EBOLI, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 42 (1993)

EBOLI (Evoli), Francesco

Felicita De Negri

Primogenito di Domenico, duca di Castropignano, e di Concezia Caracciolo dei marchesi di Barisciano, nacque nel 1688. Nella crisi che segnò il passaggio del Viceregno dalla soggezione spagnola a quella austriaca le simpatie della famiglia si ripartirono equamente, quasi che la tenace volontà di conservare comunque il patrimonio costituisse l'elemento ispiratore di una prudente strategia familiare. All'avvento degli Asburgo l'E. si schierò per i Borboni ed espatriò, ponendosi al servizio di Filippo V, nel cui esercito intraprese la carriera militare. Nel frattempo, Domenico, con il secondogenito Andrea e il terzogenito Nicolò, rimaneva nel Regno, accettando il nuovo regime, cosicché i diritti suoi e quelli dei discendenti sul feudo non furono pregiudicati. Alla morte di Domenico i diritti di primogenitura furono riconosciuti ad Andrea che con un decreto della Gran Corte della Vicaria fu dichiarato erede infeudalibus, mentre per i beni burgensatici l'eredità veniva divisa con Nicolò. Senonché, pubblicata nel maggio 1725 la pace fra Filippo V e l'imperatore Carlo VI, la quale stabiliva, fra l'altro, la reintegrazione nei beni degli appartenenti all'uno e all'altro partito, l'E. poté chiedere che fossero annullate le decisioni adottate in precedenza dalla Vicaria in merito all'eredità Eboli.

Sembrerebbe l'avvio di una delle tante liti familiari di cui è ricca la storia feudale del Mezzogiorno. Invece, il cambio della guardia procedé nel più perfetto accordo, tanto da far pensare ad una linea di condotta concordata in precedenza fra Domenico e i suoi figli. Andrea e Nicolò non interposero alcun ostacolo alla richiesta avanzata dall'E.; anzi, prevennero l'azione del tribunale, in nome della stima e dell'affetto che nutrivano per il fratello - come tennero a precisare - ed anche nel rispetto della volontà più volte manifestata dal comune padre, di non escludere il primogenito, qualora fosse stato restituito "in grazia". Fu perciò stipulata una donazione inter vivos di Andrea e Nicolò a favore dell'E.: Andrea dichiarò di cedergli spontaneamente il feudo di Castropignano e il titolo ducale, con tutte le rendite, giurisdizioni, prerogative, preminenze ecc., rinunziando irrevocabiliter a tutti i suoi diritti; lo stesso Andrea e Nicolò rinunziarono poi alla terza parte dei beni burgensatici ereditati, devolvendola entrambi al primogenito. I donatori posero un'unica condizione: che il godimento delle rendite del feudo e dei beni burgensatici contasse a partire dal giorno in cui era stato rogato l'istrumento di refuta in avanti. L'atto fu steso il 26 genn. 1726 dal notaio Francesco Antonio Mayo, della terra di Baranello, presenti i tre fratelli Eboli; evidentemente, anche l'E. era provvisoriamente tornato in patria allo scopo di seguire da vicino la questione. L'E. incontrò però qualche difficoltà per la registrazione del rogito nei quinternioni feudali; il Regio Fisco vantava infatti contro di lui alcuni diritti, derivanti dal mancato pagamento di un relevio dovuto da un suo predecessore ed ora a lui addebitato e da un'irregolarità riscontrata nell'acquisto del feudo alla famiglia, risalente al 1607. La vertenza fu infine composta nel 1732.

