CARAFA, Francesco Maria

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 19 (1976)

CARAFA, Francesco Maria

Carla Russo

Del ramo dei Carafa della Stadera, nacque nel 1579 da Ferdinando e da Anna Clarice Carafa, dei principi di Stigliano. Nel 1593 ereditò dal padre i titoli di duca di Nocera, marchese di Civita Sant'Angelo e conte di Soriano e un ingente patrimonio feudale distribuito in varie province del Regno di Napoli.

In Principato Citra si trovavano Nocera, San Pietro di Scafati e Sanseverino; in Abruzzo Ultra, Civita Sant'Angelo, Spoltore, Monte Silvano, Moscufo, Vicoli; in Calabria Ultra, infine, Soriano, Stefanacone, Belloforte, San Demetrio, Vallelonga, Filogaso, Pannaia, San Nicola, Bazzano, Pizzoni, Cutro, Le Castella, San Giovanni, Roccabernarda, Rocca Felluca, Carrafa, Arenuso, Tiriolo, Settinizano, Migliarina, Gimigliano, Maida, San Pietro, Curinga, Girifalco, Montepavone, Chiara valle Torre, Simbari, Brugnatore, Lacconia. Le entrate di questo vasto complesso venivano valutate nel 1595 intorno ai 55.000 ducati annui.

Ben presto, però, il patrimonio cominciò a subire decurtazioni, a quanto pare per soddisfare i creditori di Ferdinando Carafa, che aveva lasciato debiti ingenti: nel 1596 fu venduto San Severino ai principi di Avellino; Civita Sant'Angelo fu venduta nel 1597 ad Alfonso Piccolomini d'Aragona; nel 1603 viene alienato anche Montepavone, che andrà a far parte del patrimonio del monastero di Santo Stefano del Bosco. La posizione economica del C., dietro l'apparente floridezza, non era affatto salda, e tale appariva, infatti, all'agente del granduca di Toscana a Napoli che, intorno al 1600, riferendosi al C. stesso, affermava: "tanti sono i debiti che non li resta da vivere quando ha pagati gli interessi" (Ceci, I feudatari napoletani..., p. 130).

Ne è una conferma il fatto che le alienazioni di cespiti patrimoniali continuarono negli anni successivi: nel 1610 vengono vendute Tiriolo, Gimigliano, Rocca Felluca a Carlo Cicala; l'anno successivo, Chiaravalle a Fabrizio Capece Piscicelli; nel 1620, Roccabernarda a Giovanna Ruffò. Dové trattarsi di un imponente processo di sfaldamento, a giudicare dalla diminuzione delle entrate feudali che, alla morte del C., erano valutate intorno ai 10.000 ducati.

Le vicende della vita politica e militare del C. lo tennero a lungo lontano dai suoi possedimenti, il che, se forse costituì un ulteriore fattore della diminuzione delle sue entrate, non gli impedì, tuttavia, di far sentire, alcune volte, quell'inasprimento del potere feudale, che è fenomeno tipico della prima metà del sec. XVII.

I contemporanei descrivono il C. come uomo dotato di grande forza fisica, esperto "in tutte le grandezze di cavalleria", generoso, di amabili costumi, "corteggiato" dalla maggior parte della nobiltà (Aldimari, II, p. 254; Capaccio, p. 716). Uomo "di molte eruditioni e di varie letterature" (Aldimari, ibid.), fu tra i fondatori dell'Accademia degli Oziosi nel 1611.

La fondazione si inserisce nel programma politico del viceré conte di Lernos - a cui, evidentemente, il C. aderiva o almeno mostrava di aderire - che si proponeva di operare la composizione del contrasto tra potere regio, nobiltà - di "seggio" e popolo civile. La Accademia, infatti, si presenta come espressione dell'incontro tra la volontà politica del Lemos e la disponibilità di un gruppo di nobili e di uomini di cultura a dar luogo ad un'istituzione che, sul piano culturale, si ponesse come manifestazione ufficiale del potere. Di questa ufficialità l'Accademia risentì negativamente per ciò che riguardava la sua funzione culturale, mentre, a livello politico, il tentativo di risoluzione dei conflitti politico-sociali perderà di significato con il vicieregno del duca d'Ossuna, durante il quale si determinerà un nuovo acuto contrasto tra il viceré da una parte e la nobiltà di "seggio" e il ceto burocratico dall'altra.

