BURLAMACCHI, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 15 (1972)

BURLAMACCHI, Francesco

Michele Luzzati

Nato a Lucca nel 1498 (fu battezzato il 18 settembre nella chiesa di S. Giovanni) da Michele di Pietro e da Caterina Balbani; nulla si conosce di preciso della sua formazione ed educazione: è possibile, ma non provato, che abbia avuto su di lui una certa influenza il savonarolismo dello zio paterno fra' Pacifico. Fu comunque destinato alla mercatura; nel testamento steso il 28 apr. 1518, suo padre ricordava di avergli anticipato a questo scopo 1.000 ducati. Dopo i primi anni di esperienza mercantile all'estero, il B. sposò nel 1525 Caterina di Federico Trenta. Poco dopo il matrimonio si trasferì a Lione donde rientrò a Lucca nell'agosto del 1527. Da allora non lasciò più Lucca per ragioni mercantili, ma continuò a occuparsi degli affari della famiglia, titolare di una compagnia di arte della seta e di banco, che aveva in Lione e in Anversa le più importanti succursali. Nel 1535, insieme col fratello Stefano, si associò a un mercante avignonese per condurre su un galeone mercanzie da Marsiglia in Barberia. Nel 1538 la compagnia aveva prestato oltre 1.000 scudi alla corona di Francia. Nel 1539 è attestata l'"apotheca mercature" del B., in Lucca, in luogo detto "a Burlamacchi". Secondo lo Strieder Paolo Burlamacchi nel 1549 avrebbe agito ad Anversa in nome del cugino Vincenzo Burlamacchi e di un Francesco Burlamacchi: la notizia è inattendibile non solo perché il B. fu giustiziato nel 1548 (e nessun altro Francesco Burlamacchi risulta in vita nel 1549), ma anche perché il B. fin dal 1540 si ritirò completamente dalla mercatura; rimasto "sensa nulla", cedette ai fratelli tutta la responsabilità della conduzione degli affari e si dedicò esclusivamente al "cursus honorum", sostenuto finanziariamente da tutta la famiglia.

La morte del padre, nel 1529, fu probabilmente l'occasione esterna che spinse il B. a volgersi prevalentemente all'attività politica. Come primogenito di numerosi fratelli era naturale che egli aspirasse a seguire le orme del padre, uno dei più autorevoli esponenti del ceto dirigente lucchese.

Il ramo dei Burlamacchi cui apparteneva il B. era fra l'altro di gran lunga il più ricco e il più potente della casata: nel prestito forzoso imposto nel 1532a 150 lucchesi per un mutuo di 16.000 ducati, Iacopo e gli eredi di Michele Burlamacchi furono tassati per 344ducati, la cifra più alta dopo quella degli eredi di Benedetto Buonvisi (594)e degli eredi di Alessandro Diodati (425).I figli di Gherardo, altro zio paterno del B., furono tassati per 41 ducati; gli eredi di Tommaso di Giovanni (primo cugino di Michele) per 53ducati; Tommaso di Adriano (altro primo cugino di Michele che viveva nel palazzo di S. Alessandro) solo per 22ducati. Altri Burlamacchi non furono neppure compresi nel numero dei soggetti alla prestanza. La casata, assai vasta e politicamente affermata anche se non tutta ricchissima, aveva dunque il suo fulcro proprio nel nucleo familiare di cui il B. era destinato a diventar guida.

Dai 28 anni il B. fu membro ordinario del Consiglio; nel 1528 fu per la prima volta anziano. Nel dicembre del 1529, insieme con Girolamo del Portico fu inviato al capitano imperiale Antonio de Leyva; poco più tardi andò a trattare con Francesco Ferrucci, entrato nel territorio lucchese per chiedere viveri e armi. Nell'estate del 1530 fu inviato alla corte imperiale ad Augusta. Al momento dello scoppio del tumulto degli Straccioni, il 30 apr. 1531, il B., con Ludovico Buonvisi e Francesco Balbani, accorse immediatamente per parlamentare con gli insorti; fu poi inviato ambasciatore a Siena quando si diffuse la voce, nello stesso 1531, che Carlo V avrebbe favorito l'annessione a Firenze di Perugia, Siena e Lucca. L'anno dopo, con i fratelli, si schierò a fianco dei Buonvisi nella repressione del moto degli Straccioni. Pochi mesi più tardi, nel gennaio-febbraio 1533, conseguì il suo primo gonfalonierato; era in carica per la seconda volta come Gonfaloniere quando venne scoperta la sua congiura nell'agosto 1546.