Dopo l'accordo stipulato con i fratelli, l'E. tornò in Spagna per continuare il suo servizio nell'esercito di Filippo V. Avrebbe rivisto il Regno, questa volta per insediarvisi definitivamente, al termine della vittoriosa guerra di conquista contro le forze austriache. Dopo il trattato dell'Escurial (7 nov. 1733) con il quale Luigi XV si era impegnato a sostenere i diritti di don Carlos di Borbone su Parma e Piacenza, sulla Toscana e su tutti gli eventuali acquisti territoriali che avesse fatto nella penisola, ad esclusione del Milanese l'armata spagnola, comandata dal conte (poi duca) di Montemar, J. Carrillo de Albornoz, marciò subito verso il Sud. Conquistata dall'E., che militava per gli Spagnoli con il grado di tenente generale, l'importante fortezza di Aula, il Montemar passò a Parma, dove si trovava l'infante. Il 4 febbr. 1734 don Carlos lasciò la città per congiungersi con l'esercito in Toscana. Il 23 marzo le avanguardie spagnole varcarono i confini del Regno e il 30 Carlo entrava in Montecassino; nel fiattempo l'E. aveva occupato il vallo di Mignano, senza incontrare resistenza.

La fanteria austriaca, abbandonata la capitale, si ritirò verso Capua; il viceré, con la cavalleria e i generali, fuggi invece alla volta della Puglia. Il Montemar, restando con il grosso dell'esercito fra Aversa e Napoli, inviò l'E. all'inseguimento con duecento cavalieri e altrettanti granatieri. Gli Austriaci avevano pero ricevuto rinforzi, cosicché la posizione degli inseguitori si fece difficile e poco mancò che non si trasformassero in inseguiti. Anzi, secondo la testimonianza di Tiberio Carafa, l'E. si portò a Napoli il 26 di aprile, probabilmente per mettere il Montemar a giorno della nuova situazione. Perciò, trascurando per il momento di attaccare le piazze ancora in mano agli Imperiali, il Montemar in persona andò in soccorso del duca in Puglia. I Borbonici ebbero ragione delle forze austriache in uno scontro nei pressi di Bitonto (24 maggio): Bari e i superstiti nuclei austriaci si arresero. Oppose invece una gagliarda resistenza la fortezza di Pescara, contro la quale fu inviato l'Eboli. Questi, compiute le opere di assedio, sotto un fuoco incessante (giugno 1734), prese a cannoneggiare le mura con sedici pezzi di artiglieria, mentre due mortai bombardavano gli edifici. Dopo diciotto giorni, fu aperta finalmente una breccia nella cinta difensiva; ma gli assediati, deviando il corso del fiume, allagarono le trincee nemiche. Gli Spagnoli superarono il nuovo ostacolo prima che gli avversari riuscissero a ricostruire la muraglia e tornarono a battere in breccia, finché la piazza si arrese e la guarnigione fu presa prigioniera (23 luglio). Ormai la conquista delle Sicilie poteva dirsi conclusa; Napoli, dopo più di due secoli, tornava ad essere capitale di un Regno indipendente e sede di una corte reale.

La distribuzione delle cariche di corte offri al nuovo sovrano la possibilità di offrire riconoscimenti a coloro che lo avevano fedelmente servito in guerra. L'E. fu tra i primi ad essere nominato gentiluomo di camera "con esercizio" (14 luglio 1734). Consacrata cosi ufficialmente la sua posizione di esponente della nuova élite dirigente, era tempo per lui di pensare al matrimonio.

La scelta cadde su Zenobia Revertera dei duchi della Salandra, che l'E. Sposò il 28 maggio 1735; scelta in verità piuttosto discutibile, almeno sotto il profilo economico, al quale un personaggio avido di denaro - come appunto l'E. si sarebbe rivelato - non poteva non attribuire particolare importanza.

La sposa portava un "paraggio" di 50.000 ducati, a cui si aggiungeva una selva sita in Marano. Ma, una volta concluso il matrimonio, i patti non furono rispettati; cominciava cosi nel 1735 una lunga lite intentata dai duchi di Castropignano contro il duca della Salandra, prima, il suo erede Vincenzo Revertera poi, allo scopo di ottenere la liquidazione dei paraggio convenuto. Sotto altri aspetti, invece, il matrimonio si rivelò conveniente. Donna scaltra e senza scrupoli, la Revertera era infatti destinata a giocare un ruolo di primo piano nella vita politica napoletana, grazie all'influenza che riusci ad esercitare sulla regina Maria Amalia. Di quell'influenza si avvalse in più di un'occasione l'E., per sollecitare favori o per sottrarsi a situazioni compromettenti, cui l'aveva spinto la sua insaziabile sete di denaro.

