Petrarca, Francesco

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Petrarca, Francesco

Loredana Chines

Il rapporto stretto e ineludibile fra M. e P. si impone agli occhi del lettore a cominciare dalla celeberrima chiusa del Principe (xxvi 29), dove, a suggellare con forza retorica ed enfasi appassionata il trattato, si ricorre ai vv. 93-96 della canzone “Italia mia” (Rerum vulgarium fragmenta [d’ora in poi Rvf ] CXXVIII):

Pigli adunque la illustre Casa vostra questo assunto con quello animo e con quella speranza che si pigliono le imprese iuste, acciò che sotto la sua insegna e questa patria ne sia nobilitata e sotto e’ sua auspizi si verifichi quel detto del Petrarca: Virtù contro a furore / prenderà l’armi, e fia el combatter corto, / che l’antico valore / nelli italici cor non è ancor morto.

Del medesimo testo (“Italia mia”, vv. 120-22), M. si ricorda anche nel canto “Spirti beati”, «tutto [...] modulato [sulla canzone petrarchesca] pur se lo scrittore la rivive in maniera originale, riuscendo a ricrearla e a rinvigorirla attualizzandola» (Scarpa 1975, p. 267); la voce di P. vi si configura come nota assorta, che incrina la spensierata tonalità carnascialesca.

La presenza del P. civile, politico, animato dalle medesime preoccupazioni per le piaghe che devastano l’Italia o per l’utilizzo delle truppe mercenarie, si lega a ragioni di profonde consonanze tra le voci dei due autori, in modo ben diverso dal virtuosismo letterario di maniera delle mode del tempo – motteggiato, come vedremo, in più maniere da M. – nel solco, invece, di un petrarchismo ‘impegnato’, radicato a Firenze fin dal tardo Trecento (si pensi ai commenti di Luigi Marsili alle canzoni civili, fra cui proprio “Italia mia”). Nella stessa direzione, d’altra parte, va letta la citazione della petrarchesca “Spirto gentil” (Rvf LIII, vv. 99-101) nelle Istorie fiorentine VI xxix 4:

Facevagli sperare di questa impresa felice fine i malvagi costumi de’ prelati e la mala contentezza de’ baroni e popolo romano; ma sopra tutto gliene davano speranza quelli versi del Petrarca, nella canzona che comincia: “Spirto gentil che quelle membra reggi”, dove dice: Sopra il monte Tarpeio, canzon, vedrai / Un cavalier che Italia tutta onora, / Pensoso più d’altrui che di se stesso.

Che un volume di P. fosse tra le mani di M. a fargli compagnia nel ritiro forzato dagli incarichi pubblici lo sappiamo da un passaggio della famosa lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, epistola debitrice alla memoria petrarchesca in vari sensi, come vedremo:

Partitomi del bosco, io me ne vo a una fonte, e di quivi in un mio uccellare. Ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o un di questi poeti minori, come Tibullo, Ovvidio e simili: leggo quelle loro amorose passioni e quelli loro amori, ricordomi de’ mia, gòdomi un pezzo in questo pensiero (Lettere, p. 295).

Ci si potrebbe interrogare su quale fosse l’edizione del P. lirico (del Canzoniere solo, o anche dei Trionfi) che M. si portava in giro, considerando che per i Rerum vulgarium fragmenta poteva disporre – se si vogliono escludere i più antichi esemplari aldini – di due edizioni delle Cose volgari in 8° uscite a Firenze per i tipi di Filippo di Giunta nel 1504 e nel 1510, mentre per i Triumphi un’edizione fiorentina «a petitione di ser Piero Pacini», impressa nel 1508, coronava una maggiore fortuna dell’opera petrarchesca in terza rima – già messa in luce dalla tradizione manoscritta – che ha visto avvicendarsi a Firenze almeno sette edizioni dal 1473 al 1499.

