ZEFFIRELLI, Franco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 100 (2020)

ZEFFIRELLI, Franco

Paolo Puppa

– Nacque a Firenze il 12 febbraio 1923 da una relazione tra Alaide Garosi, apprezzata sarta con un suo atelier vicino al duomo, e Ottorino Corsi, commerciante di tessuti pregiati, specie sete di Como e lane inglesi.

Appassionata di musica, in grado di suonare bene il pianoforte e di cantare pagine operistiche, la madre di Franco era sposata con l’avvocato Alberto Cipriani – da tempo malato e sovente ricoverato in cliniche private. Dal matrimonio era già nata Adriana, poi coniugata a un agente di borsa di Milano, quindi Ubaldo – aspirante calciatore – e la piccola Giuliana. Il padre Ottorino, da parte sua, era un impenitente donnaiolo, nelle memorie almeno del figlio (Zeffirelli, 2015, p. 13), mal controllato da una moglie gelosa, Corinna, e figlia alle spalle, Fanny. Un ménage per i tempi decisamente irregolare, quello dei due genitori, al limite dello scandalo, con la donna rimasta incinta a trentanove anni, decisa a portare a termine la gravidanza per il forte legame con l’uomo e nonostante lo scandalo che ne seguì. Franco dunque, figlio di ignoto, prese il cognome dalla lettera che in anagrafe toccava quel giorno, la zeta. Ispirandosi all’aria dell’Idomeneo mozartiano a lei molto caro, non potendogli dare nemmeno il proprio nome, Adelaide scelse Zeffiretti, che per errore del copista in Comune si tramutò in Zeffirelli.

Rimasto orfano della madre a soli sei anni, il futuro regista venne accudito dalla zia Lide, cugina del padre, poi destinata a dirigere le sue case una volta rimasta vedova, e dal marito Gustavo. Il padre, che si accollò sempre il suo mantenimento, lo portava in giro nei week end a giostre e al parco. Il ragazzo maturò un carattere chiuso e riservato, felice solo nelle estati trascorse in campagna dalla balia Ersilia, affascinato dai cantastorie. Fu il teatrino di burattini avuto in regalo e poi l’assistere a una replica della Valchiria a spalancargli a dieci anni la suggestione divorante per il palcoscenico, così come fu ancora lo schermo cinematografico con le sue storie lacrimose a sconvolgerlo e a dargli il gusto del melodramma. Dopo il collegio al convento di S. Marco, dove ebbe tra gli istruttori anche Giorgio La Pira, Franco riuscì a convincere il padre a lasciarlo iscrivere al liceo artistico. Allo stesso tempo, per aiutarlo nel lavoro, prese lezioni private in inglese con tre amiche da un’anziana signorina che viveva a Firenze. Qui incontrò Shakespeare, e soprattutto si impadronì di una competenza linguistica in grado poi di spalancargli i ben remunerati circuiti anglo-americani e di dirigere spettacoli in lingua inglese. L’apprendimento in un ambiente raffinato e un po’ pedante divenne poi materia della sua pellicola autobiografica, Un tè con Mussolini nel 1999, romanzo filmico di formazione e insieme parata di grandi attrici inglesi come Maggie Smith, Joan Plowright e Judi Dench.

Nell’estate del 1941, promosso all’ultimo anno di scuola, Zeffirelli ottenne con un compagno di classe di viaggiare in bicicletta nel Sud Italia, andando incontro sia a Padre Pio in Puglia sia agli orrori della guerra e sfiorando pure il bombardamento su Napoli. Rientrato a Firenze, a ottobre si iscrisse alla facoltà di architettura. Nel 1943, davanti alla prospettiva di essere arruolato nelle file dell’esercito repubblichino, pena la corte marziale, fuggì dalla città entrando nelle formazioni partigiane e l’anno successivo si attivò come interprete del I battaglione delle guardie scozzesi che risaliva la penisola liberando man mano il territorio. Alla fine di luglio del 1944 si avvicinò a Firenze, rischiando di venire colpito dalle mitragliatrici tedesche, entrando nella città devastata per l’esplosione dei ponti fatti saltare dal nemico in fuga. A tutto aprile del 1945 rimase con le truppe scozzesi seguendole a Brescia. Qui fu un capitano americano a volerlo sulla sua jeep per raggiungere Milano. Così a piazza Loreto Zeffirelli fece in tempo a vedere il macabro spettacolo del duce a testa in giù. Tornato a Firenze andò a vivere con il padre, rimasto vedovo, che nel frattempo lo riconobbe come figlio legittimo all’anagrafe. Divenne allora Gian Franco Corsi, anche se volle sempre restare fedele al nome inventato dalla madre.