Comunque nel '37 le nubi apparivano ancora lontane. La riforma militare voluta dal maggiordomo maggiore conte di Santisteban affidò il comando generale dell'esercito a E. d'Orléans duca di Charny e all'E. come tenente generale, i quali avrebbero diretto, risiedendo nella capitale, una giunta consultiva di guerra. I due interessati, a dire del Tanucci, non erano soddisfatti che tutto fosse stato deciso a loro insaputa; tuttavia l'E. poteva prepararsi a succedere allo Charny, più anziano, nel comando dell'esercito.

Alcuni mesi più tardi, però, l'E. ebbe qualche noia personale. Uno stuolo di creditori lo assediava; fra questi certo Nicolò Gallo, proprietario di una "casa palaziata" sita nella capitale, che il duca aveva preso in affitto, tramite un suo procuratore, senza però curarsi di pagare la pigione. Invano il Gallo aveva cercato di ottenere quanto gli era dovuto; infine si era rivalso sul povero procuratore, che era stato condannato a versare in prima persona il canone d'affitto.

In quel frangente, l'E. risultava assente dal Regno; era infatti partito alla volta della Spagna, passando per Roma (luglio '37). Scopo ufficiale del viaggio - che peraltro cadeva molto opportuno relativamente alla sua esposizione debitoria - era la nomina a grande di Spagna. Nel mese di settembre si tratteneva ancora a Madrid, dove gli scriveva il Tanucci. In questa fase i rapporti fra i due sembrano amichevoli. Allorché fu approvata la nuova pianta delle segreterie, che dava maggiore importanza a quella affidata al Tanucci, l'uomo politico toscano si profuse in ringraziamenti all'E., come se la sua promozione fosse dovuta all'appoggio del generale (ottobre '37). Quest'ultimo, in quel periodo, godeva effettivamente di grande considerazione a corte, al punto che lo si considerava, con il duca d'Atri, D. Acquaviva d'Aragona e il duca di Sora, G. Boncompagni Ludovisi, esponente di spicco del "partito dominante" (aprile '38). Insieme a pochi altri, fu insignito dell'Ordine equestre di S. Gennaro, che Carlo aveva appena istituito (6 luglio 1738); la moglie Zenobia, dal canto suo, entrò a far parte della "casa" della nuova regina Maria Amalia di Sassonia.

La caduta del Santisteban permise all'E. di cogliere un altro successo, ottenendo per sé il Viceregno di Sicilia - carica ambitissima perché molto lucrosa - che invece il maggiordomo maggiore avrebbe voluto dare ad uno dei suoi (agosto '38). Senonché, il viceré in carica Bartolomeo Corsini - che il Santisteban aveva invano tentato di far designare suo successore - ebbe buon gioco nel rifiutare quella, meno prestigiosa, di maggiordomo della regina e cominciò a brigare per conservare il Viceregno, di cui anch'egli apprezzava i vantaggi pecuniari. La condotta del Tanucci nell'affare appare ambigua. Si ha infatti l'impressione che egli abbia contribuito a mettere l'E., oberato di debiti, in una posizione difficile, onde favorire, viceversa, i desideri del Corsini e la sua permanenza a Palermo.

Nell'inverno del 1739 fu diffuso nella capitale un falso dispaccio reale, che prometteva un giudicato di vicario a chi avesse sborsato 400 ducati. Ne era autore un segretario dell'E., Francesco Ribera, che fu scoperto ed arrestato in una carrozza del suo stesso padrone. L'E. - che forse era connivente - fece mostra di sentirsi personalmente offeso e ritenne Tanucci direttamente responsabile della sollecita azione repressiva. Ma, pressato dal bisogno di denaro, commise l'errore di lasciarsi andare ad un'incomposta agitazione, in cui l'ira contro il Tanucci e i goffi tentativi di danneggiarlo si mescolavano alle insistenze perché il preannunciato cambio della guardia in Sicilia andasse ad effetto.