Oltre alle cariche principali il B. ne ricoprì di minori: il 15 nov. 1527 fu eletto all'ufficio dei Sei delle entrate, il 27 nov. 1528 a quello dei Tre maestri della Zecca, il 29 nov. 1529fu eletto segretario, il 19 dic. 1531 fu chiamato a far parte dell'ufficio sulle marine, l'8 nov. 1538 fu nuovamente eletto all'ufficio dei Sei delle entrate e contemporaneamente fu chiamato a reggere la vicaria di Camaiore per il primo semestre del 1539. Il 26 nov. 1540 fu eletto all'ufficio delle fortificazioni, il 16 dic. 1541 all'ufficio preposto alle torri di Viareggio, il 16 nov. 1543 a quello sopra le munizioni da cortile, il 27 nov. 1544 all'ufficio sopra le scuole, nel 1546 fu eletto commissario delle ordinanze di Montagna.

Ebbe accesso alle numerosissime magistrature straordinarie elette per scopi particolari: fu membro aggiunto della commissione d'inchiesta sugli Straccioni nel 1532; alla fine del maggio 1536 fu dei sei cittadini incaricati di punire i giovani nobili (fra i quali era anche suo fratello Adriano) che avevano dato l'assalto a S. Frediano, i cui canonici avevano tenuto una condotta scorretta nei confronti delle monache di S. Giovannetto; il 20 maggio 1540 fu eletto con Gherardo Penitesi commissario generale a Ponte San Pietro per ricevere le truppe spagnole.

Si tratta certo d'una carriera notevole, ma non eccezionale per un cittadino che le ragioni della politica familiare - oltre che le personali inclinazioni - volevano presente a Lucca per garantire la partecipazione della casata a tutti i livelli della vita politica e amministrativa. Il fatto stesso che dopo il gonfalonierato del 1533 il B. abbia dovuto attendere più di tredici anni per conseguire nuovamente la massima carica della Repubblica (Ludovico Buonvisi, per fare un solo esempio, fu estratto gonfaloniere nel 1527, 1530, 1540, 1542 e 1547) sembra indicare che ai suoi concittadini non apparisse come un personaggio di statura politica fuori dell'ordinario. Anche la scarsa inclinazione per la mercatura e l'amore per le lettere non erano tali da conciliargli favori in una città in cui il primo e fondamentale metro di giudizio era dato dal successo commerciale. D'altronde sul suo disinteresse per la bottega e sulla sua frequentazione dei classici mancano testimonianze coeve e gli accenni in proposito riferiti, dopo la congiura, dai cronisti e soprattutto dal diario di suo cugino Gherardo Burlamacchi sono senza dubbio coloriti dal senno di poi e dal desiderio di configurare il suo "trattato" come nulla più d'una nobile follia maturata in una mente che aveva già dato qualche segno di stranezza.

Gherardo Burlamacchi narra, ad esempio, d'una sosta forzata del B. e dei suoi fratelli durante un viaggio per ragioni mercantili: l'atteggiamento del B. è contrapposto a quello dei congiunti irritati per il ritardo: "disse: vadine tutta casa Burlamacca" e "si misse a legier l'Ariosto, e che non ne levò li occhi fino alla fine". Ma, forse perché non era in fondo molto strano che a un mercante lucchese fosse familiare l'Ariosto, Gherardo sentì il bisogno di aggiungere, di seguito, ma senza alcuna relazione con l'episodio narrato, "e sempre leggieva storie romane": un particolare ben più qualificante, ma che emerge anche dai costituti del B.; proprio per questo può esser derivato dalla "leggenda" posteriore alla congiura piuttosto che dalla diretta tradizione familiare.

