FUOCO

Enciclopedia Italiana (1932)

FUOCO (dal lat. focus; fr. feu; sp. fuego; ted. Feuer; ingl. fire)

Raffaele CORSO
Adamaria MARENZI
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Etnologia. - Come e quando l'uomo abbia appreso la maniera di utilizzare il fuoco delle sorgenti ignee naturali, e meglio ancora, l'arte di produrlo a volontà, non è facile stabilire. Stando alle nuove congetture dell'etnologia, la magnifica scoperta, che costituisce uno dei più grandiosi avvenimenti della storia della civiltà, non sarebbe da attribuire tanto al cieco caso o alle pratiche magico-religiose, quanto ai processi di lavorazione del legno e della pietra, quali il recidere, il segare, il traforare, lo scheggiare e simili. Da tali operazioni l'uomo avrebbe avuto l'idea dello sprigionarsi delle scintille, onde poi quelle applicazioni che avrebbero dato luogo ai due sistemi fondamentali che costituiscono l'arte di produrre il fuoco, e cioè il sistema per strofinio e il sistema per percussione. Quest'ultimo, che consiste nel far cozzare due pietre di differente durezza, di cui una rappresentata da un minerale di ferro (piromaca, pirite), prima dell'impiego del ferro o dell'acciaio, è praticato oggi da pochi gruppi di primitivi (Eschimesi, Aleuti, Fuegini), ma dovette essere prevalente in Europa nelle epoche remote, a giudicare dagli utensili (percussori) e dai focolai, che si rinvengono nei giacimenti, a cominciare, per lo meno, dal Paleolitico medio.

Insieme con questo sistema, i lontanissimi progenitori avrebbero avuto l'altro dello strofinio di due bacchette di legno, come attestano le assicelle dai fori a orli combusti rinvenute in alcune palafitte della Svizzera e le varie tradizioni che lo ricordano, come sopravvivenza, presso gli Arî Vedici (mito di Agni); presso i Greci, che usavano una bacchetta d'elce e un'altra di alloro; presso i Romani, che lo adoperavano per riaccendere il fuoco sacro nel tempio di Vesta; nonché presso il volgo di alcune nazioni contemporanee (Russia, Svezia, Polonia, Inghilterra), che vi ricorre a scopo magico, per allontanare le epidemie dalle famiglie e dal bestiame. Comunque, la frizione è generalmente nota alle attuali culture inferiori, che la praticano in varie maniere, di cui tre sono caratteristiche, e cioè: lo strofinio a scanalatura, a sega, a frullino. Il meccanismo consiste nel far scorrere un legno morbido sopra un legno duro; ma, mentre nel primo caso il legno morbido si fa scivolare obliquamente sul legno duro fino a solcarlo e a produrre l'accensione delle particelle polverizzate, nel secondo si passa e si ripassa come una sega (sega del fuoco) fino a provocare l'incandescenza della segatura che si forma; e nel terzo (Negri, Indiani delle Americhe, India meridionale, Aino, Australiani, Polinesiani) si frulla in un apposito foro della bacchetta sottostante. Presso alcune tribù dell'Australia le due bacchette sono sostituite da un bumerang, che fa da bastone o legno maschio, e da uno scudo, che fa da legno femmina; come presso alcuni Eschimesi il trapano accenditore è munito d'una cordicella che sostituisce, nel frullare, l'opera delle mani, se pure a tale scopo non venga adoperato un arco con la sua corda. Il vescovo Bartolomeo Las Casas, contemporaneo di Colombo, descrive un'accensione mediante il sistema del trapano, presso alcuni popoli delle Indie occidentali, così dicendo: "soltanto da questo albero (guácima) gl'Indiani traevano il fuoco. Dal legno di questo albero essi ricavavano due bastoni assolutamente secchi, l'uno dei quali dello spessore di due dita, e in questo mediante le unghie e mediante una pietra praticavano un piccolo segno. Quindi fissavano questo bastone, mettendovi sopra i due piedi. L'altro bastoncino era più sottile, aveva lo spessore circa di un dito. Dopo aver posto l'estremità smussata di quest'ultimo sopra il detto segno, lo facevano frullare tra le mani con grande forza a mo' di succhiello. Con tale manovra, dal bastone inferiore usciva fuori una segatura finissima pari alla farina di grano, man mano che il frullo vi si sprofondava. Quanto più profondo si faceva il foro, tanto più veniva aumentando la quantità di polvere di legno e tanto più la manovra diveniva rapida ed energica. Finalmente la segatura che usciva dal bastone inferiore pigliava fuoco, nello stesso modo che si accende l'esca quando, secondo l'uso spagnolo, si percuote l'acciarino sulla pietra focaia".