Il C. si sposò una prima volta con Anna Pignatelli, figlia primogenita del duca di Monteleone; matrimonio ostacolato da quest'ultimo che, non avendo figli maschi, desiderava maritare la figlia ad un Pignatelli per evitare che i vasti possedimenti della sua casa, insieme ai connessi titoli e prerogative, passassero ad un'altra famiglia. Celebrato il matrimonio segretamente, mentre la donna, ad istanza del Monteleone, era rinchiusa in un monastero, il C. fu costretto a fuggire, per non incorrere nell'ordine di carcerazione emanato dal conte di Lemos. Soltanto dopo l'arrivo del nuovo viceré, duca d'Ossuna, il C. poté rientrare a Napoli, e celebrare, nel 1616, ufficialmente le nozze.

Alla morte del duca di Monteleone scoppiò, comunque, una grande lite per la successione tra il C., che difendeva le ragioni del figlio Francesco Maria Domenico nato dal matrimonio con Anna, premorta al padre, e Fabrizio Pignatelli marito di Geronima, secondogenita del Pignatelli. Il contrasto rischiò di assumere le forme di lotta armata: mentre, infatti, il padre di Fabrizio Pignatelli, Giulio, marchese di Cerchiara e principe di Noia, prendeva possesso di Monteleone con 400 uomini, tenendone pronti altri 600 per opporsi ad ogni tentativo del C:, quest'ultimo faceva leva di uomini nei propri possedimenti. Si giunse, tuttavia, ad un accordo per cui al figlio del C. andò la contea di Sant'Angelo mentre il resto dei possedimenti passava all'altro ramo dei Pignatelli.

Il C. contrasse un secondo matrimonio con Giovanna Ruffo, principessa di Scilla e contessa di Sinopoli e Nicotera, già vedova di Vincenzo Ruffo; da questo matrimonio non nacquero figli. Il C. ebbe anche due figli naturali, Emanuele e Gurrello, il primo nato mentre egli si trovava nelle Fiandre.

Nell'anno 1611 il C. partecipò alla spedizione spagnola contro le isole Qerqena, presso la costa tunisina, che era importante base della pirateria barbaresca. Durante il viceregno del duca di Ossuna, il C. ne appoggiò gli sforzi tendenti a dare al governo una più larga base sociale. Così, nel 1618, prese posizione, con un piccolo gruppo di altri aristocratici, contro le iniziative delle "piazze" nobili napoletane tendenti a screditare l'Ossuna alla corte di Madrid, e nel Parlamento del 1619, a sostegno della politica filopopolare del viceré, si spinse sino a proporre che il maggior peso del donativo fosse sopportato dal baronaggio.

L'appoggio dato dal C., come da alcuni altri grandi feudatari, alla politica dell'Ossuna trova spiegazione nella sua estraneità agli interessi delle "piazze" nobili napoletane, sia perché i suoi feudi erano tagliati fuori dalle vicende dell'annona napoletana, che era gestita, appunto, dalle "piazze" cittadine, sia, soprattutto, a causa delle sue dissestate fortune, e il prestigio promesso a una forma di rigoroso lealismo.

