MILIZIA, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 74 (2010)

MILIZIA, Francesco

Tommaso Manfredi

MILIZIA, Francesco. – Nacque a Oria, in Terra d’Otranto, il 15 nov. 1725, da Raimondo e da Vittoria Papatodero, appartenenti alla piccola nobiltà (Ancora, pp. 21 s.). La prematura morte della madre, avvenuta tre anni dopo (ibid., pp. 22, 29 s.), ne segnò la giovinezza raccontata in una breve autobiografia pubblicata postuma (Notizie di Francesco Milizia scritte da lui medesimo con un catalogo delle sue opere, in F. Milizia, Principj di architettura civile, Bassano, 1804).

Dall’approdo a Padova, dove dai nove ai sedici anni di età studiò «assai male le belle lettere» (ibid., p. V) sotto la tutela dello zio medico Domenico (Ancora, p. 32), il racconto del tormentato percorso formativo del M. si snoda avventurosamente come una lunga fuga attraverso luoghi emblematici della composita realtà politica e culturale dell’Italia del Settecento: Pavia, Milano, Roma, Napoli, interrompendosi sulle banchine del porto di Livorno con la rinuncia all’imbarco per la Francia «per mancanza di denaro» (Notizie …, p. VI), collocabile intorno al 1750. In tale contesto anche la «voglia di vedere mondo» posta all’origine dell’abbandono di Napoli (ibid.), dove il M. era giunto all’incirca nel 1741, presenta forti connotati simbolici derivanti dall’impulso degli innovativi insegnamenti di Antonio Genovesi, che proprio in quell’anno aveva avviato l’attività di educatore della futura classe dirigente del Regno borbonico. Lo studio di «un poco di Logica e Metafisica» e della «Geometria», rispettivamente sotto Genovesi e Giuseppe Orlandi (ibid., pp. V-VI), infatti, costituirono per il M. la chiave di accesso al mondo dei progressisti stranieri – francesi e inglesi in particolare – fondato, secondo Genovesi, sulle «gentili e utili scienze», «la geometria, l’astronomia, l’aritmetica, la fisica, la storia della natura» e su un linguaggio moderno affrancato dal latino accademico, appropriato, logico e vibrante (Ancora, p. 34). Egli non apparteneva alla classe nobiliare più direttamente investita dalle teorie del maestro, come Ferdinando Galiani, più tardi ricordato come suo «condiscepolo» (Lettere di Francesco Milizia a T. Temanza, a cura di P.A. di Caldogno, Venezia 1823, 23 ag. 1774), o il fratello marchese Berardo di cui divenne amico; ma non rientrava neanche nel folto gruppo di giovani provinciali intenzionati a sperimentare quelle stesse teorie nelle terre di origine. Così, il M. descrisse il suo ritorno a Oria, non addottorato, «dopo una lunga vita neghittosa» (Notizie …, p. VI), come il preludio a un’esistenza di provincia tra l’annoiato e il gaudente.

Per un allievo di Genovesi le «scienze» che disse di avere ripreso a studiare nel ritiro «di una casa di campagna» (ibid.) non potevano che essere quelle promosse dal maestro e che da allora ne alimentarono la spiccata tendenza al razionalismo analitico. Analogamente il suo matrimonio con Teresa Muzio, «una nobile Donzella di buona indole» di Gallipoli (ibid.), celebrato il 31 genn. 1751, non poteva che tendere al consolidamento del casato, di cui egli era investito come primogenito e unico erede dopo la recente scomparsa della sorella Angela (Ancora, pp. 22, 36 s.).

Negli anni seguenti il M. visse con la moglie a Gallipoli, nel rispetto di rigidi patti matrimoniali, «con qualche applicazione ai libri, ma più all’allegria» (Notizie …, p. VI). Fino a quando, entrato in possesso dell’usufrutto dei beni materni e affidatane al padre la gestione (Ancora, p. 379), volse l’attenzione verso Roma, soggiornandovi per un anno e mezzo, tra il 1758 e il 1760, e trasferendovisi definitivamente nel 1761.

