FRANCESCO di Giorgio di Martino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 49 (1997)

FRANCESCO di Giorgio di Martino (Francesco Maurizio di Giorgio Martini)

Francesco Paolo Fiore-Claudia Cieri Via

Figlio di Giorgio, funzionario del Comune di Siena impiegato nell'ufficio di Biccherna, con piccole proprietà in città e in campagna (Chironi, 1991), nacque a Siena dove fu battezzato il 23 sett. 1439.

È possibile che F. sia quel "Francesco" che appare in un documento senese accanto a Lorenzo di Pietro (il Vecchietta) e a "Benvenuto" (forse il pittore Benvenuto di Giovanni) nel 1460, e che quindi risalga già a quella data il suo discepolato presso il Vecchietta, allora impegnato nella preparazione dell'Assunta per il duomo di Pienza. Guardando all'architettura, non abbiamo tuttavia notizie sulla eventuale partecipazione di F. come apprendista a Pienza, né sembra esistere un collegamento tra le fortificazioni di Sarteano, Monte Agutolo, Orbetello e Talamone (1468-69), attribuite al Vecchietta, e quelle che sarebbero state le prime prove di F. nel campo dell'architettura militare. All'attività di pittore e scultore F. unì comunque ben presto quella di ingegnere-architetto, visto che il 28 apr. 1469 fu nominato con Paolo d'Andrea "operaio dei bottini", i condotti sotterranei che conducevano l'acqua in città. Alla realizzazione e manutenzione dei bottini F. lavorò per quasi tutta la vita: fu sostituito nel 1473 da Berto d'Antonio, ma nel 1492 fu reintegrato alla guida dei lavori. Già nel 1469 F. doveva essere in grado di dirigere complessi lavori di scavo e di idraulica, per i quali era necessaria una buona conoscenza della geometria applicata ai problemi di tracciamento e di pendenza, e una concreta capacità organizzativa del cantiere. L'interesse per questo genere di opere lo aveva spinto intorno alla metà degli anni Sessanta a consultare e studiare i codici di macchine di Mariano di Jacopo detto il Taccola, il notaio senese appassionato di meccanica e in contatto per questo con Filippo Brunelleschi. Si formò così quello che si può considerare il primo codice di F., detto Codicetto (Bibl. apost. Vaticana, Urb. lat. 1757) per le dimensioni tascabili delle sue pergamene. Rapidi appunti autografi, in forma grafica e di note scritte, sottolineano l'originario interesse di F. per la parte dell'architettura denominata machinatio testimoniato anche nella sua successiva opera trattatistica. Agli appunti iniziali tratti dai codici del Taccola F. aggiunse infatti già nel Codicetto proposte autonome e migliorative di numerosi meccanismi (Galluzzi, 1991), ai quali unì appunti da autori antichi come Vegezio, Frontino, Vitruvio, Marco Greco e Tolomeo, e, probabilmente dopo il suo arrivo in Urbino, piante di fortezze e appunti di macchine da Valturio (Das Skizzenbuch…, 1989).

Nel 1467 sposò Cristofana di Cristofano di Campagnatico e nel 1469 si sposò nuovamente con Agnese di Antonio di Benedetto di Neroccio da Siena, dalla quale ebbe almeno otto figli. È stato supposto che a F. possa essere attribuito il disegno architettonico di parti della chiesa dell'ospedale di S. Maria della Scala, dove decorò il soffitto e l'abside (1470-71), ma alla presunta attività di architetto di F. a Siena, prima della partenza per Urbino, è piuttosto ascrivibile la chiesa del convento dell'Osservanza poco fuori città, la cui costruzione fu decisa nel 1474.

Per quanto il suo impianto a navata unica coperto da volte a vela con cupola e coro mostri accenti fiorentini che non ricorrono nella produzione successiva di F., la semplificazione delle parti e l'uso della trabeazione spezzata sui pilastri tra le cappelle laterali, che tante altre volte avrebbe caratterizzato le sue architetture, possono far pensare non solo a un completamento, ma anche a un progetto iniziale di F., il quale avrebbe seguito, in quel caso, da lontano la lenta costruzione della chiesa, cui nel 1485 mancavano ancora le volte e i tetti.

In tal caso si potrebbe persino pensare che F. fosse chiamato per la prima volta a Urbino dai francescani osservanti di S. Donato, poi S. Bernardino, certamente in contatto con quelli senesi. Ma restando a un più probabile invito di Federico da Montefeltro, non si può escludere che F. si fosse fatto conoscere da lui o da qualcuno dei suoi già in precedenza, a Siena o in lavori nei dintorni, per esempio a Volterra alla fine del giugno 1472.

La presenza di F. a Urbino non può essere comunque anteriore al luglio 1475, quando scelse il Vecchietta come arbitro per valutare lo scioglimento della sua società con Neroccio Landi, o alla stima probabilmente da lui effettuata sul fiume Bruna in Maremma il 28 maggio 1476; né posteriore al maggio 1477, quando egli godeva della piena fiducia del duca e di Ottaviano Ubaldini, da lui rappresentati nel contratto per il rivellino acuto di Costacciaro e in contratti a Gubbio per fare dipingere su suo disegno le decorazioni di una stanza nel palazzo ducale della città, forse lo studiolo realizzato in similitudine di quello di Urbino, e per una cessione di terreni. Si deve anzi presupporre un precedente periodo di prova, che rinvia almeno alla seconda parte del 1476 la presenza di F. a Urbino. Nel novembre 1477 egli stesso vi si sarebbe dichiarato ufficialmente residente. Nel 1478 F. era tuttavia ancora una volta in Toscana al seguito di Federico che, in campagna militare contro i Fiorentini, il 25 e 28 luglio lo inviò a Siena chiamandolo "mio architecto". Nel 1480 ritornò a Siena, quando su richiesta di Federico fu ammesso nel Consiglio del popolo di Siena con i privilegi dei priori; qui fu incaricato di rifare il "cassero" di Sesta (insieme con Paolo Vannocci Biringucci e Angelo Benassai) e fu nominato operaio della fabbrica di Cerreto (insieme con lo stesso Paolo e con Pandolfo Petrucci). Un soggiorno di F. a Siena per ambasciate su incarico di Federico si registra anche nell'anno 1481, durante il quale F. fu inviato (25 luglio) a ispezionare le fortificazioni di alcuni centri, tra cui Casole d'Elsa, dove sarebbe effettivamente intervenuto nel 1487.

Risale probabilmente all'arrivo a Urbino anche l'Opusculum de architectura (Londra, British Museum, cod. 187 b 21 [Harley 3281]), codice privo di testo (tranne la dedica al duca Federico), illustrato da F. con disegni di macchine e fortezze per mettere in luce le proprie qualità di "ingegnario".

La dedica a Federico, accostato ad Alessandro Magno e a Cesare Augusto in quanto bisognoso anch'egli di un architetto come Dinocrate o Vitruvio, è seguita dallo svolgimento del tema della machinatio attraverso l'evidenza dei soli disegni, come nei codici del Taccola. Sono incluse macchine belliche antiche e moderne, macchine civili indispensabili per la costruzione della nuova architettura all'antica, macchine idrauliche e piante di fortezze capaci di resistere al cannone e a loro volta fornite di cannoni per la difesa. Come già nel Codicetto, le macchine presentano consistenti miglioramenti e novità rispetto a quelle del Taccola, e le fortezze, per quanto in alcuni casi ancora ingenue e inattuabili, mostrano soluzioni innovative in cui la geometria è chiamata in causa per dare evidenza alla novità delle proposte - in particolare nel caso delle fortezze circolari - o per rispondere alla geometria dei tiri. Nell'Opusculum vengono così rappresentate, oltre a fortezze dalle mura concentriche su pianta circolare con quattro torri sugli assi, delle quali una maggiore a cavallo e controllo di tutti i circuiti (ff. 20v, 69v, 73v, 82r), fortezze mistilinee o poligone con torri circolari ai vertici e un nucleo semicircolare o triangolare (ff. 21v, 73r) e fortezze rombiche (ff. 21r, 69r), una delle quali mostra cannoniere nei fianchi delle torri circolari ai vertici per fiancheggiare l'intero perimetro. Proprio la forma rombica è quella che F. dichiarerà infine di prediligere, mentre i perimetri circolari di grande diametro verranno più tardi da lui stesso criticati.