D’altra parte, proprio da una citazione probabilmente mnemonica dei Trionfi (Triumphus Eternitatis, v. 13) trasfusa, tuttavia, di venature ironiche («Magnifico ambasciatore. Tarde non furon mai grazie divine») prende avvio la lettera a Vettori prima ricordata; la citazione torna, adattata a un diverso contesto poetico e a esigenze di rima, nel M. lirico, a suggello dell’ottava XV della “Serenata” (vv. 119-20, «abbi misericordia di chi arde; / grazie amorose mai non furon tarde») che reca, trasposti nella struttura dell’ottava, non pochi intarsi dal Canzoniere, come il ricorso al motivo topico della Fenice (al v. 3 della prima ottava: «Salve donna tra le altre donne eletta, / essemplo rado di bellezze in terra, / o unica Fenice, alma perfetta, / in cui ogni beltà si chiude e serra») caro al P. dei Fragmenta (Rvf CXXXV, v. 15; CLXXXV, v. 1; CCX, v. 4; CCCXXI, v. 1; CCCXXIII, v. 49). In un’altra lettera a Vettori, del 4 febbraio 1514, M. ricorre ancora alla poesia dei Trionfi, questa volta alla chiusa di Triumphus Cupidinis (i, vv. 159-60: «e di lacciuoli innumerabil carco / vèn catenato Giove innanzi al carro»), che presta, in forma di parafrasi, un’immagine viva e calzante, probabilmente coadiuvata dalla consolidata fortuna iconografica del modello, per raffigurare i gioghi d’amore a cui è sottoposto l’amico destinatario dell’epistola: «[...]. Veggo infine Giove incatenato innanzi al carro, veggo voi innamorato [...]» (Lettere, pp. 309-10).

Il P. lirico (più quello dei Trionfi che del Canzoniere) si frammenta con forza centrifuga nella memoria di M. in tanti rivoli dei Capitoli, dei Decennali, delle Rime, dell’Asino, ripreso per sintagmi, stilemi (per es., l’uso della dittologia sinonimica, di parole in rima, clausole, costrutti sintattici), ma depotenziato, neutralizzato, mescidato ad altre forme, voci, usi linguistici e metri più attivi e vigorosi nella parole machiavelliana, come quelli di Dante, Burchiello, Pulci e la poesia comica e popolareggiante del Quattrocento fiorentino. Non è un caso che nel corpus delle rime sparse nessuna lirica sia direttamente ispirata a P.: ci sono solo due sonetti, nessuna canzone canonica, due madrigali musicali e non petrarcheschi, mentre più significativa è la presenza di strambotti e rime comiche, in ossequio alla tradizione quattrocentesca e regionale.

Ha il sapore di un unicum il sonetto Se sanza a voi pensar solo un momento, concepito secondo i canoni della lamentatio d’amore e tutto composto da materiali petrarcheschi, che trova il proprio controcanto comico nel vaniloquio amoroso di un Callimaco petrarcheggiante nella scena I dell’atto IV della Mandragola. D’altra parte, la poesia petrarchesca, parcellizzata e divenuta topica, assume più di una volta, nella penna di M., i toni del rovesciamento parodico e dell’ironia dissacrante. Si pensi a come il P. di Rvf CCLXX, v. 1 («Amor, se vuo’ ch’i’ torni al giogo anticho») s’insinui nella memoria del madrigale “A stanza della Barbera” a celebrazione dell’amore sensuale che lega il poeta alla cantante Barbara Salutati Raffacani (v. 3: «e ritorno umilmente al giogo antico»); mentre al limite del sacrilego è il ricordo del Triumphus Fame iii, vv. 4-6 («Volsimi da man manca; e vidi Plato, / che ’n quella schiera andò più presso a segno/ al quale aggiunge cui dal cielo è dato») piegato da M. a descrizione satirica delle avances omoerotiche di Filippo da Casavecchia nella già citata lettera a Vettori del 4 febbraio 1514: «Volsimi da man destra, e viddi il Casa / che a quel garzone era più presso al segno, / in gote un poco, et con la zucca rasa» (Lettere, p. 309).