Senza entusiasmo, proseguì gli studi di architettura, ma intanto non mancò di recitare in piccole formazioni amatoriali, oltre che alla radio, dove ottenne piccoli guadagni. Si propose come assistente allo scenografo Camillo Parravicini, avendo curato le scene nel 1945 per la compagnia fiorentina Il Carro dell’Orsa minore, per la Patente pirandelliana e per L’uomo che corruppe Hadleyburg di Mark Twain, diretti entrambi da Alessandro Brissoni. Riuscì a intrufolarsi al teatro della Pergola dove Luchino Visconti, un mito per lui subito, stava provando La via del tabacco di Erskine Caldwell per il debutto milanese nel dicembre del 1945. Mostrò al grande regista i propri disegni scenografici e fece pure un provino come attore, senza alcun riscontro per il momento. Nell’estate del 1946, una cugina della madre – ex cantante lirica e in quel momento insegnante all’Accademia musicale chigiana – gli chiese di farle le scene per il saggio annuale. Si trattava di Livietta e Tracollo di Giovanni Battista Pergolesi, di fatto il suo debutto ufficiale nel palcoscenico professionale. Al ritorno da Siena Franco trovò la lettera, per lui sconvolgente, di Visconti, che lo assumeva per un minuscolo ruolo e paga altrettanto irrilevante per lo spettacolo Delitto e castigo, adattato da Gaston Baty dal romanzo russo, ovvero uno dei due muratori che restaurano la stanza dove Raskkol′nikov uccideva le due donne. Ma era questa l’occasione tanto attesa di avvicinare la crema del teatro italiano, da Vittorio Gassman a Rina Morelli, da Memo Benassi a Tat′jana P. Pavlova, da Massimo Girotti a Giorgio De Lullo.

Vincendo le resistenze del padre, Franco si trasferì a Roma. Lo aiutò un cugino sceneggiatore, Piero Tellini, che lo presentò a Luigi Zampa che stava girando nel 1947 L’onorevole Angelina con Anna Magnani, d’impronta neorealista. Avrebbe dovuto solo collaborare alla pubblicità del film, ma grazie alla diva fu inserito nel cast come attore giovane doppiato, per la parte di un giovane idealista, Filippo Garrone, figlio del ricco e corrotto palazzinaro e speculatore edilizio. Lo notò una sceneggiatrice americana, Helen Deutsch, e gli offrì un contratto a Hollywood molto ben pagato per cinque anni. Lo trattenne Visconti, che minacciò di cancellarlo dal suo lavoro se mai avesse accettato. A settembre divenne di conseguenza suo aiuto nelle riprese del film La terra trema, girato in Sicilia. Tornato a Roma, si insediò nel palazzo dell’amico in via Salaria, intrattenendo con Luchino una passionale relazione, incerta tra la sottomissione al fascino aristocratico e ai contatti con la cultura e l’alta società internazionale dell’uomo e periodiche rivolte turbolente in cui fuoriusciva il sanguigno carattere toscano del giovane Franco. Divenne suo assistente organico nella stagione teatrale 1948-49, iniziando dallo shakespeariano Rosalinda o Come vi piace, collaborando con Salvador Dalí alle scene e ai costumi, quindi disegnò da solo le scene per Un tram che si chiama Desiderio di Tennessee Williams, esaltandosi infine in Troilo e Cressidra, sempre di Shakespeare, inscenato nel Giardino di Boboli. Zeffirelli realizzò entro un palco di oltre cento metri un’incantevole città fiabesca, sorta di miniatura persiana, a rendere Troia, dove Visconti riunì nuovamente il meglio degli interpreti italiani.