Più che le dubbie o mal note stravaganze ciò che va posto in risalto della biografia del B. fino al momento della scoperta della congiura sono il suo perfetto conformarsi alle regole della vita politica lucchese e l'estrema lucidità della sua condotta. La costernazione e lo stupore dei governanti lucchesi al momento della scoperta del "trattato" furono senza limiti: Lucca poteva attendersi noie da diverse parti, anche dai suoi stessi concittadini, come aveva dimostrato pochi anni prima la congiura del Fatinelli, ma che proprio dal seno dell'oligarchia dominante potesse nascere una simile minaccia aveva dell'incredibile; e non una voce si alzò a indicare nel B. un personaggio che già avesse dato adito a qualche sospetto. Non ebbe certamente torto Cosimo de' Medici a ironizzare sulla tesi lucchese della "pazzia" del B.: "Vogliono darmi a intendere che il Gonfaloniere è persona capricciosa e pazza: quanto ciò sia verisimile si vede dal luogo supremo ch'egli teneva e dall'ufficio di Commissario delle milizie". In sostanza per l'assenza o per l'incertezza delle testimonianze, la sua vera personalità, sotto le ineccepibili spoglie dell'uomo di governo, e le modalità della sua congiura, possono essere ricostruite soltanto attraverso i suoi costituti e le sue dichiarazioni posteriori all'arresto, documenti sui quali grava fin troppo evidente il sospetto della reticenza, per salvare gli eventuali congiurati e per sollevare da responsabilità la Repubblica di Lucca.

La prima idea di "mettere in libertà la Toscana, et farne poi una unione" sarebbe nata nel B. verso la fine del 1543 o, al più tardi, all'inizio del 1544. "Il desiderio suo... li era nato dall'aver letto più libri d'historie, et maxime le vite di Plutarcho; fra le quali haveva considerato la vita di quattro gran capitani che con pochissime gente havevano fatto gran cose: et questi erano Thimoleone, Pelopida, Dione et Arato". Proprio mentre a Lucca fiorivano i primi cenacoli riformati e la Curia romana minacciava i suoi fulmini per l'eccessiva indulgenza del governo, il B. sembrava aver preoccupazioni lontanissime da quelle dei suoi concittadini: o per meglio dire, se è vero che "il punto d'arrivo finale della congiura" era "la pace cristiana" (Berengo), è possibile che, posto di fronte a una vicenda particolare e limitata, il B., con l'atteggiamento tipico del sognatore politico, ne abbia trasferito la soluzione (unita la Toscana egli avrebbe chiesto a Carlo V di "riformare la Chiesa dalli molti abusi che vi sono, et ridurla all'unione di molte varietà d'opinioni") in un progetto politico di amplissima dimensione che avrebbe risolto contemporaneamente ogni altro problema. Il B. si era ben guardato naturalmente dall'offrire il destro al benché minimo sospetto d'eresia, e se nulla in realtà consente di attribuirgli qualche inclinazione per le idee della Riforma (a suo avviso sarebbe bastato che Carlo V privasse delle sue entrate la Chiesa per "contentare gli Alamanni" e ridurli "alla obedientia sua, li quali non desideravano altro"), resta il fatto che il clima di tensione religiosa diffuso in Europa ed avvertibilissimo anche in Lucca poté alimentare l'ansia di affrettare i tempi di un rinnovamento che doveva essere ai suoi occhi prima di tutto politico.

Se, come vedremo, quasi inafferrabili, al di là di qualche supposizione (ancora il Berengo sottolinea fra i motivi della congiura "l'esigenza di trasformare o di abbattere gli antichi istituti comunali per ricondurre Lucca nel piano di quel più vasto gioco politico da cui si è ritratta", p. 190), sono le radici e il disegno generale del sogno politico del B., egli si mostrava capace di un notevole realismo nel progettare l'insurrezione nel ducato di Toscana. È lo stesso B. ad affermare di aver considerato a lungo ("sei mesi se non forsi un anno") l'idea della congiura, "ogni giorno parendoli che la cosa fosse più riuscibile". Il perno di tutto il progetto stava nella possibilità di disporre di una forza militare, si trattasse anche di "pochissime gente", come gli eroi di Plutarco. Sull'interesse del B. per le milizie del contado e sulla frequenza con cui ricoprì negli ultimi anni di vita cariche di carattere militare fino al commissariato delle ordinanze di Montagna, che conseguì proprio nel 1546, l'anno della congiura, ha giustamente richiamato l'attenzione il Berengo pur ricordando, con Gherardo Burlamacchi, che il B. "non portò mai spada, né potea vedere sangue". In effetti, ciò che al B. interessa è sapere se sia tecnicamente, cioè militarmente, possibile attuare il progetto.

