COPPOLA, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 28 (1983)

COPPOLA, Francesco

Franca Petrucci

Di famiglia originaria di Scala nell'Amallitano, nacque probabilmente nel terzo decennio del sec. XV, da Luise, mercante. Citato per la prima volta nel 1469 negli atti di una causa fra due arrendatori, dall'anno dopo lo si trova associato al padre in varie attività commerciali.

Certamente una delle prime merci in cui trafficò fu il grano, il cui commercio non abbandonò mai: nel 1470 infatti gli furono sequestrati prima 24 tomoli di grano, che stava trasportando a Gaeta e che gli furono successivamente restituiti, poi altri 140, anch'essi destinati a Gaeta e anch'essi restituitigli. Un altro genere del cui commercio il C. si occupò sempre fu il ferro: nel gennaio dello stesso anno egli vendeva all'arrendatore delle dogane del ferro in Terra d'Otranto e Basilicata, Bernardo Materdona, 150 cantari di ferro. Nel medesimo anno svolgeva le funzioni di arrendatore delle tratte di Terra di Lavoro e di mastro portolano nella stessa regione; inoltre, con il padre e almeno fino al 1476, fu arrendatore della dogana del sale di Napoli. Per la sua attività il C. aveva frequenti controversie con doganieri e gabellieri. La Camera della Sommaria dovette intervenire per dirimere il contrasto fra lui e i doganieri di Castellammare al Volturno per il transito di generi alimentari da lui trasportati da Capua e Gaeta, quello con i gabellieri di Castellammare di Stabia per grano e altri generi alimentari condotti dal C. a Napoli e quello con i doganieri di Eboli per ragioni analoghe. Il 18 nov. 1472 la Sommaria gli fece restituire quanto gli era stato fatto indebitamente versare dal percettore dei diritti di Quartuccio di Gaeta. Nel 1476 la stessa Camera ingiunse ai doganieri di Trani e di Bari di rendere al C. e al padre i diritti percepiti per una certa quantità di ferro, acciaio e vomeri condotti in Basilicata da Venezia. Un'altra volta però dette contro di lui ragione agli abitanti di Procida. Oltre al ferro e alle granaglie il C. e il padre commerciavano anche in altri generi alimentari, come vino e olio. Essi erano per questo i maggiori fornitori della corte, che però non acquistava soltanto, ma vendeva loro grano e orzo; dal 1470 al 1472 padre e figlio fornirono alla corte 14.46 tomoli di frumento e 10.376 tomoli d'orzo.

In quanto al ferro nel 1476 il C. fu nominato sodio del padre quale arrendatore della gabella del ferro per Terra d'Otranto e Basilicata. Nel novembre o dicembre del 1475 ottenne da Ferdinando d'Aragona, insieme al padre, la concessione di sfruttamento delle miniere d'oro e di piombo di Longobucco in Calabria. Il re li esentò dal pagamento di ogni dazio, sia per il materiale introdotto nel paese, sia per i minerali estratti e inviati a Napoli. Sempre insieme con il padre ebbe dal sovrano il permesso di erigere a Napoli una o più fabbriche di sapone: in seguito però, nell'inventario dei suoi beni, non compaiono saponifici. Si occupò inoltre di arte vetraria o almeno delle materie prime a questa necessarie. Con ogni probabilità prima del 1482 era attiva a Samo una sua cartiera, che riforniva la Sommaria. Nella medesima cittadina il C. possedeva una fabbrica di stoffe di seta e di lana, da cui uscivano drappi finissimi e ricamati e in cui aveva chiamato a lavorare operai specializzati provenienti anche da lontane contrade. Anche per le stoffe il C. era uno dei maggiori fornitori della corte, ma non si sa quale quantità di quelle fornite uscisse dalla sua fabbrica e quale egli importasse.

