FRANCESCO da Montepulciano

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 49 (1997)

FRANCESCO da Montepulciano (Bellarmino Francesco, Piendibeni Francesco)

Paolo Viti

Nacque a Montepulciano da ser Iacopo di ser Piendibene intorno alla metà del sec. XIV, forse nel 1353 se dobbiamo credere a una lapide sepolcrale nel duomo della città natale che gli attribuiva ottanta anni al momento della morte. La sua famiglia era originaria di Borgo San Sepolcro e aveva assunto il cognome Piendibeni dal nome del nonno di F.; per successive aggregazioni matrimoniali è nota anche col cognome Bellarmino.

Dopo una prima educazione acquisita probabilmente a Montepulciano, F. dovette passare a Bologna per studiare diritto, ma anche poesia: pur in mancanza di precisi riscontri documentari sembra ormai certo che, proprio a Bologna, egli seguisse i corsi di un allievo diretto di Francesco Petrarca, Pietro da Moglio, come si deduce da una sua annotazione autografa apposta su un manoscritto ciceroniano, ora Vat. lat. 1694, risalente al 10 marzo 1371. Da Bologna F. si trasferì nel dicembre 1381, come coadiutore nella Cancelleria, a Perugia: doveva quindi avere già ultimato gli studi di diritto e quelli notarili; fin dal 1384 fu "abbreviator scripturarum" nella Cancelleria di quel Comune. E in questo ufficio lavorò a lungo (non si sa se continuativamente o con qualche interruzione), finché nel 1393 (nel giugno di quest'anno è attestato fra i rogatari della pace tra opposte fazioni e qualificato "della fazione dei Raspanti") fu promosso cancelliere del Comune con un breve di papa Bonifacio IX. F. subentrava così a ser Ludovico Tommasoni da Rieti, illustre cancelliere perugino (che a sua volta sarebbe poi a lui succeduto quando F., anni dopo, passò a Roma).

A Perugia, però, F. non limitò la sua attività alla Cancelleria, ma si dedicò con notevole impegno a coltivare i suoi interessi letterari e poetici, seguendo, ad esempio, le lezioni di un precettore locale, Niccolò Nuccoli. Risale a questi anni perugini una lettera a F. di Francesco da Fiano (i due dovevano conoscersi dai tempi di Bologna), in cui lo scrivente si scusava per non poter accettare un insegnamento di retorica e poetica a Perugia.

Nel luglio 1396 il papa Bonifacio IX chiamò a Roma F., che iniziò a lavorare nella Curia papale come segretario apostolico. È citato in due brevi pontifici del 1397, indirizzati alla Signoria di Perugia: il papa chiede che sia inviato a Roma per il disbrigo di alcune pratiche, per cui non è dato sapere se, a quel momento, F. fosse ancora a Perugia nonostante la nomina romana dell'anno precedente, oppure, più probabilmente, fosse tornato in quella città e quindi il papa ne sollecitasse il rientro a Roma. Comunque, in occasione dei tumulti che nel corso del 1398 sconvolsero la vita politica e istituzionale perugina, su disposizione dello stesso pontefice, F. si trovava un'altra volta a Perugia per contribuire alla pacificazione della città.

Mentre era a Perugia, fin dal 1389, F. aveva preparato il suo testamento, facendolo poi autenticare l'anno successivo, caratterizzato da molte e minute disposizioni che riguardavano anche i suoi libri. Dal testo si deduce inoltre che F. si era sposato con una certa Maddalena e aveva dei figli: Maddalena, Marco, Bartolomeo e Caterina.

In anni successivi dovette avvenire la nomina di F. ad arciprete di Montepulciano, segno che si era indirizzato alla vita ecclesiastica, dopo quella passata nell'esercizio del cancellierato e della pratica notarile. Ma le notizie che si hanno su di lui relativamente agli anni terminali del Trecento e a quelli iniziali del Quattrocento sono piuttosto ridotte e del tutto frammentarie, al punto da impedire una fedele ricostruzione cronologica delle sue vicende personali.