Un sistema poco praticato, e quasi circoscritto ad alcune tribù di Borneo, è quello della pompa a fuoco, nella quale s'utilizza, per l'accensione, l'aria compressa, che è più facilmente infiammabile.

I procedimenti finora descritti richiedono spesso un enorme sforzo muscolare, onde talvolta, come si narra dei Botocudo, più individui cooperano alternativamente; senza dire che la riuscita dell'operazione dipende dallo stato dell'atmosfera, che è favorevole quando è secca e calda, contraria, quando è umida. Di qui la necessità che alcune popolazioni hanno di conservare o mantenere sempre acceso il fuoco, sia allo stato latente in speciali apparati, sia allo stato vivo alimentandone la fiamma.

Nelle quotidiane escursioni e peregrinazioni non sono pochi i selvaggi che portano, fra le vettovaglie, un po' di fuoco, per ravvivarlo all'occorrenza. Presso gli estinti Tasmaniani, di tale bisogna erano incaricate le donne, che seguivano i cacciatori, portando dei tizzi accesi; presso alcuni Australiani i tizzoni sono sostituiti da pigne di banksia, che bruciano lentamente; e presso alcuni Indiani dell'America Settentrionale la brace è collocata entro uno speciale fungo. I Fuegini ebbero tale nome dall'uso di portare nelle barche un po' di fuoco per i loro bisogni. È tale la fatica che alcune genti compiono per produrre il fuoco con i loro rozzi strumenti, che talora preferiscono fare un viaggio per chiedere un tizzo acceso alle tribù vicine. Così fra i Papuani della Nuova Guinea.

Con il volgere dei tempi queste costumanze suscitarono l'idea che l'estinzione del fuoco nella capanna o nel recinto del villaggio rappresenti una calamità, onde una serie di superstizioni, di cui esistono tracce anche nel popolino dei paesi europei (v. sotto: folklore). Gl'indigeni dell'Australia puniscono severamente, come i Romani antichi facevano per le Vestali, le donne che, preposte alla cura del fuoco, lo lasciano spegnere.

Svariate sono le leggende che spiegano nel mondo dei primitivi l'origine del prezioso elemento, che, secondo il mito greco, Prometeo avrebbe portato agli uomini entro il midollo di una ferula. Molte di esse hanno un rilevante valore etnografico in quanto rappresentano la condizione dell'uomo che, in un primo tempo, sarebbe vissuto privo del fuoco; in un secondo tempo l'avrebbe conosciuto in parte, e poi avrebbe cominciato a mettere a profitto le sue risorse per ravvivare la fiamma o per riprodurla.

Queste considerazioni recentemente fatte dal Frazer, attraverso lo studio comparato dei miti delle popolazioni incivili dell'Australia, della Nuova Guinea, della Melanesia, della Polinesia, dell'Indonesia, dell'Africa, dell'America, ecc., fanno pensare che non sia destituita di fondamento la vecchia opinione secondo cui l'umanità, nei primordî, sarebbe vissuta senza l'uso del fuoco. A tale stato morale forse risalgono tante strane credenze, e principalmente quelle che fanno del fuoco un animale divoratore del legno, alla maniera come lo concepivano gl'insulari delle Mariane quando furono visitati dal Pigafetta (1521). Né tale concezione scompare quando lo stato generale delle idee e dei costumi progredisce, giacché anche in epoche più evolute riscontriamo la rappresentazione del fuoco come un essere o un ente meritevole di ogni riguardo, di ricevere custodia e alimenti entro le mura domestiche, in uno speciale luogo, che spesso è il centro o il sacrario della casa: il focolare. Attorno a questo si formano, a poco a poco, tante credenze e cerimonie di carattere ora animistico e ora magico, che comunemente comprediamo sotto un titolo: il culto del fuoco.

Il focolare. - L'uomo primitivo improvvisa il suo focolare accendendo pochi legni sul terreno nella località dove vuol mangiare o scaldarsi: a mano a mano però che si presentano condizioni di maggior stabilità di dimora è assegnato a esso un posto più o meno definito nell'interno o all'esterno dell'abitazione (v. anche cucina). Nelle capanne di paglia o di legno e in genere in tutte quelle fatte di materiale infiammabile il focolare è nel centro, nelle altre è di frequente laterale e addossato a una parete. Talvolta il focolare per cuocere è in una capanna secondaria: nel Sudan centrale esso è nella capanna delle donne; fra gli Ashlushlay del Chaco i focolari del villaggio sono riuniti insieme in una costruzione irregolare che serve da luogo di riunione per gli uomini e da casa per gli ospiti.