A fronte delle scarne notizie biografiche sulle circostanze del trasferimento nella città papale, due lettere possono contribuire a chiarirne gli antefatti. L’indirizzo della prima al principe Camillo Borghese, come «suo servitore», rimanda a un possibile canale di relazioni intrattenute dal M. tra Roma, Napoli e la Terra d’Otranto, poiché la sorella del principe, Eleonora, era sposata a Michele Imperiali, principe di Francavilla e marchese di Oria, influente mecenate di letterati e artisti (Pasquali, 2005, p. 93 n. 12). Il contenuto della seconda, indirizzata il 19 nov. 1763 dalla loggia massonica Les zelés (o Gli zelanti) di Napoli alla Gran Loggia d’Olanda di Amsterdam, rimanda invece ad altre più oscure relazioni del Milizia. Infatti la richiesta rivolta ai confratelli olandesi di utilizzare come intermediario per la corrispondenza il «Sigr. D. Francesco Milizia, Roma [che] avrà cura di farci pervenire le vostre lettere per le vie più sicure» (Stolper; Di Castiglione, I, p. 73), non solo ne prova l’appartenenza alla massoneria, ma ne attesta anche una posizione di responsabilità connessa a una lunga militanza nelle file della corrente realista da cui la loggia Les zelés era sorta il 10 apr. 1763, probabilmente nella loggia del principe di San Severo, Raimondo de’ Sangro, alla quale appartennero l’Orlandi e il principe Imperiali. La lista degli esponenti di questa loggia, tra cui i principi di Caramanica, F.M.V. di Aquino, e di Canneto, G. Gironda, i marchesi Vincenzo Montaperto, Vincenzo e Gaetano Montalto e l’abate Kiliano Caracciolo (ibid., II, pp. 127-129), suggerisce altre possibili relazioni intrecciate dal M. a Napoli e nella provincia salentina e ancora perduranti a Roma, nel segreto dei pochi ambienti aperti a influenze massoniche; tra questi il circolo filogiansenista dell’Archetto, ispirato da Giovanni Gaetano Bottari, amico e corrispondente di uomini politici e di cultura napoletani a cominciare dal primo ministro Bernardo Tanucci.

Probabilmente nell’ambito della documentata frequentazione di Bottari maturò anche la decisione di proseguire gli studi e di interessarsi all’architettura, «senza saper neppur disegnare», e dopo essersi «innamorato di quest’arte», di intraprendere la scrittura delle Vite degli architetti più celebri (Notizie …, p. VI).

Bottari, come curatore della riedizione commentata delle Vite di G. Vasari (1759-61), costituì un naturale riferimento per il grande progetto biografico del M., anche se la tendenza a una trattazione meno prolissa ed estesa agli architetti più importanti di tutti i tempi lo orientò verso altre fonti e altri autori, come l’architetto veneziano Tommaso Temanza, contattato per lettera prima ancora di incontrarlo a Roma nel 1766 e di divenirne amico (Giuffrida, p. 638).

Non appena pubblicate da Venanzio Monaldini (presso la stamperia romana di Paolo Giunchi Komarek), nella primavera del 1768, le Vite de’ più celebri architetti d’ogni nazione e d’ogni tempo incorsero nella sommaria stroncatura dell’architetto e teorico Massimiliano De Vegni, che accusò il M. di averle «levate di pianta colle stesse parole […] fino al Brunelleschi» dal Recueil historique de la vie et des ouvrages des plus celebres architectes di Jean-François Félibien (1687), nella traduzione italiana di Gaspare Fossati (1747 e 1755; lettera di De Vegni a Giuseppe Ciaccheri del 23 apr. 1768, in Calabresi, p. 170). Tuttavia De Vegni non rendeva merito alle straordinarie capacità di compendiatore manifestate dall’esordiente M. non solo nei confronti dell’opera di Félibien, riguardante gli architetti dall’antichità fino al XIV secolo, ma anche delle Vite di Vasari, di Baldinucci e di altre più eterogenee come quelle di Vincenzo Scamozzi e Vincenzo Vittoria, scritte appositamente da Temanza, e quelle di Alessandro Pompei e Girolamo Dal Pozzo, le sole riguardanti personaggi viventi. A tal proposito anche Temanza lamentò «qualche viziosa alterazione» dei suoi contributi, pur esaltando il Saggio sopra l’architettura che, sul modello vasariano, precede l’apparato biografico, come «un capo d’opera, massimamente ove distrugge gli errori» (lettera di Temanza a Enea Arnaldi del 22 ott. 1768, in Milizia, 1827). Nelle Vite gli aspetti più originali riguardavano i caustici contrappunti critici nei confronti delle opere degli architetti romani degli ultimi due secoli – e in particolare di F. Borromini –, nel Saggio essi erano limitati ad alcune parti sull’educazione e sul ruolo dell’architetto in un quadro disciplinare fondato sulle scienze naturali e sulla filosofia morale. Per il resto il Saggio era il frutto di un abile florilegio dall’Essai sur l’architecture di Marc-Antoine Laugier (1753, 1765) integrato con altre fonti, a formare secondo lo stesso autore una «specie di mosaico, i di cui pezzi presi tutti di pianta di quà e di là». Se molti letterati accolsero condiscendentemente questa ammissione rispetto al merito di avere «lodevolmente fissati i suoi principi» sulle «traccie de’ Frezieri, de’ Blondelli, de’ Belidori, de’ Felibien, degli Algarotti e di altri moderni scrittori», molti altri, sottolineando la totale assenza di citazione delle fonti, gliela rivoltarono contro con veementi accuse di plagio (Comolli, 1788, I, pp. 136-138). Accuse specificate anche da De Vegni nella lettera al Ciaccheri del 1768 e ribadite ancora nel 1795 al suo allievo Giuseppe Del Rosso nel contesto del racconto (appreso dal giovane architetto Giovan Battista Vinci) del non convenzionale avvicinamento alla disciplina architettonica del M.: «Vincenzo Ferraresi, già cameriere di Milizia, e perché nelle ore di libertà si occupava di disegnare di Architettura causa che Milizia, che se ne avvide, comprò de libri d’arte per aiutare il Cameriere, gli lesse anch’egli e pochi mesi dopo rubando di qua e di là stampò il saggio che precede la sua prima edizione delle vite degl’architetti» (Currò).

