GADDI, Gaddo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 51 (1998)

GADDI, Gaddo

Ada Labriola

Figlio di Zanobi, originario di Firenze, fu attivo come pittore tra XIII e XIV secolo. Fu il capostipite di un'importante famiglia trecentesca di artisti, come attesta il triplice Ritratto degli Uffizi, dove appare al centro con l'iscrizione "Gaddus Zenobii", accanto al figlio Taddeo e al nipote Agnolo al quale il dipinto è attribuito (ma per Bellosi, 1980, è opera di Domenico di Michelino). Non esiste alcuna sua opera documentata; l'unica notizia sicura è l'immatricolazione nell'arte dei medici e speziali prima del 1320, anno in cui era comunque ancora operoso, essendo compreso anche nella lista delle matricole del periodo 1320-1353 (Hueck, 1972). Sono dunque inattendibili i termini cronologici tramandati dal Vasari (1550, 1568), che dichiara il pittore morto all'età di settantatré anni nel 1312. Negli Spogli documentari di Pierantonio Dell'Ancisa (1649), il G., insieme con il figlio Taddeo, è elencato come matricola degli speziali del "popolo" di San Pier Maggiore nel 1327 (Archivio di Stato di Firenze, Manoscritti, 348, c. 667v; 360, c. 103r; 331, c. 101r), una data avvalorata dal Mather (1936), ma confutata dalla Hueck (1972). Ugualmente problematica è la data 1333 riferita dal Manni nel suo Zibaldone (sec. XVIII) accanto al nome di "Gaddo di Zanobi pittore", ma non riportata nel suo commento alle Notizie del Baldinucci (1767). Le fonti cinquecentesche prevasariane menzionano il G., compagno di Cimabue, autore di affreschi nel chiostro di S. Spirito a Firenze e di pitture su tavola (Libro di Antonio Billi; Codice Magliabechiano). Se in un primo tempo il Vasari (1550) riferisce al pittore un'attività esclusivamente fiorentina, nel 1568 gli dedica una biografia più articolata, dai toni celebrativi, in cui il G. risulta operoso anche a Roma, ad Arezzo e a Pisa, ripercorrendo significativamente alcune tappe centrali del percorso artistico cimabuesco. Il Vasari lo dichiara, così, allievo e compagno del leggendario Andrea Tafi e di Cimabue; e il G., accanto al Tafi, avrebbe esordito collaborando ai mosaici della cupola del battistero fiorentino ed eseguendo autonomamente i trentasei Profeti che ornano i plutei dei matronei, una serie databile agli inizi del Trecento, oggi riconosciuta vicina a Lippo di Benivieni e al Maestro di San Gaggio (Giusti, 1994). Negli Spogli strozziani degli antichi Libri di Calimala, l'arte che sovrintendeva all'impresa decorativa del battistero, il nome del G. non compare (Frey, 1911; Giusti, 1994). In ogni caso, il riferimento vasariano a un'attività iniziale del G. come mosaicista, autore anche della lunetta nella controfacciata del duomo di Firenze con l'Incoronazione della Vergine tra nove angeli e i simboli degli evangelisti, costituisce per la critica più recente l'ipotesi di lavoro da cui partire per la ricostruzione dell'attività del pittore.

Già il Venturi (1907) e il Toesca (1927) notavano strette affinità tra il supposto G. dell'Incoronazione di S. Maria del Fiore e alcuni mosaici del battistero; il Longhi (1948) puntualizzava questo nesso, attribuendo ad un "Penultimo Maestro" del battistero la lunetta del duomo e le sei Storie di Cristo e del Battista nel quarto spicchio della cupola, con il consenso di gran parte della critica successiva; è parzialmente concorde il Ragghianti (1969), che isola inoltre lo stile del pittore nell'Annuncio a Zaccaria (primo spicchio) e nelle Marie al sepolcro (quinto spicchio), e in seguito (Garzelli, 1974) nell'Incontro di Giuseppe con i fratelli e nell'Entrata nell'arca (quinto spicchio).