Il sistema di cottura più primitivo non è indubbiamente quello di mettere il cibo sopra al fuoco, bensì a contatto delle ceneri calde o di un mezzo scaldato. Assai di frequente per tenere riuniti fuoco, ceneri e alimenti è scavata una fossa più o meno profonda: da questo il nome di cottura in forni a terra. Questo sistema di cottura mostra una diffusione estesissima. Lo troviamo nella maggior parte dell'Australia, in tutta l'Oceania, nell'America Settentrionale fra gl'Indiani del NO., fra i Pueblo, nella California, nell'America Meridionale fra i Gēs, i Tupi, i Lengua, gli Arawak e nella Guiana; in tutta l'Africa equatoriale e meridionale, nelle Canarie e nel Madagascar, nell'Asia fra i Curdi e gli Arabi e a Sumatra; in Europa nella Sardegna e nella Morea.

Nella Sardegna, Canarie, Guiana, fra Lacandoni e Tupi la carne da cuocere è messa nella fossa: sopra viene gettata un po' di terra e sopra ancora è acceso il fuoco. Altrove (Cafri, Gēs) si usa invece scaldare prima anche la fossa, talvolta asportando talvolta lasciandovi le ceneri calde. Alcune popolazioni (Pigmei, Australiani del Victoria, Pueblo) cuociono nella fossa con le sole ceneri. Ma il tipico forno a terra è quello cosiddetto polinesiano (umu), trovato per la prima volta da Cook nelle isole del Pacifico: la carne viene messa nella fossa insieme con pietre scaldate e con terra, senza alcun fuoco sopra. È diffuso in tutta l'Oceania, nell'Australia orientale, fra gl'Indiani del NO. e fra i Gēs. Talvolta l'animale da cuocere è riempito di pietre calde e messo fra le ceneri (Melanesia sud-orientale, Patagoni), oppure il cibo, prima di esser messo fra la brace, è avvolto in foglie (Pigmei, Arabia meridionale, Melanesia sud-orientale). Caratteristica, specialmente nell'Australia sud-orientale, la presenza di forni permanenti che utilizzati a diverse riprese diventano grandi cumuli.

I Pueblo portarono l'arte di cuocere in forni a terra molto più avanti degli altri Indiani: essi avevano grandi forni consistenti in cavità a forma di bottiglia provviste di un canale per l'aria, e anche, come i Messicani del NO., forni a cupola di pietre e argilla.

Dalla diffusione del forno a terra risulterebbe la sua connessione con le culture primitive e anche con la cultura dei primi agricoltori (ciclo delle due classi), cioè con le forme culturali prive ancora della ceramica.

La cottura sul fuoco senza che l'alimento venga a contatto delle ceneri o delle legna, anche se il focolare è costituito semplicemente da pochi legni riuniti, è già un procedimento più progredito implicando assai di frequente l'uso di accessorî. È inutile dire che il focolare aperto, nelle sue forme diverse, è universalmente diffuso. Talvolta esso è circondato da un muricciolo di argilla (Kwakiutl, Bantu) o da pietre disposte in quadrato (Pigmei) oppure è leggermente incavato (Haida, Ottentotti) e ha le pareti spalmate di argilla (Sioux, Limu dell'isola di Hai-nan). Dal focolare formato da un ripiano di pietre è derivata la forma di focolare ancora in uso nelle nostre campagne. Per sostenere i recipienti vi sono talvolta dei rialzi di argilla sporgenti dalla parete stessa (Baila), oppure pietre o sostegni mobili d'argilla di forme varie (Sudan, Bolivia nord-orientale). Proprio di culture basse è l'uso dello spiedo di legno (Ottentotti, Patagoni, Vedda), talvolta biforcato (Brasile, Argentina). Un elemento più recente e più complesso dello spiedo è il babracot, specie di graticcio rialzato su 3 o 4 pali o a forma di piramide sul quale vengono messi ad arrostire i cibi. Si trova soltanto nell'America Meridionale fra la maggior parte delle tribù del Brasile, Guiana, Venezuela e Colombia. Naturalmente le popolazioni in possesso della ceramica cuociono generalmente sul focolare aperto nei recipienti.

