CHIABRERA, Gabriello

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 24 (1980)

CHIABRERA, Gabriello

Nicola Merola

La nascita del savonese C., contro la sua testimonianza databile al 18, e non l'8, del giugno 1552, fu preceduta di quindici giorni dalla morte del padre Gabriello, figlio di Corrado e Mariola Fea.

Era questo seniore Gabriello un gentiluomo di piccola, antica nobiltà, attestata fin dal 1493 e conservata nella perdurante latinizzazione del cognome in De Zabreriis, che aveva sposato Gironima Murasana, figlia del noto giurista Piero Agostino e di Despina Nattona.

Risposatasi ben presto la madre con il nobile Paolo Gavotti, il piccolo C. fu allevato dai fratelli del padre, Giovanni e Margherita, che non avevano figli. Così nel 1561 egli fu condotto a Roma, dove lo zio Giovanni esercitava una redditizia attività bancaria. Dopo aver ricevuto una prima istruzione da un istitutore privato, in un periodo in cui era ancora provato da una grave malattia, il ragazzo fu affidato alle cure dei padri gesuiti del Collegio Romano, che, se non riuscirono propriamente a "farlo giocondo, con la compagnia d'altri giovanetti" - come il poeta ci ricorda nella Vita scritta da lui medesimo, che qui si cita dall'edizione più recente delle Opere di G. C. e lirici non marinisti del Seicento, a c. di M. Turchi, Torino 1973, p. 511 -, tuttavia ne condizionarono definitivamente il carattere e le inclinazioni, acquisendolo agli ideali controriformistici e suggerendogli un conforme stile di vita. A una valutazione appena non superficiale, persino gli iniziali eccessi - tali si possono considerare sia i guai con la giustizia sia un principio di vocazione ecclesiastica fatta rientrare precipitosamente dallo zio Giovanni - si inquadrano nella stessa spregiudicata gestione e progettazione del proprio destino che aveva fatto del giovane C. un alunno esemplare, ancorché alle lezioni egli andasse "più per intrattenimento che per apprendere" (ibid.), e che ne farà poi un cittadino onorato e un professionista rispettabile.

Non fu del tutto gratuita la polemica sulla natura dell'"uomo" C., che sarebbe stato "un meschinissimo uomo, tutto grettezza, ipocrisia, menzogna; un amorale, di un amoralismo che rasenta l'immoralità" (F. L. Mannucci, La lirica di G. C. Storia e caratteri, Napoli - Genova - Città di Castello 1925, p. 26), oppure un galantuomo timorato di Dio, e solo in misura trascurabile contagiato dallo spirito del secolo (cfr. A. Belloni, Per la riputazione d'un poeta, in Giorn. stor. della lett. ital., XCIV [1929], pp. 67 ss.). Il C. in effetti sembra dare ragione a chi sostenne che "l'uomo, in tal caso, spiega il poeta; vogliam dire il mancato poeta" (Mannucci, cit., p. 26), perché senza tener conto della spregiudicatezza e dell'opportunismo dell'uomo, almeno singolari, mal si comprenderebbe la stessa importante opera di rinnovamento nella quale egli non fu né l'unico né il primo forse, ma che meglio e prima di quella di tanti altri fece i conti con l'orizzonte classicistico e moralistico della cultura contemporanea, percependolo come una opportunità più che come un limite e assicurandosi così una diversa durata e penetrazione.

Morto dunque lo zio, nel 1572 il C. tornò per pochi mesi "a Savona a vedere e a farsi rivedere da' suoi" (Vita, pp. 511 s.), giusto il tempo per maturare la decisione di vendere un orto ereditato da Giovanni al cardinale camerlengo Luigi Cornaro, una volta rientrato in Roma. Egli "prese l'occasione, ed entrò in sua corte e stettevi alcuni anni" (ibid.), durante i quali entrò in contatto con Marc-Antoine Muret, amico di Ronsard e commentatore delle sue Amours, e con Sperone Speroni, a casa del quale ultimo, nel dicembre del 1575, conobbe Torquato Tasso. "Da questi uomini chiarissimi", come già da Paolo Manuzio suo vicino di casa negli anni precedenti al 1570, "raccoglieva ammaestramenti" (ibid., p. 513), mettendo a frutto le non poche suggestioni che aveva lasciato dietro di sé il soggiorno romano di Olivier de Magny e di Joachim Du Bellay (autore di quella Déffence et illustration de la Langue françoise che non doveva rimanere senza seguito nella riflessione del poeta savonese), e pervenendolo fin da allora alla acuta comprensione delle nuove possibilità offerte dalla Pléiade che doveva farlo definire "il poeta delle vispe odicine, della grazia leggera e della mignardise alla francese" (F. Neri, Il C. e la Pléiade francese, Torino 1920, p. 51), nonostante il suo sdegnoso silenzio intorno a questo genere di precedenti.

La prima delle esplosioni di violenza che caratterizzeranno questi anni del poeta lo costringe a esulare: "Avvenne poi, che senza sua colpa fu oltraggiato da un gentiluomo romano, ed egli vendicossi, né potendo meno, gli convenne d'abbandonar Roma, né per dieci anni valse ad ottener la pace, ed egli si era come dimenticato di Roma" (Vita, p. 512). Dopo il 1576, di una sua prima permanenza a Venezia sono traccia tre anacreontiche, alle quali "diedero il tono Aurelio la Faya, Nicolò Dorati e Andrea Gabrieli, secondo le regole della scuola veneta già in aperto contrasto con quella napoletana" (Mannucci, cit., p. 52 n.). Altre tappe accertate dell'esilio sono Torino (1582) e Firenze (giugno 1585).

Anche a Savona infatti, prima tra il 1579 e il 1581 e poi tra il 1583 e il 1584, si ripetono le bravate del giovane, culminate nella vera e propria sfida tra il C. e alcuni suoi sodali della locale Accademia degli Accesi e i fratelli Ottaviano e Luigi Multedo, rei di qualche offesa nei confronti della attrice e poetessa Isabella Canali Andreini, giunta con la compagnia dei Gelosi: "e pure in patria incontrò, senza sua colpa, brighe, e rimase ferito leggermente; la sua mano fece sue vendette, e molti mesi ebbe a stare in bando" (Vita, p. 512).

Non si fatica a prestar fede allo stesso ritornello del "senza sua colpa", che scandisce l'ascensus ad Parnassum di questo troppo rispettoso cultore di automatismi. Perciò, nonostante la doppiezza e l'artificiosità degli atteggiamenti del C., non sarà il caso di sottovalutare questo suscettibilissimo amor proprio e senso dell'onore, che, in mancanza di altre certezze e di altri partiti da difendere, si offriva come principio di individuazione e cardine di una esperienza altrimenti soltanto disponibile. Il formalismo, morale prima che poetico, del C. era appunto questo: la scoperta, generalmente controriformistica, della utilità di un atteggiamento estremamente lassista nei confronti dei comportamenti e dei gusti reali, che però fosse temperato e corretto dal massimo rigore esercitato nei confronti delle dichiarazioni di principio.