Seppure velato dal risentimento dell’anziano De Vegni, deluso nelle aspettative professionali e letterarie, nei confronti della fama di un dilettante tanto prolifico, questa versione dell’estemporaneo addottrinamento del M. in coincidenza con quello del giovane Ferraresi, concittadino della moglie, non è sostanzialmente contraddetta da quanto lo stesso M. scrisse il 18 apr. 1772 a Temanza vantandosi di avere tenuto lontano dai «maestrini di errori» Ferraresi che «da molti e molti anni» viveva presso di lui, insegnandogli personalmente l’architettura attraverso un metodo di studio fondato sui «monumenti antichi, Vitruvio e Palladio» (Manfredi, 2006, pp. 56 s.). Un processo didattico che sembrerebbe corrispondere a quello esposto nel Saggio sopra l’architettura, alimentato dal disprezzo per la classe degli architetti romani del tempo che il M. condivideva con i pensionnaires dell’Accademia di Francia. Tra questi i nomi dei giovani Charles-François Darnaudin, Louis-Joseph Maulgué, Pierre-Adrien Pâris, presenti a Roma in tempi diversi tra il 1763 e il 1774, affiorano nelle lettere del M. a Temanza per sollecitarne l’appoggio in occasione dei rispettivi itinerari palladiani; mentre quello di Jean-Arnaud Raymond (a Roma dal 1769 al 1773), importante mediatore tra i suoi colleghi e gli interlocutori italiani accomunati dal culto per Palladio, vi compare come un suo assiduo frequentatore (ibid., p. 57; Manfredi, 2007, pp. 35 s.).

Probabilmente proprio nell’ambiente dell’Accademia di Francia il M. concepì l’idea di un «Corso compiuto d’Architettura» annunciato per lettera a Temanza il 24 giugno 1769 come «opera ardita» iniziata «da un pezzo», ma lontana dalla conclusione in quanto «richiederebbe una Società di valentuomini dimoranti insieme per più anni per farla perfetta».

Un’impresa, finalizzata a fornire agli aspiranti architetti attraverso un solo libro le nozioni storiche, teoriche, tecniche e pratiche riguardanti la disciplina, tratte dai «più meritevoli Autori di architettura», analogamente a quanto si apprestava a fare Jacques-François Blondel con il ponderoso Cours d’architecture (Parigi 1771-73) tratto dalle decennali lezioni impartite ai suoi allievi (tra i quali Darnaudin e Raymond), più tardi significativamente giudicato dal M. opera pedante e bizzarra, ma «d’una utilità universale» proprio perché «vi è fuso quanto è sparso negli altri trattati» (F. Milizia, Memorie degli architetti antichi e moderni, Parma, Stamperia reale, 1781, p. 274).

Nel frattempo, dopo avere dato alle stampe Del salasso (Roma, Casaletti, 1770), in gran parte tradotto letteralmente dalla voce Saignée dell’Encyclopédie, il M. era impegnato ad arricchire il suo ideale repertorio didattico finalizzato a «far conoscer agli artisti i principii essenzialissimi della loro professione» con gli Elementi di matematiche (ibid. 1771), un compendio delle Lezioni elementari di matematica ovvero Elementi d’algebra e geometria del signor abbate de la Caille (Napoli 1761, 1764) che lo aveva occupato tutto l’inverno 1770-71 e che doveva essere seguito da un Trattato di meccanica e d’idrostatica rimasto inedito (Lettere … a T. Temanza, 30 marzo 1771, 18 genn. 1772). Contestualmente, «così per divertimento e per non so che ghiribizzo», nella primavera del 1771 si diceva impegnato all’ultimazione di un «Trattatino sopra il Teatro» (ibid., 30 marzo 1771), pubblicato in forma anonima a Natale di quell’anno presso l’editore romano Casaletti con il titolo Del teatro, ma subito messo all’Indice e sequestrato per il «gran rumore» e lo «schiamazzo di poetastri e pedanti» (ibid., 18 genn. 1772). Le accuse di offesa alla religione, oscenità, improprietà letterarie, inopportunità politiche e quant’altro rivolte al M., pur riguardando essenzialmente la parte letteraria dell’opera (debitrice soprattutto al Saggio sopra l’opera in musica di F. Algarotti, del 1762 e al Della perfetta poesia italiana di L.A. Muratori, del 1706), non dovevano essere indifferenti alla sua pesante requisitoria sull’arretratezza dell’architettura teatrale a Roma, e implicitamente sulle ragioni politiche e sociali che ne erano la causa, a fronte dell’esaltazione della forma emiciclica del teatro antico, parzialmente ripresa nel palladiano teatro Olimpico di Vicenza e riproposta nel progetto allegato al trattato redatto da Ferraresi.

