Vettori, Francesco

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Vettori, Francesco

Andrea Matucci

Nacque a Firenze nel 1474 in una famiglia bene inserita nella cerchia degli ottimati fiorentini. Il padre Piero, nato nel 1443, aveva ricevuto una solida educazione umanistica e, dopo il suo matrimonio con Caterina, sorella di Bernardo Rucellai, aveva iniziato una brillante carriera politica e diplomatica che lo aveva condotto a essere uno degli uomini di fiducia di Lorenzo il Magnifico. Si ritiene che poco dopo la sua morte, avvenuta nel 1495, il figlio Francesco abbia composto la sua prima operetta, una breve biografia tramandataci con il titolo di Vita di Piero Vettori l’Antico – dove la definizione di antichità serve a distinguerlo dall’omonimo nato nel 1499 – in cui V. passa in rassegna tutti gli incarichi pubblici del padre, dalle numerose ambascerie presso i re di Napoli e di Francia, ai ruoli di commissario o provveditore in importanti guerre di Firenze, come quella successiva alla congiura dei Pazzi del 1478. Sulla falsariga dei modelli classici della biografia illustre, V. mette in luce le grandi virtù di eroismo e di fedeltà allo Stato del padre, insistendo molto sul suo assoluto disinteresse nel condurre la cosa pubblica: scrive, come dice lui stesso, «a mia consolazione, a utilità di quegli nasceranno di me o di mia frategli» (Scritti storici e politici, a cura di E. Niccolini, 1972, p. 249), e si può supporre che il testo appartenga effettivamente al periodo in cui, seguito l’esempio del padre non solo nell’educazione classica ma anche nel matrimonio con Maddalena Capponi, che rinsaldava i legami politici della famiglia – il fratello Paolo (→) sposava dal canto suo una Strozzi – anche Francesco si preparava a occupare il suo posto nella politica fiorentina.

Egli dovette attendere comunque i trent’anni, e soprattutto, dopo il primo convulso periodo successivo alla morte di Girolamo Savonarola, il momento in cui si fecero particolarmente forti le pressioni degli ottimati per condizionare l’operato del gonfaloniere a vita Piero Soderini. Dal 1504, infatti, V. fu in diverse magistrature della Repubblica, e nel 1506 podestà nel territorio aretino, finché nella primavera dell’anno successivo fu designato per una delicata ambasceria presso l’imperatore Massimiliano d’Asburgo, forzando la volontà del gonfaloniere che avrebbe preferito inviare Machiavelli. Gli ottimati vollero in questa occasione una persona meno legata alla politica filofrancese propugnata da Soderini, ma M. dovette comunque raggiungere V. alla fine del 1507, per sostenerlo in una missione rivelatasi più complessa del previsto. Su richiesta dello stesso V., i due lavorarono insieme alla legazione fino al giugno del 1508, dopo di che V. continuò ad accompagnare nei suoi spostamenti la corte imperiale fino al marzo dell’anno successivo. Conseguenza di questo importante viaggio fu, oltre all’amicizia e reciproca stima fra i due inviati, che si manifesterà in un successivo carteggio, la composizione del Viaggio in Alamagna, avvenuta probabilmente dopo il 1512.

Strutturato come una sorta di diario, il Viaggio riporta tutte le numerose tappe di una lunga missione itinerante, ma nel testo non c’è quasi traccia del motivo della missione stessa, né dell’incarico politico dell’autore: a ogni tappa si fornisce la descrizione dei luoghi, e soprattutto degli abitanti e dei loro usi e costumi, per dare infine largo spazio alla narrazione di piccoli eventi degni di nota, o riportati come racconti uditi da altri, o vissuti in prima persona; molti di questi racconti mostrano comunque evidente memoria di fonti classiche, o di Giovanni Boccaccio. La parte affabulatoria finisce così ben presto per essere preponderante rispetto a quella descrittiva o discorsiva, tanto che nei cinque libri dell’opera possono alla fine contarsi una quarantina di narrazioni autonome, la cui lunghezza varia dalle poche decine di righe alle molte pagine, e di cui circa metà assumono l’aspetto di vere e proprie novelle, inserite nel testo attraverso la stessa tecnica del narratore secondario usata da Ludovico Ariosto nell’Orlando furioso. Interessante per vivacità di scrittura e per la presenza di un io narrante che alterna il ruolo di commentatore a quello di personaggio, il Viaggio in Alamagna presenta indubbie caratteristiche di originalità: se da un lato, infatti, l’opera appare inserita nell’attestata tradizione del libro di viaggio, da farsi risalire al famoso resoconto trecentesco di Marco Polo, dall’altro, l’assoluta preponderanza delle zone narrative la apparenta a tutt’altro modello, quello ugualmente trecentesco e ancora più famoso del Decameron, cioè del libro organico di novelle chiuse in una cornice e da essa giustificate. In questo senso il Viaggio si può legittimamente considerare, al di là della ripresa di singoli personaggi o tematiche, come uno dei primi esempi cinquecenteschi della rinnovata fortuna del capolavoro boccacciano, in cui la cornice abbia riassunto tutta la sua importanza e autonomia narrativa.

