'alta corte di giustizia.

Per due volte, un popolo gallico, forte e ricco, governato da un re ambizioso, aveva tentato di stabilire un'egemonia sugli altri popoli e di formare un impero gallico. Nel sec. V Ambigato, re dei Biturigi, sembra aver esercitato un potere regio generale. Nel secolo II Luerno e Bituito, re degli Arverni, fondarono un impero Gallico. Ma Bituito (v.) fu vinto e catturato dai Romani (121). Questo sogno di un impero gallico balenava ancora nell'immaginazione di capi ambiziosi ai tempi di Giulio Cesare: Orgetorige, re degli Elvezî, nel 58; e Vercingetorige, re degli Arverni, nel 52.

La civiltà materiale. - La vita rurale. - La popolazione della Gallia era essenzialmente agricola. Nell'epoca storica il clima non pare essere stato molto differente da quello che è attualmente; invece l'aspetto del paese si è da quei tempi modificato. I foraggi e il grano si tagliavano negli stessi mesi, i venti seguivano lo stesso regime, la temperatura non pare essere stata più bassa, ma vi era maggiore umidità per le vaste distese di foreste e di paludi. Difatti, le foreste che attualmente coprono un sesto della superficie totale, coprivano allora più di due terzi; le paludi, che si trovavano presso le coste dell'Oceano e del Mediterraneo, lungo i fiumi e le correnti, ricoprivano vaste distese. Città come Arles e Bourges si ergevano in mezzo a un paesaggio di acque stagnanti. Ma questi spazî coperti di foreste o di acqua non erano abbandonati dai Galli; le foreste, salvo le parti più selvagge, erano abitate e utilizzate. L'uomo viveva sui bordi delle paludi di pesca, e nelle foreste di caccia.

Quei Galli che non vivevano né di caccia né di pesca, vivevano di allevamento del bestiame e di coltivazione del grano. Le grandi pianure agricole, come la Limagne o la Beauce, erano già allora coperte di ricche messi. Vi abitava una popolazione densa e laboriosa; raggruppata in casali e villaggi, in abitazioni primitive più somiglianti a capanne che a case, di forma rotonda, costruite o in legno o in canna, col pavimento di terra battuta e il tetto di paglia, di forma conica, dal quale usciva il fumo del focolare (v. fig.). Sulle colline che dominavano la campagna e regolavano le strade si erano formati dei raggruppamenti urbani (oppida) centri religiosi, politici, commerciali e militari. Essi erano difesi da grosse fortificazioni di pietra e di legno dietro le quali le popolazioni rurali si rifugiavano con le loro greggi quando erano minacciate da qualche pericolo.

La vita industriale. - Non mancavano quelli che cercavano la sussistenza nello sfruttamento del sottosuolo e nella lavorazione dei metalli estratti. I Tarbelli del bacino dell'Adour, a SO., estraevano l'oro dai fiumi dei Pirenei, e di oro, alla pari dei Volci Tettosagi, possedevano pure miniere. Dell'argento si trovava presso i Ruteni. Ma il più importante sfruttamento era quello del ferro, abbondante nel Berry e nel sud della Garonna. Cesare ha notato la grande abilità dei minatori biturigi nello scavare gallerie. Il ferro serviva per ogni sorta d'oggetti, soprattutto per le spade giunteci in gran numero dalle tombe galliche. Il bronzo fu pure molto usato dai Galli, e non cessò mai di fare concorrenza al ferro nella maggior parte dei suoi usi. Si attribuiva ai Biturigi la scoperta della stagnatura e alla popolazione di Alesia quella dell'argentatura. I Romani conservarono il ricordo del meraviglioso carro placcato in argento, che apparteneva al re degli Arverni Bituito, sconfitto nel 121 a. C. Bibratte era un centro florido dell'arte dello smalto: sono stati scoperti i laboratorî dove si eseguiva quel delicato lavoro (v. edui). Invece la ceramica ha progredito solo mediocremente presso i Galli.

La vita commerciale. - Lo scambio dei prodotti era molto attivo fra le varie regioni della Gallia. L'usanza delle grandi fiere periodiche pare rimontare all'epoca celtica. Per quanto prima della conquista romana le strade in Gallia fossero appena tracciate, la circolazione vi era attiva e i Romani non hanno fatto in generale che regolare con la loro tecnica le vie che i Galli percorrevano da secoli. Il traffico sui fiumi fu assicurato dai barcaioli che erano forse già allora organizzati in corporazioni.

Basta gettare uno sguardo su una carta d'Europa per accertarsi che, pur formando la Gallia un insieme geografico, essa era un punto d'incrocio e confluenza di grandi correnti europee di migrazione e di scambio. Era la soglia che si doveva traversare, quando non si volevano affrontare le pericolose colonne d'Ercole per portarsi dal Mediterraneo all'Oceano. Attraverso la grande via del Rodano e della Sâone salivano, fino nel cuore della Celtica, i prodotti dell'industria greca ed orientale, importati dagli armatori marsigliesi. Per questa stessa via scendevano lo stagno della Gran Bretagna, trasportato dalla flotta potente dei Veneti del Morbihan, e l'ambra del Baltico, trasportata lungo il Reno e la Mosella. Dall'est all'ovest la Gallia dava passaggio attraverso la strada del litorale, attraverso le gole del Monginevra e del Moncenisio, alle vie di comunicazione tra l'Italia e la Spagna. Da un'altra parte, attraverso le vallate superiori del Reno e del Danubio i Celti della Gallia erano in comunicazione coi Celti della Boemia. A Stradonitz, Praga, s'incontrano gli stessi prodotti industriali che a Mont-Beuvray. Un popolo come gli Edui, posto al punto d'incrocio di queste grandi vie europee, traeva una grande parte della sua prosperità dal dominio esercitato sul commercio continentale, specialmente per mezzo del deposito di Cabillonum (Chalon-sur-Saône).

Un segno indubbio dell'intensità raggiunta già ab antiquo dalla vita economica presso i Galli, è l'uso precoce della moneta; la sua abbondanza, la cura con cui fu battuta. Durante il sec. III i principali popoli gallici, gli Arverni, gli Edui, i Biturigi, battevano moneta, copiando i conî aurei di Filippo e di Alessandro di Macedonia. Presso i popoli del sud si copiava la dramma e l'obolo di Marsiglia. Nel sec. I a. C. si crearono perfino dei tipi originali, senza liberarsi mai completamente, peraltro, dai modelli greci (v. sotto).

Non sembra con tutto ciò che siano stati i Galli a trarre il maggiore vantagġio dalla prosperità del loro paese. Prima i Greci, soprattutto quelli di Marsiglia, poi i Romani, sono stati in molte parti della Gallia i padroni del commercio e della banca. Questa circostanza aiuta a comprendere certi episodî della guerra dei Galli, come il massacro dei cittadini romani che si erano stabiliti presso i Carnuti per commercio e qualche mese più tardi massacri e saccheggi dello stesso genere presso gli Edui.

I Galli e la guerra. - La guerra aveva larga parte nella vita di un Gallo: guerre di conquista durante il periodo di migrazione, poi guerra di difesa contro i Romani e contro i Germani, guerre frequenti fra città e città. I Galli erano valorosi: essi combattevano con ardore ed erano capaci dei più sublimi sacrifici. In varie occasioni, durante la loro lotta con Cesare, provocarono l'ammirazione del loro avversario. Quanto all'armamento, all'istruzione e alla tattica, si trovavano, però, in condizioni di grave inferiorità di fronte alle legioni romane. Erano vestiti di una tunica, di una specie di pantaloni o brache e di un mantello, il sagum, semplice pezzo di stoffa gettato sulle spalle e tenuto fermo da una fibbia: il fante gallico non portava corazza; pare che solo i ricchi indossassero delle corazze a maglia; e solo essi avevano la testa protetta da un casco di bronzo o di ferro molto sottile, probabilmente ricoperto da una calotta di cuoio e decorato di coma o di rotelle; lo scudo, molto grande di forma allungata, era di legno ricoperto o no di pelli, ornato nel centro da un pezzo metallico, che formava una protuberanza, l'umbo, nel cavo del quale il soldato rinchiudeva spesso il suo peculio. La principale arma offensiva era la spada pesante a due tagli destinata a colpire di taglio e non di punta.

La leva in massa poteva fornire effettivi di alcune centinaia di migliaia di uomini, ma erano moltitudini senza coesione e senza disciplina; esse si battevano con grande bravura; e il loro primo assalto, furiosamente condotto, era terribile; ma, se il nemico resisteva, si demoralizzavano presto.

La cavalleria gallica era numerosa, brillante e intrepida. Nella lotta contro Cesare, Vercingetorige, che contava molto su di essa, raccolse fino a 15.000 cavalieri. Ma quando Cesare contrappose ai cavalieri gallici dei mercenarî germanici che combattevano collegati con soldati di fanteria leggiera esercitata in modo speciale, essi furono battuti in ogni scontro. Il carro da guerra fu usato dai Galli, ma era completamente abbandonato ai tempi di Cesare, che lo trovò solo presso i Britanni. Cesare non parla dell'usanza dei Galli di tagliare le teste ai loro nemici e di consacrarle agli dei; si trovano ancora tuttavia delle teste tagliate nei trofei dell'arco di Orange, che risale all'epoca di Augusto.

I Galli ignorarono per lungo tempo l'arte di scegliere una posizione, di fortificare un campo, di attaccarlo. Però la loro grande facilità di assimilazione permise loro, durante la lotta contro Cesare, di comprendere e di imitare rapidamente quel che vedevano fare ai Romani. Fin dal 56 gli Aquitani, istruiti dagl'Iberici, dopo aver prestato servizio nell'esercito di Sertorio, opposero i loro propri metodi ai Romani; nel 54 i Nervî, nell'assediare il campo di Q. Cicerone, fecero delle operazioni che provocarono l'ammirazione di Cesare; capi avveduti come Vercingetorige e i Belgi Correo e Commio consigliavano di adottare i metodi di guerra romani. Ma la massa dei Galli rimaneva refrattaria a procedimenti che richiedevano pazienza e devozione umile a compiti ingrati, in cui pareva loro che fosse diminuito e avvilito il valore di un guerriero.

Religione. - I Galli avevano in comune la religione, la lingua e la cultura, e questo contribuiva a svegliare in essi l'idea di patria.

Gli dei. - Non si può separare la religione dei Galli propriamente detti da quella della popolazione che li ha preceduti sul suolo della Gallia. La religione puramente celtica ha dovuto, infatti, accettare molte tradizioni che erano in certo modo radicate al suolo della Gallia. Per es., i monumenti megalitici, come i menhir o i cromlech, che risalgono all'età neolitica, non cessarono, neanche dopo la conquista romana, di essere oggetto di culto; su alcuni di essi furono eseguiti bassorilievi in cui erano figurati dei gallo-romani. Il culto della Terra-Madre, la grande divinità neolitica, di cui si trova l'immagine rozzamente scolpita sulle pareti delle grotte funerarie o degl'ipogei delle varie regioni della Gallia, si è trasmesso all'epoca storica come culto delle Matres, delle Proxumae, delle Tutelae. Le divinità degli alberi erano pure per la maggior parte di origine molto remota.

Sembra che le divinità delle popolazioni pre-galliche siano state essenzialmente divinità ctoniche o della terra, mentre quelle dei Galli propriamente detti sono state soprattutto uraniche o celesti. Esse non erano senza un qualche rapporto con le divinità del pantheon greco-romano, ragione per cui fu così agevole, dopo la conquista della Gallia, l'assimilazione del pantheon celtico a quello greco-romano. Circa i dati letterarî, epigrafici e monumentali sulle divinità della Gallia, dall'età di Cesare, vedi celti: Religione.

Sacerdoti, educazione. - I grandi sacerdoti della religione gallica erano i druidi. Essi formavano una casta potente, nella quale si entrava dopo un lungo noviziato che poteva durare fino a 20 anni. Godevano di grandi privilegi, dell'esenzione da imposte e della dispensa dal servizio militare. Sull'organizzazione, le pratiche e le dottrine dei druidi, v. celti: Religione; druidi.

I druidi non solo impartivano l'insegnamento a coloro che si preparavano per il sacerdozio; le nobili famiglie inviavano ad essi i loro figli in grande numero. Il loro insegnamento era tutto orale, contenuto in vasti poemi didattici. L'arte della parola vi occupava un posto importante; del resto, il Gallo era per sua natura oratore, e i discorsi dei capi gallici nei Commentarî di Cesare, per quanto accomodati, rivelano un talento naturale perfezionato dalla scuola e dall'esperienza. Gli antichi stessi rimanevano colpiti dalla vivacità d'intelligenza dei Galli, dalla loro facilità di apprendere e d'imitare.