L'Incoronazione della Vergine è tradizionalmente datata dopo il 1296, anno di fondazione del duomo; ma va riconsiderata la proposta del Mather (1932), secondo cui il mosaico era originariamente destinato alla controfacciata della più antica cattedrale di S. Reparata, distrutta nel 1357. Lo stile monumentale e il vigore plastico dell'immagine, non priva di accentuazioni espressive nei volti dei personaggi, rivelano il G. interprete degli ideali cimabueschi in una fase collocabile negli anni Ottanta del Duecento, più arcaica rispetto ai mosaici del battistero, che potrebbero risalire al decennio successivo per i richiami a una cultura dalle inflessioni classicheggianti, in cui sembra riconoscibile il presupposto di un'esperienza romano-assisiate (Giusti, 1994).

Si deve al Boskovits (1974, 1976) il riconoscimento al G. di un interessante gruppo di dipinti di notevole qualità, stilisticamente affini all'Incoronazione del duomo, in cui la cultura cimabuesca di fondo si arricchisce di preziosismi gotici e di venature espressive: la Madonna col Bambino e due angeli in S. Remigio a Firenze, e i tre Crocifissi rispettivamente nella Galleria dell'Accademia fiorentina, in S. Stefano a Paterno (Bagno a Ripoli presso Firenze), nel Fogg Art Museum a Cambridge, MA.

La Madonna di S. Remigio è attribuita a Duccio dal Volpe (1954) e datata intorno al 1275; il Bologna (1960, 1962), riconoscendo la paternità fiorentina dell'opera, vi scorge legami precisi con le ultime storie del battistero fiorentino. Gli indubbi rapporti col Maestro della Maddalena (Coletti, 1937) inducono a riconoscere in quest'ambito gli esordi del pittore negli anni Ottanta del Duecento (Boskovits, 1976), come supporta l'accostamento alla tavola di S. Remigio, operato da tempo dal Longhi (Birmingham Museum of art, 1959), della Madonna col Bambino e due santi del Museum of Art di Birmingham, AL, inserita nel catalogo del G. dal Tartuferi (1990). Egli appare comunque attento all'aspetto più accostante dell'arte di Cimabue (Madonna di Castelfiorentino) e anche alle sperimentazioni gotiche di Duccio di Buoninsegna, a Firenze nel 1285 (Maestà Rucellai agli Uffizi). Un'affinità espressiva con le due Madonne di S. Remigio e di Birmingham, rispetto alle quali sembra leggermente più tarda, rivela la suggestiva tavoletta della National Gallery di Washington, con la Madonna e il Bambino, due angeli, s. Pietro e s. Giovanni Battista, che, proveniente dalla collezione Contini-Bonacossi di Firenze, recava sul retro un'iscrizione di Carlo Lasinio (oggi perduta) con l'indicazione della provenienza da S. Francesco a Pisa (Shapley, 1966). Attribuita dal Longhi (1948) a un primo tempo pisano di Cimabue, anteriore al 1280, è assegnata dal Volpe (1954) a un pittore fiorentino della seconda metà degli anni Ottanta, in rapporto con gli ultimi mosaici del battistero: un nesso che pare legittimare il suo accostamento alla produzione del Gaddi.