Alcune tribù della California hanno una specie di focolare portatile costituito di un cesto spalmato interiormente di argilla, nel quale il cibo è cotto con pietre scaldate: alcuni Hopi cuociono con lo stesso sistema in vasi d'argilla. Gli Yáhgan della Terra del Fuoco, come pure gli Oranglaut di Borneo, usano costruire nella barca per le loro lunghe navigazioni piccoli focolari d'argilla. Le forme di focolare più progredite si riscontrano fra le popolazioni artiche, per le quali, dato il clima, è necessario il massimo sfruttamento del calore. Si hanno così i focolai di argilla a forma di cassetta degli Ostiachi e Samoiedi, e la lampada di steatite degli Eschimesi con lucignolo di muschio imbevuto di grasso, ottima fonte di luce e di calore accesa quasi di continuo nell'abitazione.

Folklore. - Svariate sono le tradizioni popolari riguardanti il fuoco che, secondo una leggenda (riflesso del mito di Prometeo?), Sant'Antonio avrebbe rapito dall'inferno. Per esse continuano nel popolino credenze, cerimonie, pratiche dei più lontani tempi e di varia origine. In alcuni villaggi le massaie hanno cura di conservare, tranne nei casi di lutto quando ne è vietata l'accensione, il fuoco allo stato latente, sul focolare; e quando lo spengono, vi fanno il segno della croce e lo benedicono. Così viene benedetto, e si lascia poi estinguere lentamente durante la notte, il ceppo (v.) acceso dal capo di famiglia nel Natale, nel Capodanno o nell'Epifania. Della fiamma, si osservano forma e colore, il guizzare, il divergere, il crepitio; inoltre la quantità delle scintille che si sprigionano dalle legna, il sibilo che producono, il fumo e, perfino, le ceneri. Un po' di fuoco non si nega a chi lo cerca; si evita però di darlo dopo l'avemaria o di darlo sulla paletta, anziché in un coccio. Il pastore della Sardegna raccomanda a chi prende un tizzo dal focolare del suo ovile, di non provocare del fumo, altrimenti le pecore pregne del suo ovile abortirebbero.

Non meno interessanti delle casalinghe, sono le costumanze e le superstizioni campestri, pur esse sopravvivenze di antichissimi riti, intesi, a quanto pare, in origine ad assicurare al gruppo la quantità indispensabile di calore e di luce. In tutta l'Europa il popolo suole accendere nelle vie, nelle piazze e sui colli i falò in determinate ricorrenze dell'anno (Natale, Capodanno, Epifania, S. Antonio Abate, la Candelora, Pasqua, Calendimarzo, S. Giuseppe, Calendimaggio, S. Giovanni, S. Pietro, Ognissanti, S. Nicola, ecc.), danzando intorno o saltando sopra, e, talvolta, gettando nelle fiamme fantocci e simboli di uomini e di animali.

Con gli epiteti di "Fuoco selvatico" o "della necessità" tra i popoli nordici, e di "fuoco vivente" tra gli Slavi, s'indica quello che si accende, come rimedio in caso di epidemia del bestiame, strofinando due bacchette di legno (v. paragrafo Etnologia).

Fuoco di Sant'Elmo. - Con questo nome s'indicano quelle meteore che, in forma di fiammelle o di piccole lingue di fuoco, si manifestano in cima agli alberi dei bastimenti o ai pinnacoli dei campanili, al passar delle nubi temporalesche, e che il volgo (per la spiegazione scientifica del fenomeno, v. fuochi di sant'elmo) spiega come l'apparizione di anime girovaghe e, soprattutto, di anime beate in aiuto dei naviganti (cfr. Ariosto, Orl. Fur., L, 191). Il fenomeno è designato anche sotto il nome di altri santi: in varî luoghi, da quello al quale è dedicata la chiesa, sul cui campanile si verifica di solito. Gli antichi lo attribuivano ai Dioscuri o alla loro sorella Elena (cfr. Hor., I, 3; I, 12). Linguisticamente, il nome Sant'Elmo (o Sant'Ermo) non è però corruzione di "Elena", ma di Erasmo (gr. "Ερασμος, il cui accento si conserva nelle forme popolari italiane meridionali: Santeramo, in prov. di Bari, ecc.).