Fu questo il rientro con grande visibilità nella sua città natale, con conseguente riconciliazione con il padre. La relazione artistica e amorosa con Luchino si interruppe bruscamente nel 1951 per colpa di un oscuro episodio – il furto di oggetti di gran valore nella camera da letto, tra cui preziosi orologi – allorché Visconti lasciò che il suo amico e collaboratore venisse trascinato assieme alla servitù in commissariato per un umiliante interrogatorio, senza scagionarlo a priori, e ostentando in tal modo la distanza di classe. Esauritosi il legame sentimentale, nondimeno continuò la collaborazione tra i due se per le Tre sorelle cechoviane nel 1952 Zeffirelli si vide assegnare la scenografia, in cui il congedo verso il vecchio mondo d’antan venne reso sbiadendo progressivamente nel giardino autunnale i colori brillanti e vivaci del primo atto, così come venne chiamato assieme a Franco Rosi ad assisterlo per il film Senso, in uscita nel 1954. Ma intanto si era già manifestato in un allestimento personale con la Lulù di Carlo Bertolazzi nel 1950, costumi affidati all’amico Piero Tosi, interprete Vivi Gioi con Gabriele Ferzetti e Luigi Cimara. Per la stagione 1953-54, fece il suo debutto autonomo per le scene musicali nell’opera L’Italiana in Algeri, alla Scala, regia di Corrado Pavolini e direzione di Carlo Maria Giulini, seguita dalla Cenerentola l’anno successivo, dove sostituì Pavolini malato e l’allestimento portò il suo nome solitario per la prima volta, oltre a costumi e scene. E fu un’esperienza all’inizio traumatica, specie davanti alla complessità di dirigere il coro. Diresse, sempre nel 1954, l’Elisir d’amore e nel 1955 Il turco in Italia, primo incontro con Maria Callas. Per mere ragioni di compenso, accettò di girare il film Camping con Nino Manfredi e Paolo Ferrari, in circuito nel 1957, storia leggera e un po’ sgangherata di giovani in vacanza. Nel 1958 si recò a Dallas per la Traviata con la Callas, rimontata come flashback dell’intera vicenda, con un successo esaltante che gli spalancò committenze di regie liriche negli Stati Uniti e nel mondo. Nel 1959, il maestro Tullio Serafin lo chiamò allora alla Royal Opera House di Londra per Lucia di Lammermoor con la soprano australiana Joan Sutherland, con una scena immersa nel chiarore lunare, ombreggiato da veli a rievocare le nebbie scozzesi. Replicò l’opera nel medesimo anno a Dallas con Callas, in una versione più sanguigna, ma nella celebre sequenza della follia la cantante, travolta dalle tensioni per le private vicende, la separazione dal marito e la nuova relazione con Aristotele Onassis, inciampò nel mi acuto, divenuto urlo di animale ferito. E alla soprano tanto venerata Zeffirelli dedicò una pellicola nel 2002 Callas forever con Fanny Ardant, un omaggio devoto e agiografico sugli ultimi mesi di vita della donna.