Quasi come premio di un compito ben svolto, poco dopo il suo ritorno a Firenze V. fu eletto membro della Signoria, proprio nel momento in cui si concludeva la lunga guerra per la riconquista di Pisa (giugno 1509). Ma su un altro campo, più vasto, l’insistenza di Piero Soderini nella sua alleanza con la Francia, osteggiata dagli ottimati e fra questi dallo stesso V., stava portando la città a un pericoloso isolamento, che si manifesterà con chiarezza due anni più tardi, quando il papa Giulio II promuoverà una lega Santa in chiave appunto antifrancese. La risposta del re di Francia, cioè la richiesta di un concilio che dichiarasse deposto il pontefice, e che si tenesse proprio a Pisa, mise in difficoltà il governo fiorentino, che impegnò nei mesi successivi tutte le sue forze militari e soprattutto diplomatiche per scongiurare il concilio stesso, o comunque per evitare che forze francesi si stanziassero ufficialmente nel proprio territorio. V. fu a Pisa fra il novembre e il dicembre del 1511, insieme all’amico M., che vi era stato inviato precedentemente, e al cognato Niccolò Capponi: non fu probabilmente facile affrontare il risentimento dei cardinali filofrancesi convenuti a Pisa, costretti ad accettare la riduzione della loro scorta armata, ma fu certamente più difficile gestire la crisi seguita alla battaglia di Ravenna, dell’aprile successivo, quando le gravi perdite subite dai francesi consegnarono alle forze della lega la totale padronanza del territorio italiano. Con l’avvicinarsi a Firenze dell’esercito spagnolo, V. fu di nuovo fra gli ottimati che cercarono inutilmente di convincere il gonfaloniere a mitigare la sua ostinazione, e ad accettare un accordo: il sacco di Prato fu inevitabile e, sotto la minaccia delle armi, i Medici ripresero il potere a Firenze nel settembre del 1512.

Si apre a questo punto il periodo più noto della biografia di V., in quanto un destino totalmente diverso finì per riavvicinare i due colleghi e amici della legazione all’imperatore del 1508: V. fu infatti nominato ambasciatore alla corte papale nel gennaio del 1513, mentre, come è noto, nel marzo successivo M., in un primo momento imprigionato come sospetto aderente a una congiura antimedicea, venne amnistiato in seguito all’elezione al soglio pontificio di Giovanni de’ Medici e si ritirò a Sant’Andrea in Percussina, nei pressi di San Casciano. Fu M. a iniziare la corrispondenza, già il 13 marzo, dando all’amico la notizia della sua scarcerazione, e raccomandando se stesso e il fratello minore, sacerdote, alle attenzioni del nuovo papa. V. risponde in tono rassicurante, ma inizia anche ben presto, già nella sua seconda lettera del 30 marzo, a sottoporre all’amico il problema dell’imprevedibilità degli eventi storici, a partire proprio dalla recente elezione di un papa Medici: «nondimeno tutti questi mia discorsi e ragione mi sono fallite» (Lettere, p. 239). La risposta di M. è immediata – la lettera è del 9 aprile – e in essa troviamo la famosa definizione di una precisa identità intellettuale:

Se vi è venuto a noia il discorrere le cose, per vedere molte volte succedere e casi fuora de’ discorsi e concetti che si fanno, avete ragione, perché il simile è intervenuto a me. Pure, se io vi potessi parlare, non potre’ fare che io non vi empiessi il capo di castellucci, perché la Fortuna ha fatto che, non sapendo ragionare né dell’arte della seta e dell’arte della lana, né de’ guadagni né delle perdite, e’ mi conviene ragionare dello stato, e mi bisogna o botarmi di stare cheto, o ragionare di questo (Lettere, p. 241).