Lingua. - Il più antico strato linguistico della Gallia è determinabile solo in modo negativo. Esso può essere chiamato "ligure" se a questa parola si conviene di dare il valore di lingua preindoeuropea, intermedia fra l'iberico e l'etrusco (v. liguri: Lingua). Documenti diretti non ne rimangono: ma alla tecnica moderna, che sfrutta razionalmente la disposizione geografica dei resti linguistici, riesce d'isolare e attribuire allo strato più antico parole che la tradizione ci ha tramandato confuse con quelle della lingua della Gallia indoeuropea, il gallico in senso stretto: per es., iupikello "ginepro", rumpo "arbusto su cui s'appoggia la vite", bulluca "frutto del Prunus spinosa" (Bertoldi).

Il gallico in senso stretto (fr. gaulois; sp. galo; ted. gallisch; ingl. gaulish) è dunque esattamente definito nel tempo: fra la lingua preindoeuropea della Gallia e il latino che vi si è sovrapposto con la conquista romana. Esso è una lingua del gruppo celtico (vedi celti: Lingue) col quale e solo col quale ha comune, per es., il passaggio di ē in ī, gall. rīx, irl. (g), lat. rēx; in stato di maggiore conservazione perché i dittonghi sono ancora intatti (gall. roudo), mentre in irlandese si sono fusi e quindi di nuovo spezzati, irl. ruad "rosso" (da rōd-); legata piuttosto col gruppo britannico che con quello irlandese, come mostra il trattamento del suono qu-: gallico petor- "quattro", pempe "cinque", penno "testa", epo- "cavallo" in confronto del cimrico o bretone petguar, pemp, penn, eb-ol "puledro" e dell'irlandese cethir, coic, cenn, ech. Anche i Gaeli, tuttavia, cioè i Celti del ramo irlandese, devono essere passati per la Gallia: e non si può escludere che ne rimangano tracce nel nome della Senna, Sequana (non *Sepana), di Strasburgo, Argentorate (cfr. il nome di Argento magus, oggi Argenton-sur-Creuse) invece di Arganto.

L'estensione geografica del gallico è stata quanto mai varia; profonda nella Germania occidentale, sede antichissima dei Celti, e nella valle padana occupata tutta, salvo la Venezia, nel sec. V a. C., dove si continuano tuttora i dialetti, chiamati perciò gallo-italici. Ma le invasioni galliche si sono spinte nella Valle del Danubio e sino in Asia Minore, come in occidente nella Spagna: san Girolamo riferisce in un passo (nel quale qualche nucleo di verità deve esistere) che la lingua dei Galati dell'Asia Minore era poco diversa da quella dei Galli di Treviri.

Le iscrizioni galliche non arrivano a settanta. A esse vanno aggiunte le glosse di autori antichi, i fossili gallici che si vanno scoprendo nei dialetti moderni e i numerosi nomi locali dell'antichità, e di oggi. La difficoltà di una descrizione della lingua è data da un lato dalle evidenti infiltrazioni galliche, fuori della Gallia, come nelle iscrizioni cosiddette leponzie dell'alta Italia (iscrizioni di Giubiasco, Tesserete, ecc.), mentre non si può garantire che anche il fondo sia gallico; dall'altro che iscrizioni galliche della Gallia meridionale hanno tali affinità con le lingue dell'Italia, da far pensare a un principio di latinizzazione (iscrizione del tempio di Diana a Nîmes).

Le iscrizioni più importanti sono: calendario di Coligny (Ain) nel museo di Lione, che contiene i nomi dei dodici mesi di cinque anni successivi, oltre i due mesi intercalati nel periodo per ristabilire la concordanza fra gli anni lunari e quelli solari; l'iscrizione di Rom (Deux-Sèvres), di 23 righe su due facce di una tavoletta di piombo del sec. III-IV, non interpretata chiaramente; le iscrizioni bilingui del coro di Notre-Dame a Parigi, contenenti nomi proprî; i graffiti della Graufesenque (Aveyron), noti dal 1924 in numero di 36, che portano la serie dei numerali ordinali, e confermano i legami gallo-britannici; in Italia quella di Briona (Novara) e, caratteristiche per la posizione, le iscrizioni bilingui di Todi. Testi manoscritti sono il glossario di Vienna contenente 18 parole del sec. V, e dieci formule galliche conservate da Marcello di Bordeaux nel suo De Medicamentis liber.

Il gallico si è conservato vivo fino al secolo V in regioni remote: ogni tanto autori latini del periodo imperiale hanno accenni alla lingua gallica. Ma la latinizzazione ha fatto rapidi progressi già nel primo secolo: Tacito c'informa che le famiglie nobili mandavano a educare latinamente i loro figli nella scuola di Autun.

Arti - Le arti plastiche si sono sviluppate poco presso i Galli; ci sono pervenute solo pochissime sculture dell'epoca gallica (bassorilievi di Autremont; il busto di Grézan) le quali portano chiaramente i segni dell'influenza greca. I Galli sembrano essere stati soprattutto abili nella lavorazione del ferro e nel conio delle monete, ma le loro monete, che per lungo tempo furono una servile imitazione degli stateri macedoni (fin dal 250 a. C.) non raggiunsero mai una piena originalità né una grande finezza. I ricchi Galli non erano insensibili alla bellezza delle opere d'arte; ma essi ricorrevano agli artisti esteri e facevano venire dall'Oriente ellenico gli oggetti d'arte, che arrivavano fino a loro attraverso Marsiglia.

Invece la musica e la poesia sembrano aver avuto un bello sviluppo presso i Galli; i capi, i nobili tenevano presso di loro dei bardi, i quali celebravano le loro gesta, accompagnandosi con la lira, o recitavano dei poemi nei banchetti.

Monetazione. - La monetazione dei popoli gallo-celtici, cioè le serie coniate durante il periodo dell'indipendenza, sino all'arrivo dei Romani, non costituisce un insieme omogeneo, per il quale si possa parlare di un'evoluzione progressiva, ma comprende un enorme numero di pezzi, che si scinde in numerosissimi gruppi e sottogruppi, varî per metallo, per tecnica e per caratteri estrinseci, che solo la provenienza dei singoli ritrovamenti e talune affinità e somiglianze tipologiche e stilistiche, e alcuna volta la leggenda, permettono, dubbiosamente, di localizzare, mentre restano invece incerte le determinazioni cronologiche delle singole emissioni. Caratteri principali di questa moneta sono innanzi tutto che essa non ha avuto degl'inizî, un apogeo, una decadenza, come la moneta greca: già i tipi monetali più antichi sono copie, e la decadenza s'inizia subito, quando queste copie sono, a loro volta, imitate in date posteriori o in altre regioni; in secondo luogo l'appariscente rozzezza di tecnica e di stile, la barbarie e la degenerazione di ogni tipo, che rivelano l'ingenuità di un'arte infantile.

Cronologicamente le serie che si devono elencare a capo di tutti i gruppi sono infatti quelle costituite dai pezzi di migliore lega, coniati con tecnica più evoluta, con tipi quasi nomali, di peso pieno, che cioè si accostano di più al prototipo imitato, e sono quelle che si appongono alla fine del sec. IV e al III; ma ben presto, per ogni serie, s'inizia la degenerazione della lega, la diminuzione del peso, la deformazione dei tipi mal tradotti, e sempre incompresi, dal prototipo greco, romano, iberico o locale; perché tutte le serie denunziano questa imitazione da pezzi importati, mentre i gruppi minori imitano, a loro volta, tipi in favore nelle più vicine officine monetarie. Questa moneta appare molto più recentemente che non nei paesi greci, giacché essa presuppone logicamente la presenza dei prototipi, che più sotto si elencano, del secolo IV-III a. C. Le monete galliche sono fuse o coniate; sono di bronzo, d'argento, d'oro e di leghe diverse. Per quanto concerne i sistemi monetarî, i Galli sono tributarî dei Greci e dei Romani, così come per i procedimenti di fabbricazione e per i tipi.

Il peso è un elemento di primo ordine per la classificazione. L'oro, basandosi sullo statere macedone di gr. 8,60, risulta nelle prime e migliori emissioni, un po' dovunque, del peso di gr. 8,50-7,34; ma poi presto diminuisce, e pezzi di oro pallido pesano solo gr. 6,20-5,80. I Galli hanno coniato numerosi stateri, pochi mezzi stateri e moltissimi quarti di statere, il cui peso è in rapporto con gli stateri corrispondenti. L'argento si basa inizialmente sulla dramma massaliota di gr. 3,76 (che diminuisce di poi a gr. 2,20-1,50), e sulla dramma di Rhoda nella Tarraconense, di gr. 4,90, che ebbe preponderanza nel mezzogiorno della Gallia, poi, soprattutto dal sec. II a. C. in poi, sul denaro romano da 1/84 di libbra (gr. 3,90). In presenza di sistemi così diversi si è molto incerti nel designare le specie galliche, e solo in pochi casi si può riconoscere il sistema. Molte monete, con leggenda, hanno un peso variabile da gr. 1,50 a gr. 2 e appartengono all'ultimo periodo dell'indipendenza.

Tipi. - Hanno servito di prototipo alle monete galliche anzitutto gli stateri d'oro di Filippo, che penetrarono in Gallia verosimilmente per la via di Massalia e non, secondo sosteneva la vecchia teoria, per il trasporto in Gallia del tesoro di Delfi saccheggiato dai Galli nel 278 a. C.; poi quelli tarantini (testa di Anfitrite-Dioscuri a cavallo; testa di Ercole-biga), gli oboli e le dramme di Massalia; poi il gallo dei bronzetti di Cales e di Suessa, che si rinviene deformato su di una serie di bronzi detta del gallo; poi le dramme del tipo della rosa di Rhoda, donde la rosa, degenerata, diventa la croce, accantonata da diversi emblemi, serie numerosa e di difficile classificazione detta della croce. Infine i denari romani, dal più antico dei Dioscuri a quello di Cesare, attraverso buon numero di pezzi dei Marci, dei Titi, dei Calpurnii, dei Pletorii, degli Acilii, ecc. Pure, nella quasi costante imitazione dei tipi, si notano preferenze evidenti che sono da attribuirsi al gusto, al carattere, forse anche alle credenze religiose dei singoli gruppi etnici. I principali tipi sono: la testa umana, il cavallo, il cavaliere, la biga; poi il cinghiale, il leone, il toro, il pegaso, l'aquila, ecc., qualche pianta, e rarissimi monumenti. Per ognuno di questi tipi le varianti sono innumerevoli e si moltiplicano per le successive deformazioni; alcuni tipi sono assolutamente indecifrabili.

Leggende. - Per lungo tempo la sola leggenda delle monete galliche è stato il nome, più o meno deformato, di Filippo; quindi compaiono sempre più numerosi nomi geografici e personali. Fra i primi si distinguono nomi greci, nomi da considerarsi gallici, scritti in lettere latine o greche, nomi latini. Non sono stati identificati nomi di divinità. I nomi personali sono numerosissimi, ma non si sa se appartengano a capi, a magistrati locali o a magistrati monetarî all'uso di Roma. Pochissimi sono i titoli che li accompagnano. Sono stati presi come base di ricerca i nomi dei capi storicamente noti, ma le attribuzioni rimangono incerte. A ciò ha contribuito la circostanza che la lingua gallica è ancora mal nota, che frequenti sono nelle iscrizioni le anomalie e gli errori. Primo a essere adottato è l'alfabeto greco, logicamente per l'influenza di Massalia; segue l'alfabeto latino, per l'influenza romana che dovette aumentare dopo la fondazione di Narbo Martius (118 a. C.), e la disfatta di Bituito. L'alfabeto iberico è usato su varie monete del sud-ovest della Gallia (circa sec. III-II a. C.). Infine si è identificato un alfabeto che si riattacca a quello del nord dell'Italia, i cui caratteri figurano sui pezzi trovati nelle valli dell'Isère e del Rodano, e di cui una varietà ha servito per le leggende dell'oro dei Salassi. Questi hanno avuto una delle più interessanti monetazioni della regione alpina. Secondo Strabone essi possedevano miniere di oro, e si servivano delle acque del fiume Durias per i lavaggi. I Romani impadronendosi delle loro miniere, sostennero lunghe lotte con essi.

La moneta coniata nella Gallia durante il periodo romano si scinde in varî gruppi: 1. la moneta delle colonie romane di Nemausus (Nîmes), di Cabellio (Cavaillon), di Vienna, di Lugdunum (Lione); 2. le serie coniate in varie zecche romane della Gallia sotto Tiberio, Galba, Albino ecc.; 3. il ricchissimo gruppo delle monete dei cosiddetti imperatori gallici da Postumo a Tetrico; 4. le monete della fine del sec. III e del IV uscite dalle zecche aperte in Gallia sotto Aureliano (Lugdunum, Arelate, Samarabriva, Narbo Martius) che lavorano intermittentemente, per gli avvenimenti di quegli agitati periodi.

