Frontiere dellʼarte

Il Libro dell'Anno 2008

Marco Bussagli

Frontiere dell’arte

«Un giorno gli artisti lavoreranno con i condensatori, le resistenze, i semiconduttori come oggi lavorano con i pennelli, i violini e i materiali vari» (Nam June Paik)

Una frontiera in perenne spostamento

di

23 maggio

Si inaugura a Faenza Futuro presente/present continuous, primo festival dedicato al sistema dell’arte contemporanea internazionale e ai suoi protagonisti. In tre giorni di incontri e dibattiti, si propone come spazio aperto ai punti di vista più diversi, in grado di dare conto di tutta la diversità e la ricchezza geografica, culturale, disciplinare dell’arte di oggi.

Un fenomeno antico

Che il concetto di ‘frontiera’ dell’arte (ovvero il limite verso il quale la creatività umana si sposta, spingendo la propria modalità espressiva al di là di forme convenzionali) si debba attribuire soltanto al Novecento e al secolo appena iniziato è un’idea che non può essere condivisa. Bisogna invece convenire che la grande arte, quella che si scrive con la ‘a’ maiuscola, è sempre stata di frontiera. Persino gli uomini che dipingevano sulle fredde pareti rocciose di Les Trois Frères o su quelle ben più note di Altamira o Lascaux facevano ‘arte di frontiera’, se per tale s’intende una capacità espressiva che sfrutta fino al limite del possibile i mezzi tecnici a disposizione: non si può non percepire infatti tutta la carica innovativa delle pitture rupestri, da definire ‘primitive’ solo in quanto iniziali, non certo nel senso di rudimentali. Allo stesso modo, la costruzione delle piramidi o la realizzazione della Sfinge comunicano ancora oggi tutto lo sforzo di un’etnia e di una civiltà che sfidarono il tempo, il mondo e le leggi della fisica per la precisa volontà di affermare sé stesse con un atto che potremmo definire di prepotenza visiva.

Il fatto è che tutta l’arte è di frontiera, perché, se è davvero tale, si pone sempre al limite della possibilità d’espressione. La riflessione non vale soltanto per opere gigantesche come quelle dell’antico Egitto appena ricordate, ma anche per alcune scelte sottili e per impostazioni generali del cammino espressivo di determinate epoche: è il caso, per quanto possa sembrare paradossale, dell’intero tardo-antico, che si contrappose all’aulico linguaggio della classicità, quando lo scricchiolio sinistro della compagine politica dell’impero romano favorì il liberarsi delle pulsioni espressive meno canoniche, ovvero non più legate al rispetto dei parametri dell’estetica greco-romana. Per formulare una definizione e quindi individuare le ‘frontiere’ dell’arte è sempre necessario tenere conto di un ‘prima’ e di un ‘dopo’: solo così si può comprendere il percorso seguito dalla modalità espressiva e constatare in che modo questa si sia posta oltre il confine rappresentato dalla forma convenzionale. Le frontiere dell’arte non coincidono mai fra loro nel corso dei secoli, ma ciascuna di esse tende a soddisfare la richiesta storica e culturale del momento, talvolta in assoluta contraddizione con quella che precede o che segue o, addirittura, con interi universi artistici consolidati per secoli. Se il linguaggio del tardo-antico, preludio di quello medievale, aveva come parametro la stilizzazione e la semplificazione dell’immagine per rispondere alle esigenze di un mondo che si avviava a essere multietnico e nel quale la latinità o la grecità non potevano essere i soli punti di riferimento, assai più tardi la fioritura del Rinascimento volle soddisfare proprio l’esigenza opposta, ossia quella del recupero consapevole e diretto dell’antico, fino al punto di volerlo fare rivivere. Tuttavia, nell’un caso e nell’altro, non è possibile negare che ci si trovi dinanzi a due frontiere dell’arte. La presenza dell’antico, per altro, risulta essere un ‘filo rosso’ continuo che – come un fiume carsico – s’interra e riemerge dal suolo della storia dell’arte, ma la sua evidenza si modula in relazione alle varie necessità culturali che si presentano via via nel corso dei secoli.

Spigolature ed esempi del passato

Esemplare, in questo senso, è il caso delle monete celtiche descritto ed esaminato da Ranuccio Bianchi Bandinelli nel libretto Organicità e astrazione (Milano, Feltrinelli, 1956), che approfondisce il problema annoso della figurazione e dell’aniconismo. Il punto centrale della affascinante analisi dell’archeologo senese verte sulle monete celtiche degli Arverni e degli Aulerci, che imitano un originale greco di Filippo il Macedone, diffuso in Gallia già dal 3° o dal 2° secolo a.C. e considerato un buon elemento di scambio, in grado di mantenere la stabilità del valore economico. Le zecche locali riprodussero i coni greci con grande maestria e con fedeltà assoluta, fin nella scritta «Philippou». Furono queste nuove emissioni a costituire il modello delle successive. Nel corso dello sviluppo di questa monetazione (che durò fino al 50 a.C.), in alcuni casi si può notare una certa semplificazione della forma, che pure lascia perfettamente riconoscibili i soggetti coniati sul retto e sul verso dei singoli pezzi: una testa maschile dai morbidi ricci e una biga trainata dai cavalli. Questa semplificazione e stilizzazione della forma corrisponde a una scelta volontaria, volta alla creazione di nuovi corsi monetari che, partendo dal modello greco, sviluppano una propria estetica accentuatamente decorativa, nella quale il motivo dei capelli della figura prende il sopravvento sul resto delle componenti, relegando il volto a un aspetto del tutto secondario, quando non del tutto inesistente. Lo dimostrano con chiara evidenza i coni d’oro conservati presso il Cabinet des Monnaies et Médailles della Bibliothèque Nationale di Parigi (per esempio, BN 7888; BN 8598; BN 8593) oppure nelle collezioni del British Museum (B. 294; B. 295), nei quali rimane una pallida traccia del modello iconico di partenza. Non si tratta di cattiva imitazione o d’incapacità tecnica (se così fosse avremmo un progressivo avvicinamento al modello e non il repentino abbandono dello stesso a vantaggio di nuove soluzioni), ma della ricerca di una sperimentazione mirata alla nascita di nuove emissioni, più coerenti con le esigenze e la sensibilità della società celtica del tempo. Non è allora difficile individuare in questo fenomeno numismatico i tratti salienti delle ‘frontiere’ dell’arte. Tutta tesa verso la resa imitativa di uno spazio reale va, invece, la ricerca dell’applicazione della prospettiva cosiddetta scientifica teorizzata e sperimentata nel Rinascimento. La componente illusoria, infatti, assume un ruolo fondamentale nella nuova metodica della rappresentazione, che si pone in volontario contrasto con la concezione dello spazio medievale, nel quale il ‘dentro’ e il ‘fuori’ venivano indicati con accorgimenti grafici convenzionali quali, per esempio, la collocazione del profilo delle cupole e degli edifici sul margine superiore dell’ambiente interno teatro della scena dell’Annunciazione o del miracolo di un santo. Anche in questo caso, perciò, la forza dirompente della nuova modalità di resa spaziale si pone come frontiera dell’arte, che non solo condizionerà tutte le scelte pittoriche e scultoree (nei bassorilievi) dei secoli a venire, ma finirà per diventare la condizione minima e indispensabile per la corretta raffigurazione di un racconto. Non solo, ma tutte le varie opzioni di resa spaziale sperimentate nel corso del 16°, 17°, 18° e 19° secolo – a cominciare dagli scorci di Paolo Veronese e la restituzione a trompe-l’oëil degli affreschi di Villa Valmarana, per arrivare alle scenografiche invenzioni prospettiche dei Bibbiena e poi continuare con i soffitti ‘sfondati’ verso il cielo di Baciccio e padre Andrea Pozzo prima e dei Tiepolo poi, accomunati da una chiara componente teatrale – sono di nuovo frontiere dell’arte all’interno di un sistema condiviso e, comunque, continuamente forzato verso una sperimentazione che non vuole lasciare nulla d’intentato, fino alla completa illusione dello spazio tridimensionale sulla superficie della tela o del muro.