Il re in persona intervenne a troncare le sue accuse contro il ministro, precisando che l'ordine di arresto del Ribera era partito direttamente dal trono; e, per mettere fine alle pretese avanzate dall'E. sulla Sicilia, "fino al segno di essere stimato molesto" (Tanucci, 8 ag. 1739), lo destinò invece ambasciatore a Parigi (agosto '39).

A nulla valsero, a questo proposito, le lettere di raccomandazione di Elisabetta Farnese che il duca si era procurato. La carica di ambasciatore non era certo da disprezzare, ed infatti l'E. l'aveva già sollecitata sin dall'ottobre precedente, allorché la questione siciliana aveva cominciato ad intorbidarsi. In ogni caso, offriva la possibilità di lasciare Napoli e i creditori; fra gli altri anche l'impresario Angelo Carasale che nel settembre '39 gli prestò 20.000 ducati, in aggiunta ad altri 6.600 ducati già concessigli, senza richiedere alcun interesse, in ossequio ai voleri del sovrano. L'E., poi, non mancò di sfruttare al massimo grado le potenzialità della nomina, dal lato economico: per consentirgli di approntare la sua "preparazione" all'ambasciata di Francia, gli fu elargita la somma di 18.000 ducati, ma egli ne lamentava l'insufficienza e sosteneva che non gli sarebbe stato possibile partire se non avesse ricevuto ancora 14.000 ducati. "Quest'uscita è riuscita un poco sensibile - commentava con ironia Tanucci - né vi è compassione per le strettezze del cavaliere" (Tanucci, 24 ag. 1739).

La partenza per Parigi avvenne alfine, sia pure con qualche mese di ritardo; il 22 dic. '39 l'E. presentò le sue credenziali. Al nuovo ambasciatore toccò comunicare il trattato concluso dal Regno con i Turchi e giustificare il mancato coinvolgimento del rappresentante francese a Costantinopoli; in quella circostanza, l'E. fece mostra di una buona dose di abilità diplomatica. La sua permanenza a Parigi sarebbe durata fino al 23 maggio 1741, quando fu richiamato in patria perché si preparava una nuova guerra.

Elisabetta Farnese aveva infatti comunicato al figlio l'intenzione di inserirsi nella guerra di successione austriaca, al fine di procurare un'adeguata sistemazione al secondogenito, Filippo. Una parte dell'esercito spagnolo sbarcò nel novembre 1741 ad Orbetello, mentre un altro contingente era in preparazione; il Montemar assunse il comando. Napoli, pur mantenendo ufficialmente una posizione neutrale, doveva fornire alla Spagna un buon nerbo di forze, che avrebbero dovuto essere guidate dall'E., divenuto per la morte dello Charny capitano generale delle armi, con il soldo mensile di 597 ducati. A questo proposito, vi erano però delle difficoltà, perché il Montemar non gradiva avere l'E. come compagno. L'E. seppe aggirare abilmente l'ostilità dello spagnolo, recandosi ad Orbetello per riverirlo e dichiarandosi disposto a servire in sottordine (dicembre '41). Per l'E., che da qualche mese (agosto '41) poteva fregiarsi anche del titolo di consigliere di Stato, non era in discussione soltanto una questione di prestigio. Ancora una volta, i preparàtivi per la nuova campagna avevano rappresentato il pretesto per ottenere una forte somma di denaro da parte dell'Erario e l'E., qualora avesse dovuto rinunciare al comando, sarebbe stato costretto a restituirla.