Da qui in poi, per alcuni mesi, V., trovatosi nella strana situazione di ambasciatore dei Medici presso un papa Medici, continuò a richiedere pareri all’amico, il cui «giudizio ha trovato in queste cose più saldo che di altro uomo», sulle più intricate e oscure questioni di politica internazionale, mantenendo comunque il suo originario scetticismo e manifestando un atteggiamento sempre più disilluso sulla possibilità di «discorrere con ragione». D’altro canto M., fedele alla sua dichiarazione di identità, approfittò invece della corrispondenza con V. per approfondire l’analisi di un quadro politico quanto mai complesso, e non rinunciò a darsi spiegazione di qualsivoglia inopinabile comportamento dei grandi personaggi della storia, anche sovrapponendo alla loro la propria intelligenza: «mi sono messo nella persona del papa, et ho esaminato tritamente [...]» (20 giugno 1513, Lettere, p. 261). Finché proprio questo carteggio con V., oltre naturalmente alle ovvie e autonome considerazioni sul destino di Firenze e dell’Italia in quel periodo, portò M. a un irripetibile momento di lucidità creativa: alla lettera del 26 novembre, in cui V. descrive all’amico lo scarso peso della sua funzione di ambasciatore, e lo invita a unirsi ai suoi ozi letterari e ai suoi piccoli piaceri, M. rispose infatti, nella famosa lettera del 10 dicembre, contrapponendo alle parole di un ambasciatore i litigi dei campi e dell’osteria, e alla lettura come disimpegno il suo ingresso serale nelle «antique corti degli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio» (Lettere, p. 296). È come si sa la lettera in cui M. annuncia di avere «composto uno opuscolo De principatibus», e a questa composizione il nome di V. rimane indissolubilmente, anche se del tutto involontariamente, legato.

Negli anni successivi la corrispondenza fra i due proseguì, ma senza raggiungere più l’intensità e la profondità del 1513, e possiamo quindi seguire le vicende di V. attraverso due opere, la Vita di Lorenzo de’ Medici duca d’Urbino e un Discorso se fusse meglio fare una lega o vero accordare con l’Imperatore: ambedue ce lo mostrano attivo nel periodo di dominazione medicea sia attraverso incarichi di gestione del territorio e di organizzazione militare, sia come inviato o ambasciatore, ma soprattutto come persona legata agli ambienti del potere, all’interno di quel gruppo di ottimati che ha recuperato pienamente il posto che aveva negli anni precedenti la Repubblica.

La Vita è infatti dedicata a Clarice, sorella del duca e moglie di Filippo Strozzi, e ripercorre la biografia di Lorenzo dalla nascita nel 1491 e dal repentino esilio a soli tre anni fino alla riassunzione del potere dopo l’ascesa al papato dello zio Giovanni, che lo preferiva al fratello Giuliano, e alle tormentate vicende del ducato di Urbino, nelle quali Lorenzo ci viene presentato come un protagonista spesso restio ad assumere tale ruolo, e guidato dalle ambizioni della madre. L’aspetto più interessante di quest’opera è, infatti, la costante presenza dell’autore, che si indica più volte come vicino e amato dall’uomo di cui parla, e quindi in grado di conoscere anche le motivazioni più nascoste del suo agire: per questo, e per l’impianto classico in cui al resoconto degli eventi segue una parte di riconsiderazione morale, la Vita di Lorenzo ricorda molto l’altra prova biografica giovanile di V., quella sul padre Piero. Domina in ambedue un tono di rimpianto per cosa avrebbero potuto fare per la loro patria tali uomini se non fossero prematuramente scomparsi e, nel caso del duca, se si fosse liberato dal peso della volontà altrui. In ogni caso ne esce la figura, anche se brevemente abbozzata, di un principe ideale delineato sui modelli delle biografie classiche, e ben lontano da quello del famoso «opuscolo» del 1513, di cui V. era stato probabilmente fra i primi ad avere notizia: solo la lealtà, il senso di giustizia e il rigore morale giustificano il governo di uno solo, e ne mitigano le asprezze.

Il Discorso è scritto dopo la battaglia di Pavia del 1525 e la disastrosa sconfitta del re di Francia Francesco I: di nuovo l’autore vi si mostra molto vicino agli ambienti del potere (questa volta la corte del successivo papa Medici, Clemente VII) e impegnato nella difficile opera di convinzione sulla pericolosità di opporsi apertamente all’imperatore. In questo breve testo V. mostra notevoli capacità di analisi della situazione europea, e soprattutto la padronanza di uno stile che si potrebbe definire sottilmente diplomatico, per cui più volte si soppesano pregi e difetti delle due ipotesi, quella di costruire in Italia un’alleanza contro Carlo V e quella di accordarsi con lui, facendo ogni volta quasi insensibilmente scivolare la preferenza sulla seconda ipotesi. Notevoli sono anche le parti in cui V. sembra difendersi da personali accuse di filofrancesismo, forse retaggio della sua antica collaborazione con la Repubblica di Soderini.