Profondamente turbato dalla disavventura editoriale, il M. decise di sottrarsi per sempre ai censori romani pubblicando le sue opere fuori dallo Stato pontificio, a cominciare dalla riedizione Del teatro, data alle stampe alla fine del 1773 dall’intraprendente editore veneziano Giovanni Battista Pasquali, con la mediazione e la cura di Temanza, che vi apportò nella veste di «censore di se stesso» diverse correzioni e aggiunte. Tra queste una nota sulla «piccola Vicenza col solo Palladio […] incomparabilmente più bella della grandissima Roma, non ostante i suoi Bramanti, San Galli, Buonarroti, Peruzzi, Vignoli, posti già in oblio per Fontana, Maderno, Bernini, Borromini, seguiti da uno stuolo che alla Tartara calpesta la bella Architettura Greca-Romana» (Del teatro, p. 81), simboleggia la sua predilezione per l’architettura palladiana e per quella neopalladiana francese e inglese e l’insofferenza a Roma. Insofferenza manifestata nelle lettere a Temanza, riguardo alle contorsioni e alle superfluità di gran parte della sua architettura moderna, e in quelle al conte vicentino Francesco di Sangiovanni (anch’egli massone), riguardo alle sue prospettive politiche, incancrenite dalla questione gesuitica.

Se gli epistolari riflettono abbastanza chiaramente il mondo delle frequentazioni culturali e mondane che il M. condivideva con i suoi interlocutori, non altrettanto avviene per quanto riguarda la vita privata e i viaggi. A tal proposito, a parte alcune escursioni nei dintorni di Roma, sono noti solo tre soggiorni a Napoli tra il 1768 e il 1774 e uno in Puglia nel 1783 (Pasquali, 2000, p. 270). Nel terzo soggiorno napoletano, prolungatosi dalla fine di aprile fino alla fine di novembre 1774, il M. fu probabilmente accompagnato da Ferraresi, entrato in quell’anno come aiutante di architettura nella Reale Accademia militare di Napoli, nonostante la palese millanteria di presentarsi come autore di tutte le opere fino ad allora pubblicate dal maestro in forma anonima (Manfredi, 2007, pp. 64 s. n. 112). Anche la nomina di soprintendente alle reali fabbriche Farnesiane in Roma, ricevuta dal M. nel 1775 (al posto di Giuseppe Panini, che la deteneva da lungo tempo in vece del suocero Ferdinando Fuga), era sicuramente maturata l’anno prima a Napoli, nel contesto dei suoi rinnovati contatti con gli ambienti politici e con quelli massonici dominati dalla riorganizzata loggia degli Zelanti, ma anche con quelli artistici e culturali, testimoniati dai contatti con Pâris (presente a Napoli con il giovane allievo Louis-Alexandre Trouard) e dalla visita ai siti di Paestum ed Ercolano (ibid., p. 37).

Pur facendo la sua comparsa nella vita pubblica romana da architetto con l’allestimento dell’arco di trionfo per il possesso del Regno di Pio VI, offerto il 30 nov. 1775 come di consueto dal Regno di Napoli (in realtà già utilizzato due volte dai suoi predecessori), il M. manteneva saldamente uno status elitario intermedio tra il gentiluomo dilettante e l’intendente libero dall’esercizio pratico della disciplina. Come tale il 22 giugno 1776 comunicò a Temanza di avere «per le mani: le Vite degli Architetti, accresciute e corrette, e i Principii di architettura». La pubblicazione di entrambe le opere, nel 1781, rispettivamente presso l’editore Bodoni, nella Stamperia Reale di Parma, con il titolo di Memorie degli architetti antichi e moderni, e presso l’editore De Rossi di Finale, con il titolo Principj di architettura civile, fu promossa da José Nicolás de Azara, presente a Roma dal 1766 come agente generale e procuratore del re di Spagna (Pasquali, 2000, pp. 247-251). Ed è perciò probabile che già all’epoca il M. fosse entrato nell’orbita di influenza del potente diplomatico spagnolo legato agli ambienti riformisti napoletani e forse alla massoneria.

Per Azara il M. fu dapprima un collaboratore nella cura dell’edizione italiana delle Opere di Antonio Raffaello Mengs su le belle arti, la cui pubblicazione presso Bodoni, nel 1780, fece dilazionare di quasi un anno e mezzo quella delle Memorie degli architetti (Lettere di Francesco Milizia al conte Francesco di Sangiovanni, Parigi, Renouard, 1827, 2 sett. 1780). Poi ne divenne un intimo amico, secondo quanto lo stesso diplomatico confidò al suo editore nel 1783: «Milizia è il più brav’uomo, ch’io conosco in Roma. Ho tutta l’amicizia che posso avere per lui, e per i suoi costumi e maniera di pensare è degno di essere amato. Se Lei lo conoscesse ne resterebbe incantato» (Pasquali, 2000, pp. 249 s.). Nel contesto di questo rapporto da una parte il M. svolse un ruolo subordinato come revisore e traduttore per l’Introduzione alla storia naturale e alla geografia fisica di Spagna di Guglielmo Bowles (Parma, Stamperia Reale, 1783) e per la Memoria del commendatore Deodato De Dolemieu sopra i tremuoti della Calabria nell’anno 1783 (Roma, Salvioni, 1784), dall’altra si guadagnò l’opportunità di pubblicare nella veste migliore le sue due opere più impegnative.

