CATULLO, Gaio Valerio

Enciclopedia Italiana (1931)

CATULLO, Gaio Valerio (G. Valerius Catullus)

Massimo Lenchantin De Gubernatis

Secondo S. Girolamo (Chron., p. 150, 24 Helm), sarebbe nato l'87 a. C. e morto nel 57, a trent'anni. Peraltro, dato che alcuni carmi (11, 29, 45, 55, 113) alludono ad avvenimenti che vanno dal 59 al 55 almeno, è necessario ammettere che i trent'anni fossero dati in cifra tonda e che S. Girolamo, ritenuta precisa cotesta cifra, deducesse in base ad essa e all'anno di nascita, registrato dalla sua fonte (Svetonio), l'anno di morte che in realtà dovrebbe abbassarsi al 54. Vi è chi, accogliendo una sola delle notizie di S. Girolamo, quella della durata della vita del poeta, lo farebbe nascere nell'84 e morire nel 54, poiché nei suoi carmi mancano cenni a fatti posteriori. Contro cotesta data generalmente accolta si può obiettare che l'attività d'uno scrittore cessa talora anche molto tempo prima della morte. Certo i limiti della vita di Catullo non si possono spostare di molto fra l'87 e il 54 a. C.

Il prenome è sicuramente Gaius. Il prenome Quintus compare solo nei codici interpolati.

Catullo fu gloria di Verona, come Virgilio di Mantova. La sua era una famiglia ragguardevole. Il padre di lui (Suet., Iul., 73) ospitò infatti Giulio Cesare all'apice della potenza. Un vivo affetto lo legava al paese nativo. Nella sua villa di Sirmione, la deliziosa penisola del lago di Garda, egli (carme 31) ritornava volentieri a ristorarsi dagli affanni e dalle fatiche. Appena indossata la toga virile, fu attratto dal fascino di Roma, ma, benché accolto nell'alta società, non rinunciò mai alla sua indipendenza. Gli epigrammi dimostrano com'egli fosse di umore instabile e ubbidisse facilmente ai sentimenti di amore e di odio. Affettuoso e indulgentissimo con gli amici, quali Veranio e Fabullo, Camerio e Settimio, Celio e Quinzio, non perdonava ai nemici e aggrediva con violenza i rivali, quali Egnazio, Aurelio, Rufo. Frequentando i circoli letterarî più noti, non solo ebbe modo di far brillare le doti del suo ingegno, ma poté stringere rapporti con scrittori greci, p. es. con Partenio. E questi non furono senza efficacia sui suoi atteggiamenti spirituali. Catullo non era privo di risorse, senza le quali non avrebbe potuto frequentare una società avida di piaceri e di lusso. Oltre ai beni in Verona o nei dintorni, egli possedeva una casa in Roma e una villa agli estremi confini del territorio tiburtino. Le difficoltà finanziarie, che esagerò iperbolicamente (carmi 10, 13, 28), furono causate dalle sue prodigalità di gaudente spensierato.