La scelta della prima persona cui confidare la sua idea è indicativa: Cesare di Niccolò Benedini era sì fidato perché operava come tintore nella compagnia dei Burlamacchi, ma soprattutto aveva un'esperienza militare; nel suo primo costituto il B. dice esplicitamente che Cesare "per altri tempi era stato soldato, et però li prestava qualche fede". All'esperienza libresca (Machiavelli accanto a Plutarco?) e all'esperienza diplomatica e politica (Francesco Ferrucci? Le milizie del contado che i Buonvisi diressero contro gli Straccioni? Le bande della montagna utilizzate dai poggeschi?) tenta di aggiungere, nei limiti in cui gli è possibile, quella concreta del soldato che ha realmente combattuto: "et siandone stato alcune volte insieme", anche al soldato "pareva che la cosa fosse riuscibile".

La forza militare che il B. intendeva sfruttare era quella stessa della Repubblica di Lucca, all'insaputa del governo. Egli avrebbe cercato di farsi eleggere "uno de' Commissari delle ordinanze di Montagna", e di far venire in città quella di Borgo a Mozzano (circa 1.400 uomini) per una "rassegna" insieme con l'ordinanza del Ponte a Moriano, forte di 200 uomini. Terminata la "rassegna", ritiratisi in città gli altri commissari e concentrati alla sera i soldati fuori delle mura, il B. li avrebbe poi condotti a Pontetetto, sulla strada per Pisa, "mostrando voler dare una volta... et di poi licentiarli". In realtà, fingendo l'arrivo della notizia d'un concentramento di truppe medicee al confine pisano-lucchese avrebbe poi messo in marcia i soldati verso il monte San Giuliano e avrebbe informato i capitani degli scopi reali del movimento "con dirli che questa era l'intentione della citta, acciò che l'havessono a credere". Il B. sperava di raccogliere anche altre ordinanze della zona di confine e di giungere così nel Pisano con circa 2.000 uomini.

Fin qui il progetto poteva forse svolgersi anche senza particolari complicità. Il discorso del B. diveniva invece assai meno credibile là dove egli dava a intendere di poter giungere con 2.000 uomini sotto le mura di Pisa (sette-otto chilometri dal confine, anche attraverso centri abitati) senza incontrare resistenza, senza che nulla si sapesse a Pisa e senza necessità di aiuto dalla città stessa: anzi, al consiglio di usare scale per dare l'assalto alle mura di Pisa, "esso constituto rispuose che non si poteva fare senza dimonstratione... et che era meglio andare chetamente e fingere qualche gentilhomo che andasse in posta alla porta; et pensava li sarebbe stato aperto come s'usa, et con quella pigliarla, en entrar dentro con tutto il resto della massa". In realtà il B. probabilmente puntava su una sommossa da scatenare in Pisa contemporaneamente all'arrivo dei Lucchesi: poiché accennarne avrebbe comportato la necessità di indicare i probabili complici pisani, sudditi di Cosimo, tacque, come su molti altri punti oscuri.

Una volta penetrato all'interno delle mura di Pisa il B. era certo dell'appoggio dei cittadini, ancora animati da un vivacissimo spirito antifiorentino; l'unica difficoltà sarebbe stata l'espugnazione della cittadella: il B. dichiarò che non gli pareva strettamente necessaria; ad ogni buon conto riteneva che "facilmente Vincenzo di Poggio, castellano della ditta cittadella, si sarebbe accordato con loro quando fusseno stati dentro". Precisava di non conoscere la "volontà" del castellano e di non avergli mai "parlato, né scritto, né mandato imbasciata di cosa alcuna", ma il solo nome di Vincenzo di Poggio, il grande ribelle della Repubblica di Lucca, in esilio da più di vent'anni e passato al servizio dei Medici, era sufficiente a far capire quali contropartite potesse offrirgli il B. e quali conseguenze ne sarebbero derivate sull'assetto dello stesso governo lucchese.