Tra le prime opere nel Montefeltro che si possono attribuire a F. insieme con il rivellino di Costacciaro è la rocca di Sassocorvaro, il centro subinfeudato con Mercatello a Ottaviano Ubaldini subito dopo l'elevazione di Federico a duca di Urbino (1474).

La rocca presenta un perimetro circolare verso l'abitato, mentre protende all'esterno due torrioni circolari culminanti in uno sperone, in una specializzazione delle parti della rocca che F. avrebbe realizzato più tardi anche in quella di Tavoleto. Le diverse soluzioni adottate a Costacciaro e a Sassocorvaro dimostrano che da F. esse erano considerate egualmente valide, purché le forme circolari fossero di diametro non eccessivo, e restassero quindi difendibili. Non secondaria è tuttavia la considerazione che quella di Sassocorvaro è una rocca-palazzo piuttosto che una mera architettura difensiva, come dimostra anche l'importante cortile quadrangolare con due lati ad archi su pilastri, dalle forme architettoniche semplificate e sintetiche che annunciano il linguaggio prediletto da F. in Urbino.

I lavori più importanti che F. condusse a Urbino furono il completamento del palazzo ducale, il duomo, la chiesa, il chiostro e il convento di S. Bernardino e il convento di S. Chiara: la perdita della maggior parte degli archivi urbinati ha tuttavia impedito sinora sicure attribuzioni e datazioni. Il palazzo fu iniziato a partire dall'ala rivolta verso l'abitato su preesistenti edifici dei Montefeltro in una data incerta, forse già nel 1449, ma più probabilmente nel 1454 o 1455 e dal 1466 seguì il nuovo progetto di Luciano Laurana, il quale lasciò Urbino nel 1472. F. intervenne a completare i lavori, a partire probabilmente dal cortile, dove terminò le soprallogge e inserì nel fregio del piano terreno l'inscrizione in onore di Federico.

Il completamento della facciata ad ali, che con il duomo racchiude la piazza verso l'abitato, testimonia con maggiore evidenza la sua capacità di comporre in unità elementi diversi. La facciata è infatti distinta in due parti, un piano basamentale a bugnato piatto contenuto tra grandi paraste angolari con a terra un basamento a panca con il fregio di macchine di pace e guerra per spalliera, e un primo piano segnato dalle grandi finestre, di probabile disegno del Laurana, ad edicola trabeata. La soluzione inedita e sconcertante è data dalle finestre sfalsate rispetto ai portali sottostanti, in parte finti, per armonizzare le precedenti bucature della facciata, tra cui l'asimmetrico accesso principale. All'assialità verticale di finestra-portale ritorna invece nella parte di facciata creata verso il duomo. F. aggiunse infatti su questo lato l'intera parte del giardino pensile, con il corpo di collegamento tra l'ala principale del palazzo e il cosiddetto castellare, inserendovi una rampa elicoidale e realizzando nel piano sotterraneo un complesso sistema degli ambienti di servizio e di raccolta delle acque, ivi compreso il bagno di Federico. Il bagno si affaccia tra i torricini sulla verticale dello studiolo al primo piano e della cappella del Perdono e del tempietto delle Muse al piano terreno. Mentre questi due ambienti monumentali sono solo dubitativamente attribuibili a F., il bagno, un insieme di piccoli ambienti su diversi livelli definito tramite l'impiego di un semplice ordine architettonico, è un ulteriore e chiaro esempio della sua capacità di comporre spazi anche irregolari in sequenze spaziali articolate e in grado di raggiungere un risultato unitario. Ai piedi del palazzo e ampliandone vieppiù l'ambito, F. realizzò un torrione con una grande rampa elicoidale interna, posto a cavallo delle mura prospicienti il Mercatale e legato alla Data, la lunga stalla ducale a due piani per circa trecento cavalli. Sono attribuibili a F. anche alcuni elementi decorativi interni del palazzo, ivi compreso il disegno per la tarsia centrale dello studiolo, ove uno scoiattolo spicca sullo sfondo di un arco inquadrato da un ordine a "canocchiale" simile al portale di accesso che F. realizzò al pian terreno della rampa sul cortile pensile. Resta incerta l'attribuzione a lui del corpo ad archi su pilastri affacciato sul cortile del Pasquino.

F. delimitò la piazza di fronte al palazzo con il fianco del nuovo duomo, costruito sul sito di quello precedente, diversamente orientato, probabilmente dal 1477-78 in poi. Federico aveva promosso una raccolta di elemosine per il nuovo duomo sin dal 1460 e aveva ottenuto una bolla da Sisto IV nel 1474, forse sulla base di un primitivo progetto. Per la facciata F. si rifece probabilmente alla soluzione progettata da L.B. Alberti per il S. Andrea a Mantova, allora in via di esecuzione.

A quanto appare dai disegni di rilievo di G. Valadier, che dopo il crollo della cupola nel 1789 (seguito al terremoto del 1781) trasformò l'interno salvaguardandone l'impianto a tre navate e il perimetro, la chiesa presentava la navata maggiore coperta da una volta a botte su archi e pilastri privi di basi, transetto sporgente e profondo coro con due cappelle affiancate. Nei muri perimetrali erano scavate cappelle a curvatura depressa, inquadrate in corrispondenza delle testate del transetto da un arco simile a quello già descritto come opera di F. nella decorazione dello studiolo del palazzo. L'unità dell'insieme era garantita da un duplice recinto in forma di trabeazione che segnava l'intero perimetro interno, e, per quanto è possibile ricostruire, trovava corrispondenza nei doppi "ricinti" che correvano all'esterno.

Questo originale linguaggio architettonico, caratterizzato dal nudismo di volumi netti e superfici piane segnate da più ordini di cinghiature orizzontali, trovò immediato riscontro nella chiesa urbinate di S. Bernardino, destinata ad accogliere le spoglie di Federico ed eretta presumibilmente dopo la sua morte (1482) a completamento, con il chiostro, del convento degli osservanti.

Il complesso è posto su di una collina di fronte alla città, con la chiesa composta da una navata unica terminante con un più largo spazio quadrato con quattro colonne sotto la cupola, in forma di mausoleo antico. Sul netto volume della chiesa, recinto da cornici, spiccano l'inedito portale ad arco trabeato su semicolonne dai capitelli a delfini, le finestre a frontoni triangolari e curvilinei alternati lungo la navata e le bifore trabeate sulle testate. All'interno emerge su tutto la monumentale verticalità delle colonne con l'ornato dei capitelli. F. mostra in tal caso la doppia valenza della semplificazione e dell'ornamento all'antica.

Negli stessi anni del S. Bernardino F. dovette iniziare a costruire, su di una preesistente costruzione iniziata da Federico, il convento di S. Chiara, fatto completare dal 1482 in poi da Elisabetta, figlia di Federico e moglie di Roberto Malatesta, che vi si ritirò in quell'anno. Il convento si apre a valle con un prospetto ad ali porticate su due livelli, un tempo coronato da un attico chiuso.

Anche in questo caso gli archi poggiano su pilastri con capitelli in forma di cornice piegata, e sono inquadrati dal prolungamento dell'ordine "a canocchiale", sino alla cornice del piano sovrastante. Nel complesso la facciata sembrerebbe l'interpretazione, volutamente semplificata, di una fronte teatrale antica, mentre la disposizione ad ali può proporsi come modello, anche tramite la possibile mediazione di Baccio Pontelli, presente a Urbino nel 1481, della facciata ad ali della villa vaticana del Belvedere. La chiesa del convento, che in origine sembra avere avuto una pianta rettangolare suddivisa in due parti, una per i fedeli e l'altra per le clarisse, mostra oggi una pianta e un tiburio circolari, forse frutto delle modifiche di F., riprese successivamente. Alle soluzioni della facciata a valle del convento di S. Chiara sembra particolarmente legato il cortile del palazzo Luminati di Urbino, che anche nella facciata richiama le semplici soluzioni proposte da F. per l'architettura civile.