La componente teatrale prese decisamente il sopravvento nel secondo Seicento, come dimostra la macchina barocca concepita da Andrea Pozzo per l’altare di Sant’Ignazio nella Chiesa del Gesù a Roma. Per celebrare degnamente la figura del santo di Loyola, fondatore dell’ordine dei Gesuiti, fu chiesto un progetto prima a Giacomo della Porta e poi a Pietro da Cortona, ma senza risultati soddisfacenti. Nel 1695 ci si risolse, così, a indire un pubblico concorso, che fu vinto dalla straordinaria proposta del grande artista teatino, ora ripristinata in tutto il suo splendore grazie all’intervento del Fondo edifici di culto del Ministero dell’Interno e inaugurata il 23 aprile 2008. L’idea di padre Pozzo, cui si devono, oltre al progetto generale, il disegno dell’altare intarsiato di lapislazzuli e la realizzazione della pala con la scena di Sant’Ignazio presentato al Cristo, era quella di costruire una vera e propria teofania del santo: grazie a un meccanismo semplice nella concezione, ma di indubbia efficacia (oggi lasciato nella sua sostanza originaria ma ottimizzato grazie alle nuove tecnologie), la gigantesca pala d’altare che si staglia fra le colonne di bronzo dorato e di lapislazzulo scompare all’interno della struttura architettonica per lasciar apparire una statua, originariamente in argento e argento dorato, che appare come un’immagine rifulgente di piena luce. Il simulacro del santo che vediamo oggi, in legno ricoperto di sfoglia d’argento, fu realizzato nel non lontano studio di Canova, probabilmente da Adamo Tadolini, in sostituzione dell’opera di Pierre Le Gros, fusa durante l’occupazione francese del 1798 (la statua lignea veste però ancora la lavoratissima pianeta argentea dell’originale). Tutto l’insieme costituisce un punto importante nel percorso che ci vede alla ricerca di quelle che abbiamo definito ‘frontiere’ dell’arte: la macchina, infatti, con luci, colori, effetti speciali, come la scomparsa quasi subitanea della pala d’altare, vuole stupire profondamente il fedele e porlo dinanzi alla realistica visione del santo in Paradiso, accolto nella gloria di Dio. Una concezione del genere era possibile in un ambito culturale nel quale l’idea dello spazio fosse strettamente connessa alla visione prospettica di tipo scientifico, tale da proporne una restituzione illusoria e coerente, basata su solide concezioni geometriche, che erano parte integrante del patrimonio artistico di padre Pozzo. Questa comune, e dalla metà del 15° secolo in poi scontata, conoscenza prospettica fece perdere a questo insieme di nozioni tutta la carica ‘rivoluzionaria’ che aveva avuto all’inizio del Quattrocento e in certe forme sperimentali addirittura prima, come dimostra l’Annunciazione di Ambrogio Lorenzetti del 1344 conservata nella Pinacoteca Nazionale di Siena.

Arte di frontiera nel Novecento

Sebbene esasperata fino alle più spericolate arditezze, la prospettiva scientifica per secoli ha costituito il bagaglio indispensabile per ogni pittore, scultore o architetto che avesse voluto esprimere la propria creatività. Per questo l’arte di frontiera del 20° secolo non poté fare a meno di negarla. È quel che accadde con la nascita del Cubismo (a partire dal 1907) che delegittimò la costruzione prospettica del Rinascimento basata su un unico punto di vista e un punto di fuga privilegiato, riducendola a uno dei soli casi possibili di restituzione dello spazio pittorico. Questa condizione di ‘frontiera’ di entrambe le metodiche è bene esposta in uno dei testi più importanti della storia dell’arte, ovvero Peinture et société. Naissance et déstruction d’un espace plastique, pubblicato da Pierre Francastel nel 1951 e conosciuto in italiano con il titolo di Lo spazio figurativo dal Rinascimento al Cubismo. Lo studioso francese tracciò, proprio in questo senso, un parallelismo fra il Rinascimento italiano e la diffusione della prospettiva scientifica e la nascita del Cubismo, credendo di poter prevedere una fioritura artistica nel Novecento con modalità simili a quelle rinascimentali, ma all’insegna della nuova concezione cubista dello spazio. Cosa che, per la verità, non è accaduta. Tuttavia, quello che qui interessa sottolineare è che Francastel notava la medesima portata ‘rivoluzionaria’ in entrambi i casi e, sia pure senza dare questa definizione, considerava i due fenomeni altrettante ‘frontiere’ dell’arte, sebbene di segno completamente opposto.

Il percorso della pittura nel 20° secolo prese strade diverse, tenendo conto di problemi e aspirazioni che non riguardavano soltanto la problematica della restituzione dello spazio, ma si misuravano per esempio con la fotografia e il cinema. Questi nuovi mezzi sembrarono rubare alla pittura il primato dell’imitazione del vero e il cinema risolveva anche una questione, quella del movimento, per secoli affrontata in maniera convenzionale e frustrante, dato che si era rivelato impossibile restituirlo con gli strumenti messi a disposizione dalla scultura e dalla pittura. Ciononostante, proprio il movimento e la velocità divennero le cifre distintive del Futurismo, che pure utilizzava colori e materiali tradizionali, come l’olio, la tempera o la scultura in bronzo, per perseguire i propri scopi espressivi. La fotografia e il cinema interagirono fra loro e influirono direttamente sulla nascita della poetica futurista: basterà ricordare le sperimentazioni di Eadweard Muybridge o di Etienne-Jules Marey con il fucile fotografico, senza contare gli studi dell’americano Thomas Eakins, per segnare le fasi salienti di un percorso che avrebbe portato al Nudo che scende le scale di Marcel Duchamp. Questo lasso di tempo fra la fine dell’Ottocento (si pensi che gli impressionisti esposero per la prima volta non in una galleria d’arte, ma nello studio del fotografo Nadar) e il 20 febbraio 1909, quando Filippo Tommaso Marinetti pubblicò su Le Figaro il Manifesto dei Futurismo, fu particolarmente importante perché spostò il limite delle frontiere dell’arte dalla pittura ai nuovi mezzi espressivi: una variazione dalla quale non si tornò più indietro e che anzi si accentuerà nel corso dei decenni successivi con l’adozione di altre modalità d’espressione che giungeranno all’impiego della televisione, del computer, della rete. Non solo, si assisterà all’introduzione di materiali alternativi a quelli della pittura tradizionale (vernici industriali, ducotone, colori alla nitro, acrilici) o del tutto nuovi (si pensi al neon di Bruce Nauman, oppure ai sacchi di Alberto Burri) o di oggetti inusitati (come la sella di bicicletta e il manubrio usati da Pablo Picasso per la sua Testa di toro del 1942). La lezione dadaista del ready made aprì infinite possibilità, rendendo arte qualsiasi trasposizione mentale costituita dallo straniamento dell’oggetto rispetto al contesto. Su questa linea le frontiere dell’arte si sono spostate fino a coinvolgere la stessa presenza dell’artista, che ha sostituito l’opera con sé stesso: si iniziò con le vere e proprie performances nel corso delle quali Jackson Pollock dipingeva le sue enormi tele camminandoci sopra e quindi trasformando l’opera nel diagramma dei suoi movimenti e dei suoi gesti, e si approdò alla body art, ovvero all’impiego del corpo come materiale artistico da esporre, offendere, martirizzare ed esaltare. Non si può qui prendere in considerazione tutta la complessa galassia della body art, ma basta ricordare, dopo la prima fase autolesionista di Vito Acconci (1970) o Gina Pane (1974), l’attenzione più recente, appuntata sul rapporto fra uomo e macchina e sulla problematica dell’inserzione di elementi meccanici nel corpo, che sembrava preconizzare una sorta d’ibrido bionico, come quello evocato da Stelarc. Fu negli anni 1990 che emerse l’interesse per esperimenti d’integrazione fra biologico e meccanico, dettati anche dalla riflessione sull’utilizzo di protesi e dispositivi artificiali nella medicina e nella chirurgia. Le performances di Stelarc (1994), con l’aggiunta di un terzo braccio meccanico ancorato a quello naturale del quale riproduceva i movimenti, divennero metafore della possibilità di amplificare le capacità d’azione e di sopravvivenza fino al tentativo di trasformare l’individuo in un ibrido di biologia e d’elettronica, capace di sfiorare l’eterna utopia dell’immortalità. In ogni modo, deve considerarsi un’arte di frontiera tutta la body art, che espone l’artista in prima linea, rendendolo sostanza stessa dell’opera d’arte, come nel caso delle operazioni chirurgiche della Orlan (1995), che trasformava il suo corpo in materia da plasmare secondo esigenze estetiche funzionali alla sensibilità dell’artista e, per questo, svincolate dai convenzionali parametri di bellezza della chirurgia plastica.