Conquistata Pisa e rimessala in libertà, il B. intendeva marciare con le sue truppe su Firenze, "con gridare libertà, et vedere di muovere il popolo; et succedendoli di voltare Firenze, teneva l'impresa finita, perché teneva per certo che tutte le altre città sarebbono concorse di gratia, et che la città di Lucca... fusse necessitata a concorrere".

L'attacco allo Stato fiorentino dalla parte di Pisa non era l'unico al quale il B. pensasse: "disegnava ancora in un medesimo tempo vedere di fare voltare le altre ordinanze alla volta di Pescia et di Pistoia et fare il medesimo effetto che disegnava fare verso Pisa, acciò che, intendendosi da ogni banda esser gente, si potesse più facilmente tirarla ad effetto". Con quali mezzi pensasse di far marciare altre truppe della Repubblica lucchese su Pescia e Pistoia, mentre era impegnato personalmente nell'impresa di Pisa, restava inspiegabile. Se il B. diceva il vero negando d'aver avuto complici in Lucca e fuori di Lucca (ammise soltanto d'aver preso contatto, ma senza svelare i suoi fini, con dei Senesi esuli a Lucca, con Bastiano Galeotti a Pescia, con il provveditore di Pisa, un Capponi, e con Bastiano Cellesi a Pistoia) il suo piano sembrava destinato a fallire immediatamente, prima ancora che potesse entrare in gioco quella sperata, spontanea insurrezione di popolo che sola poteva rappresentare la definitiva carta vincente.Rassicurato da Cesare Benedini sulla proponibilità del piano, il B. si accinse a cercare i collegamenti con l'unica forza che potesse realmente impegnarsi a fondo contro i Medici, gli Strozzi. E di nascosto da Cesare prese contatto con un suo ex dipendente passato al servizio del priore di Capua, Leone Strozzi, il calzaiolo Bastiano Carletti. Nel novembre 1544 il Carletti, ricevuti denari dal B., lasciò Lucca per portare allo Strozzi la certo insperata offerta d'un intervento armato nello Stato fiorentino da parte di truppe lucchesi. Fin dall'inizio del 1545 il Carletti comunicò da Parigi che il priore di Capua aveva fatto buon viso al progetto, ma soltanto nel dicembre l'inviato del B. poté rientrare a Lucca e comunicargli a voce che lo Strozzi desiderava incontrarlo non appena si fosse trovato a Venezia.

L'occasione non si presentò prima dell'aprile del 1546 e il 22, giovedì santo, il B. lasciò Lucca con un solo compagno, il servitore Bati da Pontito, "fingendo volere andare a S. Quirico di Valdriana, per veder di far fare una pace tra quelli homini con li homini di Castelvecchio: ove in vero andò, et non poté tirare la pace": una missione - sia detto per inciso - rivelatrice del credito che il B. vantava, o credeva di vantare, presso le popolazioni di quella Montagna, da cui intendeva trarre gli uomini per le sue spedizioni. Da S. Quirico, anziché tornare a Lucca, il B. proseguì per Ferrara, mostrando di voler celebrare la Pasqua con la sorella Chiara, sposata al mercante lucchese Giovambattista Lamberti. Il lunedì dopo la Pasqua, 26 aprile, il B. ripartì da Ferrara per Venezia dove giunse la sera del 27 subito accolto dal Carletti; uno o due giorni dopo ebbe luogo, di notte, l'abboccamento con lo Strozzi. Il B. espose il suo piano, che prevedeva anche "di far venire li Strozzi di qua": "quando havesse visto il tempo comodo, harebbe scritto al Priore che fussino venuti qua in poste... et uno di loro l'harebbe misso sopra le ordinanze che haveriano a andare verso Pescia, et l'altro l'harebbe ritenuto presso di sé per condurlo alla volta di Pisa". Lo Strozzi avrebbe inoltre dovuto portare "li denari seco, per poter far qualche gente alla volta di Pontremoli e di Gharfagnana".