F. è anche il probabile autore del palazzo ducale di Gubbio, dove egli era al lavoro già nel 1477.

Il palazzo prende a modello quello di Urbino, ma essendo realizzato su consistenti preesistenze - incorpora infatti l'antica platea Communis per realizzare il cortile e il palazzo medievale della Guardia come corpo principale a valle - si piega in asimmetrie delle quali il cortile è la testimonianza più evidente. In un'ala aggiunta troviamo una rampa elicoidale e uno studiolo, decorato a tarsie prospettiche in similitudine con quello di Urbino. Il palazzo di Gubbio ne replica anche la dimensione urbana e tiene quindi conto delle diverse condizioni del contesto eugubino, del quale comprende nel suo perimetro gli edifici della "corte vecchia" con gli impianti idrici cittadini a monte (Martines, 1977) e altri edifici di servizio limitrofi, e si collega tramite uno spazio aperto al vicino cassero posto a cavallo delle mura, a sua volta rinnovato a partire dal 1480 in forme difensive aggiornate. In considerazione della cronologia, oltre che delle soluzioni, è probabile che anche quest'opera fosse affidata a F. così come il coevo rivellino di porta del Marmoreo, realizzato a valle della città.

Numerosissime sono le fortificazioni alle quali F. pose mano in altri centri del Montefeltro (N. Adams, in F. di G. architetto, 1993), come egli stesso narra nei trattati, ove illustra specificatamente quelle di Sassofeltrio, Serra Sant'Abbondio e Tavoleto, presumibilmente costruite tra il 1478 e il 1486 e ora scomparse; quella di Cagli, costruita nella prima metà degli anni Ottanta e parzialmente sopravvissuta; quelle di Mondolfo e Mondavio, entrambe costruite per Giovanni Della Rovere tra il 1483 e il 1490 e poco oltre, la prima distrutta negli anni 1864-95, la seconda ancora in buone condizioni benché incompleta. Attribuibili a F. sono anche gli aggiornamenti delle rocche di San Leo (1476-78) e di Fossombrone (1480 circa), che rispecchiano i criteri difensivi da lui esposti e le forme da lui impiegate.

Dopo la morte di Federico (1482) F. ebbe la possibilità di realizzare lavori anche di notevole rilievo fuori dal Ducato, come la chiesa di S. Maria delle Grazie al Calcinaio a Cortona, incarico che accettò su invito di Luca Signorelli (1484).

Il 1° luglio F., ancora a Gubbio, ricevette un compenso per il disegno e modello della chiesa, per cui fu pagato di nuovo nell'aprile del 1485. La posa della prima pietra della chiesa è ricordata il 6 giugno 1485, ma la seconda cerimonia che si svolse il 30 settembre corrisponde probabilmente all'effettivo inizio dei lavori. Nel 1488 era stato realizzato il corpo occidentale del transetto e forse l'abside; nel 1490 i quattro corpi intorno alla crociera con le volte; negli anni 1500-1508 le due ulteriori campate della navata; dal 1508 in poi la cupola, ad opera del fiorentino Pietro di Norbo (Matracchi, 1991). La chiesa si può ben riferire ad alcuni disegni presenti nei trattati con una navata unica a botte e cupola a padiglione ottagonale all'incrocio tra navata e transetto. L'essenzialità del disegno è messa in evidenza dal ritmo regolare delle paraste elevate al di sopra di uno zoccolo basamentale segnato da lesene, mentre la corrispondenza perseguita fra esterno e interno produce partiture visibilmente diseguali sui fianchi esterni della chiesa.

Nonostante che nel giugno 1485 il Comune di Siena iniziasse a reclamare il ritorno di F. in patria e affidasse a lui, con altri, la riparazione del ponte a Maciareto, egli era ancora legato alle attività urbinati. Né valsero successivi richiami, la sua elezione a priore del terzo di San Martino nel Concistoro di Siena nel novembre-dicembre e l'intenzione della Balia, del 26 dicembre, di assegnargli uno stipendio di 800-1.000 fiorini l'anno per occuparsi di opere di architettura e ingegneria del Comune a patto di un suo stabile trasferimento entro sei mesi. Il 27 maggio del 1486 venne stipulato il contratto di costruzione del nuovo palazzo comunale di Jesi, da eseguirsi secondo il modello dato da F. e intagliato in legno da Domenico d'Antonio Indivini, per il quale F. aveva già ricevuto rimborsi dal febbraio di quell'anno (Agostinelli - Mariano, 1986). I lavori furono iniziati il 2 giugno 1486; nel maggio del 1499 la costruzione era giunta sino a tutte le finestre del primo piano e nell'aprile del 1500 sino a circa metà del secondo, che fu probabilmente rialzato più tardi, con l'introduzione della cornice su archetti. Il portale fu aggiunto nel 1588 e la torre ricostruita dopo il terremoto del 1657, e lasciata incompleta.

Il palazzo, isolato e compatto nei suoi tre piani, accorpa nella sua pianta rettangolare cortile, torre e una vasta sala a volte su pilastri mediani al piano terreno, sulla quale è la grande sala di riunione al primo piano. Il cortile, ad archi su pilastri, fu completato da Andrea Sansovino al primo piano. Si tratta di una restituzione del tradizionale tipo del medievale palazzo pubblico toscano e umbro, caratterizzata dalla disposizione della pianta ad U e dalla sua chiusura con una semplice quinta muraria in facciata.

Nel 1486 F. fu pagato con Antonio Barili dal Comune di Siena per i lavori al ponte di Maciareto, che terminarono nel 1487, mentre Guidubaldo da Montefeltro, il successore di Federico, chiedeva ancora nel 1487 a Siena di sostituire F. nella carica di podestà di Porto Ercole per averlo a Urbino, da dove il Concistoro di Siena lo richiamò nel luglio e ancora nell'ottobre. Il 14 ottobre F. fu infatti inviato a rilevare il territorio tra Chianciano e Montepulciano per mettere fine alla lite confinaria tra i due comuni, e nel novembre l'Opera del duomo di Siena effettuò i primi pagamenti nonostante Guidubaldo lo chiamasse ancora suo architetto. Nel 1488 F. si impegnò infine con Siena per la realizzazione di opere per il Comune, ma Giacomo Cozzarelli, suo aiuto, era in quell'anno ancora in Urbino, e nel gennaio 1489 F. scriveva ancora da Gubbio per segnalare avvenimenti politici e movimenti di truppe.

Dalla metà del 1489 sembra tuttavia che F. fosse tornato definitivamente a Siena, e dal 1490 iniziò per lui un periodo nuovo di scambi e di attività, con progetti e consulenze in tutta Italia. Su istanza di Giangaleazzo Sforza, nel giugno del 1490 si recò a Milano, ospite in casa di Giovanni Antonio da Gessate, per la preparazione del progetto per il tiburio del duomo con G.A. Amadeo e G.G. Dolcebuono, e nello stesso mese fu a Pavia con Leonardo da Vinci per consulenze su quel duomo in costruzione. Il viaggio fu di grande rilievo per gli scambi avvenuti con gli architetti milanesi, oltre che con Bramante e Leonardo. Tornato a Siena nel luglio, nell'agosto era nuovamente a Urbino e nel novembre era presso Virginio Orsini per disegni di rocche a Campagnano e Bracciano. Ancora nell'anno, passando per Bologna, andò forse a Venezia, da dove dovette tornare almeno nel gennaio 1491 per partecipare al concorso voluto da Lorenzo il Magnifico per la facciata del duomo di Firenze. Della primavera del 1491 è inoltre il primo viaggio documentato a Napoli presso Alfonso duca di Calabria di F., che vi tornò dal giugno al novembre del 1492, fino a quando Siena lo reclamò per i suoi lavori ai bottini e al completamento della diga sul Bruna e probabilmente per l'intero anno 1495 e forse anche nel 1497. A Napoli F. progettò innanzitutto il nuovo circuito difensivo esterno di Castel Nuovo, poligonale e con torrioni ai vertici, iniziato nel 1494 e portato avanti dal suo aiuto Antonio Marchesi da Settignano, già attivo con il padre nella rocca di Pesaro. Probabilmente lavorò anche alle nuove mura occidentali della città e alla nuova fortezza di Castel Sant'Elmo. Prese parte anche a ispezioni nel Regno, e sono probabilmente legate a suoi disegni le rocche di Otranto, Gallipoli, Taranto e l'aggiornamento di quella di Monte Sant'Angelo. Ancora a lui e ai suoi disegni possono legarsi le fortificazioni di Gaeta, Manfredonia, Brindisi, Massafra, Matera, Ortona, Vasto, Castrovillari, Crotone, Reggio Calabria, Rocchetta Sant'Antonio, Carovigno (Dechert, 1990). Il 27 nov. 1495 F. fece brillare la mina che determinò la caduta di Castel Nuovo, occupato dai Francesi di Carlo VIII, e la riconquista da parte degli Aragonesi, episodio ricordato come il primo impiego militare di mine.