Dalla scheda perforata alla videoinstallazione

La ricerca artistica nel Novecento non ha spinto ai limiti le frontiere dell’arte soltanto indagando l’immensa costellazione legata all’universo del corpo, ma ha aperto importantissimi nuovi percorsi espressivi, tuttora in fase di sviluppo nell’ambito di questo primo decennio del 21° secolo. Parliamo innanzitutto degli impieghi legati al calcolatore elettronico. Se si escludono le sperimentazioni sui vari automatismi del 19° e dei primi del 20° secolo, il punto di partenza per l’arte digitale può essere considerato il 1946, quando la Pennsylvania University mise a punto un sistema computerizzato noto come ENIAC (Electronic Numerical Integrator And Computer) che permetteva di risolvere una filiera completa di problemi, elaborando oltre 300 operazioni al secondo, e di essere riprogrammato per venire nuovamente utilizzato. ENIAC, costruito per risolvere problemi balistici di carattere militare, aveva un ingombro di circa 26 m di lunghezza, 9 m di altezza e poco più di 2,5 m di spessore, e costava ben mezzo milione di dollari dell’epoca. Con i suoi 7200 diodi, fu il primo strumento a non necessitare di parti meccaniche in movimento. Sarebbero dovuti passare altri 12 anni perché l’IBM producesse un calcolatore in grado di immagazzinare i dati in un nastro magnetico. All’epoca e, in realtà, fino agli anni 1970, a un calcolatore elettronico veniva in sostanza richiesto di fare molto velocemente quei calcoli che la mente umana avrebbe potuto smaltire solo in giorni se non in settimane. Ma già intorno alla metà degli anni 1970, s’iniziò a pensare di utilizzare le potenzialità del calcolatore in una maniera assai diversa: nacque allora quella che si sarebbe chiamata Block art o High ASCII art, o style, vale a dire una forma di rappresentazione semplificata che sfruttava i caratteri a stampatello (block) usati dalla prima generazione di computer, dotati di stampanti ad aghi. In altri termini, l’immagine veniva semplificata in zone luminose, intermedie e scure, la cui gradualità era restituita dalla densità del nero prodotto dalla vicinanza e dalla forma dei caratteri scelti, come dimostrano una serie di esempi, a cominciare da Study in perception di Leon Harmon e Ken Knowlton (1966), che rappresentata una donna nuda distesa. Harmon pubblicò nel 1973 su Scientific American un ritratto di Abramo Lincoln realizzato utilizzando soltanto la giustapposizione di quadrati neri bianchi e grigi di diverse gradazioni, collocati in modo da permettere di ricostruire, da lontano, le forme del volto dello statista americano. L’idea venne ripresa da Salvador Dalí che, tre anni più tardi, presentò il suo Gala che contempla il Mar Mediterraneo che a venti metri di distanza diviene un ritratto di Abramo Lincoln, oggi nella collezione permanente del Salvador Dalí Museum di Saint Petersburg in Florida. Le frontiere dell’arte si andavano intanto spostando sempre più verso una possibilità d’automazione e, come vedremo, verso il coinvolgimento sempre più importante del fruitore dell’opera che, anche grazie alle nuove tecnologie (tappa fondamentale fu la produzione da parte dell’IBM di un computer come il Sinclair ZX81, messo in commercio negli anni 1980), dava a ciascuno la possibilità di cimentarsi in esperimenti di Block art e diventare anche autore dell’opera d’arte stessa. L’incursione di Dalí nel mondo dell’immagine computerizzata costituì un aspetto assai importante nello sviluppo delle possibilità espressive del secondo Novecento perché da allora in poi si fecero sempre più stretti i legami e gli scambi fra quella che poteva in certo senso considerarsi la pittura tradizionale e la nascente arte digitale e computer graphic. Le implicazioni confluite in quella che di lì a poco verrà definita Digital art deriveranno, infatti, proprio dall’ambito surrealista, cui si aggiungeranno altri elementi variamente modulati secondo la sensibilità e la cultura dei vari artisti. Prima di arrivare alla Digital art, gli artisti si erano misurati con un problema praticamente mai risolto dalle forme creative tradizionali e che, come si è già ricordato, aveva avuto una risposta definitiva e categorica dal cinema, ossia il movimento. Alle rudimentali, quanto rivoluzionarie, opere di Alexander Calder (1898-1976) – che si muovono sul soffio di un vento leggero provocato dallo spostamento d’aria di chi passa loro accanto o, incuriosito, tocca l’insieme degli elementi snodati – si sostituirono ricerche più sofisticate, basate su effetti ottici e dinamici intrinseci. È il caso delle immagini realizzate da Gabriele De Vecchi, come Rotolineare del 1961, un’installazione costruita intorno a un cilindro che roteando crea un volume amplificato quanto fittizio nello spazio circostante. L’Arte cinetica e programmata ebbe un inizio ufficiale con l’inaugurazione dello showroom Olivetti a Milano nel 1962, a cura di Bruno Munari e Giorgio Soavi, e la presentazione in catalogo di Umberto Eco. La seconda edizione, l’anno successivo, vide la presenza anche di Getulio Alviani, mentre per le mostre negli Stati Uniti del 1964 fu coinvolto il Gruppo GRAV di Parigi. Si prospettava così un’ampia gamma di possibilità espressive, che venivano declinate anche in termini cromatici con opere quali Deformazione assonometrica – parametri luminosi – rosso (1969) dello stesso De Vecchi che, in questo caso, tenne conto delle esperienze di Grazia Varisco. Componente del Gruppo T di Milano – con Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo e De Vecchi –, Varisco s’inseriva in quel lungo e proficuo percorso dei primi anni 1960 che nasceva dalla costola della Optical art di Joseph Albers, Yaacov Agam, Nicolas Schöffer, Pol Bury, Jesús Rafael Soto, Jean Tinguely, Marcel Duchamp e il ricordato Calder, ma soprattutto di Victor Vasarely. Quest’ultimo arricchì la componente cinetica della Optical art con una dinamica sostanzialmente illusoria, basata su effetti ottici e sulla trasformazione di una forma dentro l’altra. L’idea del movimento veniva così suggerita con sfumature e passaggi cromatici che avevano come pilastro di base un’‘unità plastica’ costituita dalla presenza inscindibile di due ‘forme-colore’, pronte a trasformarsi proteicamente in nuove unità, così come Vasarely stesso teorizzò nel 1955 nel Manifesto giallo. Quello che nell’artista ungherese era evocato, un decennio più tardi da De Vecchi e Varisco fu reso fisicamente percepibile grazie a installazioni e componenti elettromeccaniche. Parallelamente a questo lungo filone di ricerca, le frontiere dell’arte si volsero verso il mondo della nascente elettronica. Le ricerche dell’americano Ben F. Laposky portarono, in quegli stessi anni, alle sue pioneristiche ‘astrazioni elettroniche’, intitolate Oscillons. Matematico e artista nello stesso tempo, questo singolare personaggio realizzò le prime immagini grafiche generate da una macchina elettronica, manipolando il fascio di elettroni del tubo catodico per impressionare una pellicola ad alta sensibilità. Le variazioni di forma dei modelli erano ottenute cambiando la base dell’onda elettrica e le variazioni di colore attraverso l’uso di speciali filtri. Le opere di Laposky tenevano conto di tutto il trascorso artistico dell’astrattismo e dell’informale per riformularlo in virtù di un nuovo mezzo espressivo, rappresentato dal tubo catodico. Su questa stessa linea, ma partendo da presupposti assai diversi, si mosse anche Nam June Paik, un artista coreano, laureato all’Università di Tokyo, che avrebbe spostato ancora più avanti le frontiere dell’espressività e della ricerca creativa. Paik si formò artisticamente nel contesto delle esperienze del movimento neo-dadaista Fluxus, del 1961, cui aderì anche Wolf Vostell, autore già dal 1958 di TV-décoll/age, in cui utilizzava uno schermo televisivo per denunciare tutti i rischi connessi all’uso commerciale e distorto della televisione stessa. Paik, nel 1963, con Exposition of music-electronic television realizzò quella che viene unanimemente riconosciuta come la prima esposizione di Videoarte, ma il suo apporto al linguaggio visivo fu ben più rilevante, in quanto s’interessò alle infinite variazioni possibili che potevano derivare dalla vicinanza di un magnete al tubo catodico di una televisione. Studiò gli effetti e imparò a utilizzarli a proprio piacimento, producendo tra l’altro opere come Magnet TV del 1982 (New York, Whitney Museum), dove la dinamicità evocata dall’Optical art di Vasarely o dalle Oscillons di Laposky divengono reali e fluttuanti nello spazio virtuale dello schermo televisivo. Del resto, l’idea dell’artista coreano, maestro nella manipolazione del segnale elettronico fissato poi sul supporto del videotape, era che: «come la tecnica del collage ha rimpiazzato la pittura a olio, allo stesso modo il tubo a raggi catodici rimpiazzerà la tela. Un giorno gli artisti lavoreranno con i condensatori, le resistenze, i semiconduttori come oggi lavorano con i pennelli, i violini e i materiali vari» (Il Novecento di Nam June Paik, catalogo della mostra a cura di M.M. Guzzano, A. Zaru, Roma, 1992, p. 16). Oggi, si può dire che la previsione di Nam June Paik si sia in parte avverata, salvo il desiderio del recupero delle tecniche tradizionali e il fiorire e l’intrecciarsi di formule espressive diverse che vanno (e sono andate) dalla Transavanguardia alla Speed painting, della quale parleremo più avanti.