L'avvenimento più grave della sua vita fu l'incontro con Lesbia. Lesbia è uno pseudonimo; Apuleio (Apol., 10) c'informa che essa era Clodia, sorella di P. Clodio Pulcro. Questi aveva tre sorelle: Clodia I moglie a Marcio Re, Clodia II sposa di Q. Metello Celere, Clodia III ripudiata da L. Lucullo. Tra le due ultime, che erano donne raffinate ed egualmente note per la loro condotta sregolata, dobbiamo cercare l'amante del poeta. Tra Clodia II, come viene descritta da Cicerone (Pro Caelio, 13 segg.), e Lesbia, quale risulta dai versi di Catullo, molti sembrano i punti di contatto. Entrambe sono corrottissime, bellissime e maritate. Inoltre, siccome Clodia fu amante di Celio Rufo e un Celio (carme 58) e un Rufo (carmi 69, 77) risultano rivali di Catullo, fatta di Celio e di Rufo una sola persona e precisamente M. Celio Rufo, si raggiunse con molta disinvoltura una prova in apparenza decisiva per l'identificazione tra Lesbia e Clodia II. Identificazione non inverosimile, ma ipotetica sempre. In quanto all'accusa d'incesto, a cui Catullo non disdegnò di prestar fede (carme 78), essa venne fatta tanto a Clodia II (Cic., Pro Caelio, 13; 32), quanto a Clodia III (Cic., Pro Milone, 73), e perciò appunto non ci dà modo di scegliere tra le due Clodie. Quando Catullo si sia legato con Lesbia, non sappiamo; certo ogni rapporto con lei era cessato nel 55 a. C. Il suo amore, che s'era trascinato per varî anni tra alternative di fiere rotture e di vergognose riconciliazioni, era caduto allora "come un fiore al margine del prato, reciso dall'aratro che passa" (carme 11). Ma già prima del 57 la morte del fratello lo aveva per qualche tempo allontanato dalle braccia della sua donna (carme 68). Tra le mura di Verona egli sfogò il suo dolore in un'elegia sconsolata che gronda di lacrime, nonostante le lusinghe della passione non spenta nel suo cuore.

Nel 57 seguì (carmi 10, 28, 31, 46) Gaio Memmio in Bitinia, forse per rompere definitivamente ogni rapporto con Lesbia caduta nell'estrema abiezione, forse anche con lo scopo di risarcire i resti della sua ricchezza sperperata. Nulla egli ottenne, fuorché la consolazione di piangere sulla tomba del fratello sepolto sul promontorio Reteo. Un epitaffio (il carme 101) ricorda la visita pietosa con accenti di tenerezza ineffabile e con un'emozione non attenuata dalla compostezza dello stile lapidario. Ritornato in Italia, cercò il riposo e la pace nella sua villa di Sirmione (carme 31). Di fronte a Lesbia impallidiscono le figure di Aufilena, di Ammeana, di Ipsitilla. Alla μοῦσα παιδική appartengono i carmi su Giovenzio.

Lontano dalle lotte politiche, che lo lasciavano indifferente, egli prese di mira, con l'impeto solito e la solita intemperanza, uomini come Pompeo, Cesare, Mamurra, non per ubbidire a generosi impulsi, ma per ragioni di carattere personale.

Da parecchi passi di Catullo risulta che i suoi versi correvano isolatamente per le mani degli amici. Cosa che non stupisce, se si pensi al loro carattere occasionale da cui traggono tanta freschezza e vivacità. Una raccolta ne fece più tardi per Cornelio Nepote. Ma corrispondeva cotesta raccolta al nostro Liber? A dubitarne, oltre all'esistenza del frammento d'una seconda prelazione (carme 14), c'induce il fatto ch'egli chiama la sua raccolta libellus e i suoi versi nugae. Ora libellus non può dirsi il Liber a noi pervenuto, sia per l'ampiezza (2300 versi circa), sia per il contenuto. Un poemetto come le cosiddette Nozze di Teti e Peleo, un'elegia come la Chioma di Berenice non potevano evidentemente essere messi tra le nugae. Il Liber inoltre contiene carmi risalenti molto probabilmente agli ultimi mesi della vita dell'autore, e non è probabile che solo allora questi si sia deciso a un'edizione delle proprie opere. Forse la silloge fu raccolta dopo la sua morte prematura dalla pietà degli amici, i quali, mentre riunirono tutto quanto trovarono nelle carte del poeta, dimenticarono alcune poesie note ai grammatici antichi (frammenti 1-4). Nel Liber non presiede né un criterio cronologico, né il criterio dell'analogia degli argomenti, ma quello molto elastico della somiglianza della forma metrica e dell'ampiezza dei componimenti. In base a cotesto criterio, i carmi si possono dividere in tre gruppi:1. carmi in metri varî con prevalenza degli endecasillabi (1-60); 2. carmi maggiori in composizione gliconica (61), in esametri (62 e 64), in galliambi (63) e in distici (65-68); 3. epigrammi in distici (69-116).