Prima ancora della pacificazione che avrebbe consentito al poeta di rientrare definitivamente in Savona, uscì a Venezia, nel 1582, La guerra dei Goti, un poema epico di quindici canti in ottave, che narra, con modi prevalentemente tasseschi nonostante la diretta discendenza dal Trissino, "la guerra tra Narsete e i Goti, sotto la quale è adombrata la lotta della cattolicità contro i riformatori d'oltr'alpe" (E. N. Girardi, Esperienza e poesia di G. C., Milano 1950, p. 48), ed è significativamente dedicato a Carlo Emanuele I di Savoia, l'interlocutore forse più importante e continuo del poeta. Il quale seppe fare del proprio lavoro non lo "scandaloso mercimonio" che vorrebbe il Mannucci, ma l'onorata attività dell'unico autorizzato dispensatore di elogi e di onore, cioè il riconoscimento della validità dell'identificazione, comune al cantore e al suo oggetto, con un modello astratto di comportamento, non praticato da nessuno eppure ugualmente fruibile senza infingimenti sul piano della relazione cortigiana, come eroica tensione a un retroscena mitico o a un futuro virtuale.

Giunto ai suoi trentatré anni, il C. risolse le sue ambiguità giovanili, "e dimorando nell'ozio della patria, diedesi a leggere libri di poesia per sollazzo, e passo passo si condusse a volere intendere ciò ch'ella si fosse, e studiarvi attorno con attenzione" (Vita, pp. 513 s.). Non sarebbe stato invece necessario aspettare tanto per vedere operanti nella sua poesia le suggestioni ronsardiane, che ufficialmente saranno poi sempre contrabbandate come un favoloso recupero dei poeti greci ("di Pindaro si maravigliò, e prese ardimento di comporre alcuna cosa a sua somiglianza, e quei componimenti mandò a Firenze ad amico", ibid.), improbabile come tale almeno nella misura in cui l'ignoranza della lingua greca costringeva il poeta a ricorrere alle traduzioni (e non a caso poi a quella latina di H. Estienne), né per ottenere dagli amici fiorentini un incoraggiamento a tentare anche la strada di Anacreonte, di Saffo e di Simonide.

Tanto più che l'esito della Gotiade era stato largamente positivo, e già a partire dal 1586 egli poteva saggiare l'accoglienza di un pubblico ben più vasto alle sue Canzoni (Genova 1586, 1587 e 1588, in numero rispettivamente di dodici, sei e sei), indirizzate a personaggi ragguardevoli e dedicate alla glorificazione di principi, defunti illustri e santi. La musa è ovviamente quella pindarica, e in essa predomina la connotazione erudita piuttosto che le audaci invenzioni verbali.

Avendo pubblicato sempre a Genova, nel 1591, due libri di Canzonette (ilprimo contenente sette delle canzoni già edite e qui rimaneggiate, più una nuova, intitolata a Cristoforo Colombo, e il secondo sette componimenti tutti nuovi), il C. si reca per un breve viaggio a Roma, dove lo chiamavano i suoi molti interessi e donde ritornerà all'inizio dell'anno successivo. La corte pontificia non esercita più il fascino irresistibile di qualche anno prima e gli stessi interessi materiali, legati alla amministrazione dell'eredità dello zio Giovanni, sembrano ormai in buone mani. Ed è perciò da sottoscrivere l'affermazione del Mannucci (p. 28), secondo la quale il poeta "dal 1585 in poi vive per lo più nel suo romitaggio savonese, scrivendo e componendo versi a orario fisso, metodicamente come un impiegato dalla gran banca delle Muse". È accudito dalla sorella Laura, rimasta vedova di Aurelio Bosco, e, quando anch'essa viene a mancare, nel 1597, passa attimi di smarrimento che né la buona salute di cui godeva né le poche preoccupazioni che gli derivavano dagli incarici pubblici né tantomeno la rigida programmazione della sua esistenza gli avrebbero fatto presentire. Crederà di uscirne, anche per il consiglio del fratello Massimo, riducendosi ormai cinquantenne (29 luglio 1602) al matrimonio con una sua cugina addirittura sedicenne, Lelia Pavese, figlia di Giulio e di quella Marzia Spinola che era stata tra le gentildonne da lui cantate in gioventù.

Agli anni giovanili il C. volle circoscrivere la sua maniera erotica, che effettivamente trasse spunto dalla vita mondana dell'aristocrazia ligure di un ben determinato periodo, rendendo possibili persino dei riconoscimenti, come quello già ricordato di Marzia Spinola, o di una Giovanna dello stesso casato, o soprattutto di Giulia Gavotti, una savonese nata nel 1562 e vedova dal 1599 di Vincenzo Ferrero, che sarebbe stata Il grande amore di G. C., come suona il titolo dell'articolo di A. Varaldo, nella Rivista ligure di scienze,lettere e arti, XXXI (1909), pp. 267 ss.

Del 1598 sono cinque poemetti alla serenissima mad. Cristina di Lorena (La disfida di Golia,La liberatione di S. Pietro,Il leone di David,Il diluvio,La conversione di s. Maddalena), che, ribadendo l'ampiezza dell'arco di interessi e disposizioni del poeta, non sembrano in relazione con le uscite immediatamente successive (Genova 1599) e addirittura proverbiali della bibliografia chiabreresca: Le maniere de' versi toscani (con ventuno nuove poesie di vario metro), dedicate a Giovanni Battista Doria dei signori del Sassello; Scherzi e canzonette morali, tre libri di scherzi (rispettivamente con quattordici, dodici, quarantaquattro componimenti) e uno di canzonette (in numero di sedici), dedicati a Iacopo Doria del signor Agostino; infine le Rime, contenenti la riproduzione delle Canzonette del 1591, delle Maniere e degli Scherzi e canzonette dell'inizio dello stesso 1599 e i poemetti del 1598. Su questa edizione sono esemplate le edizioni padovane delle Rime del 1601 e 1604.

Nella avvertenza "A chi legge" delle Maniere, don Lorenzo Fabri, il prete lucchese che si incarica della edizione delle opere del C. fino a questa data e che qui risulta solo un prestanome del poeta, giustifica teoricamente l'insolito e vario "modo del verseggiare, il quale è arte, non ... vaghezza" (Opere, p. 214), con il richiamo di trattazioni anteriori intorno alle "maniere de' versi toscani", che sarà ripreso poi dal C. nel Geri. Fin d'ora l'argomentazione si limita ad allineare precedenti che, da una parte, dovrebbero fornire l'autorizzazione classicistica delle innovazioni chiabreresche e, dall'altra, sono invece adibiti a dissimulare i debiti nei confronti dei troppo vicini poeti della Pléiade. Chi meglio ha potuto rendersi conto dell'entità di questi debiti non ha mancato di stigmatizzare: "Il sistema di scovare esempi antichi di un dato ritmo, per iscansare la taccia di una imitazione più vicina, sa di cavillo, ed il C. ebbe il torto di servirsene per primo" (F. Neri, Il C. e la Pléiade, cit., p. 89). Ma forse proprio il "cavillo" avrebbe dovuto mettere sull'avviso quanti sulla scorta dei Neri hanno liquidato semplicemente la poesia chiabreresca come una minore imitazione ronsardiana e non si sono domandati se per caso qualcosa di nuovo e originale anch'essa non fosse in grado di offrire.

