ERIZZO, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 43 (1993)

ERIZZO, Francesco

Giuseppe Gullino

Nacque a Venezia il 28 febbr. 1566, secondogenito dei quattro figli maschi che Benedetto di Giovanni ebbe da Marina Contarini di Nicolò di Alessandro.

La famiglia ormai da tempo risiedeva nella parrocchia di S. Martino di Castello, e sebbene di antichissima nobiltà, non era particolarmente ricca (lo sarebbe divenuta, con rapida e per molti riguardi inspiegabile progressione, proprio alla caduta della Repubblica, tra il XVIII ed il XIX secolo) né prestigiosa: solo con l'E., infatti, che fu cavaliere, procuratore e doge, essa avrebbe raggiunto le più ragguardevoli cariche dello Stato marciano.

L'E. non pensò mai a sposarsi, e il compito di assicurare la continuità del casato toccò al fratello minore Nicolò, che peraltro non si accinse al passo prima del 1607; ebbe però una figlia naturale, che fu suora al monastero dello Spirito Santo col nome di Maria Benedetta, come risulta da un vitalizio disposto in suo favore nel testamento del 1635; frequentò a Padova i corsi di filosofia e retorica, senza però conseguire il dottorato, soprattutto nell'intento di affinare le proprie doti di oratore, peraltro di per sé cospicue; quindi rientrò a Venezia per dedicarsi all'attività politica, che iniziò col saviato agli Ordini, sostenuto dall'aprile al settembre del 1590.

Nei non facili anni che seguirono la "correzione" dell'82, mentre sembravano farsi più forti le tensioni fra il partito dei "giovani" e quello filoclericale e filospagnolo, l'E. fece propria una posizione moderata, sostanzialmente ispirata ad equilibrio ed equidistanza fra le parti. Poté in tal modo essere riconfermato nel saviato per il secondo semestre del '92, e successivamente nel periodo ottobre '93-marzo '94; poi, il primo importante incarico fuori dalle lagune: l'11 marzo 1595 era eletto, insieme con Cristoforo Valier, sindaco in Dalmazia, magistratura straordinaria che di tanto in tanto veniva inviata nelle province d'oltremare al fine di riparare a "extorsioni, violentie, gravami, manzarie ed altre insolentie et offese verso le leggi", con autorità di "inquisire rettori et castellani": così le commissioni, che furono consegnate ai due il 13 giugno dello stesso anno.

La relazione che i giovani patrizi presentarono al Senato l'anno successivo fornisce una compiuta descrizione della regione, nel solco della prassi politico-amministrativa veneta. Ridotta a poche righe la descrizione geografica del paese, assai esteso in lunghezza, ma "ristrettissimo et angustissimo, essendo la sua maggior larghezza a Traù di miglia dodici", il documento si estende invece diffusamente nell'analisi delle strutture militari e delle città fortificate, da Cattaro, di cui "si può tener per certo che in ogni evento ... sia per fare gagliardissima resistenza et difesa contro le forze nemiche", a Sebenico, Zara e sin ai minori castelli, quasi tutti presidiati da "giovani sani, robusti, ben disciplinati"; accenti del tutto diversi suggerisce invece la sempre spinosa questione fiscale, resa ancor più difficoltosa dall'arretratezza economica della regione, la quale non risulta più in grado di contare, come per l'addietro, sui proventi delle saline, "che si vanno distruggendo et abbandonando", mentre il nuovo porto di Spalato soffre la concorrenza di Ancona e Bari: in conclusione, i Dalmati appaiono "tutti poveri, et quasi miserabili, non si ritrovando più di due o tre teste per città che possino commodamente vivere et mantenersi con le sue entrate", epperò "fedelissimi alla Serenità Vostra, et portano scolpito nel cuore il suo nome".

Su una realtà tanto complessa l'opera del Valier e dell'E. non poteva incidere più di tanto; consapevoli di questo, essi dichiarano in tutta sincerità di aver ispirato la loro azione alla concretezza, nel rispetto dell'usuale empirismo veneziano, cercando di affrontare solo i problemi più urgenti, e persino la difficile e grave questione degli Uscocchi viene sbrigativamente liquidata con la salomonica considerazione che, se la loro presenza è infesta ai Veneti, lo è certamente pure ai Turchi.