Le Memorie degli architetti costituivano una profonda revisione e integrazione della prima edizione anonima, anche grazie all’aiuto del conte di Sangiovanni al quale si devono gran parte delle informazioni sui numerosi architetti veneti viventi inseriti tra le Vite del XVIII secolo, quasi tutti appartenenti alla classe dei gentiluomini dilettanti, a fronte di un minor numero di famosi architetti stranieri e italiani defunti, come Luigi Vanvitelli, o prossimi a diventarlo come il vecchio Fuga (deceduto proprio nel 1781).

I Principj di architettura civile erano il frutto di oltre un decennio di lavoro impiegato a comporre all’interno di un articolato palinsesto basato sulla triade vitruviana di bellezza, comodità e solidità un «mosaico» di fonti assai più ampio di quello confluito nel Saggio del 1768. A parte l’Essai di Laugier e la Science des ingénieurs di Bernard-Forest Belidor (1729), dominanti perfino in forma di pedissequa traduzione di lunghi brani, le altre fonti risultano per lo più frammentate o assorbite, uniformate linguisticamente, restituite a nuova vita e perfino a nuovi significati. Ciò grazie a un processo di sintesi e semplificazione dei principî architettonici adottati dall’autore a integrazione della codificazione vitruviana: la sovranità della legge di natura, l’affrancamento dall’autorità aprioristica di scrittori e architetti antichi e moderni e la conseguente assoluta libertà del giudizio critico sulla sostanza delle opere, come viva esperienza di ragione, e infine la necessità di identità tra il filosofo e l’artista nel segno dell’accezione razionale di ogni atto creativo. Un esito di estrema chiarezza, in nulla originale rispetto a ognuno dei molteplici riferimenti considerati, ma pressoché rivoluzionario rispetto alla loro somma, anche al di là della positiva accoglienza dell’opera presso i contemporanei, riflessa nella Bibliografia storico-critica di Comolli (1792, IV, pp. 42-50).

Dal rapporto con Azara nacque inoltre L’arte di vedere le belle arti secondo i principi di Sulzer e Mengs, preannunciata a Sangiovanni come una «filastrocca […] ancora informe» in una lettera del 2 sett. 1780 e pubblicata anonima presso Pasquali a Venezia, nel 1781, al di fuori della protezione di Azara, forse per preservare il patrono dalla traumatica ricezione di quello che sarebbe stato definito il «terribile opuscolo che rovesciò il sistema di scrivere e di pensare in materia delle arti» (Cicognara, 1821).

Al di là dell’intenzione dichiarata di rapportare in estrema sintesi i principî estetici di Johann Georg Sulzer e A.R. Mengs a un limitato campione di paradigmatiche opere romane di scultura, pittura, architettura e incisione, il volumetto deve la sua carica innovativa alla parte dedicata all’architettura. Qui la riduzione della complessa materia dei Principj in forma di decalogo si confronta per la prima volta con una critica disinvolta e vibrata di «oggetti» selezionati dall’antichità al primo Seicento. Ciò avveniva da una parte minando alla base l’autorità degli architetti contemporanei nel confronto con l’intangibile bellezza classica del Pantheon, dall’altra ponendo le fondamenta di un nuovo rapporto di «simmetria», di specularità, tra l’artista-architetto e lo spettatore, uniti dagli stessi «principii certi, costanti, generali, inflessibili, provenienti tutti dalla ragione e dall’essenza dell’architettura» (L’arte di vedere, p. 137).

Questa duplice interpretazione dell’atto creativo fu fatta propria dal M. quando fu chiamato a esprimere un parere da intendente, come nel 1773 per il progetto di completamento della facciata della chiesa veneziana di S. Rocco (Lettere … a T. Temanza, 19 giugno 1773) e ancor più quando si trovò a promuovere e indirizzare la redazione di un progetto, come accadde per il teatro disegnato da Ferraresi nel 1771 di cui rivendicò l’idea, per la costruenda chiesa dei Rocchettini a Piacenza, fatta disegnare nel 1781 a «un amico architetto» in alternativa ai «parecchi disegni» sottoposti al suo giudizio probabilmente da Azara (Pasquali, 2000, pp. 271 s.), o per l’allestimento nel 1789 del catafalco in onore di Carlo III nella chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli, disegnato da Giuseppe Panini su incarico dello stesso Azara, ma sicuramente ispirato dal M. (Moleón, pp. 256-259). Anche per questo nel 1783 egli poteva apparire ai suoi detrattori «superbo come Lucifero» nonostante la «notissima imperizia» che lo costringeva a delegare tutte le mansioni tecniche della carica di soprintendente delle Fabbriche Farnesiane al capomastro Bernasconi (Ancora, pp. 53 s.; Consoli, 2000, p. 223).