Anche con la seconda Repubblica fiorentina, quella nata dopo il sacco di Roma del 1527 – e sia detto per inciso che i timori dell’autore del Discorso non erano ingiustificati –, V. cercò comunque all’inizio di collaborare, nella speranza, evidentemente, di ricreare quel sistema di compensazione reciproca in cui gli ottimati avrebbero mantenuto un ruolo importante. Ma il clima non era certo più quello degli ultimi anni di Soderini, e durante un’ambasceria al papa V. si propose anche come suo consigliere, per cui i fiorentini lo accusarono di tradimento e lo confinarono in «villa». Appartengono a questo periodo due opere di impianto storiografico, il dialogo del Sacco di Roma e il Sommario della Istoria d’Italia.

Nel Sacco, scritto probabilmente pochi mesi dopo il drammatico evento, si immagina l’avventuroso ritorno da Roma a Firenze di un personaggio di nome Antonio, fortunosamente scampato alle stragi del maggio 1527, e il suo colloquio, nello spazio di tre giorni, con Basilio. Tale invenzione narrativa non è comunque utilizzata allo scopo di offrire una descrizione molto particolareggiata dell’evento, salvo alcune notazioni sull’impreparazione della corte papale e sull’incredulità dei cittadini romani: non si esce infatti da considerazioni generali sul quadro politico che ha portato all’attacco dei mercenari di Carlo V, e sul comportamento e sull’indole dei grandi personaggi coinvolti. Perni di tutto il ragionamento finiscono per essere due digressioni dell’autore, inserite nei due intervalli notturni del colloquio, una sulla difficoltà di governare una città come Firenze, e sugli errori recentemente commessi nell’assolvere questo compito dal papa e dal suo legato Silvio Passerini, cardinale di Cortona; l’altra è una carrellata non troppo edificante sugli ultimi pontefici, da Paolo II eletto nel 1464 all’attuale Clemente VII – quelli cioè della vita di V. – in cui con facilità si usano argomenti molto diffusi, e cari ai movimenti riformatori, sulla lontananza della Chiesa del tempo dalla sua originaria missione evangelica. Se dunque è possibile fare emergere nel testo un filo conduttore, questo è l’idea del ‘flagello’, l’inevitabile punizione divina di un mondo corrotto.

Il Sommario si presenta come opera di più vasto impegno, ma che comunque non esce dal quadro dell’esperienza diretta dell’autore, che intende proporre un resoconto degli anni in cui fu più direttamente impegnato in affari di governo:

trovandomi questa primavera alla villa ozioso pensai di scrivere non intera et iusta istoria, ma breve et eletto sommario delli successi dal fine dell’anno MDXI insino al principio del MDXXVII in Italia, quantunque cognosca non essere possibile non parlare ancora di quello che è occorso fuori d’Italia perché le cose delle quali si tratta sono in modo collegate insieme, che male si può scrivere di quelle d’Italia, omettendo l’altre interamente (Scritti storici e politici, cit., p. 135).

È notevole, già nel titolo dell’opera e in questa presentazione, la consapevolezza della necessità di allargare il quadro storico a un campo italiano ed europeo: è, di nuovo, la conseguenza ovvia di un evento di enorme portata come il sacco di Roma, e il Sommario di V., trovandosi cronologicamente in posizione intermedia fra le Istorie fiorentine di M. e la Storia d’Italia di Francesco Guicciardini, sembra effettivamente rappresentare il passaggio da un’ottica ancora municipale all’irrinunciabile sforzo di tenere legati tutti i fili di una vicenda ormai comprensibile solo in un quadro molto più vasto. Ma anche importa, in questa presentazione, l’altra consapevolezza di una «non intera et iusta istoria»: come nelle due ‘vite’, del padre e di Lorenzo de’ Medici, e come in fondo anche nel Sacco di Roma, l’impegno storiografico di V. non esce dall’ambito del ripensamento diaristico, affidando in ogni caso la ricerca della «verità» a una sorta di oggettività della memoria. In questo senso proprio la sua collocazione fra i due capolavori di M. e Guicciardini ha contribuito a mostrare l’intrinseca debolezza di quest’opera in cui, come sempre, non prevale la ricerca descrittiva o lo studio di fonti e testimonianze, ma il quieto abbandonarsi alla rievocazione di eventi vissuti, e a distaccati commenti quasi sempre improntati al pessimismo e alla disillusione, senza che ci sia niente da dimostrare se non la costante irrazionalità della storia. Niente è cambiato, sembrerebbe, dagli anni del carteggio con M., ed è quasi superfluo notare che il suo costante osservare la storia come campo di inconoscibili scontri fra soggettività individuali tenga V. molto al di qua dalle coeve e future elaborazioni di Guicciardini.