All'insegna dello scherzo e dello sperimentalismo metrico, il rapporto con la tradizione diviene - come dev'essere nell'ottica formalistica cui abbiamo accennato - una questione fine a se stessa, non un gioco ma certo il frutto di una scelta consapevole, tanto lucido da consentire audaci variazioni in senso erotico e mondano, con una inconsueta modernità di tocco.

Con l'anno successivo - bibliograficamente memorabile per la stampa del suo Rapimento di Cefalo, musicato da Giulio Caccini e rappresentato in Firenze per i festeggiamenti delle nozze di Maria de' Medici con Enrico IV di Francia - il C. diventa gentiluomo del granduca di Toscana, senza obbligo di residenza e con una provvisione mensile dai dieci ai venticinque scudi, della quale potrà godere fino alla morte, a coronamento di una predilezione per il capoluogo toscano che diventerà emblematica come se di per sé corrispondesse a una opzione polemica per il classicismo e che fu invece significativa proprio per l'esemplare tessuto di società colta e sensibile che in Firenze il C. credette di riconoscere. La società colta e sensibile della camerata dei Bardi, di Caccini e di Rinuccini, nella quale era potuta nascere l'illusione raffinata di un nuovo sodalizio tra musici e poeti, alla maniera dei Greci.

Tale dipendenza cortigiana del C. non è tanto peculiare per la pretesa di conservare la propria residenza e di non limitarsi come vedremo a una sola corte, quanto piuttosto per la vivissima suscettibilità e l'inconsueta alta considerazione del proprio ruolo e della propria funzione di dispensatore di elogi, che stravolge il luogo comune umanistico della superiorità del cantore sull'eroe fino quasi a una contrapposizione polemica della professionalità cortigiana alla casualità dei suoi referenti principeschi. Se egli infatti "anco pervenne a notizia di principi grandi, da' quali non fu punto disprezzato" (Vita, p. 515), sembra più importante che i principi grandi vengano a sua notizia, senza di che la loro nobile prosapia resterebbe confusa con quella magari altrettanto nobile che non venga però illustrata dal poeta. Ciò perché l'unico titolo di merito che possa essere riconosciuto ai principi, al di là delle modalità stereotipate dell'elogio, è la benevolenza e la generosità mecenatesca di cui viene fatto oggetto il C. - che dal canto suo contabilizza scrupolosamente nella Vita privilegi e sgarberie -, ovvero la loro suscettibilità di essere inseriti in (e di godere) una rievocazione mitologica.

Alle nozze del poeta, che dovevano rimanere infeconde e costargli non pochi rammarichi, corrisponde una nuova disavventura giudiziaria, dopo tanti anni e stavolta veramente "senza sua colpa", con il "fisco" di Roma: che "gli occupava il tutto", facendogli "perdere tutto il suo avere in Roma, ivi condannato per pasquini chi maneggiava suoi affari" (Vita, p. 512). Nonostante però le pasquinate del fratello naturale Augusto o Agostino, il C. se la cava e riottiene il suo: "con mostrar ragioni, e col favore del cardinal Cintio Aldobrandini il trasse di nuovo a sé, e finalmente con riposo visse in patria secondo il suo grado" (ibid.). Ma né prima né dopo di questa data il "riposo" escluse soggiorni più o meno prolungati nelle principali città italiane e, probabilmente, persino un viaggio in Spagna al seguito del nunzio apostolico (1599). Le sue preferenze tuttavia andarono soprattutto a Genova e a Firenze. Furono suoi ospiti genovesi prima Gian Francesco Brignole e dopo i pittori Bernardo Castello e Luciano Borzone, oltre al suo pupillo Pier Giuseppe Giustiniani; in Firenze i Corsi, marchesi di Caiazzo (ma amici erano i Salviati, gli Strozzi, i Geri, i Bamberini, i Dati, e tali potevano essere considerati gli stessi Medici): gli uni e gli altri presenze vive in modo tutto diverso da quello posticcio assegnato alla giustapposizione di genealogie e mitologemi nella poesia del C., eppure ugualmente escluse, come i principi e come i padri inquisitori, da un ufficio che in ultima istanza rendeva conto soltanto all'arte e all'intrattenimento, tutto il resto essendo trascurabile e inessenziale se non metteva capo alla vera e propria arte di conciliazione e di compromesso praticata dal poeta.

Alla sistemazione savonese del C., che abita in un palazzo di via S. Andrea, da lui ampliato e ornato di un ingresso con colonne (e possiederà una villa e relativi poderi in quel di Legine), si accompagna la ulteriore definizione della sua personalità letteraria, con la pubblicazione, nel 1603, di Alcuni scherzi (per l'editore de Rossi di Mondovi), i cui trenta componimenti, tutti nuovi (sette sonetti, diciassette madrigali e ballate con una strofa più ripresa, tre ballate con più strofe, tre canzonette di settenari rimati a coppia), per lo più anticipano Le vendemmie del Parnaso.Non è un caso che la nuova maniera bacchica, dichiaratamente senile, scherzosa e orientata in senso sempre più decisamente letterario, si accompagni all'inizio della incessante attività di rimanipolazione e antologizzazione della propria opera da parte del poeta, che diventa l'editore di se stesso, nel momento in cui la copertura dell'amico insistente e indiscreto, che gli avrebbe quasi estorto quanto altrimenti egli mai avrebbe reso di pubblico dominio, diventa superflua. Salvo poi a ricomparire, in una nuova forma per conservare alla posterità anche i componimenti meno consigliati sotto il profilo etico.

In questo progetto non rientrano né la stampa patavina di Pier Girolamo Gentile delle Rime sacre (1604), né quella posteriore delle Rime presso lo stesso poco scrupoloso editore (Venezia 1605), riproducente nella sua seconda parte l'edizione Pavoni del 1599 e nella prima le molte poesie brevi già edite, con divisioni e titoli diversi, più il Rapimento di Cefalo. Ne rappresenta invece il primo frutto significativo l'edizione Delle poesie di G. Chiabrera. Parte prima. Da lui medesimo ordinata,e donata all'Illustriss. signore il signor Jacopo Doria del signore Agostino già Serenissimo (Genova 1605). Dei cinque libri di questa prima parte, il primo contiene ventisei tra ballate e madrigali in antichi metri; il secondo dodici odicine di argomento amoroso o scherzoso, tutte in settenari piani rimanti in coppia; il terzo ventuno sonetti di "sollazzo"; il quarto ventisette sonetti dedicati ad alti personaggi; il quinto ancora ventuno sonetti, nei quali il poeta "conforta i popoli cristiani a movere l'arme contra i Turchi".