Tornato a Londra, e sempre nel 1959, Zeffirelli propose con esiti trionfali Pagliacci e Cavalleria rusticana ravvivata da un sole cocente e dall’Etna sullo sfondo. Quale sosta nella prosa, nel 1959 portò a Spoleto Fogli d’album, eterogeneo montaggio di testi tra l’altro di Dino Buzzati, Italo Calvino, Eugène Ionesco e Jean Cocteau, e canzoni di Dario Fo e Fiorenzo Carpi. Ricevette a questo punto la proposta prestigiosa, a consacrazione di un riconoscimento ormai internazionale, da parte dell’Old Vic nel 1960 per Romeo e Giulietta, interpretata da una giovane Judi Dench, con un casting freschissimo di anagrafe, cui impose di tenere i capelli lunghi, senza parrucche di sorta, a mantenere naturalità e a preservare l’italianità esuberante del contesto. Nella ricezione, il pubblico in delirio si contrappose alle stroncature della critica irritata, finché non intervenne Kenneth Tynan, nume dei recensori britannici, che inneggiò allo spettacolo, invitato a New York per il 1962. Nel 1961, a Stratford-upon-Avon, mise in scena Otello con John Gielgud e Peggy Ashcroft nelle parti principali. Nel 1963, a conferma del suo privilegiare regie con un cast straniero, ecco Camille, adattamento di Giles Cooper da La dame aux camélias, con Susan Stras­berg, costumi di Marcel Escoffier e Pierre Cardin. Per la scena lirica, un vortice di committenze, Falstaff e Don Giovanni a Londra nel 1961 e nel 1962, e sempre nel 1961 Elisir d’amore a Glyndebourne, nonché Thais a Dallas. Nel settembre del 1962 morì il padre. Nel 1963 fu la volta della Bohème alla Scala, diretta da Herbert von Karajan, regia tanto apprezzata da essere replicata per mezzo secolo in giro per il mondo, ossia ben 410 volte. Seguì tre mesi dopo, e nello stesso teatro, Aida, primo caso di un suo allestimento coronato da consenso nella stampa nazionale. Il fatto è che la ricerca di soluzioni popolari e accattivanti lasciava spesso perplessi gli specialisti, da qui la sua ridotta presenza nelle storiografie della scena nostrana. Senza dubbio, da Visconti Zeffirelli ereditò la maniacale accuratezza nella ricostruzione ambientale del passato, e l’ossessione decorativa-ornamentale che lo aiutarono non poco nel lavoro sul melodramma, con esiti più ragguardevoli rispetto al teatro e al cinema. E alcuni titoli operistici costituirono una sorta di personale brand, con ritorni compulsivi e mai ripetitivi. Basti citare la Carmen all’Arena di Verona nel 1995, ripresa poi nel 1996 e 1997, 1999, 2002 e 2003, 2006, dal 2008 al 2010, 2012, 2014 e nel 2016; il Trovatore andato in scena nel 2001 e poi anche nel 2002, 2004, 2010, 2013 e 2016; l’Aida che gli consentiva di esaltarsi in fantasmagorie iconografiche presentata nel 2002 e riproposta dal 2003 al 2006, nel 2010 e nel 2015; Madama Butterfly nel 2004, 2006, 2010, 2014 e 2017. Firmò comunque alcuni spettacoli di prosa di grande risonanza, anche in produzioni nazionali, e nel consueto ritmo accumulativo, come nel 1963 Chi ha paura di Virginia Woolf ? di Edward Albee con Sarah Ferrati (ruolo rifiutato sa Anna Magnani) e nel medesimo anno l’Amleto nell’adattamento di Gerardo Guerrieri, con un magnetico Giorgio Albertazzi portato poi a Londra nel 1964 in occasione delle celebrazioni shakespeariane per i quattrocento anni dalla nascita del commediografo elisabettiano; così nel 1964 Romeo e Giulietta sempre nella versione di Guerrieri e con i fulgidi Giancarlo Giannini e Annamaria Guarnieri e Dopo la caduta di Arthur Miller con Monica Vitti e Albertazzi; e ancora nel 1965 La lupa verghiana con una scatenata Magnani, stavolta convinta ad accettare la parte, produzione che tenne il cartellone per ben tre anni in tutta Europa. E nel repertorio angloamericano, non trascurabili apparvero nel 1967 al teatro Eliseo romano Black comedy di Peter Shaffer e Un equilibrio delicato di Albee. Non mancarono escursioni nei classici del Novecento italiano, come La città morta dannunziana nel 1975 con Sarah Ferrati, e nei pirandelliani Così è (se vi pare) con Paola Borboni nel 1984 e Sei personaggi in cerca d’autore con Enrico Maria Salerno nel 1991. A ribadire un insolito appeal per un artista italiano (nel palcoscenico del Metropolitan di New York sta una targa che ricorda i suoi undini allestimenti in quel teatro, tanto che a tutto il 2014 si contavano ottocento repliche di suoi spettacoli), Laurence Olivier, nuovo direttore dell’Old Vic gli offrì nel 1965 la regia di Molto rumore per nulla, con Maggie Smith e Albert Finney, poco prima acclamato interprete del film Tom Jones. E sempre Olivier fu assieme alla moglie Joan Plowright protagonista della sua messinscena inglese nel 1973 dell’eduardiano Sabato, domenica e lunedì, mentre sulla attrice inglese sagomò nel 1977 anche Filumena Marturano. Nel 1966 Zeffirelli scrisse il libretto e diresse a New York la prima assoluta dell’opera Anthony and Cleopatra di Samuel Barber. Il gusto di dirigere star mondiali lo portò poi a girare pellicole intorno al suo prediletto Shakespeare, riduzione-pretesto per meticolose offerte di estenuate eleganze in abiti rinascimentali come nell’adattamento per lo schermo della commedia La bisbetica domata nel 1967, centrata su Liz Taylor e Richard Burton.

