CARRARA, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 20 (1977)

CARRARA, Francesco

Francesco Raco

Nacque a Ghisalba, a pochi chilometri da Bergamo, il 1º nov. 1716 dal conte Carlo e da Anna Maria Passi (Vistalli, p. 47 n. 9). Compiuti i primi studi a Bergamo, (insieme col fratello Giacomo, il futuro fondatore dell'Accademia Carrara di Bergamo), Brescia e Padova, si trasferì successivamente a Roma, dove trascorse quasi tutta la sua vita, da studente di teologia presso il collegio Ceresoli prima, all'università poi, e infine percorrendo come prelato tutte le più importanti cariche di Curia fino al cardinalato. In particolare, a Roma si scaltrì nella pratica legale, approfondendo la storia ecclesiastica e la lingua e letteratura greca. Nel 1745 venne nominato referendario delle due Segnature e, dopo aver ricoperto la mansione di uditore della nunziatura di Firenze, divenne prelato domestico di Benedetto XIV.

Nel 1749, in onore di Benedetto XIV, pronunciò in S. Pietro il discorso De apostolica Sancti Petri cathedra (Romae 1749) il quale, pur inserendosi nello schema tipico di tali orazioni - dirette a tessere le lodi del pontefice che in quel momento sedeva sul soglio di Pietro -, si distingue per alcuni nostalgici accenni al cristianesimo primitivo, verso il quale il C. nutriva una forte inclinazione e di cui trovava notevoli tracce nella dottrina, nella mansuetudine e nella severità (le tre doti che secondo s. Gregorio Magno dovrebbero costituire la divisa del buon pastore) di Benedetto XIV.

Nel 1757 il C. ricoprì due nuove cariche, quella di prelato della fabbrica di S. Pietro (che terrà fino al 1780) e quella di prelato aggiunto alla Congregazione del Concilio per la ricezione e l'esame delle relazioni che abati e ordinari danno dello stato delle loro chiese quando si recano ad limina.

In occasione della consegna dei premi ai vincitori del concorso indetto dall'Accademia di S. Luca, il C. pronunciò nel 1758 in Campidoglio l'orazione Delle lodi delle belle arti (Roma 1758), nella quale mise ancora in luce la sua predilezione per la fede schietta dei primi cristiani.

Davanti alle opere dei primi artisti cristiani - afferma il C. - "ci sembra quasi trovarci presenti alle lor mense frugali, mirare le lor semplici costumanze, e quasi dissi gustare della loro santissima compagnia; provando perciò entro dell'animo sentimenti d'umiltà e di compunzione, ed un certo generoso sdegno del vivere de' nostri tempi tanto degenerante da quella semplicissima, ed innocente età". Alla base di questo scritto non c'è alcuna nozione teorica circa una funzione autonomia dell'arte, la quale è vista semplicemente al servizio della religione nella traduzione in immagini dei suoi martiri, dei suoi riti, della sua dottrina, in maniera che i fedeli possano alimentare la loro fede. Non mancava però al C. un certo naturale buon gusto, che dimostrò più volte nel segnalare al fratello Giacomo, celebre raccoglitore d'oggetti d'arte, quadri o altre opere degne di essere acquistate per la sua collezione.

Ma le capacità più notevoli il C. le dimostrò nel campo giudiziario come uditore civile del tribunale dell'auditore di Camera nel periodo 1760-61 prima (fino al 1767 fu anche uditore della Segnatura di giustizia), e come luogotenente civile e giudice dello stesso tribunale dal 1768 al 1770 dopo, sotto Clemente XIII che per primo mise in risalto le sue doti. In tale attività si mostrò. come dice l'Ansidei, "giudice incorrotto, sprezzator degli applausi, e degli ossequj, che formano una tentazione, e una ricompensa seducentissima" (Delle lodi…, p. XX). Molti criticarono la rigorosità delle sue sentenze ma egli, refrattario al biasimo e alle lodi, non defletté dalla sua linea basata sulla fermezza dei sentimenti in coerenza con "le leggi del giusto".

Alla conclusione di questa intensa attività forense il C. ricoprì congiuntamente fino al 1780 le cariche di consultore dell'Indice, ed esaminatore dei sacri canoni, mentre nel 1775 Pio VI, che secondo il Belotti lo ebbe sempre caro per la sua vasta cultura e per la cortese e piacevole conversazione, lo nominò segretario della Congregazione del Concilio, mansione che per l'Ansidei era congeniale al C. in quanto richiedeva la perfetta conoscenza del "gius divino" e della storia ecclesiastica. Ricopriva ancora tale incarico quando nel 1779 presentò al papa una sua dissertazione su La caduta del Velino nella Nera (Roma 1779), alla cui descrizione presiede un certo rigore scientifico.