Avute assicurazioni dallo Strozzi e rientrato a Lucca, il B. lo sollecitò invano inviandogli Cesare Benedini, ormai a parte di tutto - a mettere in esecuzione il progetto entro la fine di giugno, poiché temeva, come in effetti accadde, d'essere estratto fra i Signori per il luglio-agosto, il che avrebbe comportato l'obbligo di residenza in palazzo e l'impossibilità di preparare qualsiasi azione. Lo Strozzi gli fece rispondere che "non havendo allora denari, et non si trovando là Piero suo fratello, et ragionandosi della guerre di Alemagna non li pareva il tempo allora, ma che si aspettasse di vedere che principio pigliasse tal guerra; perché se fusse ita avanti, sarebbe stato molto meglio indugiare a settembre proximo": ma la sera del 26 ag. 1546, scoperta la congiura, il B. venne arrestato.

Nei confronti degli Strozzi il B. non si lasciò mai andare ad alcun rilievo nei suoi costituti: eppure il priore di Capua aveva avuto notizia dei progetti del lucchese fin dal dicembre del 1544; lasciò poi passare un anno prima di fargli sapere di ritenere necessario un abboccamento; non incontrò il B. che nell'aprile del 1546; rinviò infine come minimo al settembre ogni eventuale azione militare. Nessuna testimonianza consente di sapere in che misura gli Strozzi abbiano preso sul serio il suo piano: certamente essi non correvano rischi e avevano tutto l'interesse a non rifiutare un'offerta, che, per quanto audace e forse irrealizzabile, poteva avere almeno l'effetto di creare una forte tensione in Toscana. Da parte sua il B. ebbe probabilmente coscienza che comunicare il progetto agli Strozzi avrebbe significato lasciar loro buona parte dell'iniziativa: quando fu arrestato - dichiarò con rassegnazione - "esso constituto stava aspettando che dal Priore fusse avisato quel che haveva a fare". Ma, nonostante le apparenze, il fatto d'essersi "consegnato" agli Strozzi pur di non tentare un'avventura solitaria, che non l'avrebbe portato molto al di là di Pisa e che non gli avrebbe consentito di realizzare il grande sogno dell'"unione della Toscana", vale a confermare la piena lucidità della sua azione.

La scoperta della congiura avvenne attraverso una duplice delazione, a Cosimo de' Medici e al governo lucchese. Secondo la versione fornita dal B. (Cesare Benedini riuscì a porsi in salvo ma cadde poi nelle mani di Cosimo che lo fece decapitare nel 1566 e il Carletti era fuori Lucca al seguito di Roberto Strozzi), un certo Andrea Pissini, venuto a conoscenza del "trattato" tramite Cesare, decise, per danaro e per risentimento contro il B. e il governo lucchese, di svelare ogni cosa al duca di Toscana. Dopo aver preavvertito Cesare Benedini, il Pissini lasciò Lucca diretto a Pisa, mentre il B., a sua volta informato, decise la fuga dando ordine di aprirgli le porte della città la notte del 26 agosto. Nel frattempo, tuttavia, uno degli esuli senesi, Giovambattista Umidi, informato dal B. della sua intenzione di fuggire, sperò di salvarsi inextremis denunciando ogni cosa al cancelliere maggiore della Repubblica. In questo modo il tentativo di fuga del B. venne bloccato e al momento in cui Cosimo de' Medici seppe del "trattato" il governo di Lucca poté mostrare di aver già provveduto per suo conto all'arresto del responsabile, il gonfaloniere B., la massima autorità, pro tempore, della Repubblica.