Man mano che il C. estendeva i suoi interessi, passando da un'attività puramente commerciale anche a una industriale, si trovò a sopravanzare il padre, più limitato imprenditore, in ricchezza in vastità di interessi: il C. sembra impersonare l'ideale del suddito mercante e industriale descritto da Diomede Carafa nel Memoriale sui doveri del principe (in T. Persico, D. Carafa, Napoli 1899, pp. 261-296), protetto dal sovrano nell'esercizio della mercanzia, nell'impianto di fabbriche di stoffe, nella creazione di una flotta commerciale, specialmente favorita da Ferdinando. Il C. infatti possedeva una flotta imponente, andatasi accrescendo con l'ampliarsi della sua attività: le sue navi e le sue merci arrivavano in quasi tutto il mondo conosciuto. L'aiuto del re, che si può più intuire che provare, non gli mancò; infatti il 14 luglio 1482 il sovrano gli concesse di scambiare quattro o cinque ancore con altrettante della marina regia, più pesanti, pagando la differenza di peso a prezzo di costo. Quando nella primavera del 1480 Ferdinando inviò aiuti ai cavalieri gerosolimitani, assediati a Rodi dai Turchi, fu il C. che forni alle navi regie 10.000 tomoli di grano, 200 cantari di salnitro, 300 di zolfo e 100 di carbone, 5.000 di biscotto e 1.000 "coraze". Nel luglio del medesimo anno, com'è noto, l'attacco turco investì con successo Otranto ed ebbe inizio la guerra che va sotto il nome di questa città. Il C. non solo ebbe ordine dal re di fornire di tutto il necessario l'esercito e di costruire cinquanta scafi di galere, ma mise a disposizione del sovrano almeno una galera, una galeazza e una nave che gli appartenevano. Anche durante la successiva guerra di Ferrara sovvenne il re offrendogli addirittura, nell'aprile, del 1481 una flotta di venti galere, una galeazza, quindici navi e dieci "barze", che poi fornì nel giugno dell'anno successivo, provocando l'abbandono di Gallipoli da parte dei Veneziani.

I rapporti dei C. con il re erano, come si è accennato, molteplici e complessi; per un periodo imprecisato però essi divennero non soltanto quelli intercorrenti fra un fornitore, sia pure fuori della norma per quantità e varietà di merci vendute, e un cliente, anch'esso di genere particolare, ma quelli fra veri e propri soci. Il sovrano mise nella società anche denaro e inoltre fornì tutte le agevolazioni - anche a volte contro l'interesse dei sudditi - che la sua posizione gli permetteva. Il C. dette la sua opera, la sua iniziativa, mise a disposizione la macchina della sua impresa, che era già di buone proporzioni, ma che da questa singolare forma di collaborazione assunse un incremento enorme. Che la società con il re abbia giovato al C. è indubbio, ma perché il sovrano sia stato indotto a fondarla è meno chiaro. Certo la cosa era disapprovata dal suo fedele consigliere Diomede Carafa, che nel Memoriale già citato stigmatizza i signori che si dedicano al commercio, a scapito, il Carafa non ha dubbi, della generalità dei loro sudditi. Lo prova anche il fatto che nessuno poteva vendere le sue merci prima che il C., socio del re, avesse venduto le sue e nessuno acquistare prima di lui, a parte i danni che venivano all'erario e alle Comunità. Come si è detto, non si sa quando la società ebbe inizio, né quando, né perché terminò. Diffidenza del re forse per la potenza smisurata cui era pervenuto il socio o anche prevalere dei consigli di coloro che disapprovavano la cosa.

Intanto il C. aveva ottenuto cariche, titoli e aveva acquistato beni.

Era (dal 1479) doganiere del maggiore fondaco della dogana di Napoli; dal 1481 doganiere di Gaeta e mastro portolano in Puglia e in Terra di Lavoro; capitano e governatore a vita di Ischia (ottobre 1481), ove aveva delle miniere di allume; governatore, castellano e capitano di Castellamare di Stabia, di cui comprò per 10.000 ducati anche la dogana e gabella, su cui già godeva una rendita di 1.000 carlini d'argento; mastro portolano di tutto il Regno dal 1484. Nel 1483, fra il febbraio e il settembre, fu creato conte di Sarno, dove aveva un castello, la cartiera e la fabbrica di stoffe e dov'erano concentrati molti suoi interessi territoriali; dal 1481 aveva Martina; da Bernardino Caracciolo nel giugno del 1480 aveva acquistato il casale di Parete; da Caterina Ratta nell'agosto del medesimo anno comperò i casali di Ducenta, Melizzano e Frasso. Ebbe inoltre il casale di Cucumoli, quello di Marigno; poderi e casali nelle campagne di Aversa, Nocera e Torre del Greco, i paesi di Ottaviano, Monteforte e Montefredane. Un poema latino, che sembra risalire al periodo della massima potenza del C., probabile opera di Antonio Calcidio (edito da G. De Blasiis, Un poema latino inedito, in Arch. stor. per le prov. napol., VIII[1883], pp. 378 ss.), che illustra ed esalta le sue attività, gli attribuisce anche il possesso di un'isola, che fu creduta Ponza o Ischia e che probabilmente non è né l'una né l'altra.

Quando il 3 nov. 1484 il duca di Calabria, reduce dalla guerra contro Venezia, fece il suo minaccioso ingresso a Napoli il C. fu uno dei personaggi che facevano parte del corteo. Si possono fare soltanto ipotesi sulle cause che indussero il C. ad aderire alla congiura dei baroni contro Ferdinando d'Aragona.