A Siena, anche durante il periodo in cui assicurò le descritte presenze a Napoli, F. continuò la sua attività soprattutto nel campo dell'architettura militare, e già nel 1491 fu chiamato a Sesta della Berardenga e a Cerreto Ciampoli per opere di fortificazione, delle quali non resta però traccia, oltre che a Lucca, ancora per le difese della città. Nel 1493 andò a Castelluccio di Montepulciano per controllare il modello della rocca, e lavorò ancora lì nel 1496 e nel 1498 per demolire questa volta il ponte della Bastia. Sempre nel 1492 preparò anche un progetto per la nuova casa della Sapienza di Siena, di cui restano alcune piante legate al codice M. Nel 1499 fu nuovamente a Urbino, per allestire fortificazioni contro Cesare Borgia, e nel 1500 a Loreto, dove fornì indicazioni per puntellare la cupola della chiesa e forse disegni per l'acquedotto e le fortificazioni eseguite tra il 1518 e il 1521.

Sebbene nessun'altra sua architettura sembri documentata in questi ultimi anni a Siena, almeno due sono le realizzazioni architettoniche che si possono attribuire a suoi progetti, anche se terminate dalla sua scuola: S. Sebastiano in Vallepiatta e villa Chigi a Le Volte.

Il sito per costruire S. Sebastiano in Vallepiatta fu donato nel 1493, ed è verosimile che la chiesa venisse iniziata nello stesso anno su di una pianta a croce greca, con absidi estradossate su fianchi e testate, e pilastri a L sotto una cupola centrale. Tuttavia i lavori dovettero prolungarsi, visto che nel 1509 la chiesa era solo in "buono stato" e un termine dei lavori sostanziali si può ipotizzare solo per il secondo decennio del XVI secolo. Costituita da una cripta e una chiesa superiore, S. Sebastiano si rifà inequivocabilmente alle ricerche di F. su chiese ed edifici antichi con spazi confluenti a terminazione triconca e costituisce una possibile riflessione su organismi quali la certosa di Pavia, da lui conosciuta nel 1490. Pressocché contemporaneo è l'inizio della villa Chigi a Le Volte presso Siena, realizzata forse dal 1496 al di sopra di un edificio preesistente acquistato da Mariano Chigi nel 1492 e terminata intorno al 1505, che presenta una pianta ad ali aperte che sarebbe stata ripresa da Baldassarre Peruzzi nella villa di Agostino Chigi, figlio di Mariano, a Roma, a partire dallo stesso 1505. Come più tardi la villa Chigi a Roma, quella a Le Volte mostra un ampio loggiato tra le ali e uno spazio anteriore recinto da un muro più basso, quasi fosse un cortile, qui accessibile dall'ingresso principale, posto asimmetricamente su di un fianco. Il riferimento ai modelli di pianta ad U di F. è evidente.

F. morì nel 1501 nella sua proprietà di Volta a Fighille, presso San Giorgio a Papaiano, stando alle dichiarazioni della vedova, e venne sepolto a Siena, nella chiesa dell'Osservanza, il 29 novembre.