Il rientro in patria fu seguito da un biennio di inattività politica, che ebbe termine con l'invio dell'E. a Salò, in qualità di provveditore e capitano della Riviera bresciana (25 maggio 1599-24 nov. 1600); dopo di che la sua esistenza si risolse tutta nella carriera, la quale non avrebbe più conosciuto interruzioni di sorta: savio di Terraferma per il secondo semestre negli anni 1601-1605, nella fase cruciale della crisi dell'interdetto preferì abilmente defilarsi dalla scena politica, e il 9 dic. 1605 accettò l'elezione a luogotenente della Patria del Friuli, dove rimase sino alla primavera del 1607, allorché tornò a Venezia in tempo per ricoprire ancora una volta il saviato di Terraferma, per l'ultimo trimestre dell'anno.

Tra il 1608 ed il '10 alternò le cariche di savio di Terraferma e di censore con quella di savio alla Mercanzia, gestita per tutti e tre gli anni in un periodo segnato dal dibattito sulla concessione alle ditte inglesi ed olandesi, che ne avevano fatto richiesta, delle prerogative godute dai cittadini veneti nell'esercizio del commercio: non ci è dato di conoscere l'atteggiamento assunto dall'E. nella circostanza, ma certamente la sua reputazione e la sua immagine dovettero uscirne rafforzate, dal momento che nel gennaio 1611 fu chiamato a ricoprire il delicato incarico di depositario in Zecca, al termine del quale entrò a far parte del Consiglio dei dieci. Fu quindi savio del Consiglio per il periodo aprile-settembre del 1612 e '13, dedicando i mesi di contumacia all'esercizio di cariche amministrativo-finanziarie (sopraprovveditore alle Biave dal 6 ott. 1612 al 31 marzo dell'anno seguente; depositario in Zecca nell'ottobre-novembre 1613); e nuovamente savio del Consiglio dall'ottobre 1614 al marzo del '15, poi provveditore sopra i Monti nel trimestre luglio-settembre 1614 e provveditore in Zecca nell'estate del '15.

Questo incessante, e talora frenetico, succedersi di incarichi prestigiosi ed impegnativi, ma del tutto usuali per un influente senatore (si sono qui riportati solo quelli esercitati con una certa ampiezza di respiro, rinunciando ad inseguire l'intrecciarsi di magistrature ricoperte per poche settimane o addirittura giorni e tempestivamente abbandonate per assumerne altre più gratificanti o meno faticose), venne ad interrompersi in concomitanza con l'impegno veneziano nelle guerre di Gradisca e del Monferrato, alle quali l'E. avrebbe partecipato in prima persona e sulle quali avrebbe costruito le proprie fortune.

La conclusione del secondo trattato di Asti, nel giugno 1615, aveva infatti liberato la Repubblica dall'impegno di tutelare le province lombarde, consentendole di spostare le truppe al confine orientale, dove ormai gli scontri con gli Uscocchi e le provocazioni degli Arciducali avevano raggiunto livelli intollerabili; Venezia dunque rafforzò il blocco contro Monfalcone, mentre in novembre - nonostante la guerra non fosse stata ancora ufficialmente dichiarata - i contrapposti eserciti devastavano l'Istria ed il basso Isonzo.

Il 18 sett. 1615 l'E. fu nominato provveditore della fortezza di Palmanova, dove si recò prontamente, ponendosi agli ordini del provveditore generale in campo, Pietro Barbarigo, che per mesi lo incalzò con incessanti richieste di uomini e vettovaglie; l'E. seppe in qualche modo far fronte al compito, dimostrando buone capacità organizzative, e così il 18 giugno 1616 dovette lasciare il comando della piazzaforte per assumere il ruolo di provveditore in campo, insieme con Giovanni Battista Foscarini.