Certamente è intuibile da questa decisione soprattutto sfiducia nutrita dal C. nei confronti del re. Mancanza di fiducia cioè nella sua protezione, di cui peraltro aveva fino ad allora avuto tante prove, mancanza di fiducia che il sovrano potesse in seguito continuare a elargirgli la sua benevolenza; desiderio forse di accostarsi ai nobili, che egli sì aveva sovvenuto con prestiti (almeno il duca di Gravina, Alberico Carafa, il barone di Palmarice, il conte d'Ugento), ma che non lo avevano mai considerato uno di loro.

Qualunque sia stata la molla che mosse il C., egli partecipò ai primi convegni dei congiurati e a Materdomini si incontrò con il principe di Salerno, con il quale si accordò per un altro abboccamento da tenersi a Salerno senza destare i sospetti del re. Infatti il C. ottenne che lo stesso sovrano lo inviasse dal Sanseverino per sondarne le intenzioni. A questo punto il C. era ormai legato ad unum velle et ad unum nolle con i baroni ribelli ed era stato anche stabilito il compenso per il suo tradimento: il contado di Nola, Ischia e Castellammare di Stabia; inoltre il papa gli avrebbe restituito quanto gli doveva il re; egli a sua volta si impegnava a fornire alla causa una grossa somma di denari. Continuò così il pericoloso doppio giuoco del C., che contrariamente ai ribelli rimaneva accanto al sovrano. La sua doppiezza però in questo periodo non si spingeva fino a fornire aiuti a Ferdinando. Questi tuttavia doveva ancora nutrire in lui piena fiducia, se lo inviò insieme con Antonello Petrucci a svolgere in Puglia con i baroni ribelli le trattative, che sfociarono nel settembre del 1485 nel patto di Miglionico. Com'è noto, l'accordo non cambiò l'atteggiamento dei baroni nei confronti del sovrano; mutarono invece da allora i rapporti del C. con Ferdinando, non più improntati a fiducia.

Un episodio che dovette far nascere i primi sospetti, se già non erano sorti, nel sovrano nei confronti dei C., accadde nel dicembre del 1485, mentre il papa accoglieva l'invito dei ribelli scendendo in guerra contro l'Aragonese. I baroni avevano inviato a Roma un messaggero, Bentivoglio Bentivogli, il quale rischiò di essere intercettato da una nave del re. Il C., temendo che l'inviato, cadendo nelle mani del sovrano, rivelasse la sua partecipazione alla congiura, con la scusa di dover pagare i marinai, si portò a Procida su una nave, chiamata dei Cappello, e di Il ordinò che gli fossero portati dalla sua casa a Napoli denari e gioielli. Per indurlo a tornare dopo la sua inutile fuga - il Bentivogli infatti non fu catturato - il re gli inviò Diomede Carafa prima e fra' Francesco d'Aragona poi , il quale ottenne che il C. riguadagnasse Napoli. Forse già animato dall'intenzione di vendicarsi o dalla speranza di recuperare all'obbedienza l'importante suddito, Ferdinando, che non poteva ormai non nutrire sospetti sulla fedeltà dei C., dissimulò la sua diffidenza.

Intanto i rapporti del C. con i baroni ribelli divenivano difficili, anche se non si dissociò affatto da loro. Tuttavia egli si ritirò a Samo e continuò le opere per rafforzarla; ricominciò anche a sovvenzionare il re, fornendogli più di 18.000 ducati dal marzo al giugno 1486 e quasi altrettanti in luglio. Il sovrano da parte sua nei primi mesi del 1486 gli vendette il contado di Nicastro e quello di Cariati, confiscato al principe di Bisignano - quest'ultimo con patto di restituzione - e il 27 maggio lo creò ammiraglio del Regno, al posto di Antonello Sanseverino, affidandogli così uno dei sette grandi uffici; inoltre gli concesse la mano della nipote Maria Piccolomini d'Aragona, figlia del duca di Amalfi, per il figlio primogenito Marco. Il matrimonio doveva celebrarsi a Castelnuovo il 13 agosto, quando era stata appena firmata la pace fra il papa e l'Aragonese. Il C., i figli Marco e Filippo, gli invitati si recarono nel castello sfarzosamente addobbato e mentre erapo Il convenuti furono per la massima parte arrestati. Il C. fu gettato nella "fossa dei miglio".

Il re, riuniti gli ambasciatori delle altre potenze, cercò di giustificare il suo modo di procedere. A proposito del C. il sovrano, secondo quanto scrisse Giovanni Lanfredini ai Dieci di Balia, illustrò i "modi e rubamenti et alterezza sua et lui solo suto causa et principale instrumento quando i baroni erono qui di commuoverli alla novità et rubellione fatta"; accusò inoltre il C. di essere stato disonesto nel maneggiare il denaro regio e mostrò scritture compromettenti di sua mano.