Nei primi tempi della guerra dei Trenta anni, il C. si recò a Milano dove militò a lungo come volontario sotto i governatori duca di Feria e Gonzalo de Córdoba, finché gli fu conferita da Filippo IV la carica di capitano generale della cavalleria napoletana. In tale qualità prese parte all'assedio di Casale, intrapreso dal Córdoba nel 1628. Nel 1634 era al seguito del cardinale infante Ferdinando d'Asburgo, nella battaglia di Nördlingen. In questa occasione si distinse per una ricognizione di grande utilità per il conseguimento della vittoria, compiuta sul luogo dove poi sarebbe avvenuto il combattimento. La sua azione gli meritò la bandiera del reggimento del maresciallo Horn, che il cardinale infante gli donò in segno di apprezzamento e che il C. offrì per devozione al convento di S. Domenico di Soriano. Negli anni successivi fu alla corte di Bruxelles. Per i servizi resi alla monarchia fu insignito da Filippo IV di molte onorificenze, quali la nomina a cavaliere del Toson d'oro, a gentiluomo di camera, a grande di Spagna.

Una pesante accusa di complicità fu lanciata, nel 1636, contro il C. da fra' Epifanio Fioravanti, l'organizzatore di una congiura antispagnola che avrebbe dovuto ricevere l'appoggio del duca di Savoia e della Francia. Quanto ci fosse di vero in tale accusa e difficile dire, dal momento che non solo il frate sconfessò successivamente tutto ciò che aveva dichiarato, ma non si ha neppure notizia di un'inchiesta a carico del Carafa.

Nel 1640 il C. fu nominato viceré di Aragona e Navarra, ma l'anno successivo, in seguito ad una cospirazione filofrancese organizzata in Aragona, egli veniva accusato a Madrid di intesa con gli avversari. Imprigionato, morì, dopo dieci mesi di carcere, nella torre di Pinto, presso Madrid, il 16 luglio 1642.

Il re, tuttavia, si mostrò clemente e volle che gli fosse data sepoltura degna del suo rango, per cui la sua spoglia fu traslata con molta solennità a Madrid, dove fu inumata nella chiesa dei gesuiti. Dopo quattro anni, il processo a carico del C., istruito ad istanza del figlio Francesco Maria Domenico nel Consiglio d'Aragona, si concluse con una sentenza di piena assoluzione.

Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Napoli, Cedolari, 80, f. 114; Ibid., Notamenti del Collaterale, 17, f. 146; Ibid., Spoglio Significatorie Relevi, I, f. 670; II, f. 253; G. C. Capaccio, Il forastiero, Napoli 1634, p. 716; Relatione dellagrandissima vittoria delle armi della maestà del red'Ungheria e del ser. cardinale infante contro quelledel duca Bernardo di Vaimar, Napoli 1634, pp. n. n.; F. Zazzera, Narrazioni tratte da' giornali delgoverno di d. Pietro Girone duca d'Ossuna, in Arch. stor. ital., IX (1846), pp. 484, 617; S. Guerra, Diurnali, a cura di G. de Montemayor, Napoli 1891, p. 94; [E Bucca d'Aragona], Aggionta alli Diurnali di Scipione Guerra, in Archivio storico per le province napoletane, XXXVI (1911), pp. 157, 764; B. Aldimari, Historia genealogicadella famiglia Carafa, Napoli 1691, II, pp. 245-254; R. M. Filamondo, Il genio bellicoso di Napoli, Napoli 1694, pp. 256-269; L. Giustiniani, Diz. geografico-ragionato del Regno di Napoli, IV, Napoli 1802, pp. 66 s.; VI, ibid. 1803, p. 115; C. Minieri Riccio, Cenno storico intorno all'Accademia degli Oziosi, Napoli 1862, pp. 3 a.; G. Orlando, Storia di Nocera dei Pagani, Napoli 1884-1888, pp. 58 s., 65 s., 74 ss.; G. Ceci, I feudatari napol. alla fine del sec. XVI, in Arch. stor. per le prov. napol., XXIV (1899), p. 130; M. Schipa, La pretesa fellonia del ducadi Ossuna, in Arch. stor. per le prov. napol., XXXVI(1911), pp. 727, 730-734; R. Villari, La rivoltaantispagnola a Napoli, Bari 1967, pp. 146, 274 s.; R. Colapietra, Il governo spagnolo nell'Italia meridionale(Napoli dal 1580 al 1648), in Storia diNapoli, V, Napoli 1972, pp. 205 s., 265 n. 13.

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