Se la Parte prima conteneva solo pochi componimenti già editi, la Parte seconda, Genova 1606, divisa in sei libri, costituisce soprattutto una riproposizione di poesie note (nel primo libro, dieci componimenti amorosi nei nuovi metri; nel secondo, dieci canzonette nei nuovi metri, che prendono il titolo dal nome di colui al quale sono indirizzate; nel terzo, diciotto odi in quartine di endecasillabi; nel quarto, quinto e sesto, rispettivamente otto, sei, sei odi, dalle raccolte del 1586, 1587, 1588 e 1591). La Parte terza, sempre Genova 1606, non è divisa in libri e contiene i tre canti in ottave del Battista (già pubblicato nel 1602 a Firenze con il titolo di Herodiade o sia narratione della causa principale della morte di s. Giovanni Battista);le terzine della Giuditta; i cinquepoemetti sacri del 1598 e I cinque tiranni di Gabaon, un poemetto già raccolto nell'edizione Gentile del 1604.

Severino Ferrari (G. C. e le raccolte delle sue rime da lui medesimo ordinate. Studio bibliografico, Faenza 1888, p. 2) scrisse che "ben pochi sono gli uomini i quali come il nostro abbiano con tanta larghezza affidato ai loro scritti gran parte di sé, della loro vita, della propria arte".Ma, se puntiamo l'obiettivo su quella che, a detta dello stesso Ferrari, può essere considerata "una specie d'estate di S. Martino, la seconda giovinezza (benché dai cinquantaquattro ai sessantasei anni) del poeta" (ibid., p. 26), cioè il periodo dal 1606 al 1618, troviamo che non solo tutta la vita del C., quale almeno egli volle tramandarla, è riducibile alla sua attività letteraria, ma che la sua attività letteraria, a sua volta, si presenta piuttosto come agitata vicenda editoriale che come svolgimento poetico. Sarà l'opzione per lo sperimentalismo, formale, come suggerisce Getto di rincalzo a Girardi, e sarà la molteplicità stessa dei generi toccati dal C., ma sta di fatto che "non è possibile circoscrivere entro successivi periodi di tempo l'interesse del poeta per l'uno e per l'altro genere di poesia", mentre "si può dire invece, approssimativamente, ch'egli conduce avanti quasi parallelamente tutte le sue esperienze" (E. N. Girardi, Esperienza e poesia, cit., p. 48). E di un primato del momento editoriale su quello creativo non sarà azzardato parlare, quando si sarà meglio riflettuto sul caratteristico nesso chiabreresco tra disponibilità assoluta e fiducia nei propri mezzi e sulla conseguente, altrettanto peculiare razionalizzazione (e sistemazione e giustificazione) a posteriori. È da accogliere dunque la schematica rappresentazione dell'attività poetica del C., fornita dal Girardi per l'appunto, come una tensione irresolubile tra l'esordio della Gotiade e l'esito ultimo dei Sermoni, a patto di sottolinearne la provocatorietà e il rinvio a una dimensione ulteriore, in cui le metamorfosi virtuosistiche dell'editore illuminino anziché ostacolare la ricerca.

Pure, nel periodo in questione, con un antefatto che risale almeno al 1590, si consuma quella che è forse la vicenda più emblematica della biografia del C., quella cioè relativa ai casi dell'Amadeide, che si svolge nel più ampio spazio dei trent'anni dal 1590 al 1620, data della pubblicazione genovese dei ventitré canti della redazione definitiva del poema epico.

Guadagnandosi infatti dal luglio del 1601 l'ordinaria provvisione (lettera del 5 luglio 1601 a Bernardo Castello) da parte del duca di Savoia, ma subordinandone l'accettazione al benestare del granduca di Toscana che già lo stipendiava, il poeta concorda con Botero e con il duca in persona le linee del proprio lavoro e avvia un processo che si protrarrà oltre tutte le sue aspettative. La prima redazione, sottoposta a Carlo Emanuele I nel 1607, viene corretta e aumentata fino al 1610, quando torna a essere sottoposta al duca, in dodici libri. Nel 1612, mentre legge il poema al suo incontentabile committente, il C. viene colto da malore. Finalmente nel 1617 è pronta una nuova redazione, in venti canti, di fronte alla quale ancora una volta Carlo Emanuele delude le speranze del poeta, ricorrendo alla consulenza di Honoré d'Urfè, marchese di Valromey e cavaliere della SS. Annunziata, nonché poeta in proprio e cortigiano, che finisce il suo Jugement sur l'Amadeide solo il 14 dic. 1618. Il d'Urfé, pur confessando la propria difficoltà a giudicare un testo in una lingua per lui straniera, coglie acutamente il limite di ambiguità contenuto nel poema, arrivando a imputare al C. proprio i vari compromessi cui questi si era dovuto abbassare in ottemperanza al suo ufficio. Era del resto implicito nella lineare transazione precedente all'encomio che della propria persona e della memoria dei propri avi il mecenate potesse continuare a disporre, intervenendo con suggerimenti e correzioni finché l'artista non avesse fornito l'opera desiderata, godendo degli stessi diritti ma anche facendo fronte agli stessi impegni dei maestri pittori ai quali, com'è noto, il C. guardava con tanta attenzione. Che da una disavventura del genere non fossero assorbite e prostrate tutte le energie del poeta non più giovane, è un fatto degno di riflessione, anche senza stare a invocare la centralità di questo progetto epico nel complesso della sua opera e la sua continuità rispetto al poema del Tasso, con il quale il C. gareggiò in scrupoli moralistici, giungendo a una così virtuosistica mortificazione da non far più sussistere dubbi sul perché, come già nella Gotiade, "l'elemento romanzesco sia ridotto ai minimi termini" (A. Belloni, Gli epigoni della Gerusalemme Liberata, Padova 1893, p. 43), né sulle perplessità di Carlo Emanuele.

E l'officina poetica del C. non ha requie: nel 1608, chiamato a Mantova dal duca Vincenzo Gonzaga per le nozze del figlio Francesco con Margherita di Savoia, contribuisce ai festeggiamenti e scrive Il pianto di Orfeo, un melodramma che più ancora del Rapimento di Cefalo prelude ai futuri capolavori metastasiani. Ne ricava un'altra provvisione annua senza obblighi (ma anche senza vantaggi, se è vero che gli eventi bellici lo metteranno poi nell'impossibilità di incassare quello che gli spetta) e la consuetudine con i successori di Vincenzo, dal 1612 lo stesso Francesco e poco dopo il cardinal Ferdinando.

Sempre nel 1608 fornisce il suo contributo anche alle feste per le nozze di Cosimo de' Medici con Maria Maddalena d'Austria, con la canzone Per lo balletto a cavallo fatto dal granduca Cosmo nelle sue nozze, confermando la sua capacità di far fronte agli impegni della sua ubiqua dipendenza cortigiana di lì a poco, nel 1615, con la prima redazione di un altro poema epico, il Firenze, in nove canti di ottave, che dà ai Medici quanto nello stesso periodo i Savoia sembravano riluttanti ad accettare. Non per questo la ricostruzione fantastica delle origini del potere mediceo, sulla base della Cronica del Villani (II, 1-2; III, 1), sembra superare il solito compromesso tra l'istanza encomiastica e le preoccupazioni religiose, che peraltro coerentemente informano di sé lo stesso encomio.

Alle beghe familiari e alle stesse sollecitazioni di chi l'avrebbe voluto rivedere più spesso, dalla "Siracusa", il romitorio che si era fatto costruire appena fuori Savona, sulla strada di S. Jacopo, il poeta rispondeva con una filosofica rassegnazione che tendeva spesso a restringersi in una specie di elogio della vecchiaia, carattetistico dei tardi Sermoni ma già esplicito fin dalle prime prove bacchiche.