Questa fase del conflitto è documentata da una filza di dispacci (agosto-novembre 1616) che sembra prefigurare alquanto l'andamento e l'esito che le successive vicende avrebbero fatto registrare: dopo alcuni (contenuti) successi iniziali, culminati nella conquista di Caporetto, la prosa dell'E. tende ad indugiare nelle descrizioni geografiche della vallata isontina piuttosto che sui problemi militari, e quando ciò si verifica, le notizie ch'egli invia al Senato sono prevalentemente improntate a prudenza; a Venezia, però, non tutti erano disposti ad avallare una così guardinga condotta della guerra e con l'aprirsi del nuovo anno la responsabilità delle operazioni venne affidata all'energico Nicolò Contarini, mentre l'E. (14 gennaio) era eletto provveditore generale a Candia.

Naturalmente la nomina prevedeva tempi lunghi e intanto gli toccò di continuare il servizio in Friuli, ove cercò di dissuadere il Contarini dal colpo di mano contro il forte di S. Martino di Cusca (febbraio '17); l'impresa fallì e il Contarini onestamente riconobbe che l'E. aveva ragione, che la prudenza da lui suggerita trovava un obiettivo riscontro nella realtà delle forze contrapposte; ancora, fu lo stesso Contarini a testimoniare del personale impegno e del coraggio dimostrati dal collega qualche mese più tardi, in occasione dell'improvviso attacco portato dagli Arciducali contro il campo veneziano di Meriano.

Fu probabilmente per questa ragione, in conseguenza dell'evolversi della situazione militare nel corso dell'estate del 1617, che l'invio dell'E. a Candia venne prima procrastinato, e poi definitivamente annullato mediante la sua elezione a provveditore e commissario in campo (2 nov. '17), nonostante le insistenti preghiere dell'interessato per essere sollevato da un incarico che durava ormai da oltre quattordici mesi. Si era però alla vigilia della pace e le operazioni militari ristagnavano attorno a Gradisca, per cui il Senato ritenne più utile la presenza dell'E. al di là del Mincio, per fronteggiare le minacce del governatore di Milano, Pedro Alvarez de Toledo. Il 16 dicembre gli furono consegnate le commissioni e sino alla primavera del 1618 l'E. rimase nella Lombardia veneta, spostandosi tra Brescia e Crema, badando soprattutto ad assicurare alle milizie il soldo e le vettovaglie.

In riconoscimento del lungo servizio, il 22 dic. 1618 fu eletto procuratore di S. Marco de Ultra e cinque giorni dopo provveditore dell'armata navale, col compito di affiancare il capitano generale, Lorenzo Venier, nelle operazioni contro la squadra inviata nell'Adriatico dal viceré di Napoli, "con pensiero (la fonte è il Trevisan) che egli havesse con una flemma sua propria, ma coraggiosa, da temperare in ogni occorrenza gli ardori del Veniero"; l'E. lasciò Venezia nell'aprile del '19 e si recò a Curzola, dove il capitano generale aveva stabilito di riunire le forze per muovere contro le coste pugliesi, ma una volta giunti a Corfù vennero informati che era stata conclusa la pace.

Rimpatriato, l'E. ricoprì la carica di savio del Consiglio per il primo semestre del 1620, quindi fu savio all'Eresia ed il 24 novembre ebbe l'incarico di recarsi a Verona come provveditore, insieme con tre colleghi, per ispezionare quella fortezza.

Nel frattempo era stato eletto ambasciatore presso l'imperatore Ferdinando II, in occasione dell'elevazione al trono, insieme col cavaliere e procuratore Simone Contarini, ma a causa degli sviluppi della guerra in Boemia le commissioni furono affidate ai due soltanto il 24 apr. 1621; la missione si svolse ad Innsbruck in maggio e fruttò all'E. il titolo di cavaliere.

La relazione che fu letta in Senato vivace ed incisiva, non nasconde le difficolta suscitate dall'ambasciatore spagnolo ("tolti i complimenti in camera passati dalla Maestà sua con noi, veramente soavi, et amorevoli. non habbiani a quella Corte ricevuto minimo honore, perché fermatisi ad una publica osteria, non visita, non rinfrescamento, non segno alcuno di stima ci è stato dimostrato"), ma neppure tace il giusto sentimento d'orgoglio motivato dallo spettacolo di potenza e ricchezza esibito nella circostanza ("et loro mal grado uscì pur anco di mezo il livor loro, qualche voce mista d'honore, mentre una volta dissero: non sanno questi Venetiani far altro, che spendere"); il valore del documento è tuttavia rappresentato - come del resto è logico supporre - dal consenso accordato dai due diplomatici alla causa di Ferdinando, quale si può implicitamente ricavare dall'insistenza con cui in esso si indugia sul "miserando spettacolo dell'empietà, et della rappacità de' soldati", naturalmente luterani, che viene descritto con dovizia di particolari e crudezza di tinte.