Nell'ultimo decennio F. giunse alla elaborazione di progetti e disegni che fanno capo ai suoi trattati. Essi furono dunque la sintesi conclusiva, e non la premessa della attività di Francesco. La loro diversità dal precedente del De re aedificatoria di Leon Battista Alberti fu notevole, non solo per il testo in volgare e per la presenza di illustrazioni, ma per contenuto, formazione e costruzione espositiva, dove i disegni, dettagliati e originali, sono rivolti a proporre soluzioni multiple per ogni tema, in una invenzione architettonica ricca e realistica, pronta ad essere ulteriormente elaborata sino a divenire progetto di architettura. Rimasti manoscritti, i trattati constano di più versioni pervenuteci in diversi codici, con il testo vergato da copisti e disegni almeno in parte autografi; solo la Traduzione vitruviana (Firenze, Bibl. nazionale, Magliabechiano II.I.141, parte 2) è interamente autografa ma quasi priva di illustrazioni, mentre il codice T (Torino, Bibl. reale, Saluzziano 148), presenta numerose correzioni autografe di Francesco. Da qui la necessità di datarne le diverse versioni e di comprenderne la formazione, sviluppatasi in un processo continuo di copie e nuove versioni corrette nel testo e nelle illustrazioni. Dopo l'edizione del Promis (1841) e la discussione del Salmi (1947), resta fondamentale l'edizione del Maltese (1967), che ha suddiviso i codici dei trattati direttamente dipendenti da F. in due gruppi, il primo databile tra il 1479-81 e il 1484 con l'aggiunta dell'Appendice antiquaria entro il 1486, composto dal codice L (Firenze, Bibl. Laurenziana, Ashburnham 361) e dal codice T, e il secondo, databile tra il 1485-92, composto dal codice S (Siena, Bibl. comunale, cod. S.IV.4) e dal codice M (Firenze, Bibl. nazionale, Magliabechiano II.I.141, parte 1), ponendo a separazione tra i due l'editio princeps di Vitruvio di Sulpicio da Veroli. I due gruppi rappresentano infatti versioni differenti della materia, che nel primo è più immediata e composita, con ampie elaborazioni grafiche ma con fraintendimenti del testo di Vitruvio, riportato in traduzione per parti; nel secondo meglio sistematizzata, più essenziale nelle espressioni grafiche e soprattutto priva di interpolazioni dirette da Vitruvio, alla cui rinuncia F. dovette giungere tramite l'esperienza della traduzione vitruviana autografa, intermedia tra i due gruppi anche se non necessariamente legata all'editio princeps di Sulpicio. Dei numerosi studi intervenuti, che hanno proposto di datare in anticipo o in ritardo i codici citati discutendo tra l'altro l'attribuzione delle illustrazioni, nessuno è riuscito a portare prove definitive per una diversa cronologia, mentre quasi tutti hanno almeno sostanzialmente confermato la sequenza dei due gruppi ora menzionati. Il riconoscimento come parte finale del codice L dei quattro Fogli Reggiani (Reggio Emilia, Bibl. municipale, Regg. A.46.9 bis), ha portato a un ulteriore, approfondito riesame della materia (Mussini, 1991) insieme con la constatazione (ibid.; Scaglia, 1992) che nella biblioteca dei duchi di Urbino non era conservata alcuna copia dei trattati, ma solo l'Opusculum di macchine e fortificazioni. Ciò sposta la stesura dei primi codici (L, T) al tempo del ritorno di F. a Siena, così come altre considerazioni sul contenuto e sugli esempi di architettura illustrati, tra cui soprattutto alcune piante di chiese (Tafuri, 1993), tanto che si deve considerare ancora aperto l'interrogativo se essi fossero o meno terminati dopo il viaggio di F. a Milano (1490). Se consideriamo infine gli impegni di F. successivi al 1490, la revisione e seconda versione dei trattati (S, M) pare possibile solo dopo il 1496. Quanto ai contenuti, nella prima versione dei trattati (L, T), F. parte dalle "ragioni", per lo più rappresentate dalla traduzione di brani di Vitruvio, per giungere alle proposte che vuole esplicitamente distinguere, come frutto di personale invenzione, dai modelli vitruviani e antichi. Valga ad esempio il trattato sugli edifici sacri, dove le illustrazioni ricostruttive si distaccano considerevolmente dal testo tradotto, e poco inteso, di Vitruvio. La precedenza delle "ragioni" si manifesta anche nel primo trattato dei codici L e T dedicato alle fortificazioni, libere dall'imitazione diretta dell'antico. Il trattato si apre con l'enunciazione del fine principale delle fortezze, la difesa, mentre il riferimento a Vitruvio si applica al generale antropomorfismo dell'architettura che F. deduce dal testo latino. L'affermazione nel testo "Parmi di formare la città, rocca e castello a guisa di corpo umano" (T, f. 3r) è così accompagnata dall'illustrazione di una cittadella pentagonale sovrapposta a una figura d'uomo con la rocca sul capo, i torrioni sugli arti, la chiesa sul petto, la piazza sul ventre, la porta tra le gambe. Si tratta di una evidente forzatura di quanto esposto da Vitruvio, ma di grande forza nel suscitare la comprensione e l'immaginazione del lettore e nell'evocare i valori simbolici dell'architettura. Questa impostazione sarà considerata sufficientemente aggiornata da venire rispecchiata e quasi plagiata nel capitolo dedicato all'architettura nel De divina proportione di Luca Pacioli (Venetiis 1509). La novità del trattato sulle fortezze permette di cogliere a pieno la forza e il realismo delle proposte di F., che vuole fortezze basse rispetto al piano di campagna, difese grazie al perimetro spezzato, che ne permette il fiancheggiamento mediante l'uso delle armi da fuoco, e al fosso. Questo è a sua volta difeso da cannoniere basse aperte nelle mura della fortezza e da postazioni coperte inserite nella controscarpa. F. privilegia le forme acute protese verso il nemico anche se in molti casi protette da torrioni sui vertici, e rappresenta così, insieme con la fortezza antropomorfica e con quella rombica da lui considerata perfetta, la forma del bastione pentagonale che avrebbe improntato l'architettura militare per molti secoli e della quale F. fu proclamato inventore nei primi studi ottocenteschi. Più propriamente impiegata da lui nei rivellini e nei baluardi avanzati, essa si può dire una razionalizzazione geometrica di esperimenti già realizzati in embrione nelle rocche malatestiane, nella rocca di Fano o di Cesena (1465-76) di Matteo Nuti. Ma soprattutto è presente l'affermazione della necessità di adattarsi alle condizioni del sito e delle possibilità difensive fruendo talora di circuiti concentrici e di difese avanzate e distaccate (Pepper - Huges, 1978). Nuove mura dalla pianta poligonale cingono anche la città di F., centrica e ottagonale, con una piazza di figura omologa al circuito esterno in cui le porte si aprono al centro dei lati o ai vertici. A questa figura vengono però affiancate figure alternative, e particolarmente interessanti, per città in collina e soprattutto in pianura, sul mare o su un fiume, dal tessuto interno a maglia ortogonale precorritore di sviluppi cinquecenteschi ma al tempo stesso probabilmente riferito alle città di nuova fondazione di tradizione medievale. Alle città si affianca poi la trattazione di argini, ponti e dighe, opere infrastrutturali che si riallacciano alla natura delle mura che, seguendo le nuove concezioni difensive, determinano la forma urbana con maggiore rigidezza delle precedenti. Sarebbe tuttavia sbagliato considerare l'architettura militare preminente, con le macchine, nella produzione di F., poiché anche l'ordine della materia muta nella seconda versione dei trattati (S, M) che riprendono l'ampio panorama sull'architettura religiosa e civile. Qui l'esteso uso del paragone antropomorfico, da alcuni giudicato addirittura parossistico, viene ridimensionato e vitruvianamente ricondotto al tema del tempio e degli ordini architettonici. Dopo il trattato generale e introduttivo, il codice M affronta subito il tema della casa, questa volta dalla casa in campagna a quella in città e da quella destinata all'artigiano a quella principesca. Manca la casa del re, e anche questo farebbe pensare a una elaborazione senza più committenti reali, quali gli Aragona di Napoli. Nonostante ciò le proposte sono di grande complessità e articolazione, con i caratteristici schemi ad U e a corpi circolari contenuti all'interno di piante quadrilatere spesso ottenute attraverso un gioco di ribaltamenti geometrici, mentre spariscono solo le piante centriche riferibili all'anfiteatro antico. Il riferimento alla casa antica si fa tuttavia più forte che nella prima versione, sia perché F. intuisce il collegamento tra l'atrio e il cortile o cavedio vitruviano, anche se non comprende che essi sono sinonimi (Pellecchia, 1992), sia perché colloca "sale" e "salotti" anche al piano terreno, in soluzioni per sua stessa ammissione non comuni di case o palazzi a un solo piano. Né è da escludere che a questo risultato abbia condotto anche il suo incontro a Napoli nel 1492 con fra Giocondo, che nel 1511 avrebbe editato la prima versione illustrata del testo di Vitruvio. F. si sofferma qui anche sulle stalle per trecento cavalli da lui costruite in connessione con il palazzo di Urbino. Il trattato sui templi presenta a sua volta notevoli innovazioni rispetto alla versione precedente, illustrando solo due interessanti schemi: uno a pianta centrale e uno a pianta longitudinale con transetto e cupola più larga della navata centrale, su colonne (M, f. 42rv). Il trattato dedicato nel codice M alle fortezze è il quinto, e con esso si apre la seconda parte di questa versione dei trattati, relativa all'architettura militare e alla machinatio. Dopo essersi soffermato sulle macchine antiche, F. passa subito a trattare delle bombarde e, dopo una appassionata lode di Federico d'Urbino, all'esame delle parti delle fortezze e degli esempi, assai numerosi, tra i quali sono quelle da lui costruite nel Montefeltro. La trattazione delle macchine idrauliche, di sollevamento e trasporto che conclude il codice M fu forse stimolata anche da considerazioni successive all'incontro e agli scambi a Milano e Pavia nel 1490 con Leonardo, che avrebbe a sua volta studiato e annotato i trattati di Francesco.

Benché qualificato come "pictore senese" nei libri contabili del tesoro napoletano, in data 31 maggio 1480, F. dovette la sua fortuna e la sua fama piuttosto all'attività di "ingiegniere et architetto". La scarsa valutazione dell'attività di pittore, in particolare, ma anche di scultore di F. si può far risalire al Vasari che nella Vita a lui dedicata a proposito della pala dell'Incoronazione scriveva: "Pitture di maniera secca e alquanto crudetta, si risentono di quelli stessi difetti che abbiamo notato nelle sue sculture…". Questo giudizio ha trovato una continuità nei successivi biografi e storici dell'arte: da Baldinucci a Milizia a Lanzi, fino a tutto l'Ottocento. Soltanto all'inizio del Novecento s'incominciò ad apprezzare la modernità della sua pittura a partire dalla Storia dell'arte italiana di Adolfo Venturi.

La prima testimonianza sulla sua attività artistica in collaborazione con Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta, dalla maggior parte della critica considerato il suo maestro, risale al 1460 quando F. è menzionato come "dipentore", con il Vecchietta e con Benvenuto di Giovanni, per un pagamento da parte dell'Opera del duomo di Siena.