Fu anche in base a questa dignità che nel dicembre 1784 il M. tenne a distinguere la sua soprintendenza da quella dei predecessori architetti retribuiti in percentuale sull’importo dei lavori svolti (Ambrosi, p. 90): in primo luogo chiedendo che gli fosse assegnata la Farnesina come abitazione («affinché le statue e le pitture che vi contengono non vadano in perdizione»); in secondo luogo rivendicando come risarcimento per la mortificante rimozione dalla carica di agente regio, detenuta per soli quattro mesi di quell’anno, l’istituzione alla Farnesina di un’Accademia di belle arti per gli artisti pensionati del Regno di Napoli da porre sotto la sua direzione (Consoli, 2000, pp. 222 s.; Ambrosi, pp. 90 s.), attuando così per tutte le arti del disegno l’impostazione dell’Accademia già prefigurata per la sola architettura nei Principj (1781, pp. 371-375). Ma queste istanze partorirono solo una ulteriore richiesta da parte di M. della triplicazione del suo stipendio di 100 scudi annui per sostenere almeno la pigione della casa abitata da «lungo tempo», forse quella nella strada dell’Arco dei Ginnasi, dove risiedette in ultimo con la moglie e la servitù (due camerieri, un cuoco e un cocchiere; Michel; Ancora, p. 54; Andriani, p. 290).

Nel 1786 l’incarico di soprintendente cessò in concomitanza con l’allontanamento dalla carica di primo ministro del suo protettore Giuseppe Beccadelli, marchese della Sambuca (successore di B. Tanucci nel 1776). Con esso cessò anche lo status di «Neapolitanus» al servizio regio, al quale nel 1785 il M. si era appellato con il marchese per scongiurare il sequestro dei suoi beni personali a Oria ancora gestiti dal padre (morto nel 1792).

«Non voglio più aver che fare con corti: amo più la mia quiete, che tutti gli splendori dei troni, che sono come specchietti per uccellar le allodole». Il ritorno alla vita riflessiva così annunciato al conte di Sangiovanni in una lettera del 9 sett. 1786, nello stesso anno trovava un eloquente riscontro nel dipinto che Azara fece eseguire al giovane connazionale Francisco Javier Ramos nel suo studio di ambasciatore nel palazzo di Spagna, raffigurante lui e il M., in veste di filosofi antichi, in presenza della dea Minerva impersonata dalla principessa Giuliana Falconieri Santacroce (Moleón, p. 233). A partire dalla nomina di Azara ad ambasciatore, nel 1784, infatti il palazzo di Spagna era diventato l’unico luogo dove si poteva incontrare in pubblico il M., che non frequentava più il palazzo di Venezia. Qui, infatti, l’ambasciatore veneto Andrea Memmo, durante il suo soggiorno a Roma dal 1783 al 1786, scrisse e pubblicò la prima parte degli Elementi dell’architettura lodoliana (1786) pressoché in contrappunto agli scritti del M. ma senza averlo mai potuto incontrare (Pasquali, 2002, p. 177); mentre solo pochi anni prima nello stesso luogo lo avevano frequentato sia Giannantonio Selva, allievo di Temanza, apprezzandolo come un «uomo rigido e sincero ne’ suoi giudicj» (Farinati, p. 464), pur senza assecondare il desiderio del maestro di farselo amico (Pasquali, 2000, p. 259), sia il precedente ambasciatore Girolamo Zulian, esponente della massoneria veneziana, che lo tenne in grande considerazione, come letterato e come intendente (tra l’altro richiedendone il parere sulla forma originaria del tempio della Sibilla a Tivoli nel 1780), riportandone in patria l’immagine di «personaggio ragguardevolissimo» (Pasquali, 2005, pp. 91, 96 s.).

Nella cerchia di Azara intorno al 1784 era nato anche il fruttuoso sodalizio con l’editore Giuseppe Remondini di Bassano, che nel 1785 avrebbe portato alla pubblicazione delle edizioni economiche delle Memorie (con modeste aggiunte) e dei Principj di architettura civile dedicati all’ambasciatore di Spagna (Pasquali 2000, p. 269 n. 69), seguite nell’autunno del 1787 dalla Roma delle belle arti del disegno (ibid., pp. 256-258).

Questo piccolo libro, orgogliosamente preannunciato dal M. all’editore nel dicembre 1786 come uno «scartabello» che avrebbe avuto sicuramente un «pronto spaccio» non avendo paragoni nella letteratura artistica, costituiva un’evoluzione della parte critico-descrittiva de L’arte di vedere le belle arti – forse ispirata da Zulian – limitata però alla sola sezione di architettura (che nel frattempo aveva ampliato nella seconda edizione stampata da Caffarelli a Genova nel 1786). L’opera segnava il definitivo passaggio del M. verso la libera interpretazione critica dell’opera architettonica, simbolicamente e provocatoriamente circoscritta all’ambito della Roma moderna, e verso l’esercizio sistematico del suo empirico codice interpretativo, ormai svincolato dall’autorità di quello vitruviano e quindi anche dal derivato pragmatismo neopalladiano.

