Patrizi, Francesco

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Patrizi, Francesco

Davide Canfora

Umanista, nato a Siena nel 1412 e morto a Gaeta nel 1494. Vescovo di Gaeta dal 1461, governatore di Foligno, è noto soprattutto per i due corposi trattati De institutione reipublicae (risalente agli anni Settanta del Quattrocento) e De regno et regis institutione (scritto tra il 1481 e il 1484 e dedicato ad Alfonso II d’Aragona, duca di Calabria), entrambi in nove libri. Queste due opere circolarono manoscritte tra la fine del 15° e il principio del 16° sec., quando andarono in stampa a Parigi per i tipi di Galeotto da Prato (il De regno nel 1519, il De institutione reipublicae nel 1520).

Due aspetti della scrittura di P. possono avere in particolare attratto M.: l’attenzione riservata nel contempo alle istituzioni monarchiche e repubblicane che l’umanista senese tratta con eguale interesse e con disinvolta equanimità; alcune tracce di ‘realismo’ politico riscontrabili nell’articolata e colta trattazione di P., che – pur descritta ancora di recente come «pre-politica» in contrapposizione alla maturità machiavelliana (Schiera 2007) – unisce efficacemente un intento enciclopedico e didascalico alla capacità di presentare una vera e propria summa della letteratura politica dell’Umanesimo (in cui, appunto, non mancarono momenti di acume nell’analisi e di critica anche spietata nei confronti del potere).

L’ambiguità imbarazzante consistente nello scrivere del principato e contestualmente – per dirla con M. – «delle repubbliche» non sfugge al buon senso di P.: perciò egli avverte l’esigenza, in apertura del De regno, di giustificare la propria operazione. Il lettore – egli osserva – potrà domandarsi a quale titolo scriva sul principato chi ha già elaborato pochi anni prima un aperto elogio delle istituzioni repubblicane: ma la somiglianza della monarchia rispetto all’organizzazione data al mondo da Dio, reggitore unico dell’universo, rende giustificabile l’ammirazione per il regno e l’esposizione delle sue caratteristiche ed è solo in apparente contraddizione con il fatto che, in situazioni particolari, lo Stato repubblicano si presenti come il più adatto e il più vantaggioso. La spregiudicata impostazione data da P. al problema sarà stata apprezzata da M., il quale peraltro oscillò tra la scrittura (comunque ambiguamente) ‘repubblicana’ dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e la scrittura (di fatto encomiastica) del Principe senza sentirsi in dovere di giustificare la contraddittorietà delle proprie posizioni.

Quanto ai punti di contatto tra la vasta trattazione di P. e la più asciutta scrittura machiavelliana sul versante del realismo politico, non è ragionevole ipotizzare un rapporto di connessione reciproca profondo. L’impostazione enciclopedica – come si diceva – e al tempo stesso ecumenica di P. non poteva accordarsi con lo spirito empirico e tagliente che informa le argomentazioni machiavelliane. Ciò non esclude che siano leciti suggestivi accostamenti tra i due testi: non solo in tema di ‘amicizia politica’, ultimamente segnalato (cfr. Schiera 2007) come un argomento su cui P. si dimostrerebbe capace di anticipare questioni tipiche della letteratura politica cinquecentesca (val la pena comunque di ricordare che, oltre che da P., il tema dell’amicizia – in particolare politica – era stato largamente affrontato da vari umanisti: si ricordi almeno Leon Battista Alberti). Altre questioni suggeriscono accostamenti, per consenso o per dissenso, forse più circostanziati (cfr. Battaglia 1936): il tema della fides, che andrebbe osservata da parte dei potenti solo se gli uomini fossero tutti uomini retti (De institutione reipublicae IX 2; cfr. Principe xviii); il ruolo attribuito alla fortuna, che incide nell’azione umana accanto alla virtù e deve intendersi come forza distinta dalla divinità (De regno I 12; cfr. Principe xxv); l’ammirazione per la repubblica cosiddetta mista e, in particolare, per la Repubblica veneziana, che ha saputo conservare il suo ordo immutato nel tempo (De institutione reipublicae I 4, II 4, III 3; cfr., tra l’altro, Discorsi I i-ii).