L'esercito ispano-napoletano trascorse la primavera e parte dell'estate 1742 in Lombardia, evitando di scontrarsi con gli Austro-sardi. All'annunzio di una pace separata fra Russia e Austria, il Montemar ripiegò verso Rimini con tutti i suoi uomini (luglio '42). Dapprima si profilò il pericolo di un'invasione del Regno da parte delle forze piemontesi; successivamente il ritiro del re di Sardegna, richiamato in patria, lasciò aperta la possibilità di un'aggressione degli Austriaci, che si diceva stessero per marciare alla volta della Toscana. Gli Ispano-napoletani, nel frattempo, erano passati in Umbria; di li l'E. avrebbe dovuto retrocedere ulteriormente ed attestarsi fra l'Abruzzo e la Campania, in funzione difensiva. Senonché il 19 agosto si concretizzò la minaccia, più volte ventilata, di una spedizione inglese contro la capitale. All'alba, una squadra da guerra si presentò nel golfo; per il tramite del console inglese, il capitano pose alcune condizioni, fra cui il ritiro immediato delle truppe napoletane inviate in appoggio agli Spagnoli, onde rispettare la neutralità che il Regno aveva proclamato. Mentre fervevano le discussioni alla presenza del re in Consiglio di Stato, giunse un messaggio del capitano generale che annunciava di aver oltrepassato i confini del Regno. Alla fine prevalse l'opinione del Montealegre e l'ultimatum inglese fu accettato. Il corpo di spedizione comandato dall'E. fece ritorno nella capitale verso la metà di settembre.

Sopita per il momento l'emergenza bellica, tornarono in primo piano per l'E. i problemi di natura personale. Di nuovo le sue mire si indirizzarono verso il Viceregno di Sicilia, essendo alla scadenza il triennio per il quale era stato designato Bartolomeo Corsini. Quest'ultimo desiderava restare ancora a Palermo; l'E., con alcuni altri pretendenti, gli contrastava il passo. Come già era accaduto nel '39, gli venne preferito il viceré in carica.

Invano la moglie Zenobia perorò la sua causa, ottenendo l'appoggio del duca di Sora, maggiordomo maggiore. La Castropignano capeggiava una delle fazioni che dominavano la vita di corte e sapeva muoversi con disinvolta perizia. L'E. non resse il confronto con la consorte e brillò di luce riflessa. Del resto, anche nel campo strettamente militare - se vogliamo stare alla testimonianza, certamente parziale, del Tanucci - l'E. non manifestò doti di comando eccellenti.

Il conflitto europeo continuava e il trono di Carlo di Borbone era di nuovo in pericolo. Con il trattato di Worms (13 sett. 1743) Austria e Sardegna si spartirono il Mezzogiorno d'Italia, assegnando il Napoletano con i Presidi alla prima e la Sicilia alla seconda (Ajello, p. 681). Francia e Spagna risposero alleandosi in un secondo patto di famiglia (Fontainebleau, 25 ott. 1743), affinché Carlo rimanesse sicuro nei suoi possessi e l'infante Filippo avesse Milano, Parma e Piacenza. Si erano dunque create le condizioni perché il Regno si impegnasse direttamente nella guerra; il Montealegre, primo segretario di Stato, era ostile a questa decisione, che invece l'E. e il duca di Sora caldeggiavano. Finalmente, il 25 marzo 1744, rotti gli indugi, Carlo si incamminò con l'esercito verso la frontiera del Regno, con l'obiettivo di portare soccorso agli Spagnoli che, sconfitti dagli Austriaci a Camposanto, erano ridotti a mal partito. L'inizio della campagna, però, mise drammaticamente a nudo l'impreparazione dell'esercito napoletano. L'E., comandante in capo, ne attribui la responsabilità al pacifismo del Montealegre, che aveva impedito i necessari preparativi; il Tanucci, invece, accusava lo stesso E., colpevole, a suo dire, di imperizia e di inefficienza. All'indirizzo dell'E. il ministro formulò critiche durissime, fra le quali, non ultima, quella di aver tratto illeciti profitti dalle forniture militari. Agli inizi di giugno i due avversari furono di fronte: gli Ispano-napoletani a Velletri, gli Austriaci a Nemi. Alla metà del mese questi cercarono di spingere avanti le artiglierie, ma furono ricacciati indietro dal comandante delle truppe spagnole, J. B. Thierry du Mont, conte di Gages, il quale, però, non approfittò del successo e permise agli avversari di riorganizzarsi. Tanucci ci informa che fu l'E., fra gli altri, a consigliare, erroneamente, al Gages di fermarsi. Ma anche l'E. visse il suo momento di gloria nella battaglia di Velletri (11 agosto).