Il quadro della teoria del M. era così definitivamente composto nella complementarità di pars destruens e construens, promuovendo una idea di architettura sobria, semplificata nei volumi, scarnificata nella decorazione, esaltata nella funzione e nell’economia costruttiva, fondata sulla storia, su modelli greci e romani artificiosamente distinti e ricodificati in schemi tanto astratti quanto poco rispondenti ai canoni dell’antiquaria, pronta insomma per essere recepita in blocco come un supporto necessario alla formazione di ogni giovane architetto dotato, o desideroso, di libertà di giudizio.

L’astiosa recensione de L’arte di vedere comparsa sul Giornale delle belle arti (n. 3 del 1788) dimostrava la resistenza di una larga parte dei letterati alla penetrazione di queste idee. Mentre l’invito rivolto nel 1785 da G. Quarenghi a G. Selva a recedere dall’intenzione di scrivere contro il M. non appena fosse morto Temanza, per non addolorare il vecchio maestro rimastogli legato, perché «questo sarebbe un far troppo onore a simil sorta di scrittori, i quali secondo che me vanno avanti con una total non curanza» (Angelini), dimostrava l’ostilità anche degli architetti che più di altri avrebbero dovuto condividerne almeno la pars destruens.

Bastarono però pochi anni perché questo stato di cose mutasse radicalmente. Nel 1793 un eminente docente come Giacomo Albertolli ritenne di inserire tra le sue tre raccomandazioni al giovane Leopoldo Pollack in procinto di partire per Roma la conoscenza del «famoso Milizia», a testimonianza che i suoi scritti ormai esplicavano pienamente la loro intrinseca natura didattica verso la nuova generazione di architetti, gravitanti dai primi anni Novanta intorno all’Accademia della Pace organizzata da Vincenzo Balestra o al pensionariato di Spagna rinnovato sotto la direzione di Azara (Pasquali, 2007). Erano architetti come Giovanni Antonio Antolini o i più giovani Ferdinando Bonsignore e Alessandro Emmanuele Marvuglia che scelsero le teorie del M. come guida per il proprio percorso formativo. Ciò al di là delle rare possibilità di confrontarsi direttamente con il riservatissimo autore, magari nelle riunioni conviviali che lo vedevano ospite dell’ambasciata spagnola in compagnia di amici di vecchia data, tra cui Jean-Baptiste Seroux d’Agincourt (Giuffrida, pp. 639 s.; Pasquali, 2007, p. 81).

Non è chiaro se per un bibliofilo e conoscitore della trattatistica architettonica come Quarenghi l’imputazione di stravaganza ribadita nei confronti del M. in una lettera ad Alessandro Barca del 1808 (Zanella) derivasse dalla eterogeneità della sua produzione letteraria o dal suo troppo disinvolto uso delle fonti, compreso il saccheggio delle idee di Carlo Lodoli esposte nel Saggio sopra l’architettura di Francesco Algarotti (1757) tanto rimproveratogli da Selva e Memmo. D’altra parte il M. non sembrò mai preoccuparsi di tali rilievi e continuò a interessarsi sia delle scienze mediche, con il Dizionario di medicina domestica «sulle traccie di Guglielmo Buchan Medico Scozzese» (Notizie …, p. VIII; un compendio, rimasto inedito, del celebre Domestic medicine del 1769, già riedito in italiano nella versione integrale), sia delle scienze naturali con il «compendio» della Storia dell’astronomia di M. Bailly, icona della cultura massonica pubblicata da Remondini nel 1791, sia delle scienze umane con l’Economia politica, opera inviata allo stesso editore nell’ottobre 1797 (ma stampata postuma a Roma da Damaso Petretti nel 1798 con il titolo Economia pubblica), contestualmente all’uscita del Dizionario delle belle arti estratto in gran parte dall’Enciclopedia metodica, ben tre anni dopo la sua consegna così annunciata in una lettera del 14 dic. 1793: «Questo mio Dizionario (lungi ogni impostura) è in parte, anzi nella massima parte, è estratto dall’Enciclopedia Metodica. Vi sono però (lungi anche dalla bella modestia) delle cose mie» (Rizzo, pp. 16, 19 s.).

In quest’opera, a parte la ripresa di concetti teorici già espressi in precedenza, il M. aderiva al rigoroso specialismo dell’Encyclopèdie méthodique, compendiandone in forma di lessico la sezione intitolata beaux-arts (1787, 1791) e il primo volume della sezione architettura, curato da Antoine-Chrysostome Quatremère de Quincy (1787); ma soprattutto forniva un metodo per leggere l’opera d’arte a fine didattico come in «un trattato seguito di Belle Arti». Egli rinnovava così per l’ultima volta il rapporto inscindibile tra l’empirismo enciclopedico e la logica educativa nella sua copiosissima produzione, nel contesto di uno spirito antiaccademico schiettamente ribadito in chiusura del breve racconto autobiografico: «Le mie opere, il mio discorso mi hano procacciato la riputazione di dotto, ma io conosco di non esserlo; sono un ammasso di eterogeneo» (Notizie …, pp. VIII-IX).