Dopo il 1530, e il ritorno al potere a Firenze di Alessandro de’ Medici, va registrato quello che sarà l’ultimo ritorno di V. sulla scena politica, testimoniato da alcuni brevi scritti: il Ricordo delli Magistrati è un elenco cronologico di tutti gli uffici e incarichi ricoperti dall’autore dal 1504 al 1527, quasi una sorta di autopresentazione o, di nuovo, di diario pubblico, in cui è notevole l’assenza, fra i nomi dei collaboratori alle missioni, di quello di M.; la Legge di potere graziare condennati e banditi è una molto articolata proposta di grazia, rivolta al nuovo duca, e comprendente tutti i colpevoli di reati che non siano «per conto di stato» (Scritti storici e politici, cit., p. 325); infine i Pareri, quattro brevi scritti dove ancora più evidente è il compito di consigliere che V. si assume in questo periodo. Nel testo, che raccoglie una serie di risposte alla questione su come dovrebbe essere organizzato il rinnovato governo mediceo, l’autore chiarisce definitivamente il suo concetto del tutto individualistico della politica: poiché infatti il buon governo è la soddisfazione dei bisogni materiali di tutte le fasce della popolazione, e poiché questo è impossibile, si vada con fermezza verso il governo di un singolo, e solo si lasci «questo nome vano di libertà» (Scritti storici e politici, cit., p. 307), mantenendo in vita le vecchie magistrature ma limitandole nel numero dei componenti e nei tempi stessi dell’impegno. Se con spregiudicato realismo V. proponeva al nuovo duca Alessandro de’ Medici l’attuazione ancora più decisa del vecchio sistema di controllo che i Medici avevano sempre usato, e che lasciava comunque spazio, almeno formale, alla partecipazione alla cosa pubblica di altre grandi famiglie, Alessandro andò ben oltre, esautorando nel 1532 tutte le precedenti magistrature e assumendo un potere dichiaratamente assoluto.

Molti ottimati fiorentini furono esiliati in quell’anno, fra i quali l’antico amico Filippo Strozzi, che qualche tempo dopo aiutò a fuggire l’assassino del duca Alessandro, Lorenzino de’ Medici, e successivamente armò e guidò un esercito di esuli contro il nuovo duca appena insediato, Cosimo I. La sua sconfitta a Montemurlo, nell’agosto del 1537, e poi la sua morte in carcere sancirono sicuramente per V., che immaginiamo spettatore partecipe anche se inerte di tali eventi, la fine di quel decennale modello di governo mediceo-oligarchico in cui era sempre vissuto, e in sostanza di tutto il mondo in cui credeva. Morì poco dopo, nel marzo del 1539.

Bibliografia: Scritti storici e politici, a cura di E. Niccolini, Bari 1972.

Per gli studi critici si vedano: L. Passy, Un ami de Machiavel. François Vettori, sa vie et ses oeuvres, 2 voll., Paris 1913-1914; A. Moretti, Corrispondenza di Niccolò Machiavelli con Francesco Vettori dal 1513 al 1515, Firenze 1948; R. Devonshire Jones, Francesco Vettori, Florentine citizen and Medici servant, London 1972; G. Giacalone, Il Viaggio in Alamagna di F. Vettori e i miti del Rinascimento, Arezzo 1982; G. Inglese, introduzione a N. Machiavelli, Lettere a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini (1513-1527), a cura di G. Inglese, Milano 1989, pp. 5-96; J.M. Najemy, Between friends: discourses of power and desire in the Machiavelli-Vettori letters of 1513-1515, Princeton 1993; D. Pirovano, Per l’edizione del “Viaggio in Alamagna” di Francesco Vettori: primi appunti, «La parola del testo», 2006, 2, pp. 369-81; A. Capata, Sondaggi sulla “virtù” postmachiavelliana: Vettori, Giovio, Segni, «Italianistica», 2009, 1, pp. 11-31; A. Hanus, La Vita di Lorenzo de’ Medici Duca d’Urbino di Francesco Vettori. Edizione e commento, «Filologia e critica», 2010, 1, pp. 73-108; F. Grazzini, Tre occasioni machiavelliane, Viterbo 2012.

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