SQUARCIONE, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 93 (2018)

SQUARCIONE, Francesco

Giacomo Alberto Calogero

– Figlio di un notaio di nome Giovanni e di una sorella del sarto Francesco della Galta, di cui purtroppo si ignora il nome, ebbe i natali a Padova, tra il 1394 e il 1397 (Sambin, 1979, pp. 448-453). La data di nascita si desume pressappoco da un atto del 23 agosto 1419, in cui Francesco dichiarava di avere 22 anni, ma di agire come se ne avesse 25 (Lazzarini, 1908, p. 125, doc. V).

Squarcione e le due sorelle Lucia e Taddea rimasero presto orfani di padre, come risulta da un documento del settembre 1414 (p. 123, doc. I). Dopo la morte del genitore, il giovane passò sotto la tutela dello zio materno. Fu proprio da costui che dovette apprendere la pratica di «sartore e ricamatore», qualifica che viene ripetuta nelle carte d’archivio almeno fino al 1426 (pp. 125 s., docc. V, VII), per poi essere sostituita da quella di «pictor». Nel 1418 sposò la sua prima moglie Francesca, figlia del tintore Bartolomeo dai Osei, che intorno al 1422 si occupò di comprare in vece del genero, temporaneamente trasferitosi a Bassano, una casa in contrada Pontecorvo, da quel momento sede anche della bottega squarcionesca. Questa dimora-studio divenne nel tempo tanto famosa e florida che nel 1440 il maestro fu costretto ad aumentarne gli spazi, comprando un edificio confinante di proprietà del medico Francesco degli Engleschi. In una denuncia d’estimo del 1443, lo stesso Squarcione dichiarava di aver «fato di queste due case una, la quale io habito con la mia fameia e botega» (Lazzarini, 1908, p. 25).

In effetti, lo studio di Pontecorvo venne frequentato da un numero sempre crescente di discepoli e aiuti, il cui rapporto umano e professionale con il maestro variava in base alle esigenze contingenti e all’apporto fornito dall’allievo. In genere, era lo stesso Squarcione a dichiarare allo scolaro di turno di volerlo ospitare nella propria casa «ut filium», garantendogli tutto l’occorrente per vivere, dal vestiario alle spese del barbiere, ma non sempre i patti si ripetevano allo stesso modo.

Il primo di cui abbiamo notizia è un tale Michele, figlio del barbiere Bartolomeo da Vicenza, che venne accolto da Squarcione nel maggio del 1431, con la promessa di insegnargli l’arte della pittura «secundum quod facere debent magistri discipulis suis». Al discente era richiesto di svolgere per il maestro «omnia que erunt possibilia tam in dicta arte quam in domo sua», in cambio di vitto e alloggio gratuiti (p. 132, doc. XVII).

Parzialmente diverso appare l’accordo stipulato con Dario de Utino (da Pordenone), definito «pictor vagabundus» ed entrato in bottega nel 1440 con lo status di vero e proprio collaboratore stipendiato, anche se pure in questo caso Squarcione non si sottraesse al compito di istruirlo «bene et fideliter» attraverso la pratica del «monstrare designos», a condizione che Dario si impegnasse a «furtum non facere» (pp. 137 s., doc. XXIII).

Non sempre Squarcione era disposto a remunerare i suoi garzoni, e a volte pretendeva perfino un risarcimento per le spese d’istruzione e di mantenimento: nel 1447, per esempio, accettò la richiesta del diciassettenne Matteo da Pozzo di Venezia, a patto che il padre di questi fosse disposto a versare la notevole cifra di 25 ducati d’oro all’anno.

Del tutto particolare fu il trattamento riservato al più celebre degli allievi, ossia quell’Andrea Mantegna che tra il 1441 e il 1445 risulta iscritto alla fraglia dei pittori padovani come «fiuilo de m[agistro] Francesco Squarzon depentore» (Lazzarini, 1908, p. 50). Evidentemente, Squarcione aveva fiutato le doti non comuni del ragazzo e, non avendo ancora prole naturale, decise di adottarlo come figlio legittimo per assicurarsi le sue prestazioni a titolo gratuito e indefinito. Le cose, però, non andarono per il verso giusto e i due finirono per separarsi: il 26 gennaio 1448 fu stipulato un compromesso, vidimato da un lodo arbitrale dei notai Ulisse Aleotti e Vittore Negro. Tale accordo venne in seguito contestato dallo stesso Mantegna, che riuscì a ottenerne il definitivo annullamento grazie a una sentenza emanata il 2 gennaio 1456 dalla Quarantia criminale di Venezia (pp. 50 s.). Dai vari strascichi giudiziari si apprende che l’allievo aveva dimorato «per annos sex continuos» in casa del maestro, eseguendo numerose «picturas magnj pretij», della cui vendita pare si fosse giovato, «contra formam iuris et legem honestatis», il solo Squarcione (Rigoni, 1927-1928, 1970, pp. 11 s., doc. I).

