Crispi, Francesco

Dizionario di Storia (2010)

Crispi, Francesco


Politico (Ribera, Agrigento, 1818-Napoli 1901). Nato da una famiglia Arbėreshė (cioè degli albanesi d’Italia), figlio di un commerciante di grano, studiò giurisprudenza all’univ. di Palermo e si laureò nel 1843. Nel 1845 si trasferì a Napoli per esercitare l’avvocatura; nella capitale continentale del regno ebbe contatti con elementi liberali, e nel periodo precedente al 1848 fece da tramite fra costoro e i patrioti della Sicilia. Scoppiata la rivoluzione a Palermo (genn. 1848), fu membro del Comitato di guerra e poi deputato alla Camera dei comuni nelle file dell’opposizione repubblicana, che appoggiò anche nel suo giornale L’Apostolato. Fallita la rivoluzione (1849), andò in esilio in Piemonte, dove si dedicò agli studi e al giornalismo. Espulso dal Piemonte dopo i moti milanesi (1853), si recò a Malta, dove fondò un altro giornale, La Staffetta, e intraprese lavori storici (Dei diritti della corona d’Inghilterra sulla Chiesa di Malta, 1855), tenendosi in corrispondenza con G. Mazzini e R. Pilo. Espulso dall’isola, si spostò a Londra, poi a Parigi, finché la reazione succeduta all’attentato di F. Orsini (1858) contro Napoleone III non lo costrinse a lasciare anche la Francia. In questi anni, intanto, i suoi intensi contatti con gli esuli di parte democratica e con Mazzini lo spinsero ad abbandonare l’autonomismo siciliano a favore della soluzione unitaria; ma nel 1859, mentre prendeva posizione con Mazzini contro la guerra regia, si recò a Palermo per organizzare l’insurrezione siciliana (lug.-ag.), e l’anno successivo fu determinante nell’indurre Garibaldi alla spedizione di Sicilia (1860). C. ne fu, in certo modo, il cervello politico, sia per la sua attività di amministratore, sia per la parte che svolse nello sforzo di rinviare l’annessione finché non fossero state liberate anche Roma e Venezia. E per queste sue posizioni il partito moderato lo contrastò violentemente. Proclamata l’unità, C. fu eletto deputato (1861) nelle file della sinistra, ma aderì alla monarchia, essendo ormai persuaso che fosse garanzia di unità per la nazione, e si distaccò da Mazzini (1865). Continuò tuttavia a combattere i governi della destra sui giornali e in Parlamento. Alla caduta della destra (1876) assunse la presidenza della Camera; l’anno successivo un suo incontro con O. von Bismarck determinò l’impegno dell’Italia in senso antifrancese. Ministro degli Interni dal 1877, fu però costretto a dimettersi nel 1878 in seguito all’accusa di bigamia. Tornò al ministero degli Interni nel 1887 con A. Depretis, al quale succedette il 29 luglio dello stesso anno come presidente del Consiglio. Assertore di una politica «forte» all’interno e all’estero, C. fu strenuo sostenitore della Triplice alleanza e deciso avversario della Francia, promotore dell’espansione coloniale (con il Trattato di Uccialli, del 1889, sperò di sottoporre l’Etiopia al protettorato italiano), e di leggi fondamentali per l’amministrazione interna. Si dimise nel 1891, ma tornò al governo nel 1893, reprimendo con durezza i moti popolari (Fasci siciliani, moti in Lunigiana, 1893-94). In questi anni molti guardarono a C. come all’uomo più indicato per risollevare il prestigio dell’Italia all’estero e l’ordine politico ed economico-finanziario all’interno. Ma nel momento più alto del consenso al politico siciliano doveva mostrarsi anche la precarietà delle basi di quel consenso. Lo scandalo della Banca romana sembrò inizialmente risparmiare C. e schiacciare definitivamente il suo grande avversario, G. Giolitti. L’avanzata italiana in Africa procedeva bene e generava grandi entusiasmi nel Paese. Ancora all’inizio del 1895, dopo che Giolitti aveva consegnato al presidente della Camera un «plico» con documenti a carico di C. sullo scandalo bancario romano, questi poteva festeggiare il matrimonio della figlia con il principe Bonanno di Linguaglossa. Il «plico» sullo scandalo della Banca romana, tuttavia, pur non contenendo fatti nuovi e di grande rilevanza, spinse F. Cavallotti, che sedeva nella commissione parlamentare che esaminò i documenti, a scatenare una violenta campagna contro il presidente del Consiglio. Egli scrisse una «lettera agli elettori», agitando la «questione morale» contro C., che raccolse molte adesioni e altri «scandali» vennero alla luce. Fu però sul terreno della politica coloniale che si determinò la crisi decisiva. La politica nello Scioa, regione centrale dell’Etiopia, fallì definitivamente. L’avanzata italiana nel Tigré, che aveva portato all’occupazione di Adua, Axum e Adigrat e alla penetrazione, nell’ott. 1895, fino all’Amba Alagi, provocò per reazione l’alleanza tra il ras tigrino Mangascià e il negus Menelik. La controffensiva etiopica cominciò nello stesso mese; un forte esercito mosse dallo Scioa alla riconquista del Tigré. Il negus poteva contare sull’appoggio internazionale di Francia e Russia, mentre l’Italia era isolata. Il 7 dic. l’esercito abissino sconfisse gli italiani all’Amba Alagi e il 21 genn. 1896 costrinse alla resa il forte di Macallé. Il 1° marzo, ad Adua, le colonne italiane furono annientate dall’esercito etiope. Le conseguenze politiche e psicologiche della sconfitta furono enormi e i fatti di Adua restarono impressi nella coscienza degli italiani per molti anni a venire. Il 5 marzo C. rassegnò le dimissioni e uscì definitivamente di scena. Il fascismo volle vedere nella sua idea di governo forte all’interno e nella determinazione colonialista l’anticipazione di alcuni dei propri motivi.

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