Primi contatti fra Galli e Romani. - I Romani furono indotti presto a interessarsi della regione sud-est della Gallia. Le relazioni fra loro e Marsiglia passavano per molto antiche. Il principio di amicizia che unì le due città era costituito dal doppio pericolo comune che minacciava entrambe: quello etrusco e quello celtico. Sul principio del sec. IV a. C. fu conclusa un'alleanza a condizione di eguaglianza. Le lotte di Roma contro Cartagine resero ancora più stretti i legami che univano le due nazioni; qui si trattava pure d'interessi comuni di fronte al minaccioso imperialismo punico. La distruzione della potenza marittima di Cartagine, rendendo più libere le vie del mare, favorì lo sviluppo della pirateria sulle coste liguri; d'altra parte era il momento in cui la monarchia degli Arverni era potentissima e nutriva il piano ambizioso di fondare un grande impero celtico. Marsiglia minacciata per mare dai pirati e per terra dalla confederazione celto-ligure dei Salluvî, fece appello a Roma. Nel 154 ebbe luogo il primo intervento romano contro gli Oxubî e i Deciati del Varo. Nel 125 si formò una formidabile coalizione contro Marsiglia, fra i Liguri della costa, i Salluvî, gli Allobrogi e gli Arverni. Roma, cui la presa di Numanzia assicurò il possesso definitivo della Spagna, non poteva rimanere indifferente di fronte alla formazione di una potenza gallica, che si sarebbe incuneata fra questa sua nuova provincia e l'Italia. Inoltre il Senato, che per lungo tempo era stato poco favorevole alle annessioni, si era deciso da una ventina d'anni a una politica di conquista; e infine la creazione di una nuova provincia in un paese così ricco qual'era la Gallia meridionale e così vicino all'Italia, era fatta per sedurre tanto i negotiatores e i finanzieri romani quanto i politicanti del partito dei Gracchi, che erano in cerca di nuove colonie da fondare. Si mandò quindi il console M. Fulvio Flacco di là dalle Alpi.

Nel 123 Flacco riportò il trionfo sui Liguri, sui Voconzî e i Salluvî. Però C. Sestio Calvino, console del 124, dovette fare una nuova campagna contro questi popoli. Il conflitto si estese, intervenne Bituito, re degli Arverni, il quale passò il Rodano. Ma le truppe degli Allobrogi e degli Arverni furono distrutte alla confluenza della Sorgue e del Rodano e poi a quella dell'Isère e del Rodano (nel 121).

La provincia romana. - Il primo atto che segnò l'installazione dei Romani nella Provenza fu la fondazione del castellum di Aquae Sextiae, al di sotto di Autremont da parte di Sestio Calvino (122). Nel 118 fu fondata nella Linguadoca, allo sbocco dell'Aude, la colonia Romana Narbo Martius (Narbona). E fin d'allora fu organizzata la provincia della Gallia Narbonese o Transalpina.

Installati in una parte della Gallia i Romani praticarono riguardo al resto del paese la loro abile politica di alleanze. I due pernî della loro azione in Gallia furono: l'alleanza con la città libera di Marsiglia e quella con gli Edui. Questi ultimi ricevettero il titolo eccezionale di "fratelli e consanguinei del popolo Romano". Grazie ad essi e grazie all'attiva sorveglianza esercitata dagl'innumerevoli negotiatores italiani sparsi per tutti i mercati della Gallia, i Romani tenevano d'occhio la politica dei Galli e lavoravano per paralizzare qualunque loro velleità di raggruppamento nazionale. La conquista militare di Giulio Cesare è stata preceduta da una lunga penetrazione pacifica; e questo spiega in parte come la prima conquista, del resto più brillante nell'apparenza che solida, non abbia richiesto più di due anni (58-56 a. C.).

Durante i 60 anni che separano la fondazione della provincia della Gallia Transalpina dal proconsolato di Cesare, questa provincia assimilò con grande rapidità i costumi dei Romani. Cesare, contrapponendola alla parte rimanente della Gallia, parla della sua civiltà e della sua "umanità". Non tutti i proconsoli che vi si succedettero furono però buoni governanti. Se ne ha un'idea dal discorso Pro Fonteio, pronunciato da Cicerone in difesa di uno di essi, che governò dall'anno 79 al 76 a. C. Vi furono tre rivolte in tredici anni presso i Salluvî: nel 90, nell'83, nel 77. L'ultima volta, la rivolta di Sertorio in Spagna suscitò folli speranze; ma fu spenta nel sangue da Pompeo, che applicò tuttavia subito dopo l'abile politica della pacificazione, e creò un gran numero di cittadini romani, ciò che viene attestato dai numerosi Pompei delle iscrizioni. Prima di lui aveva praticato la stessa politica nell'83 C. Valerio Flacco. Pure Silla ha lasciato a Marsiglia, ad Aix e ad Arles più di un Cornelius.

Gli Allobrogi si rivoltarono alla loro volta nel 62 e furono vinti dal propretore C. Pomptino. Gli otto anni del proconsolato di Cesare resero definitiva l'assimilazione: oltre che della sua saggia amministrazione, del contatto delle numerose truppe romane accantonate nei depositi, del prestigio esercitato dalle vittorie di Cesare, bisogna tener conto anche del sentimento di sicurezza che l'occupazione romana dava ai Galli della Provincia. Già nel 102 Mario sterminò presso Aquae Sextiae i Teutoni, un'orda germanica che come un torrente devastatore attraversò la Gallia e minacciò l'Italia. Le campagne di Cesare nella Gallia cominciarono con una guerra di difesa; Cesare si mosse in difesa della Provincia minacciata da una vicinanza pericolosa degli Elvezî invadenti; poi, rinnovando le gesta di Mario, ormai divenute leggendarie, vinse i Germani con un trionfo riportato su Ariovisto. Cesare doveva apparire nel 58 un vero salvatore dei Galli. Del resto bisogna riconoscere che, se Cesare non avesse stabilito il potere di Roma in tutta la Gallia, per questo paese era molto più probabile la sorte di essere conquistato dagl'invasori germanici che di arrivare a un'unità celtica duratura e feconda. Col portare fino al Reno le leggi di Roma e la civiltà mediterranea, col fissare presso questo fiume il limite che i Germani non dovevano attraversare, Giulio Cesare ha stabilito per molti secoli l'avvenire dell'Europa Occidentale.

Non è il caso di raccontare qui con particolari la storia delle campagne di Cesare in Gallia (v. cesare, gaio giulio): basterà solo ricordare come, negli otto anni del suo proconsolato gallico, il grande Romano batté Elvezî e Germani, represse la ribellione dei Belgi, sottomise Suessioni, Bellovaci, Nervî, e, con l'espugnazione di Alesia e la cattura del valoroso Vercingetorige, infranse il supremo tentativo di difesa e di riscossa dell'elemento indigeno. Benché costretto a usare spesso la maniera forte, e a soffocare nel sangue, e con severissimi esempî, ogni risorgente conato di ribellione e defezione, Cesare tuttavia finì col praticare una politica di clemenza e di seduzione: "trattando - così Irzio, Bell. Gall., VIII, 49, 3 - i popoli con onore, ricompensando con grande larghezza i loro principali cittadini, evitando d'introdurre nuovi aggravî, egli mantenne facilmente la pace nella Gallia esaurita da tante disfatte subite, rendendole più dolce l'obbedienza". Così quando nel gennaio 49 Cesare passò il Rubicone con la XIII legione, e richiamò le altre legioni in Italia, nessun popolo, nessun capo si provò a riconquistare l'indipendenza: la Gallia era diventata provincia romana, e doveva rimanere tale fino alla caduta dell'Impero.

Dal 49 al 22 a. C. il governo delle Gallie si trasmise da uno a un altro governatore senza regola, e a seconda del partito dominante a Roma o in Occidente. Così Pompeo, considerando finito dal 1° gennaio 49 il proconsolato di Cesare, nominò in sua vece L. Domizio Enobarbo; questi giunse a Marsiglia, fedele ai pompeiani, ma il suo potere rimase semplicemente nominale, ché di fatto esso era esercitato dai legati di Cesare. Quando Marsiglia cadde, anche l'ultimo baluardo dei pompeiani fu perduto in Gallia, e tutta la provincia obbedì a D. Giunio Bruto, che la governò a nome di Cesare. Questi nel 44 staccò la Narbonese dal resto della Gallia: questa fu data a L. Munazio Planco, col titolo di proconsole, quella fu unita alla Spagna Citeriore, e affidata a Lepido, che la conservò anche dopo la morte del dittatore; nel 43 la Gallia Comata, nel 42 la Narbonese passarono ad Antonio, che le tenne fino al 40, quando la pace di Brindisi le pose nelle mani di Augusto. Troppo recente era la conquista della Gallia Comata perché Cesare, negli anni fra il 49 e il 44, vi potesse avviare l'opera di romanizzazione: la quale invece egli sospinse con vigoria nella Narbonese. Qui egli restrinse il territorio di Marsiglia, pur lasciandole ancora il titolo di civitas foederata, e fondò numerose colonie, alcune di pieno diritto romano, altre di diritto latino, deducendo in esse i veterani delle sue legioni: esse furono Arelate (Arles), che, poco a monte della foce del Rodano, dove questo è ancora navigabile, doveva divenire accanto a Marsiglia l'altro emporio commerciale della Gallia e lo sbocco di Lione; Forum Iulii (Fréjus), Cabellio (Cavaillon), Avenio (Avignone), Glanum Livi (Saint-Remy), Aquae Sextiae (Aix-en-Provence), Antipolis (Antibes), Nemausus (Nîmes), Arausio (Orange); la stessa capitale Narbona fu rinvigorita con un nuovo nucleo di coloni.

Subito dopo la morte di Cesare, fra il 44 e il 43, L. Munazio Planco fondò due altre colonie, ma queste nella provincia da poco conquistata: Lugdunum (Lione), alla confluenza del Rodano con la Saône, e Raurica (Augst, presso Basilea) là dove, fra i Vosgi e il Giura, si apre la via più facile e più pericolosa alle invasioni dei Germani nella Gallia: non è arrischiato supporre che l'opera di Planco seguisse un piano già prestabilito dal dittatore. Fra il 40 e il 27 Ottaviano affidò successivamente il governo delle Gallie a varî funzionarî, alcuni dei quali ebbero probabilmente il titolo di proconsoli: conosciamo di essi Agrippa, Nonio Gallo, Valerio Messalla Corvino; al pari di Giunio Bruto e di Munazio Planco, essi ebbero a domare alcune ribellioni di tribù galliche: ribellioni tuttavia di breve durata e di solito ai margini della provincia: nel 46 o 45 quella dei Bellovaci, uno dei popoli che Cesare diceva già in continuo fermento di guerra; nel 38 o 37 quella degli Aquitani; nel 29 una dei Treveri e dei Morini, nel 28 (o 27) un'altra di nuovo degli Aquitani.

Nel 27, nella divisione delle provincie, Augusto tenne tutte le Gallie fra quelle imperiali; nel 22 restituì la Narbonese al Senato, mantenendo per sé la Gallia Comata, cui pertanto si apprestò a dare un ordinamento definitivo. Se tale ordinamento si debba riportare al primo breve soggiorno di Augusto nella regione, nel 27 a. C., o alla più lunga dimora che in essa egli fece fra il 16 e il 13 a. C. è incerto: si può essere sicuri d'altra parte che l'incompleta pacificazione del paese, le guerre in corso contro i Germani sul confine del Reno, e le operazioni necessarie per fondare l'ordinamento sopra solide basi richiesero un lungo periodo di preparazione: è certo che già nel 27 l'imperatore aveva proceduto alla prima operazione di censimento della Gallia conquistata da Cesare, al conseguente accatastamento di essa e alla prima regolarizzazione delle imposte. Col nuovo ordinamento dalla vecchia provincia della Narbonese furono distaccati a oriente i territorî delle Alpi, costituiti in tre piccole provincie autonome, quelle delle Alpes Maritimae, Cottiae e Poeninae, ad occidente il piccolo paese dei Convenae, nel quale Pompeo aveva fondato la colonia di Lugdunum Convenarum (Saint-Bertrand-de-Comminges), riunito all'Aquitania. Questa fu una delle tre grandi provincie, in cui fu divisa la Gallia Comata: le altre due furono la Gallia Lugdunese e la Belgica. Fondamentalmente le tre provincie, le quali ebbero ciascuna un proprio governatore, che, per essere le provincie di spettanza dell'imperatore, fu un legatus Augusti pro praetore di rango generalmente pretorio, e proprî magistrati, corrispondevano alle tre grandi divisioni del paese già indicate da Cesare (v. sopra). Le quali divisioni segnavano a loro volta i tre principali aggruppamenti etnici della regione: l'Aquitania (v.), a sud-ovest, comprendeva le popolazioni di stirpe iberica, abitanti sul versante settentrionale dei Pirenei; la Lugdunese (v.), la più vasta delle tre provincie, distesa su tutta la parte centrale del paese, raccoglieva il grosso delle tribù celtiche; la Belgica, infine, a nord-est, fino al corso inferiore del Reno, riuniva le tribù miste celtico-germaniche. Sennonché, a evitare troppo grandi sproporzioni di territorio fra una provincia e l'altra, Augusto ritenne opportuno non attenersi rigorosamente alla divisione etnica: così all'Aquitania furono aggiunte le quattordici tribù celtiche situate fra la Garonna e la Loira, e nella Belgica fu compreso tutto il territorio sulla sinistra del Reno, dal Lago Lemano (di Ginevra) fino alla Mosella, abitato anch'esso prevalentemente da tribù celtiche. Territorio che tuttavia ne fu distaccato più tardi, insieme con l'altro che si distendeva sul corso inferiore dello stesso fiume per formare le due provincie della Germania (v.). Le tre provincie, divise l'una dall'altra e indipendenti per ciò che riguardava il governo di ciascuna, ebbero tuttavia un organismo comune, un comune centro di riunione: la grande assemblea delle Gallie.