Lo scontro ebbe origine dal tentativo degli Austriaci di attuare nottetempo un colpo di mano per fare prigioniero Carlo e i suoi ufficiali e porre cosi termine alla guerra. Penetrati in Velletri, persero del tempo prezioso, sbandandosi per il saccheggio. Il re, con l'aiuto dell'E., riusci a mettersi in salvo. Il Gages che era uscito in perlustrazione ebbe il tempo di ritornare, mentre l'E. rioccupava la città con quattro battaglioni. Respinti, gli Austriaci non furono inseguiti e rimasero padroni del proprio campo, dal quale si ritirarono solo tre mesi più tardi, nell'ottobre '44. Allora i Borbonici li seguirono da lontano fino al Tevere.

L'E. accompagnò Carlo nel solenne ingresso in Roma (novembre '44), per poi tornare al suo seguito nella capitale. Qui, nel frattempo, era giunto un corpo di spedizione spagnolo, con il compito di contrastare un'eventuale aggressione dal mare. Perciò esso aveva provveduto a riorganizzare le opere di difesa sul litorale della città, rimuovendo - a quanto ci riferisce ancora il Tanucci - quelle già realizzate dall'E., perché contrarie a tutte le buone regole di fortificazione.

La vittoria riportata a Velletri allontanò dal Regno la minaccia austriaca, cosicché nel successivo evolversi delle vicende belliche esso si trovò lontano dai teatri di guerra. Un contingente napoletano fu ancora impegnato al seguito degli Spagnoli fino all'ottobre '46, ma l'E. non ne fece parte. Fra la primavera e l'estate del '46 importanti avvenimenti intervennero a mutare la scena politica interna e internazionale. Nel giugno si consumò la caduta, da lungo tempo preannunciata, del Montealegre, artefici, fra gli altri, la regina e la Castropignano, sua fida dama di corte. Di poco successiva, l'improvvisa morte di Filippo V; il nuovo re di Spagna, Ferdinando VI, aspirava ad un ritiro dalla guerra. Il disimpegno spagnolo contribui ad accrescere i timori - poi rivelatisi immotivati - di una nuova invasione austriaca; in tale prospettiva, la moglie dell'E., con l'appoggio di G. Fogliani Sforza d'Aragona, nuovo primo segretario, e della regina, ottenne che l'esercito napoletano, forte di 20.000 uomini, fosse guidato non dal Gages ma dall'Eboli. In conseguenza di questa decisione, il Tanucci formulava la catastrofica previsione di una "nuova Canne"; le circostanze, vanificando l'attesa di una nuova aggressione, non permisero di verificare la fondatezza del pessimismo tanucciano.

Dopo la nascita del sospirato crede al trono, l'ingerenza della regina nella vita politica del Regno si fece più incisiva e scoperta; ne venne rafforzato a corte il potere della Castropignano, la quale si adoperava in ogni modo per procurare onori e prebende al marito. Cosi, ad esempio, ottenne che, alla morte del principe di Colubrano. fosse fatto colonnello delle Guardie italiane (novembre '46). Meno bene andarono le cose l'anno successivo, quando Zenobia cercò di cogliere profitto dalla favorevole disposizione d'animo del sovrano per l'arrivo del primogenito maschio. La Castropignano chiese "mari e monti" - l'espressione è sempre del Tanucci - ma Carlo, sfidando il "disgusto" della regina, non concesse nulla. Stesso risultato alla nascita del secondogenito, perché all'E. fu rifiutata la mastrodattia di Salerno che aveva chiesto in dono. Una richiesta consimile avanzata dal Fogliani - era nato il terzo maschio - venne invece accettata e la cosa non mancò di suscitare le ire del duca. La ricerca messa in atto dall'E. di uffici e cariche non era motivata da semplice vanità o da ansia di affermazione, ma da ragioni ben più concrete. L'E. era costantemente a caccia di denaro, perché, dopo aver consumato l'esiguo patrimonio ricevuto in eredità, si era indebitato pesantemente, sfruttando poi la posizione a corte sua personale e della moglie per sottrarsi all'obbligo di pagare i creditori. A costoro non restava che rivolgersi a loro volta ai buoni uffici di qualche personaggio influente, affinché intercedesse presso l'interessato. Anche il Tanucci fu richiesto di promuovere le ragioni di un creditore dell'E., Gaetano Leoli Prini, pisano (luglio '46), ma non ebbe remore nel confessare che la missione gli si presentava difficile perché la posizione a corte del debitore imponeva grande circospezione.