Il web e le frontiere di oggi

Da quanto si è detto nel corso di questa disamina a volo d’uccello dei momenti più arditi del percorso artistico che nel 20° secolo si è spinto verso confini del tutto inimmaginabili, non si può fare a meno di notare che il carattere di fondo che anima tutte queste volontarie ‘forzature’ della capacità espressiva non le discosta affatto, nello spirito, dalla macchina barocca di padre Andrea Pozzo. Lo scopo, infatti, è quasi sempre quello di coinvolgere chi guarda l’opera per strappargli un’espressione di ammirazione che, nel caso della macchina di padre Pozzo, è finalizzata alla sollecitazione etica e religiosa, mentre nel caso di Nam June Paik e della sua Tadaikson – una sorta di totem o di Torre di Babele costituita da centinaia di monitor, ideata per i Giochi olimpici di Seul del 1988 –, a una riflessione critica sul modo di fare comunicazione nel 20° secolo. Indubbiamente, ha pesato sulle sperimentazioni artistiche di questo genere il ricordo, per non dire l’incubo, descritto in 1984 da George Orwell, ben prima che il ‘grande fratello’ diventasse un reality show. Un’altra considerazione va fatta: è doveroso dire che il percorso fin qui indicato è solo uno di quelli che si sarebbero potuti seguire, dal momento che molti elementi di forzatura sono rimasti fuori dal nostro tracciato, come per esempio il Pointillisme o la Land art che sarebbero certamente potuti rientrare in una prospettiva diversa, partita da presupposti differenti. Tuttavia, l’attenzione per quella che viene definita Arte digitale costituisce sicuramente il fenomeno più rilevante dell’ultimo 20° secolo e del primo decennio del 21°. Il motivo non risiede soltanto nella novità del mezzo espressivo, che utilizza i pixel sia nella stampa sia nella restituzione in video dell’immagine, quanto, piuttosto, nella constatazione che il mondo digitale sta divenendo sempre più un universo parallelo a quello reale, all’interno del quale non soltanto crescono e si immaginano nuove opere d’arte, ma anche videogiochi, musiche, suoni, film in digitale, animazioni virtuali e perfino indagini scientifiche che vanno dall’analisi del corpo umano fino alla restituzione tridimensionale delle opere d’arte. Cosa hanno, infatti, in comune il videogioco della playstation, l’interactive wall che accompagna il visitatore nelle mostre didattiche, l’ITR 100 (la macchina laser dell’ENEA per la scansione dei punti di un affresco o di una scultura da applicare alla metodica del restauro) e un film tutto digitale come per esempio Ratatouille della Walt Disney? Certo l’elettronica, ma anche un ruolo da protagonista giocato dall’arte, che sposta sempre più avanti le frontiere della conoscenza. Non è un caso che un testo importante come Art of Digital Age pubblicato da Bruce Wands nel 2006 contenga un’intera sezione dedicata alla Game art, ovvero alle installazioni interattive che coinvolgono direttamente il fruitore e che, in sostanza, sfruttano lo stesso principio dei videogiochi. Basterà, per esempio, ricordare il Color panel v. 10 di John F. Simon jr., progettato nel 1999 e aggiornato nel 2000 con l’installazione Complexcity, per capire di cosa si tratta: il primo è costituito da un pannello digitale con 12 schermate diverse sulle quali lo spettatore può interagire, trasformando la superficie in una sorta di iper-tela, dipinta di volta in volta su coordinate pittoriche che ricordano quelle di Paul Klee e di Vasilij Kandinskij; la seconda installazione è ispirata al rapporto fra gli artisti e la città di New York, della quale sono riprodotti scorci e vedute su 12 pannelli digitali, che variano in funzione dell’interazione con il pubblico, alternando vedute diurne a visioni notturne. Jeremy Gardiner, con il suo Purbeck light years, ha vinto nel 2003 il prestigioso Peterborough Prize, promosso dalla Peterborough Art Gallery, un’istituzione inglese che ha dedicato notevole attenzione all’arte digitale, nazionale e internazionale. L’opera consiste in una stanza sulle cui pareti sono proiettati paesaggi digitali interattivi, controllati da un software progettato da Anthony Head che ha adattato all’evento anche l’hardware tradizionale. L’impostazione non è troppo diversa da quella dei videogiochi e i mezzi tecnici utilizzati sono del tutto identici. Vis a vis di Denis H. Miller, del 2002, combina insieme musica e immagini in maniera certo più sofisticata di quanto non faccia un lettore di mp-3 digitale, ma sostanzialmente sfruttando gli stessi principi. Questi esempi riguardano l’evoluzione del concetto d’installazione, ma la Digital art come veicolo per diffondere le proprie novità espressive ha a disposizione anche il web, ovvero il mondo di Internet. Basterà al proposito ricordare American views: stories of the landscape, commissionato nel 2001 a Russet Lederman dallo Smithsonian Museum di Washington e accessibile dal sito del museo: consisteva in una pagina web che si apriva secondo quattro chiavi o temi collegati alle storie interattive dei tre principali personaggi: Cindi Cusick, digital designer proveniente dal Kentucky, Adam Klein, un ingegnere californiano, e Neil Duskis, della periferia di Long Islands. Un altro esempio è They rule, di Josh On, uno dei progetti in rete più noti, creato nel 2001 (l’indirizzo è www.theyrule.net). Il sito consente di visualizzare virtualmente i consigli direttivi di molte grandi multinazionali e dei centri di potere politico che governano il mondo. Dal momento che si tratta di un sito ‘aperto’, sono stati molti gli artisti digitali che lo hanno modificato, dando vita a uno strumento e a un’opera corale che nel 2004, è stata ulteriormente articolata da Ian Bogost e Michael Keesey. Quest’ultimo, utilizzando il suo ricco archivio di base, ha creato, insieme a Bogost, il gioco Horde of Directors, dove il giocatore assume il ruolo dell’attivista, con la missione, davvero impossibile, di tentare di convincere i dirigenti delle varie multinazionali a sviluppare politiche più vicine alle necessità della persona e meno votate al profitto; naturalmente, l’esito non può che essere negativo poiché i personaggi che interagiscono con lui non sono affatto disposti né ad ascoltarlo né a farsi convincere. Questo pessimismo di fondo e questa sostanziale impossibilità di agire è ciò che distingue They rule dagli altri videogiochi di rete, che sono assai meno complicati, ma anche più dinamici. Per concludere questo variegato e complesso quadro d’indirizzo, ricordiamo infine la Speed painting, ovvero la ‘pittura veloce’ che si realizza attraverso l’impiego di linee e colori digitali, per ottenere opere di grande realismo. Su YouTube (vetrina virtuale cui tutti possono accedere), le fasi di lavorazione vengono riproposte in tempi accelerati, permettendo di veder crescere dal nulla immagini tecnicamente tanto perfette quanto inesistenti, se non si ha l’accortezza di stamparle.