Si è detto in principio che la lettera a Vettori del 10 dicembre 1513 si può definire ‘petrarchesca’ in vari sensi. Oltre alla menzione esplicita delle letture petrarchesche, M. recupera qui un vero e proprio topos consegnato da P. alle generazioni degli umanisti, quello del cortese incontro e dialogo con i libri e con gli antichi nella quiete solitaria delle proprie stanze. Tale motivo ricorre frequentemente nella produzione latina di P., dall’Epystola metrica I 6 (vv. 178-200) a molti luoghi delle Familiares (per es., nella XV 3), ma si direbbe mediato nel M. da importanti tramiti quattrocenteschi, come il Leon Battista Alberti del Theogenius (in L.B. Alberti, Opere volgari, a cura di C. Grayson, 2° vol., 1966, pp. 73-74), che, meno attento all’acribia filologica o a lasciare marginalia come segni di una lettura attenta e responsabile, condivide con il Segretario fiorentino il senso della risonanza viva, fisica e pragmatica della parola dei classici e del loro tradursi in fatti e modalità operative.

Si pone, a questo punto, il problema di che cosa, e come, M. conoscesse del P. latino. E se è vero che nelle pagine machiavelliane non compare nessuna menzione esplicita della produzione più rilevante dello scrittoio petrarchesco, non per questo se ne può escludere la lettura diretta (e non solo in forma volgarizzata) in una Firenze in cui il magistero del P. latino aveva fondato le origini stesse dell’Umanesimo. Innegabile è la centralità dei Rerum familiarium libri, assunto dagli umanisti fiorentini a vero e proprio modello della dialogicità letteraria, fin dal tardo Trecento. Due importanti manoscritti del corpus espistolare petrarchesco destinati a illustri possessori erano usciti dalla bottega di Vespasiano da Bisticci (il Vaticano Urbinate Latino 330, appartenuto ai Montefeltro, e il Laurenziano LIII 4 di proprietà dei Medici); ai frati minori di S. Croce apparteneva l’esemplare delle Familiares conservato nel Laurenziano XXVI sin. 10, senza dire che il codice Laurenziano XC inf. 17 porta la nota di possesso di quel Pietro Crinito che insieme a M. fu discepolo di ser Pagolo da Ronciglione.