Se non un elogio, una conferma della felicità di questa vecchiaia è l'ulteriore sistemazione della sua opera che il C. tenta con la nuova edizione Delle poesie.Del 1618 sono la Parte prima e la Parte seconda, entrambe stampate a Genova presso il Pavoni come la successiva Parte terza.La Parte prima è divisa in cinque libri: nel primo, quarantadue sonetti, dei quali trentaquattro derivano dalla edizione genovese del 1605-1606; nel secondo, nove odi, delle quali tre già erano presenti nell'edizione genovese appena citata e una negli Scherzi del 1599; nel terzo, venticinque odi in quartine, quattordici delle quali edite già nel 1605-1606; nel quarto, otto canzoni, due delle quali dall'edizione 1605-1606; nel quinto, tredici canzonette brevi, dodici delle quali già edite nel 1605-1606. La Parte seconda è ancora in cinque libri: nel primo, undici canzonette scherzose nei nuovi metri; nel secondo, quindici canzonette (tredici già edite); nel terzo, diciotto odi pindariche (diciassette già edite); nel quarto, sette odi (sei già edite nel 1587); nel quinto, quattro canzoni nuove.

Del 1619 è la Parte terza, in due libri: nel primo, i poemetti La conquista di Rabicano,L'ametisto,Gli strali d'amore,Il diaspro,Le nozze di Zefiro,Il tesoro,Il verno;nel secondo, i poemetti sacri del 1598 e I cinque tiranni di Gabaon, già raccolti nell'edizione 1605-1606.

Il poco di nuovo viene sistemato in un impianto che esclude i mutamenti e che ormai governa stabilmente oscillazioni e contraddizioni, riconducendole allo stesso naturale sviluppo armonico, all'interno del quale anacreontismo e pindarismo sono poco più che inflessioni di voce o indicazioni di circostanze esterne.

Del pindarismo chiabreresco sono fedele testimonianza le canzoni Per lo gioco del pallone celebrato in Firenze l'estate dell'anno 1618 (Firenze 1618): "Se 'l fiero Marte armato" e "Care ninfe Dircee" e quella Per li giocatori di pallone in Firenze l'estate de l'anno 1619 (ibid. 1619): "Melpomene di fior sparsa le gote". Al poeta non sfuggiva l'adeguatezza di un rituale bellico tanto poco incruento e impegnativo - seppur riscattabile e per l'autorizzazione del modello pindarico e per il suo valore di iniziazione simbolica - a una celebrazione come la sua, che in ogni caso ne avrebbe saputo prendere le distanze, compiendo anche nei confronti delle vere e proprie imprese guerresche lo stesso ribaltamento mitologico, la stessa professionale prevaricazione del momento della celebrazione, con la sua reale situazione d'intrattenimento, su quello dell'evento: "Non è vil meraviglia / dal diletto crearsi il giovamento: / quinci ben si consiglia / un cor nell'ozio alle bell'opre intento". Tanto più che la stessa guerra santa contro l'infedele che occupa il sepolcro di Cristo, più volte invocata a correzione e incitamento dei principi poco solleciti, difficilmente avrebbe potuto ispirare versi diversi da quelli dedicati al gioco del pallone, in cui la rappresentazione vive e ha un senso per il paradossale distacco che si deve conquistare l'imperterrito celebratore: "Spettacolo giocondo / Trasvolare dell'aria ampio sentiero / cuoio grave ritondo, / in cui un soffio di Vento è prigioniero: / lui precorre leggiero / il giocator, mentr'ei ne vien dall'alto; / e col braccio guernito / d'orrido legno, lo percote ardito, / e rimbombando respinge in alto" ("Se 'l fiero Marte armato", nelle Opere, cit., pp. 312 s.).

L'elezione al soglio pontificio di Maffeo Barberini, papa letterato e suo amico personale, sembra rilanciare la vena del poeta, che riprende, forse proprio per compiacere il pindarismo archeologizzante di Urbano VIII, la ripartizione tricotomica della canzone in strofe, antistrofe ed epodo, e trova l'occasione per riconfermare la peculiarità della sua subordinazione cortigiana. Dal canto suo, "diede Sua Beatitudine segni di amore, sempre che Gabriello capitò in Roma, perché egli non volle farvi continuamente stanza. La prima volta che egli se ne ripartì, mandogli un bacile pieno di agnusdei, e due medaglie, ov'era il suo volto scolpito, ed un quadretto dentrovi l'immagine di Nostro Signore miniata; poi sotto l'Anno Santo egli gli scrisse un Breve, come suole agli uomini grandi, e con esso invitavalo a Roma" (Vita, p. 518), oltre a ratificarne l'immagine pubblica di poeta morale.

Delle molte altre stampe dell'operosa vecchiezza del poeta, si possono ricordare, con le parole del Ferrari, che le riteneva "un gran ricamo di sdruccioli e tronchi" (G. C. e le raccolte delle sue rime, cit., p. 33), le sedici Canzonette d'argomento religioso e morale edite a Firenze nel 1625, e soprattutto quella che risulterà l'ultima sistemazione delle proprie opere realizzata dal poeta, l'edizione fiorentina Delle Poesie, I - III, 1627, IV, 1628, alla quale si rifaranno le stampe settecentesche.

Solo poemetti sono, contenuti nel primo volume, in numero di diciotto: IlChirone,Le meteore,Delle stelle,Il presagio dei giorni,Il secolo d'oro,La caccia dell'Astore,Il vivaio di Boboli,L'ametisto,Gli strali d'amore,Il diaspro,Le nozze di Zefiro,Il tesoro,Il verno,Le grotte di Fassolo,Le perle,Per s. Carlo Borromeo,Per s. Margherita,Per s. Agnese. Ilsecondo volume consta di sei libri, rispettivamente con ventidue, ventitré, quattordici, sette, cinque, ventotto componimenti. Il terzo volume contiene trentadue sonetti, nove canzoni, otto odi e sei inni sacri. Il quarto volume infine altri undici poemetti: i sei presenti nel libro secondo della Parte terza dell'edizione del 1619, più il Battista, la Giuditta,La pietàdi Micol,Scio, il Rapimento di Proserpina.

Se l'editore è irrequieto, il poeta non si rassegna alla ultima definizione di un lavoro che è disponibile ai suoi ripensamenti almeno quanto lo era stato alle censure e ai consigli della committenza, non limitandosi a consegnare il frutto di questo lavorio alle successive stampe, ma spesso lasciandolo inedito e contribuendo così a infittire quella "selva dei manoscritti" chiabrereschi nella quale la filologia non è ancora riuscita a mettere ordine (G. Costa, Gli autografi del C. presso la Biblioteca Vaticana, in Studi secenteschi, VIII [1967], p. 44).

Sulla scia del Costa, che, oltre al codice Ferraioli 698, sul quale era stata fatta l'edizione Paolucci del 1718, ha esaminato gli altri codici della Vaticana contenenti scritti chiabrereschi (il Barb. lat. 6462, il Barb. lat. 4075, l'Urb. lat. 754, il Vat. lat. 7085), ha tenuto conto di tale lavorio l'edizione del Turchi.