Cinque giorni dopo la cattura del C. il re iniziava a rastrellarne i beni. L'operazione, vasta e complessa, si protrasse ben oltre l'inizio del processo, il 20 agosto. Questo, contro il C., Antonello Petrucci e due figli di quest'ultimo, fu istruito da quattro giudici. Furono escussi trentacinque testimoni, tutti a carico, e i quattro imputati si dichiararono tutti colpevoli. La sentenza, scontata, fu di perdita di tutti i titoli e uffici e della vita. Presente alla lettura della sentenza il C. non disse parola, mentre gli altri si appellarono alla clemenza del re.

L'11 maggio 1487 fu eretto un catafalco nella cittadella di Castelnuovo e vi furono condotti il C. e Antonello Petrucci, i cui figli erano già stati giustiziati. Prima fu decapitato il segretario, quindi il Coppola.

Prima di morire pare ottenesse di vedere i figli, Filippo e Marco, avuti dalla moglie, premortagli, Elisabetta de' Liguori, ai quali donò un uffiziolo e una catena d'oro. Fu seppellito nella sua cappella nella chiesa di S. Agostino. Il re, che come si è visto aveva iniziato le operazioni per impadronirsi dei beni del C. molto prima che fosse pronunciata la sentenza, non aveva ancora finito, la sua opera. A Samo aveva recuperato 147 carri di artiglierie e 10 d'oro; lì e nel palazzo di Napoli a Porta Nuova (donato dal re alla Signoria di Firenze il 9 ott. 1486) oro, armi, stoffe, denari; beni immobili e proprietà terriere in tutto il Regno; oro, denari, merci, crediti anche a Roma, Firenze, Genova, Piombino, Siena, Rodi. Si disse che il C. confessò il suo tradimento "senza nulla tortura", ma a detta dell'oratore estense, fu invece torturato perché rivelasse dove custodiva denari.

Il C., di cui T. Caracciolo tracciò un ritratto nel suo De varietate fortunae (Opuscoli storici, in Rer. Ital. Script., 2 ediz., XXII, 1, a cura di G. Paladino, pp. 96 s.), fu certo un notevolissimo imprenditore di grande spicco per la storia economica del Regno, che le circostanze storiche e probabilmente l'isolamento in cui lo avevano posto la potenza e la ricchezza raggiunte portarono a rendersi colpevole dei crimini contestatigli. Ciononostante il giudizio storico che si dà di lui viene indirettamente quasi a essere mitigato dalla determinazione posta da Ferdinando (che cercò di spostare l'attenzione dei contemporanei sui reati del C. e sulla correttezza del suo operato facendo pubblicare gli atti del processo del C. e dei Petrucci da F. del Tuppo nel 1487) non tanto e non solo nel distruggere la persona del C., quanto nello smantellare l'impero economico da lui creato, dimostrando che la colpa più grave del conte di Sarno fu quella di essere - nella debolezza di una potenza solo economica - troppo ricco e potente.

Fonti e Bibl.: Notar Giacomo, Cronica di Napoli, a cura di P. Garzilli, Napoli 1845, pp. 147, 150 s., 154, 158 s., 161, 163; Regis Ferdinandi primi instructionum liber, a cura di L. Volpicella, Napoli 1916, ad Indicem; Regesto della Cancell. aragonese, a cura di I. Mazzoleni, Napoli 1951, ad Indicem;C. Porzio, La congiura de' baroni, a cura di E. Ponticri, Napoli 1955 (ma per l'ediz. dei Processi v. l'ediz. a cura di S. D'Aloe, Napoli 1859); L. Volpicella, Confisca e vendita dei beni di.. F. C...., in Arch. stor. per le prov. napol., XV (1890), pp. 647-50; E. Gothein, IlRinascimento nell'Italia merid., Firenze 1915, ad Indicem;G. Paladino, Un episodio della congiura dei baroni..., in Arch. stor. per le prov. napol., n. s., IV (1918), pp. 45 ss., 52, 54, 221 ss., 225, 236-39, 241 s.;E. Perito, La congiura dei baroni..., Bari 1926, pp. 8, 13, 15 s., 18, 25 ss., I. Schiappoli, Ilconte di Sarno, in Arch. stor. per le prov. napol., n. s., XXII (1936), pp. 15-115 (con ulteriore bibl.); Id., La marina degli Aragonesi di Napoli, ibid., XXVII (1941), pp. 7 ss., 12, 20, 22; T. De Marinis, La biblioteca dei re d'Aragona, II, Milano 1947, pp. 21, 40; E. Pontieri; La "guerra dei baroni", in Arch. stor. per le prov. napol., s. 3, IX (1970), pp. 284, 292 s., 328 s.;X (1971), pp. 127, 166, 171 s., 174.

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