Arte e tecnologie avanzate

Multimedialità dell’opera d’arte contemporanea

Con il termine anglosassone multimedia, affermatosi negli anni 1970, vengono designate quelle esperienze artistiche contemporanee in cui si attua una simultanea interazione tra differenti mezzi espressivi, con un implicito accento sull’uso di tecnologie avanzate e su un modello di fruizione orientato alla durata e al coinvolgimento polisensoriale; la definizione si riferisce in particolare alla manipolazione delle immagini per mezzo di dispositivi elettronici o informatici e alla sua fusione con componenti sonore e testuali, nonché ad azioni, performances, installazioni video ed elaborazioni su supporto digitale, dove le diverse componenti possono essere presentate in forme caratterizzate da un certo grado di modificabilità, casuale o programmato, e da una relazione interattiva con l’osservatore.

La nozione viene a interessare non una particolare corrente o tendenza, ma una gamma di fatti artistici eterogenei, nel cui tratto comune – la messa in questione delle aspettative percettive e dello stesso ruolo convenzionale dello spettatore – si avverte l’eco di temi peculiari del pensiero filosofico ed estetico degli ultimi decenni, quali la critica alle pretese universali del soggettivismo razionalista, la rivendicazione di nuovi paradigmi culturali, la decostruzione dello statuto puramente visivo attribuito all’arte dal modello critico modernista. Per le sue caratteristiche, che mettono in discussione il tradizionale iato tra le tecniche di matrice artigianale e quelle riprese dalle lavorazioni industriali, l’opera multimediale tende a fuoriuscire dal circuito istituzionale dell’arte (museo e galleria) sostituendo a quello nuove forme di fruizione, affini ai modi del teatro e dello spettacolo musicale, dove sia richiesta la presenza fisica dello spettatore, o completamente ‘virtuali’, come accade nel caso di lavori concepiti per la rete telematica Internet o la distribuzione su CD-ROM.

Il ruolo della cibernetica

L’espansione delle pratiche artistiche al di là dei tradizionali confini e il rapporto con le nuove tecnologie fornite dagli sviluppi della produzione industriale sono tra i connotati più caratteristici dell’arte del 20° secolo; è tuttavia solo dal secondo dopoguerra che il tema insieme pratico e teorico dell’utilizzazione delle tecniche moderne, soprattutto elettroniche, ha assunto un rilievo autonomo nella vicenda artistica contemporanea. Un ruolo determinante in questo processo ha esercitato la nascita della cibernetica, della quale il matematico statunitense Norbert Wiener aveva indicato già nel 1948 la natura di teoria interdisciplinare dell’informazione e della comunicazione in grado di collegare i principi e le strutture organizzative di ogni campo conoscitivo. Introducendo una nozione come quella di feedback e un modello processuale interattivo, estensibile agli ambienti sociali e biologici, la teoria cibernetica è stata decisiva per stabilire uno spartiacque tra le esperienze ottico-cinetiche della prima metà del secolo e quelle, posteriori, basate sulla tematizzazione dei processi comunicativi.

Tra i primi a utilizzare in un contesto estetico i principi della cibernetica fu Nicolas Schöffer, artista di origine ungherese poi stabilitosi in Francia, che nelle sue monumentali torri spatio-dynamiques, strutture verticali mobili su cui sono installati proiettori luminosi e amplificatori sonori, come per es. Cysp 1 del 1956, realizzò uno dei primi esempi di applicazione artistica di elaboratori elettronici. L’interesse per tecniche e materiali innovativi e per una diversa formulazione del rapporto spettatore/opera divenne tratto dominante per gli artisti attivi sul fronte della Optical art; tanto il gruppo tedesco Zero, fondato nel 1957 da Otto Piene e Heinz Mack, quanto il francese GRAV (Groupe de Recherche d’Art Visuel, 1960-68), che ebbe Julio Le Parc e François Morellet tra i suoi maggiori esponenti, si concentrarono sui processi di interazione tra individuo e ambiente, progettando dispositivi a scala architettonica volti ad ampliare la sfera della percettività, come Black gate Cologne (1968), un environment di Piene costituito da telecamere, monitor e luci stroboscopiche azionate dalla presenza del pubblico. Nella stessa direzione operavano i collettivi di artisti sorti in Italia, come il Gruppo T di Milano (1959), il Gruppo N di Padova (1960) e il Gruppo 1 di Roma (1962), riuniti ad altri analoghi gruppi internazionali nel movimento Nouvelle tendance (1961). Negli Stati Uniti, il tentativo più sistematico di mettere in diretta comunicazione gli artisti con le novità scientifiche e tecnologiche, soprattutto in campo informatico, fu quello condotto da EAT (Experiments in Art and Technology), raggruppamento fondato nel 1966 dallo scienziato-artista Billy Klüver, che si fece promotore di uno scambio interdisciplinare tra la ricerca scientifica e le più varie esperienze artistiche, comprendenti, oltre quelle consuete, anche architettura, design, danza, musica.

La pratica dell’happening

Un approccio differente, che assume le nuove tecnologie nel contesto di una visione critica della società di massa, è quello rappresentato dalle esperienze legate alla pratica dell’happening. Questo termine, impiegato per la prima volta nel 1959 nella serie di azioni 18 Happenings in 6 parts dello statunitense Allan Kaprow, definisce un evento spettacolare dove ai gesti dei performers si mescolano con la massima fluidità elementi plastici, visivi e sonori, e a cui il pubblico viene chiamato a partecipare attivamente, in una modalità che mette in crisi la nozione oggettuale di opera d’arte e la distinzione tra sfera estetica ed esperienza quotidiana. Una delle prime manifestazioni di questa tendenza furono le azioni pubbliche del gruppo giapponese Gutai, creato da Jiro Yoshihara nel 1954, che anticipavano molti aspetti dell’arte dei decenni successivi, quali l’immissione di materiali naturali e oggetti di uso comune in ambito estetico, l’enfasi sulla processualità piuttosto che sulla produzione concreta, l’utilizzo in chiave espressiva del corpo dell’artista. Allo sviluppo di questa nuova sintesi tra mezzi formali eterogenei contribuì l’insegnamento del compositore statunitense John Cage, svolto dal 1948 presso il Black Mountain College (North Carolina) e in altre istituzioni. Riprendendo da Marcel Duchamp l’utilizzo di procedimenti creativi basati sulla casualità (come avviene nel chance method, un tipo di scrittura musicale volto a escludere l’apporto soggettivo dell’autore) e innestandovi concetti desunti dal pensiero tradizionale cinese (I Ching) e dal buddismo Zen, Cage poneva l’accento sull’esigenza di procedere oltre la dimensione soggettiva ed espressiva caratteristica dell’arte occidentale, focalizzando l’attività creativa sugli aspetti accidentali, non predeterminati dell’opera, mettendone al contempo in rilievo i meccanismi processuali e il valore dinamico e intersoggettivo.

Le idee del compositore influirono sugli sviluppi della cultura artistica, non solo americana, degli anni 1950 e 1960; tra i primi ad avvertirne la portata fu lo statunitense Robert Rauschenberg, le cui realizzazioni più note, i combine paintings, con la loro struttura a molteplici ‘fuochi’ visivi, le espansioni tridimensionali, l’inclusione di oggetti e immagini prelevate dalla realtà, aprono a una nuova concezione dell’opera d’arte come costruzione polisemica, stratificata, connessa all’esperienza individuale e collettiva, e per questo incompatibile con il modello formalista, proposto in forma canonica dal critico d’arte Clement Greenberg.