Nel primo e nel terzo gruppo i carmi sono in intimo rapporto con gli odî e gli amori del poeta. L'animo suo, vibrante di passione impetuosa, passa per tutti i gradi del sentimento. Accenti dolci e delicati si alternano a espressioni di brutale violenza e di cruda volgarità. I poeti greci (Omero, Archiloco, Saffo, Anacreonte, Callimaco) non furono senza efficacia sullo spirito suo, ma non intorbidarono mai la limpidezza delle sue intuizioni e la sincerità con cui rappresenta le sue esperienze liete o dolorose. La figura di Lesbia, che domina sopra tutte le altre, non ci si presenta sotto l'aspetto d'una finzione letteraria. La sua immagine esce viva perfino dai versi tradotti da Saffo (carme 51).

Nei carmi maggiori, Catullo s'impose una disciplina più rigida. Le sue elegie (65, 66, 68) sono condotte sulla falsariga dell'elegia mitologica greca. In una sola (68), l'elemento personale prende per un istante il sopravvento per essere, poi soffocato dai viluppi mitologici. La Chioma di Berenice (carme 66) è una traduzione da Callimaco, come già si sapeva e come ora risulta evidente dalla scoperta d'un cospicuo frammento dell'originale. Traduzione non fedelissima - i Latini del resto rifuggivano dalle versioni letterali - e un po' impacciata. Nei ritmi strani e tormentati dell'Attis (carme 63) il poeta ritrova sé stesso e, con impeto lirico lanciato a ogni audacia, descrive il tumulto di danze frenetiche, il fragore dei crotali, il ruggito del leone, la disperazione dell'eroe. Nel carme 64, che gli umanisti con poca esattezza chiamarono Epitalamio di Teti e Peleo - in realtà non è un epitalamio ma una descrizione di nozze - egli espone due episodî distinti e indipendenti, quello delle nozze da cui nascerà Achille e quello di Arianna abbandonata, senza preoccuparsi del principio d'unità, che, imprescrittibile nell'arte classica, era stato abbandonato dagli Alessandrini e specialmente da Callimaco di cui Catullo è docile discepolo. Ispirato a una fonte ellenistica a noi ignota, ma non privo di elementi personali, è il delizioso epitalamio 61. Diverso il carme 62 in esametri, che, più che un epitalamio, sembra un contrasto fra un coro di giovani e uno di fanciulle, di idee opposte sul matrimonio. Enigmatico e con carattere particolare, il carme in distici 67. Il poeta, con artificio non ignoto all'erotica, finge d'interrogare una porta, quasi fosse essere vivente, per svelare gli scandali che avvenivano in una casa.

La polimetria catulliana non è dovuta al desiderio d'esperimentare forme metriche nuove, ma risponde al movimento del suo animo. Maggiore sforzo egli mostra negli esametri e in specie nei pentametri lontani dalla perfezione tibulliana. Nei brevi componimenti usa una lingua viva, senza evitare le parole e le frasi del linguaggio familiare. I frequenti diminutivi corrispondono a un atteggiamento particolare del suo spirito, vago delle cose piccole, graziose, tenere, eleganti. I carmi maggiori abbondano di espressioni ricercate e di grecismi.

Catullo è il solo superstite e fu probabilmente il maggiore del cenacolo dei poeti nuovi (νεώτεροι), imitatori degli Alessandrini, che Cicerone, con mal celato disprezzo, chiamava cantores Euphorionis. Poeti che, con un culto religioso dell'arte, si opponevano non già alla tradizione romana, ma alla sua degenerazione.