Agli ultimi anni del poeta va assegnata la composizione dei Sermoni pubblicati postumi tranne il XVI, Al serenissimo granduca di Toscana Ferdinando II (Genova 1626), e destinati, fin dal loro apparire nell'edizione Paolucci del 1718, a complicare l'immagine del melico brillante e superficiale di uno spessore etico e riflessivo, quasi fosse un dono della estrema vecchiezza l'abbassamento del tono e la prospettiva dell'epilogo. Va invece ribadito che era già insito nella produzione anacreontea, come un topos più che come un dato psicologico personale, un elemento di scherzoso disincanto che si appoggiava su un repertorio gnomico e sul tratteggiamento di un tipo senile, traendone una sorta di giustificazione morale. Anche per questo motivo sembra condivisibile la precisazione fornita da S. Ferrari, Di alcune imitazioni e rifioriture delle "anacreontee" in Italia nel secolo XVI, nel Giorn. stor. d. lett. ital., XX (1892), p. 424, che, pur limitandosi a parlare genericamente di originalità, propone una diversa denominazione delle odicine in questione, "che sarebbe meglio chiamare chiabreresche, perché fatte nell'uso e nel gusto del Chiabrera".

Il poeta ormai trova insufficiente la definizione di sé che ha perseguito facendosi editore delle proprie cose; si dà alla teoria (se è vero che quelli che saranno poi chiamati i Dialoghi dell'arte poetica sono stati scritti in questi anni); scrive una autobiografia che si porrà come un modello di sublimazione intellettuale del vissuto, anche se poi i confronti che sono stati suggeriti, con Foscolo e con Leopardi, forniscono la misura della totale estroversione cui sembra condannata la cultura controriformistica del C. (cfr. F. Flora, Storia della letteratura italiana, III, Milano 1969, pp. 336 ss.). Il quale, sarà tuttavia bene non dimenticarlo, ha interpretato il condizionamento religioso, nella sua più vasta accezione, come l'apertura di uno spazio tutto mondano e godibile nel quale proprio il rifiuto delle grandi questioni e delle prese di posizione riesce a far sopravvivere senza lacerazioni un interesse tutto sommato ancora squisitamente laico e rinascimentale.

Ultraottantenne, il C. non smette i progetti editoriali (tra l'altro quello di raccogliere i suoi poemi epici, l'Amadeide, il Firenze e il Ruggiero), insistendo persino nel suo vezzo di affidare ad altri, e segnatamente al suo Pier Giuseppe Giustiniani, l'incarico, e la responsabilità, di pubblicare i componimenti più audaci e meno adatti alla sua canizie. Muore prima di avere ulteriormente complicato la vicenda delle sue opere, a Savona, il 14 ott. 1638, all'età di ottantasei anni, ed è sepolto nella cappella di famiglia, nella chiesa di S. Giacomo de' Riformati di S. Francesco.

La fortuna del C., massima presso gli Arcadi restauratori del buon gusto e della ragionevolezza classicistica, con la nota eccezione del Gravina, e tuttavia tenace fino ai giorni nostri, attraverso almeno Parini, Monti, Foscolo, Manzoni, Leopardi, Carducci, D'Annunzio, ma anche, al negativo, per il tramite dei De Sanctis, Croce, Mannucci, Calcaterra, si è lungamente appoggiata al rifiuto dell'altra più rumorosa e ingombrante faccia della cultura letteraria del Seicento, di quel marinismo cioè che, anche quando non è stato dipinto a fosche tinte, ha sempre costituito la cifra più caratteristica e datata del secolo.

Contro tale perdurante ipoteca arcadica, gli studi più recenti hanno invece cercato di ricomprendere le due linee, quella marinista e quella chiabreresca, in uno stesso svolgimento dialettico, mettendo debitamente in luce e conferendo finalmente importanza alle profonde analogie esistenti tra l'opera dell'uno e quella dell'altro poeta: "dal piacere della profusione di materie preziose all'intuizione dell'amore e della donna nella forma di un'elegante mondanità cortigiana e salottiera, al gusto della finzione pastorale, alla trasfigurazione fiabesca del paesaggio, alla sensualità molle e diffusa, alla inventiva libertà lessicale" (G. Getto, G. C. poeta barocco, in Barocco in prosa e in poesia, Milano 1969, p. 129). Perciò il C. risulta ben dentro il barocco, e sia pure di "un barocco che potremo indicare come 'alessandrino' e 'romano' oppure 'palladiano' e 'rococò', se vogliamo per il momento attingere alla nomenclatura di Eugenio D'Ors" (ibid.).

Comune è la ricerca del nuovo e la volontà di sbalordire, mentre semmai specifico del C. è il senso della misura che si oppone ai possibili eccessi: "Anche il C. vuole rinnovare, e anch'egli vuole destare sorpresa. Ma con in più la limitazione che il poeta debba rimanere, per raggiungere questo grado, nei limiti della ragionevolezza" (W. Th. Elwert, La poesia lirica italiana del Seicento, Firenze 1967, p. 103), in concreto puntando piuttosto "sul raffinamento e illeggiadrimento della forma, anziché sulla sua dilatazione e ipertrofia" (L. Felici, Introduzione, in Poesia italiana del Seicento, Milano 1978, p. XXVI).

Non del tutto chiara rimane però in questo modo la singolare rappresentatività della poesia chiabreresca, che non è solo un'altra maniera di rispondere alle sollecitazioni della cultura controriformistica, ma probabilmente ne costituisce l'espressione letteraria più omogenea e duratura. Se si vuole, anzi, la fortuna del C. è legata alla più generale riuscita e al radicamento, nonché probabilmente alla modernità, del modello imposto dalla Controriforma agli intellettuali e applicato nell'opera del C. con particolare tempestività e acutezza.

Al piccolo classicismo chiabreresco compete infatti quasi in esclusiva, con la continuità rispetto alla tradizione e con la presenza significativa nella poesia posteriore, l'invenzione di un tipo morale e intellettuale di poeta destinato a una lunga fortuna, a correzione delle suggestioni rinascimentali dello stesso segno. Un tipo di poeta, ma anche una svolta nella interpretazione dell'atteggiamento umanistico, che risulta dalla affermazione pacilica del regime delle due verità, cioè dal rilievo che assume la dimensione privata contro l'impraticabilità di quella pubblica: del "sollazzo" contro la serietà di qualsiasi impegno che trascenda la gestione delle proprie cose, come della ripetitività e genericità dello gnome e della mitologia contro il rischio delle verità personali, e della professionalità contro la coscienza. Doppiamente opportuna questa affermazione, perché non si limita a contrapporre le verità della fede agli altri ambiti esperienzali e conoscitivi, ma tutti li riassume nella subordinazione della letteratura, e della verità che le sarebbe propria, alla religione. "Amico / Io vivendo cercava il conforto per lo Monte Parnaso, / Tu, meglio consigliato, fa di cercarlo sul Monte Calvario", come il poeta volle fosse scritto sulla sua tomba (Vita, p. 522).