Le prime edizioni a stampa delle Familiares (da quella veneziana del 1492 fino a quelle di Basilea del 1496, e ancora quelle veneziane del 1502 e del 1503) comprendevano solo i primi otto libri, mentre nei codici fiorentini quattrocenteschi trovano spesso spazio testi esclusi dalle prime edizioni a stampa come le lettere esemplari ai grandi autori della classicità dellibro XXIV. È in ogni caso indubbio il peso che certi volgarizzamenti delle opere petrarchesche ebbero nella cultura umanistica fiorentina tra Quattro e Cinquecento: si pensi alla versione del De remediis di Giovanni da San Miniato, o alla fortunatissima Familiare XII 2 (presente solo nella terza e ultima redazione del corpus petrarchesco) volgarizzata da Donato Acciaiuoli e tramandata da almeno sessanta codici delle biblioteche fiorentine, spesso inserita accanto ad altri testi chiave dell’Umanesimo civile. Proprio con tale epistola M. sembra dialogare, in una sorta di controcanto destruens, nei capp. xv-xix del Principe, come a voler sovvertire tutta la topica del ritratto idealizzante dello Speculum principis (ripreso dalla successiva trattatistica medievale e quattrocentesca) che da lì aveva tratto origine e fortuna. Si possono enucleare alcuni temi chiave (quasi ripresi lessicalmente) della lettera petrarchesca, puntualmente sovvertiti da M.: l’amore da anteporre al timore nelle qualità del governante (il sovrano impari a farsi amare, è più sicuro essere amati che temuti); la tutela del benessere privato dei sudditi piuttosto che quello pubblico del fisco (motivo ribaltato nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio I xxxvii, II xix); il rapporto verità/finzione (la necessità per un sovrano di tenere un comportamento trasparente e coerente che fugga la simulazione e mostri all’esterno ciò che davvero sente e serba in animo); il dovere di astenersi dal vergognoso sentimento dell’ira e dalla crudeltà. Un punto di possibile sintonia fra i due autori poté forse essere costituito dal ruolo rilevante che P. assegna all’apprendistato letterario e alla formazione intellettuale del sovrano, cui le ‘littere’ si addicono non meno delle armi e dei cavalli. Se dunque l’Institutio regia contenuta nella Familiare XII 2 offriva a M. un terreno agonistico per esercitare la sua forza decostruttiva e proporre un modello antitetico di regnante, l’epistola immediatamente precedente nel corpus petrarchesco – la Familiare XII 1, redatta come seconda exhortatio a Carlo IV affinché non perdesse l’occasione di assecondare la disposizione favorevole della provvidenza per salvare l’Italia – presenta più di uno spunto per la riflessione sul rapporto fra Occasione e Fortuna, che ampio spazio trova fra le righe del cap. xxvi del Principe. D’altra parte ai motivi dell’Occasione (descritta secondo la fortunata iconografia della fronte «capillata» e della nuca calva, risalente ai Disticha Catonis II 262) e della Fortuna – tema centrale, non lo si dimentichi, del De remediis petrarchesco – M. dedica la stesura dei Capitoli, in cui, ancora una volta si annidano memorie del P. lirico; mentre al P. latino della Vita Scipionis, del De viris illustribus e dell’Africa è riconducibile il medaglione dedicato a Scipione nel capitolo “Dell’Ingratitudine” (vv. 73-129), debitore nei versi immediatamente seguenti (130-44) al Triumphus Fame ii, vv. 28-33. Ci sono poi convergenze di temi filosofici trattati con presupposti diversi e differenti finalità, quali il tema dell’eternità del mondo che attraversa tanto le pagine del De sui ipsius et multorum ignorantia quanto il secondo libro dei Discorsi (II v; cfr. Sasso 1987, 1° vol., pp. 298-320). Ma a ben guardare ci sono anche consonanze più profonde, come la convinzione che esista nell’uomo una certa «immutabilità antropologica»:

La fiducia nella sostanziale immobilità antropologica dell’uomo consente al P. – come consentirà poi a M. – 1) di utilizzare l’esempio e la lezione degli antichi come perennemente validi, 2) di esercitare sull’uomo nell’arte della politica la oggettività del metodo scientifico (Feo 1996, p. 118).

Non è un caso che da quel celebre codice di Livio (oggi l’Harley 2493 della British Library) su cui si erano avvicendate le mani di P. e di Lorenzo Valla avesse preso origine il fermento stesso dell’Umanesimo e del suo sogno di fare rivivere e operare nel presente i modelli e le forme di vita e di sapere degli antichi. E sempre a quel testo – peraltro sullo sfondo del tentativo rivoluzionario di Cola di Rienzo, inizialmente sostenuto anche da P. – guarda di nuovo M. fin da quando, ancora ragazzo, il 1° luglio 1486, ritira di sua mano l’esemplare di Livio che il padre aveva ricevuto anni prima dallo stampatore fiorentino Niccolò di Lorenzo della Magna (come ricompensa per la stesura, in quel volume, di un indice topografico), portato poi da Bernardo, insieme ad altri libri, a rilegare presso Francesco d’Andrea di Bartolomeo, cartolaio del popolo di S. Giorgio di Firenze, pagato per il lavoro svolto (come si rammenta nel Libro di ricordi) con «uno barile di [...] vino vermiglio per soldi 50».