F. era, comunque, attivo nella Curia pontificia nei primi anni del Quattrocento, soprattutto quando, con papa Innocenzo VII (1404-1406), arrivarono a Roma non pochi cultori di studia humanitatis, che all'impegno nella Cancelleria apostolica unirono un'ancor più fondamentale presenza nell'ambito letterario: Francesco da Fiano, Iacopo Angeli da Scarperia, Pier Paolo Vergerio, Leonardo Bruni, Antonio Loschi. Fra questi intellettuali provenienti da città ed esperienze diverse, ma tutti destinati a incidere fortemente sia all'interno della Curia pontificia sia, più in generale, nella stessa cultura quattrocentesca - a partire da quella romana, che proprio durante il pur breve pontificato di Innocenzo VII vide la rifondazione dello Studium Urbis - anche F. ebbe un ruolo non secondario che continuò sotto i pontefici che si succedettero a Innocenzo VII in anni di particolare turbolenza e inquietudine.

Di una certa rilevanza fu il rapporto di F. con Coluccio Salutati, anch'egli culturalmente collegato con Pietro da Moglio e con i suoi migliori discepoli: oltre a F., Giovanni Conversini e Francesco da Fiano. L'amicizia fra F. e il Salutati dovette essere di una certa intensità, stando alle superstiti testimonianze epistolari, peraltro tutte del Salutati.

Il 6 ag. 1398 questi da Firenze raccomandava a F., già impiegato nella Curia romana, il figlio Piero, che aveva accettato il canonicato appartenuto a Ottaviano Orlandini, defunto all'inizio del luglio precedente: il Salutati chiede a F. di darsi da fare affinché la prebenda non venga attribuita ad altri, ma possa essere confermata al figlio (che poi, però, sarebbe morto per peste, giovanissimo, il 31 maggio 1400). Più rilevante appare la lettera del Salutati a F. del 9 febbr. 1404: è un caloroso ringraziamento per l'aiuto offerto da F. per facilitare la nomina di Poggio Bracciolini a segretario apostolico. La notizia era stata appena comunicata al Salutati dallo stesso Poggio (in una lettera poi perduta) e gli aveva procurato una grande gioia; ora il Salutati, oltre a esprimere la sua riconoscenza all'amico, si mostra fiducioso che Poggio potrà trovare in F. un importante punto di riferimento e di guida in un ambiente per lui nuovo e sconosciuto. Di F. il Salutati parla anche in una lettera al Bracciolini, collocabile alla metà di febbraio della stesso 1404, quindi appena successiva alla sua nomina, per ribadire il ruolo avuto a favore dello stesso Bracciolini; tesse quindi l'elogio di F. e si augura che il suo "nomen in gloria et eternitate sit".

Non trascurabile, per comprendere sia il grado di amicizia del Salutati con F., sia la posizione di quest'ultimo nella Curia romana, è un'altra lettera del Salutati del 24 febbr. 1404 (stile fiorentino: 1403). Egli si rivolge direttamente al suo interlocutore dopo che la Signoria fiorentina aveva scritto allo stesso F. chiedendogli di adoperarsi affinché il domenicano Giovanni Dominici, lettore di Sacre Scritture nello Studio e grande predicatore, potesse rimanere a Firenze anziché recarsi a Bologna come gli era stato richiesto dai suoi superiori (Arch. di Stato di Firenze, Signori. Missive 27, c. 30r). A titolo personale il Salutati rinnovava ora la richiesta all'amico, al quale raccomandava pure un frate servita, Pietro da Firenze, che si trovava in precarie condizioni economiche.

La vita romana di F. ebbe un radicale cambiamento quando il papa Giovanni XXIII, con una bolla emessa da Lodi il 22 dic. 1413, lo nominò vescovo di Arezzo, dopo aver annullato l'elezione vescovile fatta dal capitolo di quella cattedrale pochi giorni prima a favore del fiorentino Giuliano de' Ricci. Quale vescovo di Arezzo F. partecipò poi al concilio di Costanza, come risulta dai relativi atti, da cui si ricava anche che, nella primavera del 1415, fu estensore di alcune bolle.

Sembra che F. andasse ad Arezzo non prima del 1419-20, quindi solo dopo la morte del papa che lo aveva elevato a quella diocesi. Nel 1424 F. si recò in visita pastorale nelle parrocchie del Casentino; ma non tutte furono da lui raggiunte, né è sicuro che la visita pastorale sia stata estesa a tutta la diocesi.

Trovò parrocchie in precarie, o addirittura pessime, condizioni: alcune chiese erano prive di parroco, altre del Ss. Sacramento, altre dell'acqua battesimale; non poche erano in assoluta rovina e abbandono, mentre fino dal 1414, cioè poco dopo la sua nomina vescovile, F. era stato autorizzato dall'imperatore Sigismondo di Lussemburgo a recuperare i beni della Chiesa aretina risultanti alienati o variamente dispersi.