Si può aggiungere che P. (De institutione reipublicae VI 5) si spinge a teorizzare, a proposito dell’importanza di osservare la fides, che il dolus è talvolta necessario: come diceva Lisandro re di Sparta, spiega l’umanista citando la Vita di Plutarco, la fortitudo può essere necessaria in luogo della fides; e prosegue: se poi la pelle del leone non copre abbastanza il corpo, allora può essere utile che l’uomo di potere indossi la pelle della volpe. Fatalmente il pensiero corre al celebre cap. xviii del Principe. Come in altre circostanze, M. ha conoscenza diretta di una fonte antica e, al tempo stesso, sembra ricevere la sollecitazione al recupero della fonte antica anche dalla lettura degli autori moderni. In questo caso la fonte antica, ovviamente fuori discussione, è in primo luogo il De officiis di Cicerone (I xiii 41, dove si criticavano la forza del leone e l’astuzia della volpe): la possibile lettura di P. da parte di M. può aver contribuito a richiamare alla memoria del Segretario fiorentino una metafora destinata a rimanere tra le più efficaci nella scrittura politica moderna. Allo stesso modo, rievocando la simulazione di Numa Pompilio nei Discorsi (I xi), M. ha certo presente il racconto liviano (I 19), ma è molto probabile che il ripetuto riuso umanistico (anzitutto da parte di Poggio Bracciolini nel Contra hypocritas) abbia contribuito a far valorizzare da parte di M. proprio quell’aneddoto antico. Il racconto della simulazione di Numa è elogiato, giova ricordarlo, anche da P. (De institutione reipublicae IX 2), in un passo in cui l’umanista ritorna sul tema, delicato ed evidentemente molto ‘sentito’, dell’utilità della frode come strumento di difesa dalla malvagità degli uomini. Egli osserva:

in tanta hominum malitia malisque dolis omnes scriptores sentiunt vincendum esse ex insidiis, ubi aperte et collatis signis certare periculosum sit, vel ubi hostis eadem arte nos excipiat

in così grande malvagità degli uomini e di fronte ai loro fraudolenti tranelli, tutti gli autori ritengono che sia necessario imporsi servendosi dell’inganno nei casi in cui fosse pericoloso combattere apertamente e a viso aperto ovvero nei casi in cui il nemico ci attaccasse valendosi dei nostri stessi mezzi.

Come si sarà osservato, gli accostamenti più frequenti sono tra il De institutione reipublicae di P. e Machiavelli. Ciò sorprende solo in apparenza. Il De regno di P., non c’è dubbio, è più facile da confrontare con la coeva trattatistica de principe di età umanistica (si pensi a Giovanni Pontano, che proprio al duca Alfonso d’Aragona aveva dedicato l’epistola/institutio). Per questo, a prima vista, M. si colloca in posizione piuttosto distante rispetto alla trattazione monarchica di Patrizi. Elemento che trova conferma in luoghi circostanziati dell’opera dell’umanista senese. Nel cap. viii del libro II del De regno, per es., P. si sofferma sull’importanza dei precettori dei principi e menziona Chirone, precettore di Achille: diversamente dalle spregiudicate conclusioni cui giungerà M. parlando di quella figura metà uomo e metà bestia, P. contesta la fabula che attribuiva a Chirone una metà ferina e precisa, con un razionalismo che suona quasi ingenuo, che quella fabula derivava semplicemente dalla grande abilità di Chirone nell’arte del cavalcare (fu considerato metà cavallo propter equitandi peritiam). Nel De regno muta, rispetto al De institutione reipublicae, anche la valutazione di Numa Pompilio, che viene ricordato nel cap. vii del libro I e nel xvi del libro II come raro esempio di regnante integerrimo, così simile nel suo agire alla divinità da aver pienamente meritato il noto racconto che gli attribuiva un divinum coniugium con la ninfa Egeria.