Questa si raccoglieva ogni anno, al 10 di agosto, presso l'altare che nello stesso giorno dell'anno 12 a. C. (altri vogliono il 10) Druso, allora governatore delle Gallie e comandante dell'esercito del Reno, aveva consacrato a Roma e ad Augusto, alla confluenza del Rodano con la Saône; il luogo era attiguo, ma distinto, dal territorio della città di Lione, e perciò considerato fuori del territorio sia della Lugdunese sia delle altre provincie. Non è improbabile che esso fosse già da prima frequentato dai popoli gallici per cerimonie loro proprie; queste peraltro venivano a essere ora sostituite con il nuovo culto di Roma e dell'imperatore: l'imperatore che è sempre quello regnante, non mai, nemmeno in seguito, il principe o i principi morti e divinizzati. L'altare sorgeva in un recinto sacro nel quale erano altresì un tempio, numerose statue e iscrizioni dedicatorie, e un anfiteatro per gli spettacoli soliti a celebrarsi in occasione della riunione dell'assemblea. Questa era costituita dai rappresentanti dei popoli (civitates) della Gallia, in numero di sessanta: il nome di questi popoli, e anche il loro numero, ci è variamente dato da Plinio, da Strabone, da Tolomeo, ma le diversità tra i varî testi si spiegano facilmente con i mutamenti intervenuti nell'organizzazione dei popoli stessi fra le diverse età cui i testi si riportano. Degno di nota è tuttavia il fatto che dall'assemblea furono escluse, dal principio del sec. II d. C., le tribù di stirpe iberica dell'Aquitania, e che in essa invece continuarono a essere rappresentati, anche dopo la costituzione delle provincie germaniche, i popoli celtici entrati a far parte del territorio di esse (Sequani, Raurici, Elvezî): l'assemblea aveva perciò il carattere di riunione e di rappresentanza eminentemente celtica. Ogni anno essa eleggeva il suo capo, che aveva il titolo di sacerdos Romae et Augusti (o sacerdos ad templum R. et A.), celebrava le cerimonie del culto e gli spettacoli con esse connessi, trattava degli affari comuni alle tre provincie, sindacando, se ve ne fosse bisogno, l'operato dei governatori. Essa aveva una cassa sua propria, l'arca Galliarum, e quindi una sua speciale amministrazione finanziaria.

Tale organismo non ha riscontro in alcun'altra provincia o gruppo di provincie dell'impero: ma è ipotesi generalmente accolta che la nuova assemblea fu la continuazione, sotto l'egida romana, di quelle che erano solite raccogliersi spesso nella Gallia indipendente, e a cui Cesare anche fece spesso ricorso per accusare le tribù ribelli o per sollecitare l'appoggio di quelle fedeli. Anche la nuova assemblea ebbe, come le prime, carattere religioso e politico insieme: certo Augusto ne volse saggiamente lo spirito ai fini della politica romana, sostituendo alle divinità celtiche il culto di Roma e di Augusto, fissandone il luogo di riunione in un punto, che, pur essendo forse già sacro per i Galli, era tuttavia centrale rispetto al nuovo ordinamento della regione, e proprio sotto gli occhi del più influente fra i tre governatori imperiali. Ciò non toglie tuttavia che la concessione di tale assemblea alle Gallie fu atto da un lato di grande sapienza politica, in quanto restituiva al paese l'unità che l'ordinamento amministrativo aveva dovuto spezzare, e dall'altro di grande coraggio, in quanto, restituendo e mantenendo tale unità, si dava ai Galli un'arma potente di lotta contro il governo romano: ma il fatto che Augusto non fu trattenuto da alcun timore nel concederla, e più ancora la considerazione che da essa non sortì mai, nemmeno nei momenti di torbidi che travagliarono la Gallia dopo la morte di Nerone, alcun atto di ostilità a Roma, ci provano che i popoli della Gallia erano maturi per tale concessione, che essi sapevano ormai vivere in libertà entro l'orbita romana. Sotto un altro riguardo ancora l'ordinamento dato da Augusto alla Gallia, e mantenuto dai successori, tenne conto delle particolari condizioni del paese, e cioè nel conservare e consolidare la preesistente costituzione politico-sociale di esso, diversa dalla costituzione più frequentemente diffusa e propria del mondo ellenistico-romano.

La costituzione gallica si fondava infatti non sopra la città, ma sopra la tribù, che Cesare chiama civitas: e la tribù comprende la città, cioè il centro urbano che ne è il capoluogo, ma accanto a essa comprende anche tutto un territorio più o meno ampio, del quale fanno parte le campagne e agglomerati minori (vici e pagi), cui alle volte la posizione geografica e particolari condizioni riserbarono la sorte di salire a tale importanza da eguagliare, e magari superare, la città capoluogo: come fu il caso di Cenabum (Orléans), nel territorio dei Carnuti, di fronte ad Autricum (Chartres), di Cularo (Grenoble) e Genava (Ginevra) nel territorio degli Allobrogi di fronte a Vienna (Vienne). Quello solo che il governo romano fece, forse più che con disposizioni dirette favorendo quello che doveva essere il naturale sviluppo delle cose in un paese avviato a forme di vita più civili e quindi più unitarie, fu di aggregare le tribù minori alle maggiori, di trasformare la clientela, che già al tempo di Cesare legava le une alle altre, in una più o meno profonda fusione. Si è visto infatti come i rappresentanti dell'assemblea di Lione fossero i rappresentanti dei popoli della Gallia, non delle città; e ehe queste scomparissero quasi di fronte alla tribù noi lo rileviamo sia dal fatto che, quando gl'imperatori concedono il diritto di cittadinanza latina o romana, esso non si limita agli abitanti di una città, ma comprende tutti i membri della tribù, sia altresì dalla circostanza che, quando, dopo l'editto di Caracalla, questo diritto si estende di un tratto a tutte le tribù, il nome di queste prevale su quello delle città, ed è quello con questo che dà origine al nome moderno: p. es. non da Lutetia deriva il nome di Parigi, ma dal nome del popolo, quello dei Parisii; così Sens da Senones, Reims da Remi, ecc. Solo poche città assumono una posizione prevalente sopra la tribù, e sono in generale le città che come Rotomagus (Rouen) e Burdigala (Bordeaux) sono sorte o fiorite per motivi del tutto speciali, portati quasi sempre dalla stessa dominazione romana ed efficienti soprattutto in funzione di questa.

L'avere conservato tale ordinamento, che manteneva, specie a taluni popoli i quali, per tradizioni storiche o per ampiezza di territorio, come gli Edui o gli Arverni o i Remi, potevano considerarsi quasi dei piccoli stati, la coscienza della loro unità e della loro potenza, fu un altro atto d'indiscutibile audacia, ma anche di sapienza politica da parte dei Romani: ché per esso si salvaguardava entro l'unità la varietà: quella varietà che derivava dalla diversità di origine, di tradizioni, di condizioni ambientali: varietà che poteva certo tornar vantaggiosa anche a Roma: ché, come a suo tempo la discordia fra le diverse tribù aveva favorito la conquista di Cesare essa poteva ancora impedire, come infatti in qualche momento impedì, una sollevazione generale del paese contro l'impero, ma che d'altro lato non era meno favorevole a un libero e ordinato sviluppo delle facoltà proprie dei singoli popoli. Onde a chi bene consideri le linee dell'ordinamento dato dai Romani alla Gallia, apparirà più che mai ingiustificato il rimprovero di coloro i quali accusano il dominio romano di avere soffocato i germi dello sviluppo naturale e spontaneo della razza celtica.

Augusto, mentre nella vecchia provincia della Narbonese, ormai decisamente avviata a una completa romanizzazione, continuò l'opera iniziata da Cesare, fondando nuove colonie o concedendo privilegi alle città già esistenti, nel resto della Gallia invece si limitò a favorire lo sviluppo dei centri cittadini, ma sempre entro l'ambito e i diritti della tribù. Egli fece sorgere nuove città, le quali tutte presero nome da lui, e indusse gli Edui e gli Arverni, non senza un mal celato disegno politico, ad abbandonare i loro nidi d'aquila, Bibracte e Gergovia, e a stabilirsi in zona più piana e più facile a uno sviluppo civile: le due città nuove, Augustodunum (Autun) e Augustonemetum (Clermont-Ferrand) presero anch'esse il nome dell'imperatore, aggiungendovi una desinenza celtica: a nessuna di queste città tuttavia Augusto concesse il diritto di municipio o di colonia.

L'autonomia di ciascuna delle tre provincie della Gallia, netta e precisa nel campo politico, e cioè in ciò che ha riguardo al governo di esse, fu talvolta minore nel campo dell'amministrazione finanziaria: ma ciò solo per necessità pratiche contingenti o per semplicità di funzionamento: non è raro il caso infatti che un solo procuratore riunisca insieme l'amministrazione delle finanze o dei beni imperiali di tutte tre le provincie, o di due di esse, l'Aquitania e la Lugdunese, mentre la Belgica costituisce invece normalmente un'unica circoscrizione con le due Germanie; lo stesso avviene per le operazioni del censo, o per l'amministrazione delle imposte. Per le dogane le tre Gallie costituirono sempre insieme un solo distretto, di cui facevano parte anche la Narbonese e le tre provincie alpine, e cui rimasero unite dopo la loro formazione anche le due Germanie: l'imposta che le merci pagavano entrando o uscendo, pari al quarantesimo del loro valore, era detta quadragesima Galliarum: la riscossione di essa era appaltata a una società di pubblicani (mancipes, o socii o socii publicani quadragesimae Galliarum) ed era posta sotto la sorveglianza d'un procuratore imperiale, assistito per le eventuali controversie da un advocatus fisci; l'ufficio centrale era a Lione, uffici distaccati erano nei porti principali e lungo la frontiera terrestre nei punti di transito.

L'ordinamento di Augusto non poté subito trovare intera applicazione: le guerre sul Reno e al di là di questo per la conquista della Germania (v.), naturale conseguenza della conquista della Gallia e necessaria opera di consolidamento della sua frontiera orientale, consigliarono ad Augusto e Tiberio di riunire per un certo tempo il governo di tutte le tre Gallie, cui andava unito il comando dell'esercito del Reno, nelle mani di un solo magistrato straordinario, che fu poi sempre un principe della casa regnante: Druso, Tiberio, Germanico; lo stesso Augusto, dopo essere rimasto nella Gallia fra il 16 e il 13 a. C., vi ritornò nel 10 e nell'8. Nonostante questi capi fossero soprattutto occupati e preoccupati della guerra contro i Germani, pure è certo che l'opera loro si volse altresì alla graduale e sistematica organizzazione civile della Gallia: già si è visto come Druso, nel 12 a. C., alzasse l'ara alla confluenza del Rodano con la Saône; lo stesso Druso procedette nello stesso anno al census Galliarum, completando e rinnovando quanto aveva già fatto Augusto nel 27; anche Germanico fra il 14 e il 16 d. C. ripeté le operazioni del censo, attraverso le quali il paese veniva acquistando la sua definitiva sistemazione fondiaria, base prima e necessaria di ogni valorizzazione terriera. Militarmente essi non ebbero invece nella Gallia soverchie preoccupazioni; di una rivolta non si ha ricordo che nel 21, quando già, dopo il ritiro di Germanico nel 16, l'ordinamento augusteo era entrato in vigore. L'insurrezione, la cui causa occasionale fu una richiesta di tributi straordinarî, ma che certo si preparava già da tempo, scoppiò fra i Turoni e gli Andecavi: ma si propagò anche fra le tribù più importanti, i Treveri, guidati da Giulio Floro, gli Edui e i Sequani, capitanati da Giulio Sacroviro: contro gl'insorti mossero il legato della Lugdunese e quello della Germania Superiore e la rivolta fu presto domata; fu da parte dei Galli l'ultimo tentativo di sottrarsi al dominio romano: più tardi le ribellioni contro Roma saranno tentativi rivolti ad acquistare nell'impero una posizione privilegiata, non a staccarsi da esso.