L'esordio come scultore risale al 1464 quando F. eseguì la straordinaria statua lignea policroma del S. Giovanni per la Compagnia di S. Giovanni Battista della Morte come documenta il pagamento di 12 lire (26 nov. 1464). L'identificazione della scultura, oggi al Museo dell'Opera del duomo di Siena è stata confermata definitivamente dal ritrovamento, dopo il restauro, del simbolo della Compagnia di S. Giovanni Battista della Morte, un piccolo teschio, sulla base della statua. Il S. Giovanni, debitore del più ascetico precedente di Donatello nel duomo di Siena (1457), s'inserisce nella tradizione di questa tipologia scultorea essenzialmente devozionale, rivelando una potenza nell'impianto della figura, come nella gestualità e nell'espressione, che non rimarrà senza eco nella produzione artistica contemporanea e subito successiva, come dimostra il Cristo risorto eseguito dal Vecchietta pochi anni dopo (1476: Siena, spedale di S. Maria della Scala, chiesa dell'Annunziata).

La successiva attività di F. in un ruolo di artista a pieno titolo è documentata fra il 1470 e il 1471 per la chiesa dello spedale di S. Maria della Scala e riguarda sia la decorazione dei lacunari del soffitto, in collaborazione con il pittore Lotto di Domenico di Lotto, sia una pittura, probabilmente ad affresco; questa doveva rappresentare la Incoronazione della Vergine, eseguita da F. per la cappella absidale, andata distrutta nel 1732. Per la stessa chiesa F. doveva aver eseguito anche una scultura lignea. Il 25 ott. 1470 è documentato un pagamento di 2 lire da parte del camerario della Biccherna di Siena per la carta del Monte Vasone. Pochi anni prima, intorno al 1467, F. aveva eseguito la "tavoletta di biccherna" (cioè la copertina del registro amministrativo), dove è raffigurata la città di Siena al tempo del terremoto del 1466 racchiusa entro mura rosse e sorvolata dalla Vergine circondata da angeli (Milanesi, 1854).

Dell'inizio del 1471 è la notizia dell'incursione di F., con altri laici e religiosi, nel fortilizio di San Leonardo a Lecceto, presso Siena, per la quale egli pagò una multa di 25 lire.

A partire dalla primavera del 1472 F. ricevette incarichi dai frati di Monteoliveto Maggiore, da porre probabilmente in relazione alla tavola della Incoronazione della Vergine (Siena, Pinacoteca nazionale).

Eseguita per la cappella dedicata a S. Caterina da Siena e a S. Sebastiano nella chiesa di Monteoliveto Maggiore, la cui costruzione è documentata fra il 1470 e il 1472, la pala dell'Incoronazione, di notevoli dimensioni, dipinta a tempera su tavola, presenta una struttura compositiva verticale, su tre piani sovrapposti. Il modello di Maso Finiguerra nel niello dallo stesso soggetto e composizione del Museo del Bargello a Firenze (1425-55), diffuso attraverso zolfi e stampe, è stato per la prima volta a ragione indicato da Pope-Hennessy (1950). Al modello fiorentino sono informati in particolare i due santi dedicatari posti in basso al centro inginocchiati: S. Caterina e S. Sebastiano. Gli altri santi nei gruppi a destra e a sinistra della composizione centrale sono identificabili dai loro attributi o dalle loro caratteristiche fisionomiche. Sul terzo livello, accanto all'Incoronazione della Vergine, David e S. Giovanni Battista stanno a rappresentare l'origine della stirpe e il precursore di Cristo. Una serie di angeli, soggetto caro a F., si librano all'interno della composizione e si affollano in alto, a costituire una sorta di barriera di chiusura della composizione. Ma la corte angelica sta anche a sottolineare la dimensione empirea rappresentata dalla straordinaria invenzione compositiva dell'artista giocata su elementi circolari. Il dipinto è stato interpretato come una sorta di allegoria filosofica del sistema astronomico tolemaico medievale sulla scorta del pensiero di Dante (Convivio, II, 3). La sequenza delle sette sfere planetarie, dalla Luna a Saturno, è completata dallo zodiaco e dal primo mobile rappresentato dal Padreterno come motore dell'Universo, scorciato e quasi schiacciato fra i cerchi in movimento secondo una soluzione compositiva già anticipata dal Dio Padre, probabilmente frammento di una pala attribuita ancora a F. che si conserva a Washington (National Gallery, Kress Foundation). Infine il ruolo simbolico che viene assunto dal gruppo di Maria e Cristo nella scena dell'Incoronazione, fra dimensione umana e dimensione divina, viene ribadito nella traduzione in termini laici e scientifici dello schema compositivo che F. riproporrà nel disegno di Brunswick, datato fra il 1470 e il 1475. Qui un tormentato Atlante posto al centro dell'emisfero terrestre sorregge con fatica e sofferenza la sfera celeste, in una posizione di mediazione fra le due dimensioni terrestre e celeste.

A F. erano state attribuite le tavolette con le Storie di s. Benedetto (Firenze, Uffizi), già identificate con i tre pannelli di predella per l'Incoronazione della Vergine. La loro definitiva attribuzione a Neroccio di Bartolomeo ci rimanda a quel sodalizio stipulato fra i due artisti, di cui si ha notizia in occasione della sua risoluzione in data 6 luglio 1476. In queste tavole il gusto per le architetture pittoricamente sottolineato attraverso un ornato che trovava interessanti realizzazioni proprio nell'area artistico culturale fra la Toscana, l'Umbria e le Marche, si rivela vicino al maestro senese. Proprio alla sua attività artigianale come pittore di cassoni si può far risalire la sua prima sperimentazione di architetto disegnatore, prima di quella di ingegnere progettista.

Esemplare in questo senso è quella produzione che si può collocare negli anni dell'apprendistato nella bottega del Vecchietta intorno al 1460. L'intervento di F. è leggibile nelle architetture dipinte e nell'ornamento architettonico che attraverso l'uso di colori contrastanti, peraltro di tradizione senese, rendono pittoriche le prime sperimentazioni di spazi prospettici. L'impianto scenico-prospettico della Predica di s. Bernardino a Liverpool (Walker Art Gallery) sembra infatti anticipare gli spazi della città ideale urbinate, mentre l'affollamento delle figure, nel ricreare un contesto cortese tipicamente trecentesco, è debitore sia alla tradizione del Vecchietta sia alla pittura fiorentina del primo Quattrocento. L'ipotesi che questo pannello facesse parte della predella di una pala del Vecchietta per l'altare di S. Bernardino in S. Francesco è interessante come testimonianza di un'attività della bottega del maestro senese insieme con i due giovani praticanti F. e Benvenuto, menzionati insieme con Pietro di Lorenzo nel citato documento del 1460. Alla tavola di Liverpool, che a ragione si può inserire nell'attività giovanile dell'artista, si possono accostare le tavolette della Pinacoteca senese che dovevano far parte di fronti di cassone: i due pannelli con le storie di Giuseppe (Giuseppe venduto dai fratelli e Giuseppe tentato dalla moglie di Putifarre) e quello con Susanna e i vecchioni, datati fra il 1460 e il 1463, dove le architetture, che costituiscono la scena nella quale si svolgono le storie narrate, sono arricchite da quei motivi ornamentali di ghirlande e festoni squisitamente antiquariali resi ancora con una pittura di gusto tardogotico soprattutto nell'uso dei colori contrastanti - tipici del compagno di bottega Benvenuto di Giovanni - funzionali però a una resa tridimensionale architettonico-prospettica. Allo stesso momento di ricerca di F. è da ricondurre il pannello con l'episodio della Punizione di Psiche (Firenze, coll. Berenson), già identificato con il Ratto di Elena, che si distingue sia per le decorazioni all'antica sia per gli elementi prospettici che ornano le corpose architetture sia per le figure panneggiate in frenetico movimento, anticipatrici delle più decise immagini che caratterizzeranno i più tardi rilievi bronzei. Fondamentale per tale dinamismo delle immagini sarà il contributo di Liberale da Verona e di Gerolamo da Cremona. L'attività di F., quasi sperimentale nella produzione pittorica fino agli anni Settanta, costituisce un ricettacolo di questa congerie di componenti che evidentemente avevano trovato a Siena un fertile territorio, come rivelano le miniature a lui attribuite del frontespizio del codice miniato De animalibus di Alberto Magno, appartenuto ad Alessandro da Sermoneta (Siena, convento dell'Osservanza, Museo Aurelio Castelli), databile al 1463.