In realtà i buoni rapporti fra il Tanucci e l'E., dopo la rottura del '39, non si erano più riannodati. In privato, il ministro espresse più volte giudizi molto negativi sia, come si è detto, sulla condotta militare del duca, sia sull'onestà sua e della moglie, non esitando a bollare i Castropignano con l'epiteto di "casa più corrotta del regno". Ma in pubblico il Tanucci era costretto a professare un certo ossequio formale, non osando sfidare apertamente l'E., soprattutto in quanto marito della potente favorita della regina. E poteva persino ricercare l'appoggio dell'E. per suo nipote, Nicola Ciarpaglini, ufficiale del reggimento "Napoli".

Dal trattato di Aquisgrana (ottobrenovembre '48) Carlo di Borbone aveva visto porre una grave ipoteca sul diritto di trasmettere il Regno alla diretta discendenza. Suo successore avrebbe dovuto essere il fratello Filippo, che aveva sposato una figlia di Luigi XV. Questa soluzione era caldeggiata dalla Francia; ma Carlo rifiutò di sottoscrivere il trattato, come pure il successivo accordo di Aranjuez, col quale Austria, Francia e Spagna ribadivano quanto già deciso per Napoli. La tensione che ne derivò nei rapporti internazionali del Regno ebbe un immediato riflesso nella lotta fra le fazioni di corte. Il partito che faceva capo ai Castropignano era filofrancese, al punto che - come si scopri in seguito l'istitutore dei figli dell'E., monsieur La Tour, veniva segretamente pagato dal governo di Parigi. Non sappiamo se la disgrazia dell'E., nell'autunno del '54, mirasse anche, nelle intenzioni del sovrano, a deprimere il potere dei partigiani della Francia; l'ambasciatore di Sardegna in un rapporto al suo re sembra suggerire questa interpretazione. Certamente Carlo operò con una severità inusitata e, trattandosi di un capitano generale, consorte della favorita della regina, la cosa fece molto rumore. L'ordine all'E. di disfarsi del suo segretario e del maestro di casa giunse del tutto inaspettato, dopo che il sovrano aveva ricevuto secondo il solito l'E., senza nulla comunicargli. I due dipendenti dell'E. erano accusati di avere abusato della posizione del padrone; ma quest'ultimo era personalmente coinvolto in una serie di ruberie militari.

Fra l'altro si disse che l'E., d'accordo con gli altri ufficiali, aveva restituito la libertà a forzati imprigionati nelle fortezze, dietro pagamento di una somma di denaro. Carlo affidò il delicato incarico di un'ispezione dei castelli del Regno al generale F. Wirzt, nemico personale dell'E., dal quale era stato perseguitato. L'iniziativa del sovrano non mancò di suscitare le rimostranze della regina, intervenuta in difesa della sua amica. Carlo, al fine di dimostrarle la fondatezza delle accuse, fece sequestrare i libri dei conti domestici della casa e li diede a verificare a L. di De Gregorio marchese di Squillace, segretario d'Azienda. All'origine della questione stava ancora una volta l'irrefrenabile prodigalità dell'E. che giunse fino al punto di vedere i suoi beni feudali, gli unici che possedesse, vincolati al pagamento dei debiti: era quanto aveva chiesto ed ottenuto certo Giovanni Pons, francese, cui doveva più di 3.000 ducati (marzo '54). Il Tanucci riporta la notizia della formazione di un'apposita giunta per indagare sulle supposte malversazioni connesse con le forniture militari (ottobre '54).