L’apertura al contesto ambientale e sociale, la contaminazione tra tecniche e media diversi, lo sconfinamento programmatico dell’arte in altre dimensioni comunicative, caratterizzano anche il movimento internazionale Fluxus, lanciato nel 1961 da George Maciunas che, riecheggiando parole d’ordine dadaiste, promuoveva la massima libertà espressiva, il superamento delle convenzioni e dei confini tra le varie discipline, e contestava le strutture artistiche ufficiali e le forme tradizionali di apprezzamento estetico. Le più tipiche manifestazioni Fluxus furono i festival, i concerti, happenings in cui erano mescolati tutti i generi artistici, come Neo Dada in der Musik (1962) e Festum Fluxorum Fluxus (1963), entrambi svoltisi a Düsseldorf con la partecipazione di un nutrito gruppo di artisti, musicisti e performers internazionali: tra questi, lo statunitense George Brecht, le cui azioni basate sull’uso creativo della casualità si sviluppavano a partire da notazioni testuali, o event scores; il francese Robert Filliou, che fornì anche un contributo teorico alla definizione di un nuovo modello di educazione artistica; il tedesco Joseph Beuys, i cui lavori avrebbero in seguito costituito uno dei più complessi tentativi di ridefinizione e allargamento della sfera dell’operatività artistica.

Uno dei maggiori esponenti del movimento Fluxus fu il tedesco Wolf Vostell, i cui happenings, alla fine degli anni 1950, si basavano sul principio operativo del décollage (consistente nel prelievo dai tabelloni stradali di manifesti pubblicitari e nella loro successiva manipolazione), come mezzo per evidenziare la forza pervasiva della comunicazione pubblicitaria. Vostell fu anche tra i primi a utilizzare il mezzo televisivo in modo sistematico: in Schwarzes Zimmer (1958), un ambiente che presentava al suo interno un assemblage di immagini e oggetti connessi ai campi di concentramento nazisti e televisori sintonizzati sulle normali emissioni, l’artista stabiliva una connessione tra la massima ideologia negativa del secolo e le nuove forme di dominio esercitate dai mass media; in TV décoll/age (1958) proponeva per la prima volta un modello di fruizione attiva, stimolando lo spettatore a porsi in atteggiamento critico rispetto ai modelli imposti dal messaggio televisivo. L’affermazione del video come autonomo mezzo artistico è strettamente legata a nozioni come ‘ibridazione’, ‘metamorfosi’, ‘immediatezza’, ‘interattività’, e alla concezione performativa e multimediale che l’esperienza artistica andava assumendo nell’ambito delle tendenze Fluxus. Altri fattori concorsero alla definizione di questo nuovo campo operativo, primi tra tutti la riflessione semiologica sul concetto di ‘opera aperta’, gli studi, in particolare di Marshall McLuhan, sugli effetti culturali e le qualità multisensoriali dell’immagine televisiva, e la critica ai meccanismi di controllo e persuasione della società massificata condotta a partire dal 1957 dagli esponenti dell’Internationale Situationniste.

Il medium televisivo

Una precoce riflessione sulle potenzialità estetiche del medium televisivo era stata fornita in Italia dal Manifesto del movimento spaziale per la televisione del 1952, firmato, tra gli altri, da Alberto Burri, Lucio Fontana, Tancredi e Roberto Crippa, che indicava il superamento della prospettiva oggettuale, legata alla dimensione terrestre, in uno smaterializzato ‘recipiente universale’ in cui le immagini scorrono veloci, si decentrano in tutte le direzioni e rappresentano un evento in perpetuo divenire; però è solo nei primi anni 1960, anche grazie alla diffusione di videoregistratori a nastro e telecamere portatili, che il mezzo televisivo si diffonde nelle pratiche artistiche. Lo statunitense di origine coreana Nam June Paik creò la prima videoinstallazione, 13 Distorted TV sets (1963), in cui la visualizzazione delle immagini era distorta dall’artista per mezzo di magneti applicati sui tubi catodici. Ogni televisore, che emetteva una serie di segni luminosi arbitrari, non predeterminati dall’artista, veniva così trasformato in un meccanismo autoreferenziale, in grado di generare immagini dal suo stesso meccanismo. Da questo momento la ricerca di Paik si orienterà su due filoni: da un lato lo studio del processo di generazione dell’immagine elettronica, sperimentando dal 1964 un sintetizzatore capace di generare flussi casuali di forme e colori, e dall’altro la produzione di installazioni comprendenti musica, danza e mezzi elettronici, come Variation v (1965), in cui schermi video, microfoni e sorgenti di illuminazione moltiplicavano in modo imprevedibile i punti di vista e gli stimoli sonori. L’uso del mezzo televisivo inaugurato da Paik differisce da quello in seguito praticato nel campo degli happenings e delle azioni, in cui l’immagine video può accompagnare la performance dal vivo o assumere il carattere di memoria dell’evento, come accade con artisti della Body art quali lo statunitense Vito Acconci e la francese Gina Pane. Una delle caratteristiche fondamentali delle videoinstallazioni di Paik è infatti non solo quella di produrre sequenze di nuove immagini, ma anche di determinare nuove condizioni per la loro visione: da semplice strumento di riproduzione il monitor diventa un elemento che può essere manipolato al pari di ogni altro materiale pittorico o plastico all’interno di una presentazione coordinata.

Process art

Un’espansione del novero dei materiali e delle tecniche utilizzati a fini artistici avviene a partire dalla metà degli anni 1960 con le indagini sui meccanismi estetici di produzione, ricezione e presentazione condotte dalle tendenze analitiche sviluppatesi in Europa e negli Stati Uniti, che affermano una concezione fenomenologica dell’arte estesa virtualmente a tutti i campi dell’esperienza e alla relativa pluralità di linguaggi. Ciò è evidente nella Process art in cui, alle rigide strutture seriali e geometriche utilizzate dalla Minimal art e alla centratura sugli aspetti linguistici propria della corrente concettuale, si sostituiva una concezione antiformale, dinamica, che mirava a stabilire una nuova dimensione di indagine estetica intorno alle interconnessioni tra meccanismi psichici e biologici, modelli socioeconomici e strutture culturali. Tra i primi teorici di questa tendenza fu lo statunitense Robert Morris, che nel 1967 sulla rivista Artforum indicava la possibilità di estendere il campo di intervento dell’artista a nozioni astratte come quelle di ‘forza’ ed ‘energia’, rese sensibili sotto forma di processi di trasformazione fisica dei materiali, evidenziando al contempo l’influenza delle strutture ambientali e antropologiche sulla decodifica dell’opera da parte dello spettatore.