Nel frattempo Squarcione aveva acquisito e perso un altro collaboratore d’eccezione, ossia Marco Zoppo da Bologna. Il nuovo discepolo era giunto in bottega «a mense Aprilis» del 1454 e si diede subito molto da fare, «laborando continue [...] ad comodum et utilitatem diti magistri Francisci» (Lazzarini, 1908, pp. 152 s., doc. XXXIX).

Grazie alla sua devozione e alla sua «ingenii perspicacitatem in exercitio pictorie», Marco si era guadagnato la fiducia del maestro, e fu adottato, al posto del ribelle Mantegna, «ut filium et amorem». Pur essendo nominato erede universale di tutti i beni posseduti da Squarcione, compreso lo studium di Pontecorvo, fu però costretto a rinunciare a qualsiasi diritto sui guadagni ricavati dalla vendita delle proprie opere (pp. 149-152, doc. XXXVIII).

Nell’atto di adozione, stipulato il 24 maggio 1455, venne inoltre inserita una minuziosa descrizione dell’atelier squarcionesco, che risultava diviso sostanzialmente in due ambienti: «unum studium magnum in domo cum relevis, designis et aliis rebus intus» e «unum studium parvum in domo dita ‘a relevis’, cum omnibus rebus intus spectantibus ad artem pictorie et picturis existentibus in eis» (p. 151). Anche Giorgio Vasari (1550 e 1568, 1971) ci informa che Squarcione aveva raccolto «cose di gesso formate da statue antiche, et in quadri di pitture, che in tela si fece venire di diversi luoghi, e particolarmente di Toscana e di Roma» (p. 548), tanto è vero che nel contratto stipulato con lo Zoppo si specificava che, tra le varie mansioni affidate all’allievo, vi era quella di «aptare figuras et immagines» con il gesso che lo stesso Marco aveva fatto recapitare, tramite il padre naturale, da Bologna (Lazzarini, 1908, p. 154, doc. XL). Se da un lato tale esercizio rivestiva una funzione certamente didattica, che spiega la familiarità quasi ossessiva dimostrata dai discepoli di Squarcione con i prototipi scultorei, la realizzazione di calchi, tratti da celebri modelli, rientrava senz’altro in una più concreta logica di produzione seriale, finalizzata alla vendita. La bottega di Pontecorvo si configurava perciò, oltre che come luogo di apprendimento, come centro di produzione e di commercio.

Le condizioni lavorative imposte agli allievi dovevano rivelarsi quasi sempre ingiuste e gravose, visto che anche il rapporto con lo Zoppo si deteriorò a tal punto da costringere a un ennesimo arbitrato: non se ne conoscono le ragioni precise, ma sappiamo che fu Squarcione il primo a violare i patti, quando pretese di punto in bianco un cospicuo risarcimento per le spese sostenute nei mesi in cui aveva ospitato il giovane. Vittorio Lazzarini (1908, p. 54) ipotizzava che il maestro, nel frattempo rimasto vedovo e convolato nuovamente a nozze con una tale Domenica di Maestro Giorgio da Milano, si fosse pentito di aver ceduto a Zoppo tutta la sua eredità e cercasse di proposito un motivo di rottura.

Lo spiacevole episodio sembra comunque dare ragione alla livorosa testimonianza di Angelo di Silvestro, un altro allievo deluso da Squarcione, che nel 1465 lo avrebbe accusato di convertire «in uso suo» il lavoro degli scolari e di promettere vanamente «ale persone perfin a tanto che li ha reducti et cavado el sugo d’esi et poi el fa question cum loro», una cattiva prassi «come è sempremay de so costume» (Rigoni, 1927-1928, 1970, pp. 15-17 doc. V).