I fuochi sacri. - Elemento insieme distruttore e benefico, il fuoco è oggetto a un tempo di timore e di venerazione; l'accenderlo diventa una cerimonia sacra e si ha grande cura di custodirne la purità. Di qui, i numerosi tabu che, presso popolazioni diversissime, tendono a custodire la purità del fuoco, che molti popoli, specie dell'antichità, tengono continuamente acceso, affidandone la custodia a vergini, la cui castità è un obbligo rituale gelosamente osservato e vigilato. Basterà ricordare, a tale proposito, le Vestali romane; ma lo stesso costume si ritrova presso popolazioni diversissime, p. es. fra gli abitanti dell'America Centrale pre-colombiana. Il fuoco nuovamente acceso ha invece un carattere particolare, esprime spesso l'inizio di una vita nuova; mentre in molti casi è prescritto l'uso di fuoco tolto dal focolare domestico o addirittura da quello del villaggio o della patria. Ché il fuoco - e specie la sua accensione - implica un rapporto di comunione sacra. E spesso il fuoco che s'adopera per usi rituali deve essere acceso nella maniera tradizionale. Al carattere sacro del fuoco si riconnette anche l'uso di esso nelle cerimonie d'iniziazione, al suo potere distruttore la capacità purificatrice che gli è attribuita presso varî popoli e di cui si può ritenere un'applicazione particolare l'ordalia che consiste nel camminare attraverso il fuoco acceso. Da questa credenza alla speculazione filosofica che fa del fuoco un elemento del mondo, il più sacro e prossimo all'immaterialità, è breve il passo. Ma, prima ancora di giungere a questo, il fuoco è usato nei sacrifizî, a fine di volatizzare le offerte per farle pervenire alle divinità, e spesso nelle cerimonie funebri dei popoli presso cui vige l'uso d'incenerire i cadaveri.

Il carattere sacro del fuoco trova un'espressione più concreta nella venerazione di vere e proprie divinità del fuoco o del focolare, quali Estia in Grecia e Vesta in Roma. Ma in nessun luogo il carattere sacro del fuoco è stato sottolineato con tanto vigore come presso gli antichi Arî, particolarmente in India; come nessun dio del fuoco ha maggior concretezza ed è oggetto di più viva venerazione di Agni Brahmanchino. Questa venerazione, era nota anche ai Persiani, sia prima sia dopo la riforma di Zarathustra, tanto da essere considerati per eccellenza gli "adoratori del fuoco" (v. parsismo). Presso di essi anzi, il timore di contaminare il fuoco (da essi chiamato Ātor) con i cadaveri è giunto a tal segno, da far vietare assolutamente l'incinerazione.

Bibl.: Etnografia: E. B. Tylor, Researches into the early history of mankind, Londra 1870; W. Hough, The methods of fire-making, in Rep. U. S. A. Nat. Mus., 1891; id., Fire, an agent in human culture, Washington 1926; M. H. Morgan, De ignis eliciendi, modis apud antiquos, in Harvard studies in Classical Philology, I, 1896, pp. 13.34; A. Kuhn, Die Herabkunft des Feuers und des Göttertranks, Gütersloh 1886; K. Weule, Leitfaden der Völkerkunde, Lipsia-Vienna 1912; A. E. Crawley, Fire, fire-gods, in Encyclopaedia of religion and ethics, VI, Edimburgo 1913; H. Balfour, Frictional fire-making with a flexible sawingthong, in Journal of the Royal Anthropological Institute, XLIV, 1914; J. Loewenthal e B. Mattlatzki, Die europäischen Feuerbohrer, in Zeitschr. f. Ethnologie, XLVIII, 1916, pp. 349-369; J. Loewenthal, Über einige altertümliche Feuerbohrer aus Schweden, in Zeitschr. f. Ethnologie, L. (1918), pp. 198-203. - Per il focolare v.: E. Nordenskiöld, Comparative ethnographical Studies, I, III, Göteborg 1919-1930; F. Graebner, Der Erdofen in der Südsee, in Anthropos, VIII (1913) p. 801; M. Haberlandt, Die Verbreitung des Erdofens, in Petermanns Mitteilungen, LIX, Gotha 1913, pp. 4 e 135; G. Friederici, Der Erdofen, in Petermanns Mitteilungen, LX, Gotha 1914, p. 5.

Folklore: J. G. Frazer, The Golden Bough, 3ª ed., VII: Balder the beautiful, Londra 1914, voll. 2; id., Myths of the origin of fire, Londra 1931; per le tradizioni popolari tedesche, v. Freudenthal, Das Feuer im deutschen Glauben und Brauch, Berlino-Lipsia 1931; per quelle italiane, v. G. Ferraro, Il fuoco, in Arch. trad. popol., XII, 1893, pp. 323-347. - Per i fuochi di S. Elmo v.: J. Rendel Harris, The Dioscuri in the Christian Legends, Londra 1903; M. Albert, Le culte de Castor et de Pollux en Italie, Parigi 1884; G. Pansa, La leggenda di translazione di S. Tomaso Apostolo a Ortona a mare e la tradiz. del culto cabirico, in Mélanges d'archéologie et d'histoire, XXXVIIII, 1920; B. Migliorini, Dal nome proprio al nome comune, Ginevra 1927, p. 130.

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