Morris puntava la sua attenzione sulla transizione tra la dimensione mentale e la realizzazione concreta, sugli stati intermedi e non compiuti, sulle complesse interazioni tra l’opera d’arte – concepita come ‘campo’ di esperienza e non solo come esito oggettuale – e la sfera dei comportamenti individuali e collettivi: nelle sue installazioni elementi di feltro o gomma fornivano una visualizzazione dell’azione del tempo e della forza di gravità, richiamando una rete di relazioni metaforiche. Sulla stessa linea, Eva Hesse indagava le mutue relazioni tra le qualità fisiche di materiali anticonvenzionali, quali resine elastiche e fibra di vetro, e nuove modalità di manipolazione (basate su azioni ricche di suggestioni psicologiche quali sospendere, avvolgere, legare ecc.), e Richard Serra esplorava i molteplici aspetti dei procedimenti artistici, da Splashing (1968), azione in cui l’artista lanciava piombo fuso su una parete ricavandone forme solide casuali, alla serie di installazioni che impiegavano lastre di acciaio grezzo per conferire nuova pertinenza visiva ai tradizionali concetti scultorei di peso, gravità, equilibrio. In Italia, alcuni rappresentanti del movimento Arte povera (1967) appaiono vicini alle ricerche processuali, in particolare Jannis Kounellis, le cui installazioni, concepite come riflessioni sui limiti dei linguaggi e delle strutture istituzionali, utilizzavano materiali di origine naturale (cotone, carbone ecc.) o industriale (ferro, vetro), processi fisici (combustioni), piante e animali viventi (come i dodici cavalli esposti alla galleria L’Attico di Roma nel 1969); Mario Merz, che evidenziava le relazioni tra meccanismi biologici e modelli culturali ‘primitivi’ e contemporanei attraverso figure metaforiche come la serie numerica del matematico medievale Fibonacci e le forme archetipiche della spirale e dell’igloo; Giuseppe Penone, che concentrava la sua opera sulle relazioni della dimensione corporea con i meccanismi di mutazione e accrescimento propri del mondo vegetale. Nelle esperienze processuali il mezzo televisivo si afferma come un ambito governato da leggi estetiche autonome; le installazioni video tendono a rivelare i rapporti interni tra i materiali e le immagini che le compongono e mirano al coinvolgimento sensoriale e psicologico dello spettatore, considerato spesso come una componente attiva dell’opera. È quanto si verifica nei lavori dello statunitense Dan Graham, il cui interesse si è focalizzato sugli aspetti relazionali della comunicazione e della presentazione dell’opera d’arte, come accade nelle sue installazioni video: Present continuous past(s) (1974), un ambiente ricoperto di specchi in cui lo spettatore è confrontato con un’infinita regressione del continuum temporale, ottenuta riproducendo con un ritardo di otto secondi l’immagine video ripresa dal vivo nel medesimo spazio; e Yesterday/Today (1975), basata su un gioco di ritardi, sdoppiamenti e sovrapposizioni spazio-temporali ottenuti per mezzo della rottura del sincronismo tra suono e immagine video. Lo studio delle dinamiche percettive è al centro dei lavori dello statunitense Bill Viola, che si avvale di un montaggio di immagini organizzate in ritmi temporali ciclici, tali da richiamare lo spettatore in una dimensione sospesa e meditativa (An instrument of simple sensation, 1983); dell’italiano Fabrizio Plessi, che sottolinea l’ambigua contiguità dell’immagine televisiva con il mondo reale (The Bronx, 1986).

Dinamiche psicologiche e sfera corporea

Su un piano ancora diverso operano quegli artisti che utilizzano la comunicazione multimediale per affrontare temi quali i comportamenti collettivi, i contrasti tra identità individuali, i condizionamenti culturali. In questo ambito si inscrivono i lavori dello statunitense Bruce Nauman, caratterizzati da una ricerca fenomenologica applicata alla dimensione del corpo e da suggestioni letterarie derivate dalle opere di Samuel Beckett e Alain Robbe-Grillet; la sua opera ha utilizzato fotografie, ologrammi, video quali Violin tuned dead e Slow angle walk (Beckett walk) (1968), incentrati su azioni elementari e iterative, come suonare il violino o camminare ossessivamente in direzioni opposte, o installazioni che coinvolgono lo spazio espositivo e lo spettatore, come Green-light corridor (1970), stretto spazio illuminato da luce al neon destinato a suscitare disagio e sensazioni claustrofobiche in chi vi accede. L’utilizzo simultaneo di più media e l’interesse per le dinamiche psicologiche interpersonali caratterizzano la ricerca dello statunitense Tony Oursler, le cui installazioni si avvalgono di elementi statici tridimensionali (arredi, oggetti ecc.) e di manichini animati da proiezioni video che li trasformano in personaggi parlanti (Switch, 1996). Prendendo spunto dalle machines célibataires di Duchamp, dalle ricerche surrealiste e dalla concezione allargata di opera d’arte propugnata da Beuys, la tedesca Rebecca Horn ha usato dispositivi meccanici assimilabili a equivalenti metaforici dei processi psicofisici attraverso cui si costituisce l’esperienza individuale: i suoi ‘meccanismi’ (ruotismi, motori elettrici, temporizzatori ecc.) si presentano come appendici del corpo dell’artista (Kakadu-Maske, 1973) o elementi di installazioni (The yellow-black race of pigments, 1987) che forniscono paradossali rappresentazioni di dinamiche comportamentali e psicologiche, quali piacere, desiderio, dolore. I lavori dell’australiano Stelarc (pseudonimo di Stelios Arcadiou) esplorano le possibili connessioni tra il corpo biologico e le nuove tecnologie, dapprima in forma diretta (Suspensions, 1976), poi configurando un organismo virtuale, The body. Ancora sui temi dell’identità e sull’immagine corporea verte la ricerca della francese Orlan, a partire dalla performance del 1975 Sainte Orlan: i lavori multimediali mostrano le manipolazioni del suo volto durante interventi chirurgici che tendono a modificarne l’aspetto esteriore per adattarlo a modelli scelti nel patrimonio di immagini femminili della pittura europea, in una modalità che può essere considerata l’approdo più radicale delle esperienze della Body art.

Computer art

La manipolazione digitale delle immagini mediante elaboratori elettronici è un altro campo in cui la ricerca artistica è stata attiva negli ultimi decenni; la Computer art tende a porre in primo piano i caratteri peculiari dell’immagine digitale, primi tra tutti l’immaterialità e la logica matematica soggiacente. Influente in questo senso si è dimostrata la teoria dei frattali elaborata dal francese Benoît Mandelbrot, che utilizza calcoli aleatori per generare complesse rappresentazioni basate sull’infinita ripetizione di un modulo base. Legati ad altri aspetti della logica dei computer, come l’interattività e la possibilità di fornire risposte in tempo reale, sono i lavori di artisti come Myron W. Krueger (Videoplace, 1989), Lynn Hershman (Deep contact, 1990) e J. Manning (Who says, 1990).

Le nuove forme espressive tendono a definire modalità di creazione e fruizione estetica in cui aspetti quali la struttura interattiva, la stratificazione dei messaggi, l’immaterialità dei supporti divengono spie e anticipazioni di un più generale mutamento culturale in atto nel mondo contemporaneo. In un’epoca dominata da una stretta interdipendenza tra competenze scientifiche e tecnologiche, possibilità di accesso ai nuovi canali di comunicazione informatica e sempre più sottili forme di dominio politico ed economico, la produzione artistica tende così a conquistarsi nuovi spazi di visibilità e a recuperare il valore sperimentale che era stato proprio delle avanguardie, sviluppando un’indagine intorno agli aspetti pratici e teorici delle tecnologie, all’habitat naturale e sociale, ai comportamenti individuali. Il caso della statunitense Jenny Holzer è in tal senso indicativo: tra i primi artisti a utilizzare Internet come nuovo ambito creativo, la Holzer si concentra sull’elaborazione di testi, truisms (affermazioni lapalissiane), modificabili dinamicamente dallo spettatore-utente (Please change beliefs, 1996). La rete telematica costituisce il più innovativo campo di sperimentazione artistica; l’ambito più direttamente coinvolto è l’interfaccia grafica World Wide Web, in virtù delle sue specificità comunicative, quali l’accessibilità incondizionata, la bidirezionalità, l’interattività, la possibilità di utilizzare contemporaneamente testi, immagini (anche animate) e suoni: caratteri impiegati da artisti come lo spagnolo Antoni Muntadas (On translation, 1997).