Le forze militari furono, come si è accennato, fornite dall'esercito germanico: una volta costituite le provincie della Germania, la Gallia rimase infatti quasi completamente priva di ogni presidio militare. Una sola coorte era di stanza a Lione, e non era nemmeno una coorte dell'esercito vero e proprio, ma una coorte urbana (indicata talvolta eon il numero I, talvolta con il XIII), la quale pertanto aveva soprattutto il carattere di una guardia d'onore del governatore; solo eccezionalmente troviamo ricordata la presenza di altri corpi militari; una flotta aveva invece stanza, almeno nel sec. I d. C., a Forum Iulii (Fréjus); comunque il vero esercito della Gallia era quello che, nel territorio delle provincie germaniche, ne guardava l'unico confine militarmente delicato, quello del Reno.

Un'azione efficace nella romanizzazione della provincia esercitò Claudio, nato a Lione, che abolì da un lato gli ultimi riti druidici e fece scomparire i titoli celtici ancora conservatisi nelle magistrature locali, ma che d'altra parte tolse ogni limitazione alla concessione del diritto di cittadinanza: prima di lui anche coloro che nella Gallia avevano personalmente ottenuto la cittadinanza romana erano esclusi dalle magistrature e quindi dal senato: Claudio tolse questa sì grave diminuzione: forse anche concesse il diritto di cittadinanza ai primores delle tribù: certo l'estensione di questo diritto fu da allora grandemente facilitata. La pace della provincia fu turbata alla morte di Nerone: già prima che questi scomparisse, nel 68, il governatore della Lugdunese, C. Giulio Vindice, gli si era rivoltato: in una battaglia sotto le mura di Vesontio (Besançon) egli era stato vinto e costretto alla morte dal legato della Germania superiore, L. Verginio Rufo, che, non per fedeltà all'imperatore, ma perché obbligatovi dai soldati, aveva marciato contro di lui. La partecipazione dell'esercito germanico alla guerra civile, scoppiata dopo la morte di Nerone, e il conseguente indebolimento di esso indussero alla ribellione le popolazioni germaniche del basso Reno e della costa del Baltico. A queste si unirono, dopo la morte di Vitellio, alcune delle tribù galliche del nord-est: i Treveri, guidati da Giulio Tutore e Giulio Classico, e i Lingoni, guidati da Giulio Sabino. Essi proclamarono l'impero delle Gallie, la cui vita fu tuttavia quanto mai effimera. Le vecchie rivalità fra le tribù rinacquero d'un tratto: i capi erano gelosi l'uno dell'altro, Lingoni e Sequani si combattevano fra loro, i Galli guardavano di mal'occhio i Germani: un'assemblea delle tribù convocata a Durocortorum (Reims) fra i Remi, sconfessò il movimento: onde l'esercito inviato da Vespasiano sotto il comando di Petillio Ceriale ebbe presto ragione di esso: i capi della ribellione si rifugiarono di là dal Reno, e tutta la regione, per oltre un secolo, rimase tranquilla sotto il dominio romano: è il secolo d'oro dell'impero, durante il quale la Gallia raggiunge il più alto grado di prosperità, e in cui si compie la grande opera di romanizzazione delle genti soggette.

La lotta di Settimio Severo contro i rivali al trono si conclude con la sconfitta (Lione, 19 febbraio 197) di Clodio Albino: la capitale delle Gallie, saccheggiata, subì allora un danno, che non riparò più completamente. Il regno di Severo è contraddistinto nei riguardi delle Gallie da una rifioritura di usi, di lingua, di religione celtica.

Con il terzo secolo i popoli della Germania, che oltre il Reno erano rimasti liberi dal dominio romano, vengono organizzandosi in stati più saldi e più potenti e cominciano a premere contro i confini dell'impero: e la loro pressione, se incombe in modo più diretto sulle provincie della Germania, costituisce d'altro lato una minaccia assai grave anche per le Gallie. Infatti nei torbidi seguiti alla morte di Decio (257), Franchi e Alamanni, rotta la linea del limes, invadono la Gallia e la saccheggiano giungendo da un lato fino alla Catalogna, scendendo dall'altra al di qua delle Alpi fino in Italia. La necessità di far fronte alla minaccia germanica riporta la Gallia a una posizione di primo piano sia militarmente sia politicamente: gl'imperatori sono assai spesso obbligati a fare lunghi soggiorni nella provincia, soprattutto nella parte nordorientale di essa: onde di fronte a Lione, ad Arles, a Narbona e a Marsiglia va assorgendo a più alto rango Treviri, divenuta la capitale della Belgica. Gallieno, appena salito al trono, deve difendere la frontiera del Reno, e ricacciare al di là di essa gl'invasori. Riuscito nell'impresa, mercé soprattutto l'opera dei suoi generali, Aureliano e Postumo, egli ebbe il titolo di restitutor Galliarum. Partendone vi lasciò come Cesare il figlio, Valeriano: ma il comando effettivo dell'esercito rimase nelle mani di Postumo, il quale, appena Gallieno si fu allontanato, tolse di mezzo Valeriano, e si proclamò imperatore. Si inizia con Postumo l'effimero impero detto delle Gallie, che durò una quindicina d'anni, dal 258 al 273, e che cessò non appena il governo di Roma tornò in mani salde: oltre le Gallie, esso comprese, tuttavia solo in qualche momento, le Spagne e la Britannia, anch'esse, per quanto indirettamente, interessate come le prime al mantenimento della frontiera del Reno. Se da un lato si deve escludere da questo impero ogni significato anti-romano, poiché i principi che vi si seguirono: Leliano, Mario, Vittorino, assistito dalla madre Vittoria, donna di origine gallica, Tetrico, ripeterono nelle forme esteriori e nella costituzione del potere gli stessi caratteri dell'impero di Roma, né mai fecero mostra di voler far risorgere uno spirito celtico in antagonismo allo spirito romano, d'altro lato non si può negare che esso rispondesse a quella necessità di decentramento e di autonomia delle singole parti dell'impero, che la decadenza del governo centrale e l'incalzare dei barbari rendevano ormai sempre più urgente. L'opera di Postumo fu benefica per la provincia, liberata dai barbari che l'avevano invasa e dalle bande di predoni che l'infestavano, e assicurata alla frontiera col consolidamento delle difese e con una politica fatta in parte di repressione armata in parte di pacifici accordi con i Germani di oltre Reno. I suoi successori, invece, come i sovrani dell'impero legittimo, furono travagliati da mutue rivalità. All'avvicinarsi delle truppe di Aureliano, Tetrico si dichiarò disposto a rinunciare al trono: una battaglia fu tuttavia egualmente combattuta a Châlons-sur-Marne (273), ed essa segnò la fine dell'impero gallico. L'esperienza recente e il pericolo sempre imminente consigliarono nel breve periodo di pace susseguito alla restituzione dell'unità dell'impero, di rafforzare le difese e soprattutto di guarnire di mura le città che fino allora, nella completa sicurezza della regione, erano rimaste aperte ad ogni assalto: sono di questo tempo, coeve quindi alla cerchia aureliana di Roma, molte delle cinte murarie delle città galliche. L'opera non era compiuta, quando nel settembre del 275 Franchi e Alamanni ruppero di nuovo la linea del limes, e, con effetti ancora più funesti di diciotto anni prima, sciamarono su tutta la Gallia. Probo, successo ad Aureliano (276), corse sul Reno e lo passò inseguendo i Germani, respinti dalla Gallia.

Naturale conseguenza dei mali sofferti e del disordine gettato nel paese fu il sorgere di bande di predoni, detti Bagaudi, parola probabilmente di origine celtica, alimentate soprattutto, qui come in altre provincie, dalla gente della campagna, sorta in lotta contro i grandi proprietarî e contro le popolazioni delle città. Occorse la energia di Massimiano per debellarli; Massimiano, cui incombeva altresì il compito di guardare il confine del Reno, compito che egli assolse con grande energia, si stabilì a Treviri e fece di questa la nuova capitale. La vicinanza della città alla frontiera, della quale tuttavia non era in tale prossimità da sentirsene minacciata, e nello stesso tempo la sua giacitura in regione amena e felice, la designavano a tale funzione: è da ora che data il suo massimo fiorire edilizio.

Costanzo Cloro continuò l'opera di Massimiano, combattendo contro i Germani, e ponendo fine d'altro lato all'usurpazione di Carausio, che, appoggiandosi alla flotta della Manica, del cui comando era stato investito, si era fatto un piccolo impero marittimo delle coste della Gallia e della Britannia. A Costanzo successe Costantino, più volte anch'egli in guerra contro Franchi e Alamanni.

Intanto il nuovo ordinamento amministrativo, iniziato da Diocleziano, trovava la sua sistemazione. Per esso le Gallie formarono, con le Spagne, la Britannia e le Germanie, una delle quattro prefetture del pretorio, detta appunto delle Gallie. Incerta, e forse non sempre costante, fu la divisione in diocesi: sembra infatti che dapprima queste fossero due, la dioecesis Galliarum e la Viennensis, detta anche, dal numero delle provincie che la componevano, delle Quinque provinciae; più tardi, salito questo numero a sette, il nome si cambiò in Septem provinciae; in un terzo momento le due diocesi furono riunite insieme mantenendo parimenti il nome di dioecesis septem provinciarum, o dioecesis Galliarum. Certo è che, come di solito, le provincie augustee furono frazionate in molte provincie minori: la Belgica fu sdoppiata in Belgica prima e secunda; la Lugdunese anch'essa in prima e secunda, cui più tardi si aggiunse la tertia o Senonia; l'Aquitania in Aquitania, poi ancora suddivisa in prima e secunda, e Novempopulana; la Narbonese in prima, secunda e Viennensis; ognuna di esse era governata da un consularis o da un praeses.

All'amministrazione finanziaria provvedevano il rationalis summarum Galliarum e il rationalis rei privatae per Gallias, dipendenti rispettivamente dal comes sacrarum largitionum e dal comes rerum privatarum. Della grande assemblea provinciale di Lione non resta più traccia dopo il sec. IV: sembra invece che ognuna delle nuove provincie avesse ora la sua assemblea, mentre un'assemblea comune a tutte le cinque (poi sette) provincie della Gallia meridionale è confermata sul principio del sec. V da un editto di Onorio: essa si raccoglieva ad Arles.

Maggiore sviluppo prende in questi bassi tempi l'organizzazione militare, in conseguenza dei pericoli incombenti sulla provincia da parte dei Germani e dell'accresciuta forza della guarnigione: la quale comprendeva milizie di terra e flotte marittime e fluviali. Anche per questa organizzazione militare le Gallie sono unite con le Germanie: a capo delle forze che presidiano questa o quella zona della regione sono comites e duces (comes tractus Argentoratensis, dux Mogontiacensis, dux Belgicae secundae, ecc.), i quali rispondono del loro comando ai magistri peditum ed equitum: una particolare menzione occorre fare del dux tractus Armoricani, il quale provvedeva alla sicurezza di tutta la regione occidentale e nord-occidentale della Gallia, difendendola soprattutto dalle incursioni dei pirati sassoni. All'esercito regolare si aggiungevano le colonie, di carattere agricolo e militare allo stesso tempo, formate dai barbari trapiantati e stabiliti entro il territorio della provincia: questi erano detti laeti o gentiles, e ogni colonia era diretta da un praefectus.

Ma con il secolo IV non è soltanto la struttura politico-amministrativa del paese che cambia: è tutta la sua vita che si avvia a nuovi destini, sotto la spinta di cause molteplici e diverse: la pressione dei Germani da Oriente, e lo stabilirsi sempre più numeroso di essi, soprattutto dei Franchi, nel territorio romano, talvolta contro la volontà del governo imperiale, ma più spesso con il suo consenso; l'infiltrarsi di elementi franchi nella compagine amministrativa e politica dello stato, onde alcuni di essi si preparano a salire fino ai più alti gradi della gerarchia; il disgregarsi dell'unità dell'impero e il consolidarsi di una unità delle Gallie, che gli stessi imperatori favoriscono, e che comincia già a mostrare quei caratteri, che saranno proprî della nazione nuova che sta per sorgere; infine l'affermarsi del cristianesimo (v. appresso) le cui controversie, per l'intromissione dell'autorità imperiale, assumono spesso carattere politico.