Forse anche a causa della situazione della diocesi, F. preferì risiedere non tanto ad Arezzo quanto nella sua stessa casa di Montepulciano che (fino al 1476), faceva comunque parte della diocesi di Arezzo. Le assenze del vescovo provocarono in più di un'occasione le rimostranze della Signoria fiorentina, che aveva sempre considerato quella di Arezzo come un'importante sede episcopale dal punto di vista strategico e territoriale. Così, ad esempio, già nel 1426 si registra un primo intervento compiuto presso il papa perché obbligasse F. a risiedere ad Arezzo; mentre, nel 1429, in una lettera indirizzata allo stesso vescovo, senza mezzi termini i governanti fiorentini, per tramite del cancelliere Leonardo Bruni, contestavano esplicitamente a F. il nocivo perdurare delle sue assenze dalla città (Arch. di Stato di Firenze, Signori. Missive 32, c. 69v).

Non sono noti gli esiti di queste ripetute istanze, ma non dovettero essere molto positivi se, ad esempio, nel 1431, il capitolo della cattedrale di Arezzo, ritenuto morto il vescovo, procedette all'elezione di un suo successore, Mico Capponi, che però non ebbe seguito. F., invece, era vivo e, evidentemente, continuava a stare fuori di Arezzo; e già in un'altra circostanza si era diffusa la notizia della sua morte. Probabilmente dopo una serie di malattie, alla fine di ottobre del 1433, all'età di circa ottanta anni, morì e fu sepolto a Montepulciano.

Più che alla sua attività pastorale come vescovo di Arezzo il nome di F. è legato al suo impegno letterario, per lo più sviluppatosi negli anni in cui era a Perugia. Sicuramente almeno tre manoscritti (ora nella Bibl. apost. Vaticana) sono riconducibili alla sua biblioteca. Si tratta del codice Vat. lat. 1694, contenente, fra l'altro, il De inventione di Cicerone e la Rhetorica ad Herennium, nel quale il 10 marzo 1371 F. annotò la conclusione del commento ciceroniano di Pietro da Moglio; del codice Vat. lat. 2940, contenente la Genealogia deorum gentilium di Giovanni Boccaccio, postillata da F.; del codice Pal. lat. 1729, contenente il Bucolicum carmen di Francesco Petrarca col commento autografo di F., la Monarchia di Dante e quindi le nove epistole dello stesso Dante: sette delle quali risultano trasmesse solo da questo manoscritto. Non sembra, invece, suo il codice ora Laurenziano, Conv. soppr. 533, contenente le tragedie di Seneca, pure copiato a Perugia nel 1387. Autografe di F. sono, inoltre, le cc. 75r-81r facenti ora parte del codice II.IV.313 della Biblioteca nazionale di Firenze.

Tali carte di quest'ultimo codice contengono un gruppo di poesie latine di F., indirizzate o scambiate con alcuni corrispondenti, a iniziare dal maestro perugino Niccolò Nuccoli, e quindi con altri intellettuali legati a quell'ambiente: Pietro da Castiglione Aretino, maestro di grammatica a Perugia, Onofrio Ramalducci de Piro, Lippolo di ser Giovanni. Accanto alla prima di queste poesie, rivolta al Nuccoli, si trova una preziosa indicazione cronologica, che consente di collocarne la stesura all'inizio del 1390.

I primi tre componimenti sono scritti in esametri; gli altri, in forma di epistole metriche, per lo più in distici. Delle epistole, sedici sono quelle scambiate con Pietro da Castiglione Aretino, quattro con Onofrio Romalducci, due con Lippolo di ser Giovanni. Non mancano in queste composizioni specifici richiami a vicende e a fatti contemporanei, come appare evidente da due poesie inviate al Nuccoli: nella prima viene ricordata l'istituzione della lega stipulata nel 1389 fra Milano, Mantova, Bologna, Firenze e altre città toscane, cui partecipò anche Perugia, allo scopo di evitare il diffondersi delle discordie che avevano già portato al sacco di Chiusi; nella seconda è raffigurata la città di Perugia, personificata in una donna, che, ai piedi del patrono Ercolano, si rammarica per le tristi condizioni dei tempi e affida la città alla sua protezione.