La vertenza con lo Zoppo fu comunque risolta il 9 ottobre 1455, e ancora una volta fu Squarcione ad avere la peggio: non solo non gli fu concesso alcun rimborso, ma venne condannato a risarcire l’allievo, sia per il gesso sottratto, sia «pro omnibus picturis, quadris ac tellis pictis», nonché «designis» e «figuris» di cui il maestro aveva fatto disinvoltamente commercio con «pluribus et diversis personis». Squarcione otteneva comunque la possibilità di saldare il proprio debito, che ammontava a venti ducati d’oro, sotto forma «de picturis, improntis, medaleis et massericiis ad artem pictorie spectantibus» (Lazzarini, 1908, p. 155, doc. XL).

I continui contenziosi giudiziari non dovettero offuscare troppo la fama di Squarcione, se già nel 1456 era il turno di Giorgio Schiavone, forse il seguace più prossimo ai modi del maestro. Dopo tre anni e mezzo passati ad apprendere il «mysterium» (cioè il mestiere) e a lavorare alacremente, il pittore dalmata tornò in patria, portando con sé «denariorum, rerum et bonorum quantitates ac designorum a pictoria» fornitegli dallo stesso Squarcione, che nel 1462 ne richiese però l’immediata restituzione (p. 160, doc. XLIX). Questo materiale, compreso «unum cartonum cum quibusdam nudis Poleyoli» (pp. 169 s., doc. LXI), finì poi nelle mani del pittore spalatino Marinello, incaricato nel 1464 di recuperare il maltolto, non ancora riconsegnato nel 1474, quando Squarcione risultava ormai morto.

Episodi del genere la dicono lunga su quanto prestigiosa e ambita fosse la collezione di Squarcione e non dovevano essere certo rari se il capobottega, allo scopo di tutelarsi, doveva talvolta intimare ai suoi allievi di non commettere furti. Nonostante le numerose sottrazioni, nel 1466 Squarcione era ancora in possesso di un foglio «qual fo de man de Nicolò Pizolo» (De Kunert, 1906, p. 55 doc. I), raffigurante il raro tema del Mulino delle ostie, prestato al pittore Pietro Calzetta per trarne uno «squizo» sommario. Una delle maggiori forze d’attrazione esercitate dallo studium di Pontecorvo doveva risiedere proprio nello straordinario thesaurus raccolto in vari modi da Squarcione, costituito non solo da disegni, rilievi e pitture moderne, ma perfino da qualche reperto antico: di certo sculture, originali o calchi che fossero, ma probabilmente anche iscrizioni, monete, gemme intagliate.

Il primo e unico figlio naturale di Squarcione, chiamato Bernardino e nato dalla relazione con la seconda moglie, si mostrò precocemente incline alla vita religiosa e dunque inadatto a reggere le future sorti della bottega paterna. Fu per questo che Squarcione si risolse ad adottare nel 1466 un terzo discepolo, ossia l’orfano Giovanni Vendramin, destinato a una brillante carriera da miniatore. Dopo avergli garantito la sua intera eredità, a patto che lo assistesse nella professione fino alla fine dei suoi giorni, Squarcione si rimangiò ancora una volta la parola e omise del tutto il nome di Giovanni dal testamento. Si trattò forse dell’ultima promessa mancata di un maestro un po’ fraudolento, che talvolta si vantava perfino «delle cosse le qual non ha et de saver quello ch’el non sa», come quando assicurò all’ingenuo Giovanni Francesco di Uguccione di essere in grado di insegnargli «le raxon d’un piano lineato ben segondo il mio modo», salvo poi snocciolare una descrizione assai fumosa e un poco ridicola del suo presunto metodo prospettico (Lazzarini, 1908, pp. 166 s., doc. LVIII).

Ciò non toglie l’assoluta centralità di Squarcione e della sua bottega nel competitivo palcoscenico padovano, testimoniata anche dai tanti casi in cui al maestro fu chiesto di valutare il lavoro altrui, come il 9 giugno 1450, quando fu chiamato insieme a Pizolo per stimare il lavoro eseguito dalla bottega dei Vivarini nel cantiere della cappella Ovetari, o come quando stigmatizzò, secondo il racconto di Vasari (1550 e 1568, 1971), gli affreschi eseguiti nello stesso luogo dal suo ex pupillo Mantegna per la loro «durezza» marmorea, cui mancava «quella tenera dolcezza che hanno le carni e le cose naturali, che si piegano e fanno diversi movimenti» (p. 549).