I Crocifissi dell'Accademia fiorentina, di Paterno e di Cambridge, MA, furono accostati tra loro dalla Sandberg Vavalà (1929) e riferiti a un pittore fiorentino dell'ultimo decennio del Duecento. La Marcucci (1958) attribuisce a Duccio la Croce dell'Accademia, proveniente dal monastero dello Spirito Santo sulla Costa S. Giorgio a Firenze: la critica recente ne sostiene la paternità fiorentina, nel riconoscimento del duplice legame con Cimabue e Duccio e di una sua collocazione negli anni Ottanta (Bologna, 1960; Donati, 1972; Boskovits, 1976). Con l'eccezione di una prima proposta del Bologna (1960), che lo attribuisce a Vigoroso da Siena, il Crocifisso di Paterno (proveniente dall'oratorio della S. Croce a Varliano) è unanimamente ritenuto di ambito cimabuesco; legame che pare affievolirsi nella Croce Fogg, con una ricerca di ritmi gotici più insistita collocabile nell'ultimo decennio del secolo. Il Bellosi (1988) la attribuisce a Corso di Buono; il riferimento al G. è accolto dal Tartuferi (1990).

Inattendibili risultano le affermazioni del Vasari circa l'attività romana del G., presunto autore di opere a mosaico nella chiesa del Laterano, in S. Pietro e sulla facciata di S. Maria Maggiore (oggi riconosciuta a Filippo Rusuti: Tomei, 1991). La tradizione vasariana fu accolta da Crowe e Cavalcaselle (1875), che riconobbero il G. attivo accanto a Giotto nella basilica superiore di Assisi; un'opinione contestata dal Frey (1885), ma pienamente accolta dal Mather (1932), e che comunque non ha trovato seguito negli studi più recenti. Ugualmente arbitraria è l'attribuzione del Vasari (1568) al G. dell'Assunta a mosaico nel transetto del duomo di Pisa (assegnata dal Bellosi, 1992, a un mosaicista attivo sotto la guida di Simone Martini), e quella di una tavola nella cappella Minerbetti in S. Maria Novella a Firenze, da identificare con i quattro Santi di Pacino di Buonaguida presso la sede centrale della Cassa di risparmio di Firenze (Boskovits, 1984); mentre i mosaici nel duomo vecchio di Arezzo erano già andati distrutti all'epoca della stesura della Vita del pittore.

Diverse proposte di identificazione della personalità artistica del G. sono state espresse in tempi recenti. La Bietti Favi (1983) rende noto un documento del gennaio 1328 (stile fiorentino, 1327) relativo a un pagamento a "Gaddo dipintore" per l'esecuzione di "braccioli" all'altare di S. Pietro nella chiesa fiorentina di S. Pier Maggiore, e ne propone l'identificazione con il Maestro della S. Cecilia, a cui la tavola con S. Pietro in trono datata 1307, proveniente da questa sede (ora in S. Simone) è attribuita da parte della critica. Il Caleca (1986) non riconosce l'attendibilità della figura del G. e attribuisce a "Francesco da Pisa" le opere musive fiorentine del duomo e del battistero.

Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca Moreniana, Mss. Bigazzi, 184: D.M. Manni, Zibaldone di notizie patrie (sec. XVIII), c. 299r; Il Libro di Antonio Billi (circa 1500-30), a cura di C. Frey, Berlin 1892, pp. 10 s.; Il codice Magliabechiano (circa 1530-56), a cura di C. Frey, Berlin 1892, pp. 49 s.; G. Vasari, Le vite… (1550), a cura di L. Bellosi - A. Rossi, Torino 1986, pp. 112 s.; (1568), a cura di G. Milanesi, I, Firenze 1878, pp. 345-352; F. Baldinucci, Notizie dei professori del disegno da Cimabue in qua (1681-1728), a cura di D.M. Manni, I, Firenze 1767; a cura di F. Ranalli, I, Firenze 1845, pp. 89-92; G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine, I, Firenze 1754, p. 56; V, ibid. 1757, p. 42; G. Lanzi, Storia pittorica della Italia, I, Bassano 1809, pp. 25 s.; G.B. Cavalcaselle - J.A. Crowe, Storia della pittura italiana…, I, Firenze 1875, pp. 365-373; K. Frey, Studien zu Giotto, in Jahrbuch der K. Preussischen Kunstsammlungen, VI (1885), pp. 107-140; A. 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