Gli antichi che parlano di Catullo lo designano con l'epiteto di doctus, alludendo evidentemente ai carmi maggiori, materiati di rara e squisita erudizione. Ma dal poeta dotto, che pur negli schemi tradizionali e nel convenzionalismo dei generi letterarî trovò nuovi atteggiamenti, non si può distinguere il poeta che attinge agli strati più profondi del suo essere e ci rappresenta le speranze, le disillusioni, i moti segreti del cuore. In Catullo non si ha mai la coesistenza di poesia riflessa e di poesia spontanea, bensì l'armonica fusione dell'una e dell'altra. Il Catullo che, irretito nell'amore, celebra ogni atto della sua donna e vagheggia soavi dolcezze e tripudia nei momenti di felicità e piange e singhiozza nei giorni di disinganno, non è differente dal Catullo che rappresenta Arianna sconvolta da passione invincibile per il biondo ospite.

La vita di Catullo è un prodotto strano d'intimità sentimentale e di calore di fantasia. In balia d'impressioni momentanee, egli non ritocca mai i suoi quadri, come suole fare Orazio, ma fissa, senza sforzo apparente, le sue intuizioni e, senza sforzo apparente, esprime il suo mondo interiore in modo impeccabile. Diverso da moltissimi dei poeti ellenistici, egli non si propone di dare forma più splendida a ciò che altri aveva detto, ma rappresenta solamente le sue esperienze nel loro nativo vigore. Egli non si pone ad affinare il sentimento, ma lo sorprende nell'attimo in cui nasce sfolgorando. L'amore e l'odio che lo crucciano, gli scatti di ribellione, la rassegnazione che egli s'impone per atto di volontà, l'irrequietezza che nulla riesce a calmare, la coscienza dell'inanità della sua vita, il divampare della collera e dell'ira vibrano attraverso i suoi carmi. Figlio dell'età sua, con molti elemenli comuni ai suoi contemporanei, egli si stacca da questi per una forma di orgoglioso individualismo. Egli non ammette ostacoli al suo piacere, né limiti alla sensualità a cui si abbandona senza ritegno con l'incoscienza dell'amorale. Desioso di gioie delicate, implora invano dagli uomini amicizia e amore, e dai disinganni e dal vizio, con cui macchiò la purezza d'un affetto crudelmente deluso, trasse quell'amaro struggimento che tinge la sua poesia d'una sconsolata tristezza.

Edizioni critiche: C. Lachmann, Berlino 1829; L. Schwabe, Giessen 1866 e 2ª ediz., Berlino 1886; R. Ellis, Oxford 1867 (2ª ediz. 1878). ediz. minore, Oxford 1904; E. Baehrens, Lipsia 1876; E. Baehrens e K.P. Schulze, Lipsia 1893. Fra i commenti, citeremo quello di R. Ellis, Oxford 1876 (2ª ediz., Oxford 1889), di E. Baehrens (con note latine), Lipsia 1885, di G. Friedrich, Lipsia 1908, di W. Kroll, Lipsia 1923, di M. Lenchantin, Torino 1928. Fra le traduzioni parziali o integre, numerosissime, menzioneremo quelle di Mario Rapisardi, Napoli 1889, e di-Carlo Saggio, Milano 1928.

Bibl.: L. Schwabe, Quaestionum Catullianarum liber I, Giessen 1862; A. Couat, Étude sur Catulle, Parigi 1875; W.Y. Sellar, The Roman poets of the Republic, Oxford 1889. Per una trattazione d'insieme, e buona informazione bibliografica, vedi M. Schanz, Gesch. d. röm. Literatur, 4ª ed., i, Monaco 1927, pp. 292-307. V. inoltre T. Frank, Catullus and Horace, New York 1928; C. Pascal, Poeti e personaggi Catulliani, Catania 1916; G. Pasquali, Il carme 64 di Catullo, in Studi ital. di fil. class., 1920, pp. 1-23; G. Giri, Se Lesbia di Catullo sia Clodia, la sorella di P. Clodio, in Riv. Indo-Greco-Ital., 1922, pp. 161-177; G. Giri, Intorno alla quest. di Lesbia-Clodia, in Athenaeum, 1928, pp. 183-189; 215-219.

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