La storia del paese segna un ripetersi di guerre e d'invasioni da parte dei Germani, che qualche principe più energico riesce a frenare o a ritardare, assicurando brevi periodi di pace, ma che d'altra parte si complicano quasi sempre per le rivalità e le usurpazioni degli aspiranti all'impero. Due anni prima della sua morte, Costantino, dividendo l'impero tra i figli, assegnò la Gallia a Costantino il Giovane, ma nel 340 questi fu vinto e sostituito da Costante. Contro Costante si levò Magnenzio, che a Autun fu acclamato imperatore dalle truppe (350); Costanzo II, rimasto solo sul trono, marciò contro di lui, e dopo averlo sconfitto sul Danubio e in Italia, lo batté definitivamente in Gallia (353). Di queste lotte approfittarono gli Alamanni, che, fra il 350 e il 354, passarono di nuovo il Reno, sotto il comando del re Cnodomaro, e saccheggiarono la provincia; una prima spedizione di Costanzo contro di loro, terminata con un trattato di pace, rimase senza risultati tangibili. Onde nel 355 gli Alamanni tornarono all'assalto, alleati con Franchi e Sassoni: e l'invasione prende questa volta il carattere di una vera e propria guerra di conquista. Le fortezze del Reno cadono l'una dopo l'altra: solo Colonia resiste per poco, ma gli eserciti passano oltre e giungono a Autun, a Troyes, a Sens, le avanguardie fino a Lione: gli storici dicono che quarantacinque città vennero nelle mani dei Germani: i quali s'impadronirono del paese non più soltanto per saccheggiarlo, ma per stabilirvisi e per restarvi. Costanzo, fallito un primo tentativo di arrestare il nemico (ché il magister peditum Silvano, un franco, gli si ribella e si proclama Augusto) affida al giovane Giuliano l'arduo compito di liberare la Gallia dagl'invasori. L'opera di Giuliano, protrattasi per circa quattro anni, fu veramente efficace: nel 356 egli marciò su Colonia e la riprese; assediato nei quartieri d'inverno dagli Alamanni, si liberò dalla stretta (357) e nell'agosto dello stesso anno presso Argentorate (Strasburgo) inflisse al nemico una grave sconfitta. Cnodomaro fu preso e inviato a Costanzo. Per cinque volte Giuliano passò il Reno e combinando insieme la marcia dell'esercito di terra con l'azione di una grande flotta risalente il fiume dal mare, riuscì a imporre al nemico il rispetto dell'impero. Tanti successi militari guadagnarono a lui il favore delle truppe, che nel 360 a Parigi lo acclamarono Augusto. La forza dei barbari era tuttavia tale che i successi di Giuliano non potevano essere che effimeri: nel 365 gli Alamanni invadono ancora una volta la Gallia: Gioviano, che aveva già combattuto sotto Giuliano, li vince ora, per ordine di Valentiniano, a Scarpona, nella valle della Mosella (366); l'anno dopo lo stesso imperatore, che ad Amiens aveva associato Graziano al trono, assume il comando dell'esercito e passa ripetutamente al di là del Reno. Si deve a Valentiniano una generale opera di rafforzamento della frontiera, l'ultima che questa abbia avuto: ma la consapevolezza che l'azione militare non era più sufficiente a fermare i barbari, spinse l'imperatore a concludere un trattato di alleanza con Macriano, re degli Alamanni (374). La politica degli accordi fu seguita ancora, soprattutto nei riguardi dei Franchi, da Grazimo, stabilitosi di nuovo con la sua corte a Treviri: d'altronde franchi erano coloro che in nome dei sovrani inetti reggevano ora le sorti dello stato: Merobaude, Bauto, Arbogaste: il nome di questi è associato alle usurpazioni di Massimo e di Eugenio.

Con l'inizio del sec. V gli stanziamenti dei barbari nella Gallia si fanno sempre più ampî, onde l'effettivo dominio romano su di essa va via via restringendosi, fino a scomparire del tutto. Primo segno tangibile dell'arretrarsi di questo dominio fu il trasporto della residenza del prefetto delle Gallie da Treviri ad Arles. Il 31 dicembre 406 i Vandali, misti ad Alani e Svevi, a Franchi e Burgundi, passano a Magonza il Reno, la cui frontiera era stata da Stilicone indebolita per far fronte ai pericoli altrove minaccianti, e, costituiti come sono da tribù intere con donne e bambini, si sparpagliano su tutto il paese: nessuna resistenza è loro opposta, fino a che Flavio Claudio Costantino, che i soldati della Britannia hanno acclamato imperatore, passa in Gallia fra il 407 e il 408, e, mentre assegna ai Burgundi le terre sulla sinistra del Reno, tra Worms e Magonza, tenta di raggiungere nel mezzogiomo gli altri, che si salvano al di là dei Pirenei. Per poco la Gallia è libera dai barbari: ché nel 412 i Visigoti, perduto in Italia il re Alarico, passano le Alpi per il colle del Monginevra sotto la guida di Ataulfo, e s'impadroniscono di tutta la Gallia meridionale fino alle coste dell'Aquitania: le trattative con l'impero, retto da Onorio, e rappresentato nella Gallia dal magister militum Costanzo, si complicano, come di solito, per l'apparire di usurpatori; ma infine nel 415 un accordo si stabilisce con Wallia, succeduto ad Ataulfo, e per esso i Visigoti ricevono dall'imperatore le terre dell'Aquitania secunda, completate, nel 416 e nel 418, con quelle della regione di Tolosa. Dal nord premono, negli anni immediatamente successivi, i Franchi Salî, già dalla metà del secolo precedente stabiliti nelle isole dei Batavi: essi passano la Schelda e scendono verso mezzogiorno fino alla Somme: Ezio, visto vano il tentativo di arrestarli, li riconosce come federati (430); lo stesso egli fa nei riguardi dei Burgundî, da lui stabiliti nella Savoia. Alla metà del secolo si abbatte sul paese l'invasione degli Unni, condotti da Attila: nel 451 essi prendono Metz, e, avanzando verso occidente, giungono alla Loira: Ezio li ferma presso Orléans, quindi li respinge e li insegue infliggendo loro una dura sconfitta nel luogo detto Mauriacus, presso Troyes (battaglia detta dei Campi Catalaunici; v.).

La sempre più rapida decadenza del potere imperiale dà animo al re dei Visigoti, Eurico, di allargare il suo dominio, estendendolo prima nel resto del mezzogiorno (Narbona), poi verso settentrione, fino a impadronirsi di tutto il centro della Gallia: nel 475 il governo di Ravenna gli riconosce il possesso delle terre conquistate, meno la Provenza; ma, deposto Romolo Augustolo, Eurico spinge il suo dominio fino alle Alpi. Anche l'antica capitale della Gallia, Lione, cade circa questo tempo nelle mani dei Burgundî: più a settentrione i Franchi Ripuarî hanno già occupato Treviri (circa il 455), e gli Alamanni si distendono sulle terre dell'Alsazia del Palatinato, della Baviera (fra il 455 e il 470). Ormai di effettivo dominio romano non resta che una piccola porzione di territorio, fra la Senna e la Loira, che Siagrio riesce a conservare più che altro perché il re dei Franchi Salî, Childerico, si mantiene scrupoloso osservatore dei patti stabiliti. Ma quando a Childerico succede Clodoveo (481 o 482) la marcia verso sud dei Salî riprende, e fra il 486 e il 506 tutto il paese a settentrione della Loira viene conquistato; sennonché proprio con Clodoveo, l'unità della Gallia, spezzata dalle invasioni, si va ricostituendo, e sorge la nuova nazione, Francia (v.).

Quando i Romani conquistarono la Gallia, il paese era in uno stadio di civiltà più progredito di quello in cui i Romani stessi trovarono altre provincie dell'impero, ma alquanto arretrato di fronte alla civiltà che essi erano in grado di portarvi: solo nel mezzogiorno l'influenza della colonia greca di Marsiglia non era stata senza effetto, per quanto assai limitata nello spazio. Taluno ha voluto sostenere che la civiltà gallica, ove non fosse stata turbata e compressa da quella portatavi dai Romani, avrebbe spontaneamente evoluto verso forme più progredite, e quindi anche più originali. A parte l'inutilità di certe ipotesi, certo è che nessun popolo può e deve mai rimpiangere di avere camminato più rapidamente sulla via del progresso, anche se l'impulso gli sia venuto di fuori: d'altronde se vi fu un popolo che dimostrò di essere pronto ad assimilare la civiltà romana, questo fu il popolo della Gallia, che dopo nemmeno un secolo di dominazione romana era già a questa saldamente devoto, e dopo tre secoli era così profondamente trasformato da divenire e da rimanere uno dei campioni della latinità in Occidente. L'opera di romanizzazione non fu naturalmente eguale per tutto il paese: assai più sollecita e più radicale essa fu nel mezzogiorno, nella Narbonese, divenuta più tardi la Provincia (Provenza) per eccellenza: qui la lingua, la religione, i costumi romani penetrarono assai più profondi: se ne riconoscono le tracce nella distinzione sorta nel Medioevo, e ancora oggi sensibile, fra paesi della lingua d'oc e paesi della lingua d'oïl, distinzione che non è solo linguistica, ma che si riflette nell'indole delle popolazioni; se ne vedono le manifestazioni nei monumenti superstiti, assai più numerosi nelle città della Gallia meridionale, a Fréjus, a Orange, Nîmes, Arles, ecc., e di tale finezza ed eleganza nell'architettura, da non potersi ritenere per nulla inferiori ai monumenti di Roma, e superiori talvolta a molti di quelli delle altre regioni italiane. Viva ed efficace fu altresì la romanizzazione della città centrale della Gallia, Lione, e di tutta la regione orientale più prossima ai campi militari del Reno, e sotto l'influenza sia di questi sia della seconda capitale delle Gallie, Treviri: sennonché qui quest'opera fu per lo meno attenuata dalle invasioni germaniche, più direttamente sentite. Meno raggiunte dalla romanizzazione furono le terre dell'occidente e del nord-ovest, soprattutto naturalmente le campagne, ché le città, anche le più lontane dell'Italia, non potevano sottrarsi al fascino della civiltà superiore, come Burdigala (Bordeaux), che fu non solo importante emporio di commercio, ma vivo centro di cultura latina.

Prima della conquista romana la Gallia era soprattutto un paese agricolo: conosciute erano alcune delle sue risorse minerarie, ma solo parzialmente sfruttate. I Romani promossero largamente l'agricoltura, sia introducendovi sistemi più progrediti, sia bonificando terreni paludosi e selvosi: veramente straordinario fu lo sviluppo raggiunto in questo campo; numerosissimi sono i resti di fattorie, talvolta così ampie e così ricche da costituire dei veri villaggi rurali con ville signorili, terme e officine ceramiche. Particolarmente feconde erano le regioni meridionali della Narbonese, la zona dell'Aquitania più prossima all'Atlantico, le colline digradanti sulla valle della Mosella e intorno al medio corso della Senna e della Loira. I prodotti principali erano il grano, il lino, la canapa, l'olivo nel mezzogiorno, e sopra ogni altro la vite. In più luoghi questa, per il cui sviluppo si era riconosciuto quanto favorevole fosse il suolo di certe regioni della Gallia, soppiantò la coltura dei cereali: Domiziano, per tutelare la viticoltura della penisola italica, rinnovò il divieto, già emesso nella repubblica, di piantar nuove viti, e ordinò anzi che esse fossero in molti luoghi strappate: è dubbio tuttavia che l'ordine fosse eseguito. Ogni impedimento venne comunque rimosso da Probo sul finire del sec. III, e quale sviluppo raggiungesse allora la viticoltura lo desumiamo dalle descrizioni di Ausonio, relative alle campagne di Burdigala e nella valle della Mosella, e dagli entusiastici elogi che l'imperatore Giuliano fa delle vigne attornianti la sua cara Lutezia.

Insieme con l'agricoltura i Romani promossero l'attività industriale: rinomati erano i prodotti delle fabbriche di stoffe della Gallia, soprattutto delle stoffe di lana, alcune delle quali erano chiamate anche in latino con nomi di origine celtica (saga, cucullus, braca, ecc.), e di lino; e più noti ancora, e diffusi largamente anche in Italia e in altre province dell'impero, i prodotti ceramici, la cui tecnica volle imitare, senza tuttavia raggiungerne mai la finezza di fattura e di decorazione, i prodotti di Arezzo. Le officine ceramiche erano numerosissime nella Gallia, e furono attive particolarmente nei sec. I e II d. C.: per quale ragione la loro attività declinasse e venisse meno nel sec. III non sappiamo. V'erano inoltre fabbriche di vetri, specie nell'alta Mosella e nella Normandia; nel Basso Impero abbiamo notizia di fabbriche di armi, naturalmente di carattere statale. Tra le altre risorse del paese vanno ricordate le cave di marmi e le miniere, sorpattutto di ferro: l'amministrazione centrale di queste ferrariae, che erano in generale di proprietà imperiale, era a Lione e posta alle dipendenze di un procurator. Né si possono dimenticare le sorgenti minerali e termali, che i Romani, a cominciare da Augusto, frequentarono grandemente: Aquae Augustae (Dux), Vicani Aquenses (Bagnères), Aquae calidae (Vichy), Vicus Aquarum (Aix-les-Bains), ecc.

Efficace strumento della valorizzazione economica del paese, più ancora che mezzo di conquista militare, fu l'ampia e ben organizzata rete stradale, che Agrippa prima, Claudio poi, distesero su tutte le Gallie. Centro di essa era la nuova capitale, Lione: qui convergevano le strade che scendevano all'Italia attraverso le Alpi, e di qui si partivano le altre che irradiavano da un lato verso i campi della frontiera del Reno, dall'altro verso le coste dell'Atlantico, della Manica e del Mediterraneo; lungo di questo correva poi la grande arteria di comunicazione fra l'Italia e la Penisola Iberica, detta nel primo tratto, fino ad Arles, via Aurelia, poi, fino ai Pirenei, via Domitia. Le distanze dal sec. III, v'erano segnate in miglia romane e in leugae, una misura gallica equivalente a un miglio e mezzo romano.