Un più preciso rigore filologico proprio di F. caratterizza la tavoletta di gabella, dove è rappresentata la consacrazione a cardinale di Francesco Piccolomini Todeschini da parte di Pio II, che si conserva all'Archivio di Stato di Siena. La tavoletta, già attribuita al Vecchietta, presenta nella decorazione del fregio che corre intorno alla saletta, prospetticamente costruita, una sequenza di figurette all'antica, di chiaro sapore archeologico, derivate probabilmente da modelli classici poste in sequenza ma prive di un chiaro legame narrativo.

Fra le opere più significative degli anni Sessanta e Settanta è la tavola dell'Annunciazione nella Pinacoteca di Siena.

All'interno di un impianto architettonico F. ha inserito a fatica le due figure dell'angelo e della Madonna annunciata, dai volti piuttosto attoniti, in uno spazio dove le soluzioni prospettiche del leggio e del pavimento diventano espressioni di quello "spirito di irrazionale fantasia" che ha portato Bellosi (F. di G. e il Rinascimento…, 1993) a introdurre la figura del "Fiduciario di Francesco", esecutore più debole di invenzioni e disegni del capobottega F. intorno al 1470, come hanno rivelato le riflettografie. Ma sono proprio gli elementi contrastanti che convivono in quest'opera a dare il senso della ricerca di F. che non accoglie la tradizione classico-archeologica tout court ma la elabora anche faticosamente alla luce della propria tradizione alla quale non vuole rinunciare, ma sulla quale innesta gli elementi innovativi per una trasformazione più personale che guarda con interesse alla impostazione tutta umanistica di Leon Battista Alberti, rielaborando così la concezione di base della recezione delle architetture classiche del suo maestro.

Le incerte ed embrionali sperimentazioni che caratterizzano le sue opere giovanili, fra le quali si può porre anche il pannello con l'Incontro fra Didone ed Enea (Portland, Art Museum), dove le architetture fantastiche, sebbene tipologicamente avvicinabili ad alcuni disegni del trattato sui Ponti, sono esemplificative di una resa pittorica in termini sostanzialmente diversi dal suo linguaggio architettonico, determinarono fino a una certa data il giudizio negativo formulato sulla sua attività di pittore, in quanto non rispondente a un unitario sviluppo stilistico all'interno di una tradizione senese né a un'autonoma affermazione delle forme ispirate a un puro classicismo.

Frutto di collaborazione e di lavoro di bottega sono da considerare anche la serie dei piccoli pannelli con Madonna e Bambino, come quelli del Boston Museum of fine arts, della coll. Thyssen-Bornemisza, del Fogg Art Museum di Cambridge, MA, o della Pinacoteca di Siena, che nel loro intimismo rivelano una funzione devozionale privata e un tradizionalismo d'impostazione nella resa stilistica, sulla scorta di quella produzione artistica che da Sano di Pietro, passando per il Vecchietta, arriva a Neroccio Landi, mentre più discutibile è la presenza dei modelli di Donatello. Fra le tavole sopracitate si distingue quella con l'angelo su uno sfondo naturale (Siena, Pinacoteca nazionale) dall'impianto più volumetrico, rispetto al lirismo tutto senese degli esempi precedenti, ma anche della Natività di Washington (National Gallery of art), dove il modello miniaturistico dell'antifonario di Chiusi (Museo della Cattedrale, B., f. 3), riproposto nella tavoletta di Atlanta (Art Association Galleries, Kress Foundation), viene riletto alla luce di una più arida visione degli elementi naturalistici in uno sfondo paesaggistico di indiscutibile derivazione da Alesso Baldovinetti. Un gusto più pierfrancescano si può riscontrare anche nella positura e nel ruolo quasi laico dell'angelo sulla sinistra, forse di mano di Neroccio Landi. Perso ogni atteggiamento astrattamente stereotipato, la Madonna, che risale piuttosto a una matrice fiorentina assorbita da F. in occasione del suo viaggio a Firenze nel 1463-64, con lo sguardo pensoso, adagia consapevolmente il figlio sul manto funebre. La tavoletta è vicina alla grande tavola della Natività con i ss. Bernardo e Tommaso d'Aquino e due angeli (Siena, Pinacoteca nazionale), avvolta da una grave atmosfera di morte per il colore nero della veste della Madonna e dell'angelo e per gli sguardi malinconici del s. Giuseppe e dell'angelo.

La pala, commissionata dai frati del convento olivetano di S. Benedetto fuori Porta Tufi (Monteoliveto Minore), è l'unica opera sicuramente dell'artista per la presenza del suo nome nel cartiglio che emerge dal libro, in terra sulla sinistra del dipinto. Il dipinto rivela un'evoluzione di alcune figure secondo la maniera fiorentina, sebbene il volto di s. Giuseppe costituisca quasi una firma dell'artista in rapporto soprattutto al S. Giovanni ligneo; una nota di padanità si coglie nelle figure dei due angeli e soprattutto nel brullo paesaggio tagliente, costellato di torri e cittadine arroccate sui poggi, già di tradizione senese, mentre una città ideale si adagia intorno a una sorta di laghetto sulla sinistra. L'accostamento fra la capanna naturale e il tempietto all'antica in rovina, nel rispondere ad esigenze allegoriche legate alla nascita di Cristo, che segna il passaggio dall'antico al nuovo testamento ma anche la vittoria della cristianità sull'età pagana, è un'occasione di esercitazione stilistica sui temi dell'architettura antica che F. avrà occasione di studiare e riproporre nei suoi disegni.

La sua matrice disegnativa nello studio dello spazio architettonico trovò piena realizzazione nella resa delle tarsie lignee: dallo studiolo di Urbino, a quello di Gubbio, alle tarsie delle porte del palazzo ducale di Urbino e alla tavoletta di Berlino, le cui raffigurazioni prospettiche di città ideali che sconfinano in una superficie marina hanno un preciso riscontro in alcuni passi del suo trattato dedicato ai Ponti e forme di ponti. Anche lo studio del panneggio all'antica, nel quale F. si era già cimentato negli anni Sessanta a Siena, fornisce una ulteriore prova della sua presenza come disegnatore a Urbino nelle tarsie delle porte con le Arti liberali, come conferma anche la figura della Castità di Pasadena (Norton Simon Foundation). In rapporto a tale gusto antiquariale si fonda anche l'attribuzione a F. di alcuni disegni per il pavimento del duomo di Siena.

Su tale base disegnativa e pittorica sono di conseguenza costruiti i bassorilievi in gesso e in bronzo che caratterizzano, accanto alla sua attività più propriamente di ingegnere, il periodo urbinate dell'artista.

Documenti della sua prima attività di artista di corte a Urbino sono il rilievo della Deposizione (Venezia, S. Maria del Carmine), destinato all'oratorio della S. Croce, e le medaglie dove è ritratto il duca Federico (Berlino, Staatliche Museen; Londra, Victoria and Albert Museum e Rosenheim Collection).

Il caratteristico ritratto del duca si staglia inconfondibilmente anche nella scena della Deposizione, accanto alla croce, ai piedi della quale si individua l'erede Guidubaldo in giovanissima età, per cui la datazione del rilievo si può collocare fra il 1475 e il 1477 quando F. prese servizio alla corte del duca. Il rilievo in bronzo risulta quanto mai debitore al Compianto di Donatello del Victoria and Albert Museum di Londra, ma anche direttamente ispirato ai modelli antichi, soprattutto per la figura della Maddalena in veste di menade al centro della composizione. F. aveva dunque compiuto la sua lenta emancipazione nei riguardi della classicità, vissuta prima secondo un'interpretazione ancora tardogotica, poi attraverso i modelli contemporanei, da Donatello ad A. Federighi, e poi finalmente nella diretta acquisizione del modello classico reinterpretato alla luce di una ideale astrazione piuttosto che come studio preparatorio delle sue architetture. Se nelle figure degli angeli accanto alla croce si nota ancora una resa nervosamente pittorica e stilizzata, nella figura di menade al centro della composizione si realizza pienamente il linguaggio classico che F. riesce a rendere in modo quasi filologico senza un'interpretazione attualizzante. L'attribuzione a F. della medaglia che ritrae Federico da Montefeltro sul recto e Bellerofonte con la chimera sul verso (Londra, British Museum) si basa sulla precisione del profilo del duca derivato dal bronzo della Deposizione. Ma volendo seguire un percorso stilistico evolutivo dell'artista dovremo soffermarci sul rilievo del Giudizio di Paride (Washington, National Gallery of art), attribuito a F. oramai concordemente, dove il panneggio mosso all'antica produce un effetto di chiaroscuro più pittorico e vibrante che spaziale. La composizione da leggere da destra a sinistra, sembra una ripresa in termini classicisti del pannello di cassone dello stesso soggetto (Malibu, CA, Paul Getty Centre), già attribuito a Francesco. La figura di Paride, che come giudice assume la classica positura all'antica, rimanda a Erode nel rilievo della Flagellazione di Perugia, mentre Venere, Minerva e Giunone, per il panneggio mosso e per i capelli ondeggianti, si avvicinano alle figure femminili della Deposizione.