Esistono invero non poche testimonianze relative ai lavori ottenuti da Squarcione in persona, ma si tratta quasi sempre di commissioni servili, che rivelano una pratica poco più che artigianale, come la pittura, doratura e serratura del tabernacolo in pietra della chiesa di S. Sofia (1433). Il maestro fu spesso arruolato anche all’interno della basilica del Santo, per esempio per la coloritura della cassa dell’organo piccolo, l’esecuzione di «una figura picta ad corpus Christi in sacristia» e di una «instoria depenta per lui in una tavolla per metere in un quadro del curo» (1447; Lazzarini, 1908, p. 146, doc. XXXIIII), la pittura del pavimento de «l’altaro grande» di Donatello (1449; p. 146, doc. XXXV) e la fornitura di cinque disegni per le tarsie dell’armadio delle reliquie nella sagrestia (1462). Nel 1463 venne chiamato a Venezia per realizzare due teleri destinati alla sala capitolare della Scuola Grande di S. Marco, poi distrutti da un incendio nel 1485; al 1465 risale invece una mappa di Padova e del suo territorio, commissionata dal Comune patavino.

La fama moderna di Squarcione – più che dai documenti pubblicati da Lazzarini (1908) ed Erice Rigoni (1927-1928) fin qui citati – prende le mosse dal De antiquitate Patavii et claris civibus Patavinis di Bernardino Scardeone (1560), nel quale è contenuta una ricca biografia, che il canonico padovano affermava di aver ricavato da un memoriale redatto dallo stesso Francesco. È indubbio che il breve resoconto di Scardeone, che pure si mostra incerto su quali dipinti avesse effettivamente realizzato Squarcione, costituisca la fonte primaria del mito multiforme e protoromantico dell’artista viaggiatore, archeologo, collezionista e amorevole maestro di ben centotrentasette allievi: ovvero, di quella figura semileggendaria di «pictorum gymnasiarcha singularis» che si è tramandata ininterrotta attraverso i secoli.

La lunga mitografia di Squarcione trova un apice esorbitante nelle pagine della Storia pittorica di Luigi Lanzi (1809, 1970), in cui l’artista viene definito come «il miglior maestro» dei pittori, anzi quasi «lo stipite» da cui si erano diramate, «per via del Mantegna» (p. 18), le più importanti scuole della Valle Padana. Un’intuizione critica straordinaria, tra le cui pieghe si può già leggere la fortunata e ambigua categoria di ‘squarcionismo’, e che si nutriva dei suggerimenti di Pietro Brandolese e di Giovanni de Lazara, corrispondenti di Lanzi e protagonisti di uno dei capitoli più affascinanti di quella rinnovata ‘fortuna dei primitivi’ magistralmente messa a fuoco da Giovanni Previtali.

Proprio i due eruditi patavini erano stati artefici della riscoperta dell’unico dipinto a tutt’oggi documentato di Squarcione, ossia il polittico del Museo civico di Padova, realizzato per la cappella De Lazara nella chiesa padovana del Carmine. Più o meno negli stessi anni era emersa un’altra opera sicura del maestro, ossia la Madonna col Bambino firmata «Opvs Squarcioni pictoris», oggi ai musei di Berlino, che alla fine del Settecento si trovava nella collezione di un altro personaggio ben noto a Lanzi, il mercante e connoisseur veneziano Giovanni Maria Sasso.

È di fatto paradossale che, nonostante la spropositata fortuna critica di Squarcione e le numerose proposte avanzate dalla critica moderna, il catalogo certo del maestro sia ancora sostanzialmente fermo a queste due opere interessanti, ancorché modeste. Tra i tentativi più agguerriti tesi ad allargare il corpus squarcionesco va segnalato uno studio di Miklós Boskovits (1977), che radunava un buon numero di opere attorno al bel polittico destinato all’altare maggiore della pieve di S. Maria di Castello ad Arzignano, oggi riferito a un anonimo artista certo collegato alla scuola di Squarcione. Tra le molte attribuzioni, non sempre coerenti, proposte da Andrea De Marchi (1996, 2008, 2014), sembra invece cogliere nel segno la Madonna col Bambino già di proprietà Kaufmann, poi passata al Bonnefantenmuseum di Maastricht e oggi in collezione Alana. Si tratta, a dire il vero, di una replica impoverita di un’analoga Madonna conservata al Walters Art Museum di Baltimora, da molti assegnata a un pittore diverso, probabilmente il giovane Nicolò Pizolo. Un altro possibile numero di Squarcione potrebbe infine riconoscersi nella Pietà appartenuta al Kaiser-Friedrich-Museum di Berlino (perduta durante la seconda guerra mondiale), chiaramente derivata da un prototipo di Filippo Lippi (De Marchi, 1996, pp. 7 s.) e già assegnata a Squarcione da Boskovits (1986).