Non sembra, tuttavia, che l'E. venisse direttamente colpito, pur apparendo screditato agli occhi dei sovrano e della pubblica opinione. Prova ne sia la sua permanenza nelle cariche fino a quel momento esercitate, ivi compresa quella di capitano generale delle armi; immutata restò pure la sua posizione a corte. L'allontanamento del Fogliani (giugno 1755) ebbe fra i suoi promotori i Castropignano, i quali, però, mancarono l'obiettivo ultimo, il rafforzamento dello Squillace, di cui avevano appoggiato la rapida ascesa politica.

Iniziata la guerra fra Francia e Inghilterra per i possessi americani, il Regno fu dichiarato neutrale. Si vietò alle potenze belligeranti di armare bastimenti mercantili, mentre fu consentito solo l'ingresso amichevole delle navi da guerra di entrambi i contendenti. Sicché, giunta a Napoli una nave da guerra inglese, il cui comandante chiese il permesso di far stazionare nel porto di Gaeta venti legni da guerra, il governo napoletano rispose che potevano entrarne solo quattro per volta, onde provvedersi del necessario. Il capitano minacciò di ricorrere alla forza. Accorso però a Gaeta l'E. per assicurarvi le difese, la questione non ebbe seguito.Mori il 20 gennaio 1758.

Gli successe ex testamento il figlio Mariano, nato il 9 giugno 1742, al quale andò il feudo di Castropignano, sopravvissuto alle traversie economiche della famiglia, e il titolo di duca. Più tardi, anche Mariano, che aveva sposato Luisa Gargano, marchesa di Frignano Maggiore, fu insignito dell'Ordine di S. Gennaro. L'E. aveva avuto anche una figlia, Maria Giovanna.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Sommaria, Spoglio delle significatorie dei relevi, II, f. 274 t.; Ibid., Taxis adohae, reg. 133, f. 330; Ibid., Cedolari, reg. 16, f. 463; reg. 18, f. 633 t.; Ibid., R. Camera di S. Chiara, Bozze di Consulte, reg. 4, inc. 59; reg. 17, inc. 6, 57; reg. 185, inc. 25; reg. 187, inc. 17; Ibid., Esteri, fasc. 4818, 4879; Ibid., Casa Reale antica, fasc. 892, 1509; Ibid., Manoscritti Livio Serra di Gerace, V, fasc. 1735; Notiziario della Real Casa, Napoli 1753, pp. 52 s., 58, 85; T. Carafa, Relazione della guerra in Italia nel 1733-34, a cura di B. Maresca, in Arch. stor. per le prov. napol., VII (1882), p. 685; C. Galiani, Diario della guerra di Velletri, ibid., XXX (1905), pp. 353, 359; B. Tanucci, Epistolario, IIV, Roma 1980-84, ad Indices; L. Bianchini, Storia delle finanze, Napoli 1859, p. 345; B. Candida Gonzaga, Mem. delle famiglie nobili delle provincie meridionali d'Italia, Napoli 1875, I, p. 215; F. Sforza Cesarini, La guerra di Velletri, Roma 1891, passim; M. Schipa, IlRegno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, Milano-Roma-Napoli 1923, I-II, passim; R. Filangieri di Candida, La chiesa e il monastero di S. Giovanni a Carbonara, in Arch. stor. per le prov. napolet., n. s., X (1923), pp. 87 ss.; R. Colapietra, Vita pubblica e classi politiche del Viceregno napoletano (1656-1734), Roma 1961, p. 146; R. Ajello, La vita politica napoletana sotto Carlo di Borbone, in Storia di Napoli, VII, Napoli 1972, ad Indicem; R. De Maio, Dal sinodo del 1726 alla prima restaurazione borbonica del 1799, ibid., p. 969.

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