Di carattere più personale e familiare appaiono le altre poesie, sia la prima indirizzata al Nuccoli (nella quale F. si rivolge all'amico e maestro perché lo aiuti nel cammino poetico intrapreso e corregga i suoi errori) sia, e ancor più, quelle scambiate con i vari corrispondenti. In particolare le elegie rivolte a Pietro da Castiglione Aretino, e quindi le sue responsive, consentono di meglio comprendere l'ambiente perugino in cui F. agiva. In una di esse, ad esempio, F. chiede all'amico di celebrare la figura di Andreasio Cavalcabò, arrivato a Perugia nell'aprile 1390 come ambasciatore di Gian Galeazzo Visconti, ma l'interlocutore non accoglie l'invito, adducendo a scusa le difficoltà di trattare l'argomento e preferendo, invece, lamentarsi a proposito di una sopraveste nera e di una spesa di 100 lire. In un'altra poesia F. si rivolge a Pietro quale suo maestro di poesia, come se questi fosse succeduto al Nuccoli. In una terza, infine, celebra le nozze dell'amico, con una vena di rammarico perché la mutata condizione familiare potrebbe impedire la continuazione dell'esercizio e dello scambio poetico. Modellate su esempi illustri - quali la corrispondenza poetica di Dante con Giovanni Del Virgilio, o analoghi scritti dello stesso Petrarca e dai suoi più stretti seguaci - le composizioni di F. si presentano come elaborate e ricercate forme di poesia, in cui convergono fonti classiche (in special modo Virgilio) e reminiscenze di autori recenti (come Dante), in piena linea con i canoni diffusi sul finire del Trecento e ancora legati a schemi chiaramente medievali.

Maggiore rilevanza ha il commento al Bucolicum carmen del Petrarca, completato, secondo una nota apposta sul manoscritto autografo, a Perugia il 20 luglio 1394. Oltre all'autografo vaticano (su cui si basa l'edizione, non completa, pubblicata nel 1906 da A. Avena), il commento di F. è tramandato da una decina di manoscritti, fra cui particolarmente autorevoli sono il Laurenziano 90 inf. 12, il Vat. lat. 1679, il Marciano lat. XII, 18 e il Rossi 369 della Bibl. Corsiniana di Roma. Con quest'opera F. si pone nella scia dei commentatori del Petrarca che tanto contribuirono a diffonderne la conoscenza presso i lettori di fine Trecento e oltre, collegandosi idealmente con Francesco da Fiano e con Donato degli Albazani, mentre diretta ed esplicita appare l'influenza di Benvenuto da Imola, primo commentatore del Petrarca.

Per ciascuna delle dodici egloghe del Bucolicum carmen - non tutte presentate e illustrate con omogeneità di struttura e di soluzioni esegetiche - F. inizia il suo commento dando una spiegazione del titolo della singola poesia, e quindi dello scopo essenziale che con essa il Petrarca si proponeva di raggiungere. Di tutte la più significativa appare l'introduzione all'egloga I, dove F. accenna al problema della vita attiva e della vita contemplativa, e quindi al ruolo della poesia, in piena adesione alle norme petrarchesche, ormai patrimonio comune dei suoi epigoni. Si tratta, comunque, di un motivo discusso senza particolare originalità rispetto a fonti autorevoli e diffuse, e che trova poi un ulteriore, rapido riscontro nella successiva introduzione all'egloga III, e quindi in quella all'egloga X. Ma commentando quest'ultima, che è fondamentale nella riflessione del Petrarca sulla poesia e sul suo sviluppo storico, contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, F. si limita a dare informazioni ridotte e scarsamente utili ai fini di una esegesi più critica e circostanziata, come invece sarebbe stato possibile; né prende in considerazione lo sviluppo complessivo del carme, così come aveva fatto, ad esempio, Benvenuto da Imola.

L'attenzione di F. si rivolge soprattutto a questioni di carattere geografico e topografico, a temi e vicende di storia e di mitologia, senza trascurare riferimenti a personaggi e a situazioni bibliche e quindi a suggestioni allegoriche. Sono, in generale, annotazioni rapide ed essenziali, talora non prive di incisività e di precisione specie quando il commentatore cerca di inquadrare il Petrarca nello spirito e nell'ideologia del suo tempo. Un loro interesse hanno, ad esempio, le osservazioni sulla critica e sulla condanna più volte espressa dal Petrarca nei confronti dei vizi della Curia papale e quindi delle turbolenze che avevano contraddistinto, a Roma come ad Avignone, la vita della corte pontificia.

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