L’interesse di queste opere, ammesso che siano davvero di Squarcione, risiede non tanto nel loro scarso tenore qualitativo, quanto nella spregiudicata logica che le sottende, fondata sul continuo riutilizzo combinatorio dei diversi modelli posseduti o conosciuti all’interno dello studium di Pontecorvo. Situazione peraltro complicata dalla stessa struttura organizzativa di una bottega «multiforme e imprenditoriale, in cui il moderno concetto di autografia era relativizzato dall’apporto costante e decisivo degli allievi» (A. De Marchi, in Francesco Squarcione, 1999, p. 113).

La facies stilistica di Squarcione andrà dunque desunta dalle due uniche pitture certe, peraltro databili in una fase assai inoltrata della sua carriera. Nonostante gli stravaganti ammiccamenti al più moderno linguaggio di matrice toscana, questi lavori rivelano una mentalità invincibilmente equivoca, sempre incerta tra formulazioni di segno opposto. Il polittico per la cappella De Lazara, pagato al maestro tra il 1449 e il 1452, riprende fedelmente lo schema compositivo e la foggia della cornice del pentittico della Natività di Giovanni d’Alemagna e Antonio Vivarini, realizzato nel 1447 per la cappella Lion in S. Francesco a Padova (Praga, Národní Galerie).

Le precise analogie, compresa l’apertura paesistica al centro, non si risolvono però in una totale identità di stile, poiché alle cedevoli cadenze dei santi vivariniani, con i loro panneggi tesi e tubolari, il maestro padovano sembra prediligere un ritmo più nervoso, scandito da tortuose involuzioni lineari. Lo stesso può dirsi per le timide asserzioni spaziali dichiarate dai piedistalli cubiformi, comunque contraddette dal fondo oro bulinato. L’elemento più originale del polittico risiede piuttosto nelle tipologie caratteriali, a dir poco eteroclite, come sorprendono certi brani naturalistici di schietto sapore ponentino presenti nello scomparto centrale. Si tratta però di aspetti desunti dalle più audaci sperimentazioni condotte in parallelo da Pizolo e Mantegna sui muri della cappella Ovetari e in altri lavori di poco precedenti al 1450: l’impressione è che pure Squarcione, sulla scia dei pittori più in voga, volesse ormai apparire donatelliano e lippesco, ma che il suo più arcaico retroterra culturale gli impedisse infine di ragionare in termini davvero aggiornati.

Leggermente più moderna appare invece la Madonna firmata della Gemäldegalerie di Berlino, senza che questo comporti necessariamente la sua espunzione dal catalogo di Squarcione, come a volte supposto (Cavalcaselle, 1871; Kristeller, 1901; Markham Schulz, 2017). Per quanto l’impaginazione di profilo della Vergine sia tratta di peso da alcuni rilievi donatelliani, essi appaiono comunque fraintesi, complice la resa appiattita del manto e l’evidente predilezione per un linearismo puramente decorativo. La figura del Bambino è certo più massiva, ma la ricerca volumetrica è comunque affidata a un tratteggio cupo e un po’ grossolano, che risente ancora di modalità esecutive più tradizionali. Nonostante segni un deciso passo in avanti, che dovrà tradursi in un momento di poco successivo al polittico De Lazara, la Madonna di Berlino rivela in fondo una comprensione non meno superficiale delle più moderne problematiche affrontate da Donatello e dai suoi compagni, né vi si trova traccia delle ricerche plastico-prospettiche o delle complesse inquadrature architettoniche elaborate a Padova dai pittori più giovani, davvero aderenti al nuovo stile del «pingere in recenti».

Sul fronte della grafica, visto l’insistito riferimento delle fonti e dei documenti alla nutrita raccolta di disegni posseduti da Squarcione, andrà ricordata la proposta avanzata da Annegrit Schmitt (1974), che tentò di assegnare al maestro un cospicuo gruppo di disegni, probabilmente appartenuti a un unico taccuino, già segnalati nella collezione di John Skippe.

Squarcione morì tra il 21 maggio 1468, quando dettò il suo testamento «infirmitate corporis aliqualiter oppressus» (Lazzarini, 1908, pp. 167 s., doc. LIX), e il luglio del 1472, quando nei Libri di cassa del Santo vengono registrati dei pagamenti «ala dona fo de m.º Franzesco Squarzon» (pp. 168 s., doc. LX).