Nella seconda metà dell'anno l'E. fu ancora una volta savio del Consiglio, quindi ottenne la carica di riformatore dello Studio di Padova, che però dovette abbandonare per assumere quella, certamente più faticosa ed impegnativa, di provveditore generale in Terraferma (25 febbr. 1622), a motivo della crisi della Valtellina.

Nell'estate era a Brescia: i compiti principali erano di provvedere all'efficienza di quasi 14.000 fanti e 2.000 cavalieri, di inviare il maggior numero possibile di spie e informatori a Mantova e nella Svizzera, di mantenere uno stretto rapporto di collaborazione con il provveditore veneziano ad Edolo, Francesco Gradenigo, il quale rappresentò la sua maggior fonte di notizie circa le mosse degli Svizzeri e dei Francesi per soccorrere i Grigioni, e delle analoghe manovre poste in atto dagli Spagnoli e dall'arciduca Leopoldo nei confronti dei Valtellinesi insorti. Rispetto alla guerra di Gradisca era trascorsa solo una manciata di anni, eppure l'E. avverte il logoramento che le prolungate urgenze militari avevano ingenerato nelle popolazioni; il 31 ottobre scriveva da Verona: "si deve pregar Dio che tenghi i travagli lontani, perché al sicuro non si troverà nei sudditi quella prontezza, che s'è veduta nella guerra del Friuli".

Fu anche per questo motivo che l'E. cominciò per tempo a chiedere di essere sollevato dal compito, lamentando anzitutto il dissesto di un patrimonio compromesso da "dodici importantissimi carichi", quindi accusò acciacchi e debolezza (a dire il vero lo fece in tutte le sue missioni fuori di Venezia, ad eccezione dell'iniziale sindacato in Dalmazia, ma quasi sempre si trattò di falsità o di pretestuose esagerazioni, dal momento che, una volta ottenuto il dogato, le sue condizioni fisiche migliorarono di colpo, così da consentirgli di vivere sin quasi agli ottant'anni); a fine anno ottenne dunque il permesso di ritirarsi a Padova per due mesi, ma nella città euganea indugiava ancora nell'aprile del '23, impegnato soprattutto ad inviare alla patria adorata certificati medici comprovanti "distilation di testa, travagliose vertigini, disgregation di vista, debolezza de nervi, con pericolo evidente ... di cader tosto in accidenti di epilessia, et apoplessia". Tornò dunque a Venezia, dove fu savio del Consiglio per il periodo luglio-dicembre 1623, e intanto venne nominato, insieme con tre colleghi, ambasciatore straordinario a Roma, in occasione dell'ascesa al soglio pontificio di Urbano VIII.

La partenza della legazione fu procrastinata, però, di oltre un anno: a Roma i quattro giunsero soltanto il 16 dic. 1624. L'udienza ufficiale ebbe luogo tre giorni dopo, ma in un clima tutt'altro che amichevole, a causa della sopravvenuta notizia della presa di Tirano ad opera dei Grigioni, che nella circostanza avevano potuto avvalersi dell'artiglieria veneta.Savio del Consiglio per il semestre aprile-settembre del '25, il 15 maggio l'E. fu eletto ambasciatore straordinario in Inghilterra, ma due mesi più tardi (19 luglio) preferì optare per un secondo generalato in Terraferma.

La morte di Vincenzo Gonzaga aveva infatti spinto la Repubblica ad assumere la difesa del Ducato mantovano contro le mire spagnole; per quasi due anni (agosto 1625-giugno '27) l'E. fu impegnato a rafforzare il dispositivo militare della Repubblica al di là del Mincio, spostandosi tra Verona, Brescia e Bergamo, ma senza eccessive afflizioni, a quanto pare, se da quest'ultima località informava il Senato, nell'ottobre del '26, di aver provveduto a mettervi "in Accademia" due suoi nipoti; impegni più pressanti, tuttavia, non dovevano tardare: dopo esser stato ancora savio del Consiglio nella seconda metà del '27, il 6 apr. 1628 era nuovamente nominato provveditore generale in Terraferma, essendo scoppiata la seconda guerra del Monferrato.