Prima di queste parole, l’autobiografia del M. è integrata dal catalogo delle sue opere (pp. VI-VIII), il cui anonimo compilatore è da individuare probabilmente nell’architetto senese G.B. Cipriani. Costui condivise l’ultimo periodo del M. come collaboratore per il progetto dell’edizione illustrata dei Principj, che vide la luce postuma (Roma, Salomoni, 1800; Bassano, Remondini, 1804 e 1814) e forse per quello, rimasto inattuato, della Roma delle belle arti (Pasquali, 2000, pp. 252, 263; Debenedetti, 2006, pp. 236 s.), ma soprattutto come osservatore disincantato della città di Roma che il vecchio maestro aveva eletto a specchio dei grandi eventi internazionali. Tra il 1826 e il 1829 fu pubblicata postuma a Bologna da Cardinali e Frulli la raccolta degli scritti del M. in 9 volumi, dal titolo Opere complete risguardanti le belle arti.

Il M. morì a Roma il 7 marzo 1798, «sorpreso da un reuma, che presto si cangiò in polmonia» lasciando come erede dei beni romani la moglie Teresa e di quelli pugliesi il nipote Francesco Bottari in un brevissimo testamento dettato il 23 gennaio, privo di ogni invocazione religiosa (Andriani, pp. 275, 310, 312; Ancora, p. 23).

Fonti e Bibl.: A. Comolli, Bibliografia storico-critica dell’architettura civile ed arti subalterne, IV, Roma 1788-92; L. Cicognara, Catalogo ragionato dei libri posseduti dal conte Cicognara, Pisa 1821, n. 42; M. Gollwitzer, F. M.: Del Teatro. Ein Beitrag zu Ästhetik und Kulturgeschichte Italiens zwischen 1750 und 1790, Köln 1969; I. Prozzillo, F. M. teorico e storico dell’architettura, Napoli 1971; E.E. Stolper, La massoneria settecentesca nel Regno di Napoli, I, in Rivista massonica, n.s., LXV (1974), 9, p. 595; O. Michel, L’Accademia, in Le palais Farnèse (pubbl. dall’École française de Rome), II, Rome 1981, p. 604; Appendice, a cura di I. Calabresi, di Leonardo De Vegni architetto … Atti delle Giornate di studio … 1984, Chianciano Terme 1985, pp. 169-171; Giacomo Quarenghi. Architetto a Pietroburgo. Lettere e altri scritti, a cura di V. Zanella, Venezia 1988, pp. 326 s.; G. Currò, Nota su Giovan Battista Vinci, in Quaderni del Dipartimento patrimonio architettonico e urbanistico, III (1993), nn. 5-6, p. 110; S. Giuffrida, Per un’edizione critica del carteggio di F. M., in Lettere italiane, IV (1995), pp. 629-640; F.M. e il neoclassicismo in Europa. Atti del Convegno internazionale …, Oria … 1998, Bari 2000; A. Ancora, F.M. Neapolitanus: dalla «provincia» alla «capitale» e oltre, ibid., pp. 17-59; A. Andriani, I Milizia, ibid., pp. 275-313; E. Catalano, F. M. e la teoria di un nuovo teatro, ibid., pp. 195-213; G.P. Consoli, «Col meno si ha il più». La filosofia dell’architettura in F. M., ibid., pp. 215-241; M. Gargano, F. M. e l’architettura inglese del XVIII secolo, ibid., pp. 153-175; T. Manfredi, «Del teatro». Il trattato di F. M. e l’architettura dei teatri a Roma nel Settecento, ibid., pp. 63-120; S.A. Meyer, «Sbandire ogni sistema». Il «Dizionario delle belle arti del disegno» e l’«Encyclopédie méthodique», ibid., pp. 133-151; S. Pasquali, F. M. tra G. Bottari e Nicolas de Azara: la Roma delle belle arti, ibid., pp. 243-272; G.P. Consoli, La riforma dell’architettura per F. M.: F. Fuga, il neopalladianesimo e il Museo Pio-Clementino, in Ferdinando Fuga. 1699-1999. Roma, Napoli e Palermo. Atti del Convegno …, Napoli … 1999, a cura di A. Gambardella, Napoli 2001, pp. 41-48; F. M. e la cultura del Settecento, a cura di M. Basile - G. Distaso, Galatina 2002; A. Ambrosi, F. M. e il disegno dell’architettura. Osservazioni su un rapporto controverso, ibid., pp. 85-97; G. Distaso, F. M. e la riforma del teatro nel Settecento, ibid., pp. 33-50; G. Rizzo, «Quanto più i tempi son brutti, tanto più bisogna pensar al bello»: lettere di F. M. a G. Remondini, ibid., pp. 9-20; G. Scianatico, Arte e natura nel Dizionario di F. M., ibid., pp. 73-83; V. Ugo, M. e le «belle arti del disegno», ibid., pp. 51-62; P. Sisto, Dalla «Milizia celeste» alla «meravigliosa machina». 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