Fonti e Bibl.: G. Vasari, Le vite (1550 e 1568), a cura di R. Bettarini - P. Barocchi, III, Firenze 1971, pp. 548 s.; B. Scardeone, De antiquitate urbis Patavii et claris civibus Patavinis, libri tres..., apud Nicolaum Episcopium iuniorem, Basilea 1560, pp. 370 s.; L. Lanzi, Storia pittorica dell’Italia (1809), a cura di M. Capucci, II, Firenze 1970, pp. 18, 26 s.; P. Selvatico, Il pittore F. S.: studi storico-critici, Padova 1839; G.B. Cavalcaselle, A history of painting in North Italy..., I, London 1871, pp. 296-305; P. Kristeller, Andrea Mantegna, London 1901, passim; S. De Kunert, Una cappella distrutta nella Basilica di Sant’Antonio in Padova, in L’Arte, s. 3, IX (1906), 1, pp. 52-56, doc. I; V. Lazzarini, Documenti relativi alla pittura padovana del sec. XV, con illustrazioni e note di A. Moschetti, Venezia 1908, pp. 14-61, 123-170, docc. I-LXIII; P. Kristeller, F. S. e le sue relazioni con Andrea Mantegna, in Rassegna d’arte, IX (1909), 10, pp. IV-V, 11; R. Longhi, Lettera pittorica a Giuseppe Fiocco, in Vita artistica, I (1926), pp. 127-139 (ried. in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, II, Saggi e ricerche 1925-1928, I, Firenze 1967, pp. 77-98); E. Rigoni, Nuovi documenti sul Mantegna, in Atti del Reale Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, LXXXVII (1927-1928), pp. 1165-1186 (ried. in Ead., L’arte rinascimentale in Padova. Studi e documenti, Padova 1970, pp. 1-23); G. Fiocco, Il museo imaginario di F. S., in Atti e memorie dell’Accademia Patavina di scienze, lettere ed arti, LXXI (1959), pp. 59-72; M. Muraro, A cycle of frescoes by Squarcione in Padua, in The Burlington Magazine, CI (1959), pp. 89-96; D. Lipton, F. S., Phil. Diss., New York University 1974; M. Muraro, F. S. pittore “umanista”, in Da Giotto a Mantegna, a cura di L. Grossato, Milano 1974, pp. 68-74; A. Schmitt, F. S. als Zeichner und Stecher, in Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst, XXV (1974), pp. 205-213; B. Aikema, The fame of F. S., in Ateneo veneto, XV (1977), pp. 33-37; M. Boskovits, Una ricerca su F. S., in Paragone, CCCXXV (1977), pp. 40-70; P. Sambin, Per la biografia di F. S.: briciole documentarie, in Medioevo e Rinascimento veneto, con altri studi in onore di Lino Lazzarini, I, Dal Duecento al Quattrocento, Padova 1979, pp. 443-465; M. Boskovits, Giovanni Bellini. Quelques suggestions sur ses débuts, in La Revue du Louvre, XXXVI (1986), pp. 387-393 (in partic. pp. 387, 393 nota 14); A. De Marchi, Un raggio di luce su Filippo Lippi a Padova, in Nuovi studi, I (1996), 1, pp. 5-23 (in partic. pp. 6, 16 nota 11); F. S. «pictorum gymnasiarcha singularis». Atti delle Giornate di studio..., 1998, a cura di A. De Nicolò Salmazo, Padova 1999; A. De Marchi, Scheda n. 1, in Mantegna, 1431-1506, a cura di G. Agosti - D. Thiébaut, Milano 2008, pp. 61 s.; A. De Nicolò Salmazo, Dalle ‘malefatte’ di F. S. al ‘vero maestro’ di Andrea Mantegna. Giuseppe Fiocco e ‘la formazione del Rinascimento veneto’, in Sotto la superficie visibile, a cura di M. Nezzo - G. Tomasella, Treviso 2013, pp. 129-141; A. De Marchi, Giovanni Bellini, Andrea Mantegna e la tenerezza della Madre, in Giovanni Bellini. La nascita della pittura devozionale umanistica. Gli studi (catal.), a cura di E. Daffra - S. Bandera Bistoletti, Milano 2014, p. 77; A. Markham Schulz, F. S. and his school, with an addendum on the Ovetari altarpiece, in Ricche miniere, VIII (2017), pp. 23-53.

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