Il compito che lo attendeva non era facile, poiché la difesa del duca Carlo Gonzaga Nevers, in favore del quale si era schierata la Repubblica, di lì a poco avrebbe richiesto non solo la capacità di fronteggiare le truppe tedesche, ma pure i devastanti effetti della peste. L'E. non si portò brillantemente: ma ragionava da politico e non da militare, gli bastava logorare l'avversario, non batterlo. Ingiusti ci appaiono pertanto i giudizi - del resto orinai datati - del Quazza, che lo accusano di viltà e inettitudine; ma poi tutta la condotta della guerra, da parte veneziana, non fu certo improntata all'eroismo: tuttavia, per non essere riuscito a difendere Goito dagli Spagnoli, fu esonerato dall'incarico il 23 febbr. 1630 e sostituito da Zaccaria Sagredo. Senonché questi si rivelò ancor meno capace, e fu ingloriosamente sconfitto a Valeggio, per cui il Senato decise di riaffidare all'E. le sorti delle truppe (1º giugno 1630), ch'egli tenne prudentemente lontane dai reparti imperiali, abbandonando Mantova al suo destino.

Conclusa la pace col trattato di Ratisbona, l'E. continuò nel suo compito di provveditore in campo, sinché fu designato doge, con plebiscitaria votazione, il 10 apr. 1631; l'annuncio lo raggiunse a Vicenza, dove si trovava per attendere alla erezione di nuove fortificazioni.

Ricoprì a lungo il trono ducale, per un quindicennio che fu abbastanza tranquillo, nel corso del quale poté proclamare la fine della pestilenza e por mano alla costruzione della chiesa della Salute. Nel 1645 ebbe però inizio la guerra di Candia, lunga e spossante, i cui esordi non furono certo favorevoli alla Repubblica; fu probabilmente nella speranza di galvanizzare gli animi che il Senato, il 7 dicembre, offrì al vecchio doge il comando supremo delle operazioni. L'E. accettò di buon animo, ma il compito era chiaramente superiore alle sue risorse fisiche e l'ansia e l'impegno dei preparativi ne affrettarono la morte, che lo colse a Venezia il 3 genn. 1646.

È sepolto nella chiesa di S. Martino di Castello, in uno sfarzoso monumento ch'egli s'era fatto erigere.

Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Misc. codd. I, Storia veneta 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii…, III, pp. 407, 409, 419; per l'esatta data di nascita, Ibid., Avogaria di Comun, Indice Matrimoni con figli, sub voce Erizzo Benedetto; Ibid., Sezione notarile. Testamenti, b. 1138/103; la cessione effettuata da parte del fratello Nicolò di metà della dote della moglie, ancora in Sezione notarile. Atti Francesco Giordano, b. 6587, cc. 57v-59r; per la carriera politica, Ibid., Segretario alle Voci. Elezioni del Maggior Consiglio, reg. 8, c. 166; reg. 11, c. 3; reg. 12, cc. 1, 114; Ibid., Elezioni dei Pregadi, reg. 6, cc. 18 s., 130; reg. 7, cc. 12 ss.; reg. 8, cc. 3 ss., 12 ss., 44, 66, 81, 88, 116; reg. 9, cc. 1 s., 31, 66, 76, 86, 88, 95, 1103, 153, 166 s., 169; reg. 10, cc. 1 s., 28 s., 60, 68, 104 s., 118, 148, 163, 168, 171; reg. 11, cc. 1 s., 4, 28, 60, 67, 104 s., 114, 131, 155, 168; reg. 12, cc. 1, 3, 80, 83, 105, 146, 165, 168 s.; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, cod. 833 (= 8912): Consegi, c. 275r; Ibid., cod. 834 (= 8913): Consegi, c. 183r; in particolare, le commissioni per il sindacato in Dalmazia (1595), in Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. P. D. C 507/17, n. 20; per la relazione, Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl.VII, cod.891 (= 7487): Relatione delli ill.mi ss.ri Christoforo Valier et Francesco Erizzo...; sulprovveditorato a Salò (1600), Arch. di Stato di Venezia, Lettere di rettori ai capi del Consiglio dei dieci, b. 60, nn. 160-164; sulla luogotenenza a Udine (1606-1607), Ibid., b. 172, nn. 98-109; sui comandi militari sostenuti negli anni 1616-17, Ibid., Provveditori da terra e da mar, bb. 166 s., 241, 244; Lettere di rettori ai capi..., b. 3, nn. 290, 293; per gli anni 1622-23, Ibid., Provveditori da terra e da mar, b. 64; Lettere di rettori ai capi…, b. 28, n. 209; b. 88, nn. 75, 134; per gli anni 1625-31, Ibid., Provveditori da terra e da mar, bb. 15, 68-74, 77; Lettere di rettori ai capi…, b. 29, nn. 23-27, 40-49; Inquisitori di Stato. Lettere ai Provveditori generali in Terraferma, b. 143, nn. 33-47, 49 s., 55 s.; sulle ambascerie all'imperatore ed al pontefice, cfr. rispettivamente: Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, III, Germania (1557-1654), a cura di L. Firpo, Torino 1968, pp. 771-797 (indicazioni archivistiche sulle commissioni e sulla durata della legazione, in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, II, Germania (1506-1554), a cura di L. Firpo, Torino 1970, p. XLIV); Relazioni degli Stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneti…, s. III, I, Relazionidi Roma, a cura di N. Barozzi - G. Berchet, Venezia 1877, pp. 221-252. Cfr. inoltre: M. Trevisan, Vita di F. E. prencipe di Venetia..., Venetia 1651; F. Sansovino, Venetia città nobilissima etsingolare..., Venetia 1663, pp. 35 s., 665 s., 699 ss.; E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, III, Venezia 1830, pp. 91, 125, 129, 288; IV, ibid. 1834, pp. 139, 475, 477, 481, 516, 653; V, ibid. 1842, pp. 199, 357, 360, 510; VI, ibid. 1853, pp. 63, 548, 629, 659, 681 s., 823, 907; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VII, Venezia 1858, pp. 307, 316, 338, 367; V. Padovan, Ildoge F. E. eletto capitano generale da mar, in Archivio veneto, XIV (1877), pp. 204 s.; R. Quazza, La guerra per la successione di Mantova e del Monferrato (1628-1631), Mantova 1926, I, pp. 127, 186, 225, 293, 302, 306, 323, 333 s., 432, 438 s., 464, 467, 479 ss., 485 s., 489-494, 498 ss., 518; II, pp. 36, 40 s., 43, 82, 85, 100 s., 107 s., 112, 117 ss., 122 s., 131, 166; P. Donazzolo, Iviaggiatori veneti minori..., Roma 1927, pp. 201, 209 ss.; M. Nani Mocenigo, Storia dellamarina veneziana da Lepanto alla caduta della Repubblica, Roma 1935, pp. 21, 116, 138, 144, 267; R. Quazza, Preponderanza spagnuola (1559-1700), in Storia politica d'Italia, Milano 1950, pp. 423, 464, 467, 469; G. Cozzi, Ildoge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, pp. 155, 158, 161 ss., 287 s., 298; A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1960, pp. 356, 360, 371-376, 581; G. Cozzi, Una vicenda della Veneziabarocca: Marco Trevisan e la sua eroica amicizia, in Boll. dell'Ist. di storia della società e dello Statoveneziano, II (1960), pp. 135, 137, 141, 143, 147; M. Gemin, La chiesa di S. Maria della Salute e la cabala di Paolo Sarpi, Abano Terme 1982, pp. 28, 32, 57, 59, 64; G. Trebbi, Francesco Barbaro, patrizio veneto e patriarca di Aquileia, Udine 1984, pp. 367, 420-423, 425 s.; M. Zorzi, LaLibreria di S. Marco. Libri, lettori, società nella Venezia dei dogi, Milano 1987, pp. 20, 218; P. Ulvioni, Ilgran castigo di Dio. Carestie ed epidemie a Venezia e nella Terraferma. 1628-1632, Milano 1989, pp. 143, 147.

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