Ragionevolezza e illeggiadrimento sono dunque le scelte perfettamente coerenti e consapevoli di chi ha scoperto che l'ortodossia cattolica ormai gli consente, non proprio paradossalmente, qualsiasi licenza se solo egli sappia mantenersi lontano dalle dichiarazioni di principio e dalle prese di posizioni esplicite, e che anzi sarà proprio la sua accettazione dei limiti dello scherzo e della futilità mondana a scagionarlo da qualsiasi sospetto.

In questo senso, si può adattare al C. quanto di meglio la sensibilità moderna ha saputo riconoscere alla poesia marinista: "se nella ridda degli 'inganni', delle immagini ipertrofiche e bislacche, s'insinua il sospetto che anche la vita sia ingannevole spettacolo, allora la poesia riacquista virtù conoscitiva e risonanza profonda" (L. Felici, Introduzione, cit., p. XXII). Si può cioè attribuire "virtù e risonanza profonda", o almeno appunto una singolare rappresentatività, a una poesia che sceglie la marginalità dello scherzo bacchico e dell'esercitazione metrica o l'irrilevanza etica di una produzione encomiastica più o meno direttamente commissionata, e in questo modo significa non tanto la propria impotenza, quanto i limiti imposti da una professionalità che, prima ancora di essere consapevolezza della irriducibilità delle tecniche e arroccamento intorno a esse, è l'indicazione di uno iato insormontabile tra la vita e quella che dovrebbe essere la sua rappresentazione.

Colui che "due volte il giorno si raccomandava alla Pietà, né cessò di pensare al punto di sua vita" (Vita, p. 522), del Ronsard era dunque anche in questo degno erede, ché i suoi inni sono sempre intimamente mortuari, incapaci di vivere lo stesso abbandono sensuale senza percepirne la fuggevolezza e, quel che è più grave, l'irrimediabile vicarietà.

Si spiega così la preferenza accordata dai più o alla presunta rivelazione dei Sermoni o alla lezione metrica e stilistica delle Maniere de' versi toscani edelle Vendemmie del Parnaso, meglio aderenti alla genuina ispirazione dell'autore di tanti variamente insopportabili poemi, poemetti, tragedie, sonetti, melodrammi e canzoni sacre, o perché ne smentiscono o perché ne esasperano l'assoluta superficialità. Con l'avvertenza però di non illudersi quanto alla natura degli scherzi e di non pretendere di riscattarli proprio per quello che essi non hanno, cioè grazia, freschezza, sincerità. Invece la stessa simbiosi di questi componimenti con la musica del tempo potrebbe utilmente suggerire che non solo "Tra il vero e lui s'interpongono, come uno schema fantastico, le mille rappresentazioni naturalistiche o pseudonaturalistiche dei maestri pittori" (F. L. Mannucci, cit., p. 41), ma che anche il più libero canto prenda avvio da un precedente impulso musicale e con l'arte dei musici intenda misurarsi, anziché con la propria esperienza e sensibilità (M. Turchi, Introduzione, in Opere, p. 16: "il reale come lo percepiva il C. delle Canzonette era il reale della musica e della miniatura").

Risale a C. Trabalza, La critica letteraria(Dai primordi dell'umanesimo all'età nostra), Milano 1915, p. 282, la persuasione che il C. "rimanesse insigne su tutti anche in questa particolarità, nell'aver cioè della poesia una visione quasi solamente metrica: che mi vuol sembrare un carattere di secentismo nella sua tendenza sensualistica". Più volte ripresa, tale opinione ha potuto oscillare tra gli estremi della impressionistica segnalazione della musicalità e il rilievo (F. Neri, Mannucci, Asor Rosa) della scarsa originalità e delle manchevolezze della teoria corrispondente (contenuta nei Dialoghi), che solo in parte per giunta terrebbe conto delle effettive peculiarità di quella ricerca metrica.

Che però sia pesante l'indebitamento delle teorie del C. nei confronti del Trissino e quello della sua poesia nei confronti dei vari Minturno e Alamanni, oltre che soprattutto nei confronti di Ronsard e della Pléiade, non deve impedire di cogliere il senso diverso e l'originalità della operazione del Chiabrera. Il quale di suo pare che metta una nuova interpretazione del rapporto con i classici (chiamati a fornire una autorizzazione anche contro la loro volontà) e, analogamente, un fondamento per le innovazioni metriche più spinte, ottenuto con il semplice artificio di trasformare il rapporto autoritario tra una regola preesistente e una realizzazione più o meno libera e difettosa, nella ricostruzione, se non nel restauro filologico, di una legge superiore, che non ripeta le persuasioni diffuse e il pregiudizio, ma risulti induttivamente dalla pratica reale dei classici.

Nei cinque Dialoghi dell'arte poetica (Il Vecchietti,L'Orzalesi,Il Geri,Il Bamberini,Il Forzano), si afferma l'immagine di un ragionatore sottile e conseguente, che non mira se non alla giustificazione delle proprie scelte poetiche e a tale risultato perviene rivalutando pragmaticamente le esperienze reali contro le superstizioni di una normativa conservatrice ("non questionando io se è bene il farsi, ma se fecesi": L'Orzalesi, in Opere, p. 555)e alternando socraticamente maieutica e ironia, tra la dimostrazione virtuosistica della continuità nel mutamento e la definizione di un ambito libero da ipoteche religiose o ideologiche: "Già non conviene farvi disputa, come si dovrebbe fare della vita d'un uomo: ché avvegnaché questi componimenti si sentenziassero a morte, non morirebbe salvo un poco di carta ed un poco d'inchiostro" (ibid., p. 565).

Nel Geri la ripresa dell'argomentazione del Fabri, nell'avvertenza "A chi legge" delle Maniere, chiarisce che lo scopo del poeta non è stato quello di ritentare i metri classici, dei quali anzi percepisce nettamente l'inapplicabilità alla poesia italiana, ma solo quello di garantirsi la praticabilità di tutte le misure attestate, "dalle quattro sillabe fino alle dodici" (ibid., p. 571), arrivando a giustificare quei versi "che non hanno tanto suono, che si facciano sentire per versi, ma paiano una prosa" (ibid., p. 575), perché, anche se "tengano assai della prosa, mentre sono uditi, e ciascuno per sé, quando poi se ne ascolta una quantità, si fanno scorgere altro che prosa; e questo appare via maggiormente quando essi si cantano, e cantarsi è quasi loro qualità naturale; perché chi recita versi, o tanto o quanto non dà loro un'aria onde si discompagnano dal comune parlare?" (ibid.).

Analogamente la critica della rima contenuta nel Vecchietti e nell'Orzalesi e la difesa degli "ardimenti" poetici del Bamberini, non ad altro conducono se non alla riconsiderazione di un linguaggio poetico che abbia esasperato la propria specificità e che contro tutte le apparenze in questo modo rilanci la propria dignità e importanza, seppure poi la significativa battuta del Bamberini sia come annacquata dall'atteggiamento naturalista: "Avete mai sentito dire che nelle parole i grandi fanno sentire col suono delle lettere il concetto che essi trattano?" (ibid., p. 596). I concetti trattati dal C. sono infatti mitologici anche in questo senso, che superano ogni illusione rappresentativa ed espressiva - il mito non pretende di trasfigurare la realtà - e definiscono piuttosto un regime retorico sostenuto al di là di tutti gli abbassamenti di voce, quasi sostituendo alla partecipazione sentimentale comunque definita, una specie di pathos metrico, che troverà poi il suo continuatore più conseguente in Gabriele D'Annunzio.