La formazione dell’artista oggi

I mutamenti intervenuti nelle esperienze artistiche dal 1960 in avanti, con l’estensione del loro campo operativo a tecniche inedite e le trasformazioni delle modalità di ricezione, rappresentano altrettanti fattori attivi in direzione di un rinnovamento dei modelli di formazione degli artisti contemporanei. L’ultimo quarantennio appare caratterizzato dalla comparsa e dal rapido ricambio di indirizzi di ricerca che segnano la perdita di rilevanza dell’opposizione tra pratiche ‘alte’ e ‘basse’ e l’interruzione della tradizione tecnica e formale (il ‘mestiere’) trasmessa in precedenza dalle accademie o dalle consuete forme di apprendistato artistico. Il ricorso a procedimenti e materiali mutuati dalle tecnologie industriali, tipico delle correnti pop e minimaliste, o al contrario attinti al mondo naturale, nel caso della Process art e dell’Arte povera, la mescolanza di generi e linguaggi (Performance art), l’utilizzo del corpo in senso espressivo e di mezzi elettronici o informatici, e soprattutto l’assunzione del ‘montaggio’ come fondamentale strategia estetica, costituiscono tuttavia solo gli effetti più appariscenti di una trasformazione culturale che ha interessato il campo artistico contemporaneo a partire dai suoi stessi capisaldi estetici: il tratto essenziale, la ‘differenza’, frutto di questo cambiamento, vanno individuati nella messa in discussione di nozioni intimamente connesse alla produzione artistica, come l’unicità, l’originalità e l’autografia, e alla conseguente dilatazione della categoria di ‘opera’. ‘Antropologo’, secondo il capofila della corrente concettuale Joseph Kosuth, oppure ‘sciamano’ per Beuys, l’artista contemporaneo non può che continuamente rimodellare i propri fondamenti euristici, senza poter più contare su una ratio predefinita. L’artista si trova infatti privato della distanza ‘fissa’ dall’arte del passato garantitagli dalla rottura e dal carattere progressivo del modello modernista. L’ideologia canonicamente enunciata da Greenberg e dai suoi seguaci cessa di costituire il riferimento obbligatorio per la teoria dell’arte contemporanea, che tende a recuperare nel tessuto novecentesco gli episodi eterodossi (per es. il movimento dada, il realismo della Neue Sachlichkeit, singole figure di artisti) rispetto al purismo astrattista, o a sottolineare il contraddittorio rapporto tra l’artista e la società, sterilizzando la prospettiva di emancipazione globale tipica delle avanguardie della prima metà del secolo. L’indebolimento della distinzione tra ‘opera’ e ‘commento’, portato caratteristico della filosofia ermeneutica contemporanea, contribuisce poi a mutare i termini del rapporto tra pratica e teoria dell’arte.

Con l’apparizione di eterogenei paradigmi operativi, il ricorso a materiali ‘primari’ o a una espressività diretta e intenzionalmente ‘ineducata’, si è andata sempre più precisando l’insufficienza dei modelli formativi, ‘classici’ e ‘moderni’, che avevano contraddistinto i decenni precedenti, ma anche la difficoltà a reperire principi alternativi di validità generale su cui basare un nuovo progetto educativo.

Nuovi percorsi educativi

Già dal principio del 20° secolo era apparsa ormai irreversibile la perdita di efficacia dell’insegnamento impartito nelle tradizionali accademie di belle arti, la cui struttura, modellata sull’eredità del 19° secolo, costituiva l’ultimo anello di una catena risalente alle accademie classiciste europee del Seicento e alle concezioni vasariane. Fondato sulla trasmissione di un sapere insieme teorico e pratico, a sua volta basato sulla continuità di un paradigma artistico rigidamente delimitato, il modello dell’accademia era stato sottoposto all’azione demolitrice delle avanguardie e soprattutto del Movimento moderno sin dagli anni successivi al Primo conflitto mondiale, con le proposte del berlinese Bruno Paul, miranti a unificare in un’unica struttura l’insegnamento delle arti maggiori e di quelle applicate, e l’attività di Walter Gropius e del Bauhaus, il cui fine didattico era «un tirocinio pratico completo e una precisa dottrina degli elementi formali e delle loro leggi strutturali», una nuova modalità formativa che puntava a superare allo stesso tempo l’estetismo tardo ottocentesco e la marginalità culturale dei mestieri artistici attraverso un positivo rapporto con le tecnologie moderne e una visione unitaria del processo creativo.

Il modello multidisciplinare e integrato perseguito dal Bauhaus ha continuato a esercitare un ascendente anche nel periodo successivo al Secondo conflitto mondiale, segnatamente nell’ambito delle scuole orientate all’architettura e all’industrial design, come l’Institute of Design di Chicago, aperto da Laszlo Moholy-Nagy nel 1944, la Hochschule für Gestaltung, fondata a Ulma da Max Bill nel 1950, e il Black Mountain College, nelle quali d’altra parte l’originario equilibrio voluto da Gropius tra arti ‘pure’ e ‘applicate’ viene decisamente spostato a favore di queste ultime. Ancora a questa concezione guardano in anni recenti le scuole d’arte che nel mondo anglosassone tendono a riunire nello stesso istituto le diverse discipline artistiche e quelle più strettamente legate alla produzione industriale. Negli Stati Uniti, per es., la compresenza nella medesima istituzione di insegnamenti tradizionali dell’area delle fine arts e quelli legati all’artigianato artistico, all’abbigliamento, alla grafica pubblicitaria ecc., sia pure inseriti in curricula distinti, tende di fatto a stabilire un’equivalenza non occasionale tra le differenti aree di ricerca e formazione.

In Italia l’educazione artistica è impartita al livello della scuola secondaria superiore nei licei artistici e negli istituti d’arte, e nell’accademia di belle arti per il livello superiore, assieme agli Istituti superiori per le industrie artistiche (ISIA) e ai corsi di laurea in disegno industriale. L’attuale ordinamento (tranne nel caso degli ISIA) è ancora debitore dell’impostazione voluta dalla riforma Gentile: nonostante i molti adattamenti (il più importante, nell’accademia, ha visto la creazione negli anni 1970 di insegnamenti complementari di carattere pratico o teorico accanto alle tradizionali cattedre di pittura, scultura, scenografia, decorazione, incisione e storia dell’arte) e la crescita numerica degli istituti (dalle 9 accademie ‘storiche’, quasi tutte di fondazione preunitaria, si è passati alle attuali 20 accademie statali), appare ormai insufficiente a soddisfare le nuove esigenze formative, soprattutto dal punto di vista della ricerca e non più della trasmissione di saperi in larga parte desueti.

Con la nuova temperie è mutata l’identità culturale dell’artista e non sono infrequenti i casi di artisti provenienti da aree molto distanti da quella specificamente estetica: Brecht si formò come chimico e poi, dedicatosi a studi sul concetto di indeterminazione nelle scienze, nella filosofia e nell’arte, entrò in contatto con Cage e divenne uno dei maggiori esponenti del movimento Fluxus; Filliou, formatosi come economista, si avvicinò poi a studi di arte e filosofia che sfociarono in un percorso creativo centrato sulla dimensione comunicativa e sociale e sul valore ‘sovversivo’ dell’arte.

Significativa resta l’esperienza di Cage al Black Mountain College nei primi anni 1950, prototipo di un’integrazione orizzontale tra diversi campi espressivi (pittura, fotografia, danza, musica, teatro ecc.) che alla concezione progettuale ereditata dal Bauhaus, e alla sottintesa nozione di ‘professionalità’ artistica, tendeva a sostituire un concetto di creatività mobile e trasversale, focalizzando la didattica sui meccanismi comunicativi e sulla natura processuale dei fatti artistici più che sulla produzione controllata di opere. In questa proposta, che segnava il distacco dalla visione ‘ipersoggettiva’ dell’arte di tendenza informale, iniziava a emergere anche una nuova concezione dell’artista come ‘operatore’ aspecifico, che agisce sui confini tra le tecniche e i linguaggi mettendo in crisi le tipologie convenzionali. I tentativi di riconsiderare i modi di formazione artistica hanno portato al moltiplicarsi di incontri e occasioni di confronto tra artisti di paesi e tendenze diverse. Una delle esperienze più rilevanti è stata la Freie internationale Hochschule für Kreativität und interdisziplinäre Forschung, concepita da Beuys (1972) e ispirata al ‘concetto allargato di arte’: priva di una sede stabile (sarà attiva anche in Irlanda, Gran Bretagna, Italia), proponeva nel curriculum, oltre le materie artistiche, discipline come sociologia, scienze naturali, economia, in una visione incentrata sulla ‘liberazione’ delle energie individuali. La natura non formalizzata di questa proposta, e l’importanza che al suo interno assume il rapporto individuale con l’allievo, mette inoltre in rilievo come quello istituzionale sia solo uno dei livelli nel campo dell’apprendistato artistico; vi è infatti una dimensione, più fluida e meno suscettibile di rigide classificazioni, rappresentata dalla collaborazione d’atelier e dai rapporti personali di scambio e discepolato tra artisti di diversa generazione, come nel caso dell’ascendente esercitato in Italia da Fontana sugli artisti degli inizi degli anni 1960 (per es. Luciano Fabro), della lezione di Toti Scialoja nei confronti dei giovani esordienti agli inizi degli anni 1980 (tra gli altri, Domenico Bianchi, Gianni Dessì), o della collaborazione in Germania tra Beuys e Gerhard Richter.

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