Se per un verso, dunque, il P. lirico offre a M. frammenti sostanzialmente neutri da piegare e riutilizzare a piacere nei vari ghiribizzi letterari (perfino nella Esortazione alla penitenza si citano versi dal sonetto proemiale del Canzoniere), la lezione etica, politica e culturale del fondatore dell’Umanesimo si configura, invece, come uno sguardo riflessivo sul presente e come parola attuale, consonante e vitale.

Bibliografia: V. Cian, Machiavelli e Petrarca, «Rivista d’Italia», 1927, 6, pp. 279-88; E. Scarpa, Machiavelli e la «neutralità» di Francesco Petrarca, «Lettere italiane», 1975, 3, pp. 263-85; C. Bec, Dal Petrarca al Machiavelli. Il dialogo tra lettore ed autore, «Rinascimento», 1976, 2, pp. 3-17, poi in Id., Cultura e società a Firenze nell’età del Rinascimento, Roma 1981, pp. 228-44; G. Billanovich, La tradizione del testo di Livio e le origini dell’Umanesimo, 1° vol., Tradizione e fortuna di Livio tra Medioevo e Umanesimo, Padova 1981; G. Sasso, De aeternitate mundi (Discorsi II 5) e Sul XXVI del Principe. L’uso del Petrarca, entrambi in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4 voll., Milano-Napoli 1987-1997, rispettiv. 1° vol., pp. 167-399, 4° vol., pp. 229-67; Codici latini del Petrarca nelle biblioteche fiorentine, a cura di M. Feo, catalogo della mostra, Biblioteca medicea laurenziana, Firenze 19 maggio-30 giugno 1991; F. Bausi, Petrarca, Machiavelli, il Principe, in Niccolò Machiavelli politico, storico, letterato, Atti del Convegno, Losanna 27-30 sett. 1995, a cura di J.-J. Marchand, Roma 1996, pp. 41-58; M. Feo, Politicità del Petrarca, in Il Petrarca latino e le origini dell’umanesimo, Atti del Convegno internazionale, Firenze 19-22 maggio 1991, 1° vol., Firenze 1996, pp. 115-28; C. Varotti, Gloria e ambizione politica nel Rinascimento. Da Petrarca a Machiavelli, Milano 1998; F. Grazzini, Patriottismo umanistico e strumentalizzazzione politica: come Machiavelli adatta le canzoni petrarchesche, in L’identità nazionale nella cultura letteraria italiana, Atti del III Congresso nazionale dell’ADI, Lecce-Otranto 20-22 sett. 1999, a cura di G. Rizzo, 1° vol., Galatina 2001, pp. 115-23; L. Chines, Loqui cum libris, in Motivi e forme delle Familiari di Francesco Petrarca, Atti del Convegno, Gargnano del Garda 2-5 ott. 2002, a cura di C. Berra, Milano 2003, pp. 367-84; F. D’Alessandro, Il Principe di Machiavelli e la lezione delle Familiares di Francesco Petrarca, «Aevum», 2006, 3, pp. 641-69; M.C. Figorilli, Machiavelli moralista. Ricerche su fonti, lessico e fortuna, Napoli 2006; G.M. Anselmi, L’eredità di Petrarca e Petrarca e Cola di Rienzo tra lettere disperse e scenari romani, entrambi in Id., L’età dell’Umanesimo e del Rinascimento. Le radici italiane dell’Europa moderna, Roma 2008, rispettiv. pp. 31-39 e 40-45; R. Rinaldi, Lettere rubate. Il Petrarca di Machiavelli, in Id., Scrivere contro. Per Machiavelli, Milano 2009, pp. 11 e segg.; C. Varotti, A ‘cavalier pensoso’ between Machiavelli and Petrarch, «Humanist studies & the digital age», 2011, 1, pp. 194-200.

TAG

Biblioteca medicea laurenziana

Rerum vulgarium fragmenta

Vespasiano da bisticci

Leon battista alberti

Niccolò machiavelli