Il 14 febbr. 1785 Pio VI lo creò cardinale con il titolo di S. Girolamo degli Schiavoni e fa addetto alle congregazioni del Concilio, di Propaganda Fide, dei Vescovi e regolari, e dell'Indice.

La porpora, secondo l'Ansidei, era un onore che il C. non aveva "né impetrato con protezioni, né procurato con maneggi" (Delle lodi…, p. XXX). Contrariamente al costume dell'epoca, la modestia lo tenne lontano da ogni inutile sfarzo; unico ornamento della sua casa era qualche quadro di pregio; la sua mensa era parca e disadorna, "lasciando meglio ai poveri del Signore quegli argenti" (p. XXXI) di cui faceva a meno. Non cercò ricchezze e soccorse sempre i bisognosi: soleva dire che "come è vergogna di un Mercatante il morire fallito, così l'è di un Ecclesiastico il morire opulento" (p. XXXII).

Riconoscendo tali qualità, Pio VI lo nominò protettore dei "pubblici Spedali" di Roma, Narni, Perugia, Viterbo e Spoleto, concedendogli anche larghi mezzi finanziari per poter migliorare la loro amministrazione.

Nell'ambito della sua attività in seno alle congregazioni romane il C., uomo di intransigente ortodossia, si segnalò per il suo deciso antigiansenismo. In contatto con ecclesiastici delle diocesi di Bergamo e Brescia combatté, in particolare, i fermenti antiromani diffusi nella Repubblica di Venezia finanziando la pubblicistica filopapale e, per incitamento del vescovo bresciano mons. Giovanni Nani, fu il principale artefice della condanna delle opere di G. B. Guadagnini da parte della Congregazione dell'Indice. Fu, inoltre, tra i cardinali incaricati da Pio VI di controllare i lavori della congregazione che giudicò dal 1789 in poi gli Atti del sinodo di Pistoia.

Si spense a Roma il 26 marzo 1793 e venne sepolto nella chiesa di S. Silvestro in Capite, di cui era titolare dall'11 apr. 1791

Fonti e Bibl.: Bergamo, Arch. d. Accademia Carrara, cart. VI (carteggio del C. con il fratello Giacomo); Notizie di Roma per l'anno 1757, Roma 1757, pp. 79, 86; Notizie per l'anno 1761, Roma 1761, pp. 79, 288; Novella letterario di Firenze, n. s., II (1771), col. 628; Notizia di Roma per 1775, Roma 1775, p. 293; Notizie per l'anno bisestile 1776, Roma 1776, pp. 80, 84 s., 292; Notizie per l'anno bisestile 1784, Roma 1784, pp. 78, 81 s., 292; Notizie per l'anno 1789, Roma 1789, p. 61; G. Marini, Lettere, a cura di E. Carusi, II, Città del Vaticano 1938, pp. 257, 327; R. Ansidei, Delle lodi dell'em. e reverendissimo signor cardinale F. C., Perugia 1793; G. Carletti, Memorie istorico-critiche della chiesa e monastero di S. Silvestro in Capite, Roma 1795, p. 48; F. M. Renazzi, Storia dell'Università degli studi di Roma, Roma 1806, IV, pp. 324-26; G. Moschini, Della letter. veneziana del secolo XVIII fino a' nostri giorni, I, Venezia 1806, pp. 71, 74; G. Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinquant'anni, Appendice, Venezia 1857, pp. 188 s.; Bollettino della Civica Biblioteca di Bergamo, V (1911), 1-2, pp. 16 ss.; F. Vistalli, Il card. Cavagnis, preced. dalla introd. storica della Val Brembana, Bergamo 1913, pp. 47 s.; L. Dentella, I vesc. di Bergamo, Bergamo 1939, pp. 438-40; G. Gasperoni, Settecento ital., I, L'ab. Giovanni Cristo Amaduzzi, Padova 1941, p. 166; B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, Bergamo 1959, IV, p. 307; V, pp. 51 s., 58, 107, 110, 123, 134 s., 180, 239; G. Moroni, Dizionario di erudiz. storico-ecclesiastica, X, p. 112 e ad Indicem; R.Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica, VI, Patavii 1958, p. 35.

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