Sulla questione della rarità di regnanti meritevoli di lode val la pena di aggiungere un’ultima osservazione. L’elogio nel De regno di Numa (uomo virtuoso capace di esprimere grande virtù anche nell’esercizio del potere) accompagnava le riflessioni di P. intorno al delicato problema del miglior genere di vita: era da preferirsi la vita privata o la vita pubblica, la vita attiva o la vita contemplativa? P., in realtà, non dubita che la vita contemplativa sia più facilmente portatrice di virtù ed enumera alcune coppie di uomini celebri (Socrate e Crizia, tra gli altri) che – trovatisi a vivere negli stessi anni, l’uno da privato cittadino e l’altro da uomo pubblico – dimostrerebbero al di là di ogni dubbio la maggiore virtù del vivere privato. Qui si coglie la ricezione, da parte di P., di un motivo che aveva animato la critica nei confronti del potere nel tempo della crisi del cosiddetto Umanesimo civile: si pensi a scritti come il De infelicitate principum di Poggio Bracciolini o il Momus di Alberti. Il piglio enciclopedico e bonario di P. rende peraltro possibile una coesistenza serena, solo apparentemente aporetica, fra la critica nei confronti del potere (che aveva già suggerito agli umanisti il rifiuto del contatto con il potere, la preferenza per la vita privata e il ripiegamento verso la quiete degli studi) e l’elogio programmatico del potere monarchico. Poggio Bracciolini e Alberti ricavavano dall’assenza di buoni esempi di governo la necessità di fuggire dalla vita politica: P., al contrario, non esclude che il racconto storico, accanto a un prevalente numero di casi di principi malvagi, fornisca il ricordo di principi realmente buoni ed esemplari. Il che consente, in definitiva, di precisare la distanza riscontrabile tra P. e M.: quest’ultimo aveva conosciuto e sicuramente fatto tesoro delle critiche, anche dure, esposte dagli umanisti nei confronti del potere, né certo si poneva il problema di negare o affermare che la storia dei re fosse un catalogo di uomini stolti o, peggio, crudeli. A M. interessava superare la semplice critica e, denudata la natura inevitabilmente violenta del potere, discuterne la necessità effettuale. Al contrario, P., pur non ignorando e non respingendo le critiche nei confronti dei signori espresse dalla generazione che lo aveva preceduto, prendeva spunto dall’esempio dei re la cui fama non fosse stata macchiata da ignominia per provare a costruire ancora una volta un’immagine rasserenante e positiva – tipicamente umanistica, si potrebbe dire – del sovrano.

Bibliografia: Enneas de regno et regis institutione [...], Parrhisiis in aedibus honesti viri Galeoti a Prato [...] 1519; De institutione reipublicae libri IX [...], Parrhisiis [...] impensis Galioti a Prato [...] 1520.

Per gli studi critici si vedano: G. Chiarelli, Il De regno di Francesco Patrizi, «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 1932, 6, pp. 716-38; F. Battaglia, Enea Silvio Piccolomini e Francesco Patrizi. Due politici senesi del Quattrocento, Siena 1936; L.F. Smith, Francesco Patrizi: forgotten political scientist and humanist, «Proceedings of the Oklahoma Academy of science», 1966, pp. 34851; M.S. Sapegno, Il trattato politico e utopistico, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, 3° vol., t. 2, Torino 1984, pp. 949-1010 (in partic. pp. 968-69); M. Viroli, Dalla politica alla ragion di Stato. La scienza del governo tra XIII e XVII secolo, Roma 1994, in partic. pp. 49-107; P. Schiera, L’amicizia politica in Francesco Patrizi, senese, in De amicitia. Scritti dedicati a Arturo Colombo, a cura di G. Angelini, M. Tesoro, Milano 2007, pp. 61-72; A. Ceron, L’amicizia civile e gli amici del principe. Lo spazio politico dell’amicizia nel pensiero del Quattrocento, Macerata 2011.

TAG

Discorsi sopra la prima deca di tito livio

Enea silvio piccolomini

Filosofia del diritto

Poggio bracciolini

Arturo colombo