Nei giorni in cui si rifiniva la pellicola, ci fu la tragica alluvione dell’Arno. Contando pure sulla generosa presenza di Burton, il regista girò un documentario per raccogliere fondi alla ricostruzione della città. Fu poi la volta della trasposizione di Romeo and Juliet nel 1968, Nastro d’argento e nomination agli Oscar. L’anno seguente, un pauroso incidente automobilistico rischiò di ucciderlo nell’automobile guidata da Gina Lollobrigida, per cui dovette affrontare una serie di interventi chirurgici. Turbato dall’episodio e dalla sosta riabilitativa, avvalorò la propria fede nel 1971 con il film su s. Francesco, Fratello sole, Sorella luna, in un clima mistico e nell’estasi della bellezza maschile in chiave ascetica. Il tutto venne ribadito sia nel dicembre del 1974 allorché curò la regia televisiva in mondovisione della cerimonia di apertura dell’anno santo, sia nella serie televisiva Gesù di Nazareth del 1976, prodotto dalla RAI in sinergia con l’impresario Lew Grade, ebreo inglese di origine ucraina, sceneggiato da Suso Cechi D’Amico e da Anthony Burgess, interpretato da Robert Powell, nella volontà divulgativa del Vangelo grazie agli strumenti mediatici. Sempre nell’utilizzazione del medium popolare (così il suo furibondo tifo sbandierato per la squadra di calcio della Fiorentina), se il 7 dicembre del 1976 mise in scena e curò le scene a inaugurare la stagione alla Scala per un clamoroso Otello, diretto da Carlos Kleiber con un cast stellare, Plácido Domingo, Mirella Freni e Piero Cappuccilli, si assicurò pure che per la prima volta l’opera venisse trasmessa in diretta dalla RAI. Analogamente, il 21 aprile del 2007 andò in scena il suo nuovo allestimento della Traviata per il teatro dell’Opera di Roma, direzione Gianluigi Gelmetti, soprano Angela Gheorghiu, trasmessa in diretta in ventidue sale cinematografiche.

Uomo di forti contrasti, Zeffirelli. Nella sua filmografia, sempre più costruita in una strategia hollywoodiana, e dunque girata rigorosamente in inglese, che gli valse pure nel 2002 un David per la carriera, sono da menzionare almeno alcuni titoli non riducibili al preziosismo e al manierismo del grande arredatore, come Il campione nel 1979, remake della pellicola di King Vidor del 1931, storia di un pugile fallito che muore sul ring per riconquistarsi il diritto a stare con il proprio figlio; Amore senza fine nel 1981, sulla passione di due ragazzi contrastata dalle rispettive famiglie; Il giovane Toscanini nel 1988, sugli esordi controversi del grande direttore d’orchestra. Ma in questi casi, prevalevano le ragioni del sentimentalismo e la ricerca di una voluta retorica delle grandi emozioni. Da non trascurare infine l’ambizioso Amleto nel 1990, con Mel Gibson e Glenn Close, dalle forti sottolineature psicoanalitiche.