Per ciò che riguarda il campo morale e spirituale, se la religione e la lingua del paese non furono completamente abbandonate, soprattutto dagli strati inferiori della popolazione, pure si può ben dire che esse né esercitarono alcuna influenza sulla religione e sulla lingua dei dominatori, né vi opposero alcuna seria resistenza: se si eccettui, nei primi tempi della conquista, quella che poté venire dalla dottrina e dalle pratiche dei druidi, che Tiberio prima, Claudio poi, dovettero vietare non per il loro contenuto religioso, ma per quello che d'immorale e di turbolento esse comportavano. Ma una volta debellato il duidismo, di cui non si ha più quasi alcun ricordo dopo il sec. II d. C., seppure alcuni dei celtici, come le Matres, Epona, Rosmerta, Cernunnos, continuarono a essere adorati, e altri furono più o meno assimilati agli dei romani (Teutates a Mercurio, o più raramente a Marte, Esus a Marte, Beleno ad Apollo), tuttavia la loro efficacia si può considerare quasi nulla, per es. nella lotta contro il cristianesimo. Né pare sia stato grande l'influsso della lingua (v. sopra).

E con la lingua la Gallia prese da Roma le forme della letteratura e dell'arte: specialmente fiorenti furono le scuole di Lione, di Burdigala e di Augustodunum, e in grande onore la retorica e la poesia: non che la provincia abbia dato retori e poeti di valore, se non tra i primi M. Apro e tra i secondi Ausonio, ambedue tuttavia figure di secondo ordine, ma l'uno e l'altro genere letterario erano così largamente coltivati e avevano insieme tale efficacia e tale rispondenza nell'animo della grande massa della popolazione, da improntare il carattere di questa in modo durevole. Nell'arte un posto a parte va riserbato, come si è già accennato, alle regioni meridionali; nel resto del paese purtroppo molto è andato distrutto per l'intensa vita mai interrottasi nei secoli: monumenti notevoli sono tuttavia a Saintes (anfiteatro e arco di trionfo), Besançon (arco di trionfo), Langres (porta), Autun (porta), Parigi (anfiteatro e terme), ecc. Ma anche dove nessun grande edificio è rimasto, la traccia della vita romana si mostra viva e palese attraverso i resti più umili, sempre copiosi.

Una menzione particolare meritano i monumenti di Treviri, la capitale del Basso Impero, cui gl'imperatori che vi dimorarono vollero dare una magnificenza edilizia degna della sua funzione: si riflettono in questi monumenti quella sapienza architettonica e insieme quella decadenza nelle arti figurative e decorative che sono proprie dei secoli III e IV d. C. Opera di artisti locali sono i numerosi rilievi provenienti dai sepolcri della regione adiacente alla città: più che la scena mitologica vi trova posto la rappresentazione della vita quotidiana, riprodotta con efficacia e vivacità. È questo del resto il tema preferito, insieme alla riproduzione stessa del defunto, che si rinviene anche nelle numerose figurazioni, quasi sempre di carattere funerario, del resto della Gallia, di cui abbondano il museo di Saint-Germain-en-Laye e i molti musei locali. Anche in questo pertanto la Gallia dimostra che la conquista romana ne aveva profondamente penetrato lo spirito, tanto che né l'invasione germanica, né, molti secoli dopo, la Riforma protestante, pur molto travagliandola, poterono mai strapparla dalla civiltà latina.

Gallia cristiana. Le leggende che riconducono le origini delle chiese cristiane nella Gallia agli Apostoli o a loro diretti discepoli non si fanno piena luce prima della fine del sec. VIII. Unica eccezione quella della chiesa di Arles che fin dagl'inizî del sec. V si affermava fondata da S. Trofimo, discepolo di S. Pietro. La tradizione letteraria non offre dati più espliciti. La notizia di Gregorio di Tours (sec. VI) secondo la quale verso il 250 sette vescovi sarebbero stati inviati in Gallia dalla chiesa di Roma, contrasta con i pochi dati sicuri che noi abbiamo sulla diffusione del cristianesimo nelle Gallie. Più notevole, come indizio, l'affermazione di Sulpicio Severo (sec. IV) secondo la quale "serius trans Alpes Dei religione suscepta"; due affermazioni dello stesso tenore sono registrate negli Atti (sec. IV-V) di S. Saturnino di Tolosa e in quelli, di poco posteriori, di S. Sinforiano di Autun. Nonostante questo silenzio delle fonti si è oggi concordi nel ritenere che culla del cristianesimo nella Gallia sia stata la valle del Rodano che, per quanto amministrativamente divisa fra la Lugdunese e la Narbonese, si presentava come facile e naturale via di penetrazione attraverso la quale potevano incanalarsi fin nel cuore della Gallia le vie del commercio che dalla Grecia e dall'Asia, attraverso il Mediterraneo, facevano capo a Marsiglia. A questa città, colonia greca antichissima, chiave delle relazioni con tutta la valle del Rodano si è soliti guardare come alla città nella quale si sarebbe costituita per prima una comunità cristiana; la cosa appare assai probabile.

Chi pensa che San Paolo si sia recato a predicare il vangelo in Spagna, è stato indotto a supporre che l'apostolo non abbia mancato, durante il necessario scalo a Marsiglia, di annunciarvi la Buona novella. Una variante di II Tim., IV, 10, contenuta nel Codice sinaitico e nel Palinsesto di Efrem e registrata da Westcott e Hort tra i "noteworthy rejected readings" dando εἰς Γαλλίαν anziché εἰς Γαλατίαν ha indotto alcuni a pensare, fin dal tempo di Eusebio (Hist. Eccles., III, 4, 8), che Crescenzio, discepolo di S. Paolo, si sia recato nelle Gallie: sarebbe quindi sbarcato a Marsiglia. Ma a parte la circostanza che l'accogliere la variante εἰς Γαλλίαν è soluzione tutt'altro che autorizzata, sta di fatto che solo nel sec. IX sorse l'idea di fare di questo Crescenzio un vescovo di Vienna. Un argomento più valido è dato dall'iscrizione trovata a Marsiglia (Corpus Inscr. Lat., XII, 489) in cui è fatto cenno di un Volusiano e di un Eutiche che "passi sunt". L'iscrizione rimonterebbe al primo quarto del sec. II. In realtà, la data dell'iscrizione, la sua provenienza da Marsiglia, il suo stesso carattere cristiano non sono circostanze che appaiono dimostrate senza difficoltà. Solo la presenza di almeno due comunità già costituite nell'alta valle del Rodano verso la fine del sec. II induce a credere, per via di logica, che queste fossero in qualche modo tributarie di una comunità costituitasi a Marsiglia anteriormente ad esse in epoca non precisabile. Ma di questa chiesa marsigliese solo nel 314 si ha la prima notizia sicura.

Come in Africa, il cristianesimo ci si presenta in Gallia circonfuso ai suoi inizi da un'aureola di martirio. Eusebio ci ha conservato una lettera inviata nel 177 dalle comunità di Lione e di Vienna, sottoposte ai rigori della persecuzione di Marco Aurelio "ai servi di Cristo che sono in Asia e in Frigia" (Hist. Eccl., V, 11, 2 segg.) per renderle edotte della sciagura che si era abbattuta sulla comunità. Il fatto narrato riguarda, probabilmente, solo la comunità lionese, e solo dall'intestazione della lettera e dalla presenza fra i martiri lionesi di un Σάγτος, diacono di Vienna, si deduce che anche in quella città dovesse esservi un gruppo di cristiani. La comunità lionese è composta quasi esclusivamente di asiatici immigrati parlanti greco, è di recente fondazione, giacché sono ancora presenti i fondatori della comunità, ed è estremamente esigua: la persecuzione per quanto violentissima non dovette fare molte vittime: la lettera ne ricorda solo otto. La comunità è retta da un vescovo, Fotino, che, con tutta probabilità, ha giurisdizione anche su Vienna. A lui, morto durante la persecuzione, succede Ireneo (v.) già presbitero della comunità, suo riorganizzatore dopo la persecuzione, e sua gloria più fulgida. Sorta e reclutata quasi esclusivamente nell'ambiente degl'immigrati greci, la comunità lionese ci si mostra, per quel che ne sappiamo, quasi esclusivamente preoccupata delle cose che si svolgono nelle sue chiese di origine. Ad esse, con tutta probabilità, è indirizzata la lettera conservataci da Eusebio; i confessori lionesi spediscono allora anche altre lettere per dare il loro parere "prudente e ortodosso" sui dissensi che andavano sorgendo in Frisia a proposito del nascente montanismo; durante la questione pasquale Ireneo prende le difese presso il vescovo di Roma, Vittore, delle chiese d'Asia che osservavano l'uso quatuordecimano; l'opera d'Ireneo contro le eresie dovette essergli suggerita dalla presenza in Gallia di gnostici giunti dall'Asia.

Nonostante queste circostanze, apparentemente sfavorevoli a una risposta affermativa, le comunità cristiane d'immigrati greci costituitesi lungo la valle del Rodano (è ipotesi autorizzata pensare che accanto a Marsiglia [?], Lione e Vienna altri centri della Narbonese fossero cristianizzati verso la fine del sec. II) vanno poste in relazione con l'ulteriore sviluppo del cristianesimo delle Gallie? È certo che dalla seconda metà del sec. III il cristianesimo appare nelle Gallie fenomeno latino e latine sono le chiese che in epoca costantiniana troviamo quasi miracolosamente costituite pressoché in tutta la Gallia. Si deve parlare dunque di un processo di latinizzazione delle comunità greche della Narbonese e di una conseguente diffusione da parte loro, ad altri centri, di un cristianesimo latino? O le comunità latine costituitesi dopo di loro sono nate del tutto indipendentemente nell'ambiente dei latini immigrati in conseguenza e di pari passo al progressivo romanizzarsi della regione? O i due processi sono concomitanti? E fino a che punto è entrato in questo sotterraneo sviluppo l'elemento celtico indigeno? Nell'impossibilità di rispondere a questi interrogativi, tanto vale limitarsi a pochi dati certi.

All'indomani della persecuzione del 177 il cristianesimo della Gallia s'illustra dell'attività di Ireneo. Questi asserisce di essere stato costretto a predicare anche in celtico e che chiese cristiane esistevano ἐν Κέλτοις e anche ἐν Γερμανίαις: probabilmente fin dai tempi di Commodo gruppi cristiani si erano venuti costituendo lungo le coste renane e non è escluso che l'attività d'Ireneo entri in questo per qualche cosa. Un nuovo sprazzo di luce viva ci è dato da una lettera (LXVIII) indirizzata nel 255 da S. Cipriano al vescovo di Roma Stefano, dalla quale si deduce che Faustino allora vescovo di Lione e altri "coepiscopi in eadem provincia constituti" hanno preso in esame il caso di Marciano, vescovo di Arles (è questa la prima notizia certa dell'esistenza della chiesa di Arles) che aveva aderito alle idee di Novaziano. Lettere in questo senso erano state spedite a Cipriano e a Stefano. Il cenno di Cipriano ad altri coepiscopi depone per l'esistenza nella Narbonese di altre chiese: quali esse fossero non è peraltro dato sapere.

L'espressione di Cipriano coepiscopi... in eadem provincia... è equivoca, giacché Arles e Lione appartengono amministrativamente a due provincie diverse. Si fa questione se all'epoca di Cipriano i vescovi della Narbonese e della Lionese fossero riuniti in uno o in due concilî provinciali e quali fossero i limiti della giurisdizione di Lione. Tenendo presente l'affermazione di Eusebio (V, xxiii) che parla di κατὰ Γαλλιάν παροικίαι ἃς Εἰρεναῖος ἐπεσκόπει, riferendosi a una situazione esistente verso il 190, e ad altri indizî, si può pensare (sostanzialmente con L. Duchesne e contro A. Hamack) che effettivamente all'epoca di Ireneo Lione fosse l'unica sede episcopale in Gallia e che, costituitisi poi altri vescovati nella Narbonese, questi considerassero il vescovo di Lione, per quanto appartenente a un'altra provincia, come una specie di vescovo metropolitano.

Per avere altre notizie sicure sul cristianesimo delle Gallie occorre saltare dal 255 al 313-314. Peraltro le indagini del Duchesne hanno mostrato come i pochi indizî esistenti (ricordi di martiri, attestazioni di liste episcopali, ecc.) depongano a favore di un ulteriore sviluppo del cristianesimo in Gallia nella seconda metà del terzo secolo. Tolosa, Autun, Nantes, Reims, Treviri, e forse Metz erano già guadagnate in questo periodo. Di poco posteriori, e certo anteriori a Costantino, le comunità (non i vescovati) di Rouen, Sens, Parigi e Tours. Non pare comunque che le chiese della Gallia soffrissero molto della persecuzione dioclezianea: secondo Eusebio (Hist. Eccl., VIII, xiii, 13) Costanzo Cloro avrebbe risparmiato gli edifici del culto cristiano; e con maggiore verosimiglianza, Lattanzio (De mort. pers., 15) asserisce che Costanzo "conventicula, id est parietes, qui restitui poterant, dirui passus est".