Ancora alla luce di una lettura classicista da parte dell'artista si pongono i due stucchi, conservati a Siena nel palazzo Chigi-Saracini e a Londra nel Victoria and Albert Museum, il cui soggetto è stato identificato da Panofsky (1924) con l'episodio di Licurgo, re dei Traci. I due stucchi, ricavati probabilmente da un perduto modello in cera forse per una fusione, introducono, insieme con le figure all'antica, un'ambientazione architettonica organizzata simmetricamente secondo una direttrice centrale che viene chiusa da una parete con aperture di portali centinati. Il riferimento al Convito di Erode (Siena, Battistero) di Donatello sembra evidente nelle idealizzate architetture all'antica e rinascimentali che assumono la funzione di spazi percorsi da figure per lo più nude in un dinamismo motivato da una rappresentazione mitologica.

Una completa assimilazione del linguaggio classico informa il rilievo bronzeo con la Flagellazione della Galleria nazionale dell'Umbria a Perugia.

Alla fine degli anni Ottanta è datato il bronzo con il S. Gerolamo (Washington, National Gallery of art), attribuito non concordemente a F., in cui il plasticismo e il naturalismo del paesaggio roccioso sono particolarmente accentuati. Allo stesso periodo urbinate sono stati riferiti i quattro tondi bronzei con figure di santi conservati fra Washington (National Gallery of art), Vaduz (Sammlung des Fürsten von Liechtenstein) e Berlino (Staatliche Museen). Ritenuti pezzi di un'unica composizione, i quattro tondi possono essere attribuiti a F. in virtù di richiami stilistici ad altre sue opere, come il S. Giovanni Battista del Museo dell'Opera del duomo e il s. Giuseppe della Natività di Siena per il S. Gerolamo di Berlino, il S. Gerolamo di Washington (National Gallery of art) per il S. Antonio abate di Vaduz e la Flagellazione di Perugia per il S. Sebastiano di Washington (F. di G. e il Rinascimento…, 1993, pp. 200 s.); ma tali richiami stilistici non giocano a favore di una composizione unitaria dei quattro tondi, né sembra significativa la posizione dei santi per un'ipotesi di ricostruzione.

Fra il 4 apr. 1479 e il 2 giugno 1480 F. in qualità di pittore ricevette una serie di pagamenti dalla tesoreria aragonese per lavori di rilievo e di rappresentazione grafica, sebbene il primo viaggio documentato a Napoli risalga solo alla primavera del 1491. In data 10 luglio 1489 è documentato un pagamento per i due Angeli reggicandelabro commissionati a Francesco.

Collocati insieme con gli altri due Angeli di Giovanni di Stefano accanto all'altare maggiore del duomo di Siena, le due sculture sviluppano ulteriormente la matrice artistica senese insieme con la componente classicista derivata da Donatello. La perfezione della fattura artigianale si deve a Giacomo Cozzarelli, collaboratore di F. in numerose opere scultoree.

Fra le ultime sculture di F., il S. Cristoforo oggi al Louvre segna un'ulteriore evoluzione all'interno di un percorso tradizionale della scultura lignea affrontata dall'artista fin dal S. Giovanni della Compagnia della Morte a Siena. La statua doveva inserirsi all'interno di una pala dipinta, opera del Signorelli, realizzata per la cappella di S. Cristoforo, nella chiesa di S. Agostino a Siena, e commissionata da Antonio Bichi il 15 ott. 1487. Nonostante la mancanza di documenti specifici circa l'autografia del S. Cristoforo, la continuità col S. Giovanni Battista e la vicinanza stilistica e cronologica agli Angeli bronzei, avallata dalla documentazione sulla cappella Bichi (1488-1493), non lasciano dubbi sull'attribuzione dell'opera a F. che avrebbe eseguito la scultura intorno al 1490. La cappella, andata distrutta in un incendio nel 1747, venne ricostruita all'interno in forme neoclassiche da Luigi Vanvitelli nel 1755. Solo recentemente sono emersi sotto la ristrutturazione e lo scialbo settecentesco parte degli affreschi dell'originaria decorazione quattrocentesca da attribuire a Luca Signorelli e a F. con l'aiuto di Pietro di Francesco Orioli. I due affreschi, ai quali sono stati riferiti due disegni preparatori che si conservano alla Kunsthalle di Amburgo, attribuiti a F. insieme con i candelabri figurati sugli stipiti dell'ingresso, sono a monocromo con tracce di lumeggiature dorate e di azzurrite e rappresentano la Natività della Vergine e la Natività di Cristo. Se la cultura toscano-fiorentina si fa sentire sensibilmente attraverso la lezione del Ghirlandaio, una minore intensità sia nella composizione sia nell'espressione dei personaggi di entrambi gli affreschi rimanda a un lavoro di bottega che di quando in quando ha fedelmente ripreso alcune figure del maestro. Ancora una collaborazione fra F. e il Signorelli si può cogliere nella cappella di S. Brizio nel duomo di Orvieto dove l'architettura rinascimentale nella lunetta con la scena dell'Anticristo è stata recentemente attribuita a F. (Marchetti, 1996).

Durante l'ultimo decennio del Quattrocento più intensi si fecero i viaggi di F.: l'attività a Siena risente di questi continui spostamenti e della sua dedizione ad attività diverse, per lo più tecniche e di consulenza; si apre quindi per la sua ultima produzione pittorica il complesso problema della sua bottega, dell'intervento dei collaboratori e dunque dell'autografia delle opere.

Attribuita dalla critica recente alla bottega di F. è la tavola con Scipione l'Africano del Museo nazionale del Bargello di Firenze, parte della serie degli Uomini illustri di casa Piccolomini attualmente sparsi in diversi musei del mondo. La serie, composta di sei figure fra eroi ed eroine, è attribuita alla bottega di F. e al Maestro di Griselda e fu eseguita intorno al 1492 probabilmente in occasione del matrimonio di Silvio Bartolomeo dei Piccolomini di Stiacciano, pronipote di Pio II, con Battista di Neri d'Aldello Placidi celebrato il 18 genn. 1493.

Alla bottega di F. e in particolare alla mano di Pietro di Francesco Orioli sembra potersi riferire la tavola con la Spoliazione di Cristo ora nella Pinacoteca nazionale di Siena, proveniente probabilmente dalla basilica dell'Osservanza.

A F. e aiuti, tra cui Bernardino Fungai, va probabilmente attribuita la pala centrale con la Natività nella cappella Tancredi della chiesa di S. Domenico a Siena. I personaggi appaiono debitori tanto al linearismo di Filippino Lippi quanto alla cultura umbra fra Signorelli e Pinturicchio. Architetture fantastiche all'antica sugli sfondi rimandano al Vecchietta. La mancanza però di riferimenti nella pala alla lunetta come ai soggetti della predella, cui essa è attualmente unita, ha fatto supporre una estraneità della Natività rispetto all'altare della cappella Tancredi, dove il dipinto sarebbe stato collocato successivamente.

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