Il suo dichiarato anticomunismo, nonostante l’antica, passionale relazione con Visconti, si rivelò nel tempo compatibile perfettamente con l’antica militanza partigiana, così come la sua omosessualità esibita sobriamente, memore dei precedenti classici e rinascimentali, e lontanissima dalle saghe del gay power, si coniugava con un’ideologia cattolica ben conservatrice. Nel 1993 invocò la pena di morte per le donne che abortiscono (eco di una vicenda personale e di una nascita illegittima), così come si scagliò contro i giudici di Tangentopoli. Inevitabile fu pertanto l’incontro nel 1994, nel giro mondano, cui era molto sensibile, con Silvio Berlusconi che in precedenza gli aveva finanziato da imprenditore un allestimento della schilleriana Maria Stuarda nel 1983, retta sulla rivalità tra Rossella Falk e Valentina Cortese, da lui però domata con maestria. Accettò con entusiasmo una candidatura per il Senato nelle liste di Forza Italia a Catania, dove aveva girato le riprese del film Storia di una capinera, dal romanzo di Giovanni Verga l’anno prima, ottenendo il 62 % dei voti, poi rieletto due anni dopo. Questa scelta gli procurò attacchi della stampa inglese all’uscita del suo film Jane Eyre, nel 1995, con accuse di fascismo e tutta una serie di querele. Vinse, e la somma di centomila sterline la consegnò al Vescovo di Catania per aiuti all’infanzia. Nel 2001 lasciò lo scranno senatoriale, scoraggiato dallo sciupio di tempo, ai danni del suo lavoro artistico. Nel 2004 venne nominato dalla regina d’Inghilterra Knight Commander of the British Empire.

Nel 2015 diede vita alla fondazione che porta il suo nome, dedicandosi a raccogliere tutti i materiali della sua quasi sessantennale carriera, aiutato da Pippo Pisciotto e Luciano Bacchielli, divenuti nel 1999 suoi figli adottivi. Nel 2019 curò, pur debilitato, la sua ultima regia, La Traviata. La prima era prevista il 21 giugno 2019, con la serata trasmessa in diretta su RAI1 alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma sir Franco Zeffirelli si spense prima, la mattina del 15 giugno 2019, nella sua lussuosa casa romana, a novantasei anni.

Dopo i funerali, celebrati il 18 giugno nella cattedrale di S. Maria del Fiore, venne sepol­to, come da lui chiesto, nella cappella di famiglia nel cimitero delle Porte Sante, nella sua Firenze.

Fonti e Bibl.: Per uno sguardo complessivo sulla sua carriera spesa tra melodramma, cinema e teatro di prosa, indispensabile la Fondazione che porta il suo nome, entro il complesso di S. Firenze, in origine convento dei padri filippini, e poi sede del tribunale. In questo spazio che di frequente promuove eventi artistici di rilievo si trova il Museo omonimo con 22 sale, dove sono raccolte oltre 300 opere tra bozzetti di scena, disegni e figurini di costume. Vi si aggiungono un archivio con i tanti copioni, una ricca rassegna stampa, e una biblioteca, un tempo nella casa romana. A suggello, l’accuratissimo Franco Zeffirelli. L’opera completa. Teatro. Opera. Cinema, a cura di C. Napoleone, prefazione di Franco Zeffirelli, Novara 2010. Quale integrazione, decisamente auto-celebrativa, la sua Autobiografia, Milano 2006, uscita in precedenza in versione inglese a Londra e a New York nel 1986.

Zeffirelli. Scenografie, a cura di C. D’Amico De Carvalho, Roma 1993; Zeffirelli alla Scala, a cura di V. Crespi Morbio, Milano 2006; Zeffirelli. L’arte dello spettacolo, a cura di C. D’Amico, Roma 2015; Museo Zeffirelli, a cura di C. D’Amico, Firenze 2019. Nella scarsa bibliografia, limitata alle recensioni sui quotidiani, si veda almeno P. Salvadori, Shakespeare e il cinema. Il testo di Hamlet e le trasposizioni filmiche di Laurence Olivier e Franco Zeffirelli, Milano 1992.

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