Ricordiamo le opere postume e principali ediz.: Rime di G. Chiabrera. In questa nuova edizione unite,accresciute e corrette, a c. di G. Paolucci, Roma 1718; Opere, Venezia 1730-1731; Opere in questa ultima impressione tutte in un corpo novellamente unite, Venezia 1757; Lettere di G. Chiabrera nobile savonese, Bologna 1762; Alcune poesie di G. Chiabrera non mai prima d'ora pubblicate, Genova 1794; Rime, Milano 1807-1808; Poesie scelte, con un discorso del p. F. Soave, Milano 1826; Alcune prose di G. Chiabrera, Genova s. d.; Lettere di G. Chiabrera a Pier Giuseppe Giustiniani ed altri, Genova 1829; Dialoghi dell'arte poetica. Prose. Lettere, a c. di B. Gamba, Venezia 1830; Sermoni alla loro integrità primariamente ridotti sopra l'autografo [sitratta di un'apografo], aggiunte le osservazioni di Clementino Vannetti, Genova 1830; Lettere inedite di G. Chiabrera a Bernardo Castello, Genova 1838; Poesie liriche,sermoni e poemetti, a c. di F. L. Polidori, Firenze 1865; Rime e lettere inedite, a c. di O. Varaldo, in Atti e mem. della Soc. stor. savonese, I (1888), pp. 285 ss.; Lettere inedite di G. Chiabrera, a c. di A. Neri, in Giornale ligustico, XVI (1889), pp. 321 ss.;A. Neri, Manoscritti autografi di G. C., in Giornale storico della lett. ital., XIII (1889), pp. 321 ss.; Lettere e poesie inedite e rare di G. Chiabrera, a c. di O. Varaldo, in Atti e mem. della Soc. stor. savonese, II (1889-1890), pp. 421 ss.;A. Solerti, Gli albori del melodramma, Milano-Palermo-Napoli s. d., III, pp. 1 ss.; Autobiogr., dialoghi,lett. scelte, a c. di G. Agnino, Lanciano 1912; Liriche, a c. di F. L. Mannucci, Torino 1926; C. Calcaterra, I lirici del Seicento e dell'Arcadia, Milano-Roma 1936, pp. 253 ss.; Canzonette,Rime varie,Dialoghi, a cura di L. Negri, Torino 1952; Poesia del Seicento, a cura di C. Muscetta-P. P. Ferrante, Torino 1964, I, pp. 687 ss.; F. Vazzoler, Lettere ined. di G. Chiabrera, in La Rassegna d. lett. ital., LXXIII (1969), pp. 27-36.

Bibl.: S. Maffei, Opuscoli letterari, Venezia 1829, p. 23; L. A. Muratori, Della perfetta poesia ital., IV, Milano 1821, p. 116; G. V. Gravina, Scritti critici e teorici, Roma-Bari 1973, p. 500; G. M. Crescimbeni, Dell'istoria della volgar poesia, VI, Venezia 1730, p. 178; G. Parini, Opere, Milano 1967, p. 795; U. Foscolo, Opere (ediz. naz.), VII, p. 327; VIII, p. 139; G. Leopardi, Tutte le opere, II, Firenze 1969, pp. 17 s.; F. De Sanctis, Storia d. letter. ital., II, Bari 1912, pp. 195 s.; G. Carducci, Opere (ediz. naz.), XV, pp. 44 s.; A. Neri, G. C. e la corte di Mantova, in Giorn. stor. d. lett. ital., VII (1886), pp. 317 ss.; O. Varaldo, Bibliogr. d. opere a stampa di G. C., Genova 1886; Id., Bibliogr. chiabreresca, suppl. del Giorn. ligustico di arch., storia e lett., XIV (1887), pp. 407 ss.; Id., Bibliogr. delle opere a stampa di G. C., in Atti e mem. della Soc. stor. savonese, II (1889-1890), pp. 427 ss.; G. Imbert, Il Bacco in Toscana di Francesco Redi e la poesia ditirambica, Città di Castello 1890, pp. 4 ss.; G. Bertolotto, Liguri ellenisti, I, G. C. ellenista?, Genova 1891; G. Rua, L'epopea savoina alla corte di Carlo Emanuele I, in Giorn. stor. d. lett. ital., XXII (1893), pp. 120 ss.; A. G. Barrili, G. C. L'uomo e il poeta, in Nuova Antologia, 16 sett. 1897, pp. 320 ss.; Id., L'arte e gl'intenti, ibid., pp. 409 ss.; A. Belloni, Il Seicento, Milano 1899, ad Indicem; P. Gobbi, Intorno ai "Sermoni" di G. C., Iesi 1907; O. Varaldo, G. C. alla corte dei Medici, Genova 1907; F. Neri, Il C. e la Pléiade francese, Torino 1920; G. M. Monti, Le villanelle alla napoletana e l'antica lirica dialettale a Napoli, Città di Castello 1925, pp. 206 ss.; G. Maugain, Ronsard en Italie, Paris 1926, pp. 112 ss.; B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari 1929, pp. 271 ss.; D. Petrini, Note sul Barocco, Rieti 1929, pp. 27 ss., 67; A.Belloni, G. C., Torino 1931; L. Huetter, Come vide Roma il C., in Roma, XII(1934), pp. 553 ss.; F. Noberasco, Un'ediz. mancata delle opere complete di G. C., in Atti d. Deput. di st. patria per la Liguria,sezione di Savona, XX (1938), pp. 207 ss. (ma tutto il vol. è dedicato al C.); L. Negri, G. C., Savona 1938; A. Viviani, G. C., Roma 1939; E. Capitani, Musica nella poesia ital.:G. C., in Letteratura, IX (1947), pp. 119 ss.; W. Th. Elvert, Zur Charakteristik der italien. Barocklyrik, in Romanistisches Jahrbuch, III (1950), pp. 421 ss.; C. Calcaterra, Poesia e canto, Bologna 1951, pp. 37 ss., 205 ss.; M. Saccenti, Lucrezio in Toscana, Firenze 1966, pp. 239 ss.; C. Varese, La poesia, in Storia della letter. ital., a cura di E. Cecchi-N. Sapegno, V, Milano 1967, pp. 814-22; G. Costa, La leggenda dei secoli d'oro nella lett. ital., Bari 1972, ad Ind.;M. Turchi, G. C. e la lirica del classicismo barocco, in Studi in memoria di L. Russo, Pisa 1974, pp. 50 ss.; A. Asor Rosa, Il Seicento, in La letteratura ital. Storia e testi, a cura di C. Muscetta, V. Roma-Bari 1974, ad Ind.; H. Friedrich, Epoche della lirica ital., III, Milano 1976, ad Indicem.

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