Mutata radicalmente la situazione politico-religiosa dell'Impero, durante il sec. IV, e precisamente dall'epoca del concilio di Arles (314), che raduna i rappresentanti di 15 vescovati delle Gallie (non è senza significato il fatto che Costantino abbia chiamato dei vescovi della Gallia a giudicare di una questione africana), il cristianesimo, la sua diffusione e organizzazione, fanno passi da giganti e le incertezze che caratterizzano la loro storia nei secoli passati, scompaiono completamente. Regioni del tutto nuove alla propaganda del Vangelo ricevono per la prima volta il lieto annuncio, o, quanto meno, per la prima volta ci appaiono in questo secolo cristianizzate. È questo il caso dell'Aquitania: tre vescovi della regione partecipano nel 314 al concilio di Arles (Bordeaux, Gabales, Eaux) e altre città (Clermont, Bourges, Limoges) erano certo in quell'epoca già cristianizzate. La regione, che con tutta probabilità aveva ricevuto il cristianesimo solo agl'inizî del secolo, pochi decennî dopo è già all'avanguardia (specialmente i vescovi di Poitiers, Agen, Périgueux e Bordeaux) nella vita della chiesa in Gallia, come appare chiaro durante la controversia ariana e priscillianista. Sempre durante il sec. IV il cristianesimo penetra per la prima volta nella regione alpina. Nelle Alpi Pennine il cristianesimo ci appare ad Agaunum nel 377; il vescovo di Octodurus (Martigny) assisteva nel 381 al concilio di Aquileia. Nella seconda metà del sec. IV missioni delle città costiere diffondono il cristianesimo nelle Alpi Marittime: le chiese di Embrun e di Digne devono la loro fondazione, in quel periodo, alla chiesa di Nizza. Più tarda, invece, la penetrazione del cristianesimo nelle Alpi Cozie: solo nel sec. V avanzato le valli di Maurienne e di Briançon appaiono già cristianizzate. E anche nelle regioni già cristianizzate i vescovati si moltiplicano, Vaison, Narbona, Orange, Apt, Die (il vescovo di Die, partecipa, nel 325, al concilio di Nicea) nella Narbonese; Autun, Orléans, Angers, Rouen, Sens, Parigi, Tours, Chartres, Auxerre, Troyes, Nantes, nella Lionese; Tongres, Soissons, Chalons, Noyon, Senlis, Amiens, Magonza, Worms, Cambrai, Verdun, Besançon, Spira, Strasburgo, Basilea, nella Belgica e Germania, appaiono, durante il secolo, altrettante sedi di vescovati: in linea di massima si può dire che fra il sec. IV e il V tutte le civitates romane dovevano essere sedi di vescovati (si hanno però esempî di vescovati: Nizza, Carpentras, Tarbes, costituiti al di fuori delle civitates e viceversa).

Questa sostanziale coincidenza fra organizzazione ecclesiastica e civile si riflette anche nel fatto che i vescovi di una determinata provincia romana si raggruppano spontaneamente intorno a quello di loro che risiede nella metropoli della provincia che si trasforma presto in metropoli ecclesiastica: già alla fine del sec. IV o agl'inizî del V, Lione, Rouen, Tours e Sens; Reims, Bordeaux, Bourges e Eauze; Vienna e Narbona, metropoli di omonime provincie ecclesiastiche sono anche metropoli rispettivamente della Lionese I, II e III; Senonia; Belgica II; Aquitania I e II; Novempopulana; Viennese e Narbonese I. Una questione a parte va fatta per la sede di Arles. Diventata Arles sede della prefettura delle Gallie, Zosimo, forse anche per sottrarre il cristianesimo delle Gallie all'influenza invadente della sede milanese, non tenendo conto che capitale della Viennese, nella qual provincia era situata Arles, era Vienna, creò Arles sede metropolitana delle tre provincie della Viennese, e Narbonese I e II, conferendo altresì alla sede di Arles una specie di diritto di vicaria apostolica su tutte le Gallie. Ma il privilegio non sopravvisse, sostanzialmente, a Zosimo, non senza essere stato causa, prima come in seguito, di lunghe polemiche giurisdizionali in cui furono interessate soprattutto (oltre Arles) Aix, Vienna e Narbona.

Le invasioni barbariche e le ultime agitate vicende della Provincia romana sino alla definitiva occupazione franca (v. sopra) non furono senza conseguenza per la chiesa della Gallia, specialmente là dove, come nell'Aquitania durante l'occupazione visigotica, l'elemento barbaro dominante era ariano. Ma più che i pochi inevitabili contrasti, che misero in luce figure di vescovi come Sidonio Apollinare, Lupo di Troyes e figure di eroine come Santa Genoveffa di Parigi, la conseguenza più sensibile dell'occupazione barbarica (non si dimentichi che Burgundî e Franchi diventano quasi subito cattolici) fu quella di differenziare fortemente (ad eccezione della Senonia) il preesistente elemento etnico.

Esaminati brevemente i pochi dati che consentono di farci una idea sulla diffusione del cristianesimo nella Gallia, è opportuno ora cercare di vedere quali siano le ragioni per le quali il cristianesimo si presenti in questa regione con fisionomia tutta sua. Non si può certo negare che a questo contribuisca il sovrapporsi in Gallia di strati etnici così disparati, frutto delle invasioni germaniche: ma voler limitare ogni spiegazione a questa significherebbe voler vedere un aspetto solo e tardivo della situazione. Né più probante è il ricorrere all'elemento celtico preesistente come a quello che avrebbe offerto per molti secoli l'ordito fondamentale su cui si sarebbe intessuta ogni conquista, spiegando insieme la tendenza unitaria della regione e certe caratteristiche negli aspetti sostanziali della sua civiltà: "dalla sintesi dell'ispirazione evangelica, dell'insegnamento e dei metodi romani e dello spirito conquistatore dei Celti è uscita una delle più belle realizzazioni cristiane della storia: il cattolicesimo francese" (Zeiller). In realtà non pare che l'elemento celtico sia stato capace d'informare del suo spirito il cristianesimo della Gallia, che è tutto e solamente romano e latino. È bene anzi precisare che la storia della comunità greche costituitesi lungo la valle del Rodano non entra se non come un accidente nella storia della cristianizzazione della Gallia dovuta esclusivamente a Roma.

Se è possibile affermare qualche cosa (e nemmeno questo appare forse lecito data la scarsità degli elementi di cui disponiamo) è che il cristianesimo della Gallia si presenta con caratteristiche tutte sue in quanto non è mai stato antiromano. Se, infatti, si deve giudicare della vitalità (non della vita) di una chiesa dalla sua attività, si può ben dire che il cristianesimo è nato, cioè si è manifestato vitale, nella Gallia, solo nel sec. IV quando cioè cristianesimo e romanità non possono più considerarsi come due atteggiamenti antitetici bensì come due facce della civiltà latina. Non è senza significato il fatto che se Roma ha dato alle Gallie con la sua lingua, una letteratura, questa è fin dalle sue origini (inizî del secolo IV) quasi senza eccezione (la più notevole è quella di Rutilio Namaziano), letteratura cristiana. Ma se il cristianesimo della Gallia ci appare, specialmente in certe tendenze che rivelano scrittori come Ausonio, Paolino di Nola, Sulpicio Severo, Sidonio Apollinare, Ennodio, fenomeno giovane o, meglio, giunto alla maturità senza essere passato attraverso una robusta esperienza formativa; se esso non ha potuto trovare in un insussistente contrasto con la romanità il pungolo a crearsi un pensiero e una vita propria, esso rivela, ciò non pertanto, delle personalità l'opera delle quali ne illustra la storia con risonanze che spesso travalicano i confini della Gallia stessa.

Prima fra tutte quella di Ilario di Poitiers, intorno al quale si accentra la vicenda dell'arianesimo (v.) nella chiesa della Gallia, per lungo tempo quasi completamente estranea ad esso. Ilario, venuto Costanzo in Gallia, organizza la resistenza, ma è esiliato: e nel suo soggiorno in Oriente ha modo di addestrarsi nella speculazione teologica orientale che egli, primo fra gli scrittori latini, mostra di avere mirabilmente assimilata. Ilario, per un ventennio capo morale della chiesa di Gallia, ebbe in questo ruolo un degno erede in Martino di Tours nella cui opera, che si riflette con luce di leggenda negli scritti di Sulpicio Severo, si riassommano i due fatti più notevoli del sec. IV: la conversione delle popolazioni rurali da Martino perseguita con indomabile energia, e la diffusione del monachismo che nel nome di Martino, primo monaco d'Occidente, si afferma anche fuori della Gallia. A Nola, Paolino, nativo di Bordeaux e amico di Ausonio, fonda un monastero famoso; in Gallia a Lérins e a Marsiglia Onorato e Cassiano fondano all'inizio del secolo V dei cenobî, centri famosi di cultura e di vita ecclesiastica. Le dottrine di Priscilliano ebbero non pochi seguaci in Gallia, e in Gallia Priscilliano stesso e i suoi più diretti discepoli dovettero, nonostante il coraggioso intervento di S. Martino, pagare con la vita l'affermazione delle loro idee. In Gallia, e specialmente in Provenza, l'agostinismo trovò i suoi seguaci e avversari più famosi: Cassiano, Vincenzo di Lérins, Ilario d'Arles, Fausto di Riez, sono i corifei dell'opposizione alle dottrine del vescovo di Ippona che trovano la loro eco più chiara negli scritti di Prospero di Aquitania e, soprattutto, di Cesario di Arles. Questi, all'inizio del sec. VI, svolge un'intensa attività conciliare intesa a disciplinare in Gallia la vita ecclesiastica e a unificarne le regole. I tempi erano maturi: il concilio di Orléans del 541, passata quasi tutta la Gallia sotto il dominio diretto dei Merovingi, è stato bene definito "prima unione effettiva di tutte le chiese della Gallia divenuta franca".

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Lingua: J. Rhys, The Celtic inscript. of France and Italy, Londra 1906, con supplementi negli anni successivi; G. Dottin, La langue gauloise, Parigi 1920; Weisgerber, Die Sprache der Festlandkelten, in Progr. der röm.-germ. Komm., 1930, pp. 401 segg.; V. Bertoldi, Arcaismi e innovazioni al margine del dominio celtico, in Silloge linguist. ded. alla memoria di G. I. Ascoli, Torino 1929, pp. 484-541.

Archeologia: J. Déchelette, Les vases céramiques ornées de la Gaule romaine, Parigi 1904; id., Manuel d'archéologie préhistorique celtique et gallo-romaine, Parigi 1908 e segg.; E. Espérandieu, Recueil générale des bas-reliefs de la Gaule romaine, I-X, Parigi 1907-1928; R. Montandon, Bibliographie générale des travaux paleontologiques et archéologiques, Parigi 1917 segg.; S. Reinach, Catalogue illustré du Musée des antiquités nationales, Parigi 1917-1921; A. Grenier, Archéologie gallo-romaine, I, Généralités. Travaux militaires, Parigi 1931; R. Lantier, Ausgrabungen und neue Funde in Frankreich aus der Zeit von 1915 bis 1930, in Deutsch. Arch. Inst.-Röm.-germ. Komm., XX, Francoforte s. Meno 1930. Per le sorgenti minerali: L. Bonnard, La Gaule thermale, Parigi 1908 segg.

Per la Gallia cristiana: oltre ai varî articoli (Arles, Lione, Marsiglia, ecc.) del Dictionnaire d'archéologie et de liturgie chrétiennes, v.: Gallia Christiana, i primi 13 volumi a cura di D. de Saint-Marthe e dei benedettini della congregazione di S. Mauro (Parigi 1715-1785; riediti da P. Piolin, Parigi 1870-1878); completamento a cura di B. Haureau (voll. 3, Parigi 1856-1865-1869); A. Houtin, La controvrse de l'Apostolicité des églises de France au XIXe siècle, 3ª ed., Parigi 1903; E. Le Blant, Inscriptions chrétiennes de la Gaule, Parigi 1856; E. Babut, Le concile de Turin. Essai sur l'histoire des Églises provençales au Ve siècle, Parigi 1904; L. Duchesne, Fastes épiscopaux de la Gaule, voll. 3, Parigi 1907, 19 0, 1915; A. Harnack, Missione e propagaz. del cristianesimo nei primi tre secoli, trad. it., Torino 1906, pp. 513-522; L. Gougaud, Les chrétientés celtiques, Parigi 1911; T. Scott Holmes, The origin and development of the Christian Church in Gaule, Londra 1911; G. De Manteyer, Les origines chrétiennes de la IIe Narbonnaise, des Alpes Maritimes et de la Viennoise, Rix-en-Provence 1926; I. Zeiller, Les origines chrétiennes de la Gaule, in Revue d'histoire de l'Église de France, XII (1926), pp. 16-34; id., L'empire romain et l'église, Parigi 1928, pp. 233-264.