L'improvviso emergere del delatore Pissini è un elemento che sembra confermare il sospetto d'una rete di complicità assai più vasta di quanto il B. non abbia poi ammesso, ma anche in questo caso le indagini non andarono oltre la sua dichiarazione secondo cui Cesare aveva svelato tutto, per leggerezza e a sua insaputa, al solo Pissini. A parte l'interesse della Repubblica di Lucca a circoscrivere il più possibile le responsabilità, occorre anche osservare che il B. ebbe tutto il tempo di preparare una versione ufficiale, con cui affrontare gli interrogatori. La notte fra il 26 e il 27 agosto poté anzi stendere una prima memoria, indirizzata alla Signoria, nella quale ebbe l'ardire di tacere completamente dei contatti intervenuti con gli Strozzi. È vero che li rivelò poi fin dai primi interrogatori, ma questo voluto, iniziale silenzio è indicativo della sua programmatica reticenza.

Già il 28 ag. 1546 il B. venne sottoposto a un primo interrogatorio da parte dei tre giudici della Rota (uno di essi, il senese Camillo Palmieri avrebbe poi definito la congiura "un sogno, et uno giardino di sciochi, et di quelli che si leggeno nei paladini") e dei sei cittadini delegati dal Consiglio generale. Il 31 agosto il servitore Bati da Pontito fu chiamato a confermare il racconto del padrone per ciò che concerneva il viaggio a Venezia, e il giorno seguente e il 3 settembre, questa volta con la tortura, si ebbero due interrogatori del Burlamacchi. Il 1º sett., inoltre, il B. poté stendere altre due memorie, una diretta a Carlo V, andata perduta, l'altra al gonfaloniere della Repubblica di Lucca.

Contemporaneamente si sviluppava il duello diplomatico fra Cosimo de' Medici e la Repubblica lucchese, di cui doveva essere arbitro l'imperatore. I Lucchesi si affrettarono a inviare da ogni parte i loro ambasciatori per informare i diversi governi dell'accaduto, e dettero immediate assicurazioni anche al duca di Toscana, che per sua parte aveva provveduto a mandare a Lucca Angiolo Niccolini. Cosimo I fin dalle prime battute, chiese, per ora cortesemente, ma fermamente, la consegna del B., e a questo Lucca si rifiutò, trincerandosi dietro il diritto di giudicare in prima istanza i suoi sudditi, salva poi l'autorità dell'imperatore (da cui Lucca formalmente dipendeva) di avocare a sé il processo. I Lucchesi sarebbero stati disposti, come massima concessione, a far esaminare il B. fuori del territorio della Repubblica (e beninteso anche fuori del territorio fiorentino) da un commissario imperiale affiancato da un "agente" lucchese e da uno fiorentino, ma Cosimo rimase fermo nella sua primitiva richiesta, e si avvalse del rifiuto della Repubblica di Lucca per sferrare un'offensiva diplomatica che, sfruttando le incertezze e le reticenze emerse dalle prime indagini, tendeva ad addossare direttamente al governo lucchese molte delle responsabilità della congiura. Carlo V, impegnato nella guerra della lega di Smalcalda, decise, il 13 settembre, di far esaminare il B. a Lucca da un commissario nominato dal governatore di Milano, don Ferrante Gonzaga, alla presenza di un inviato di Cosimo. Questi rifiutò di mandare il suo fiduciario e in seguito respinse anche l'offerta ufficiale d'una copia degli incartamenti del processo, salvo poi procurarsene una in segreto.

Il 13 ott. 1546 il B. venne così interrogato dal senatore milanese Niccolò Belloni, che il giorno successivo esaminò anche gli esuli senesi che aveva fatto incarcerare e che furono poi prosciolti. Il 18 e il 19 ottobre il B. venne ancora sottoposto alla tortura, ma "lo prefato signor Commissario... cognoscendo la ferma constantia del detto Bullamacchi; atteso li tormenti hauti et l'apparato del foco fattoli come di sopra, et anchora attesa l'età et delicatezza del suddetto Burlamacchi, che non patiria tanti tormenti se altro sapesse, ordinò fusse lassato et non tormentato".

Gli elementi emersi (e accolti come validi) dagli interrogatori sembravano confermare la tesi della pazzia e dell'irresponsabilità del B., già sbandierata in ogni angolo d'Europa dai mercanti e dai banchieri lucchesi (fra i quali i potentissimi Buonvisi) e sostenuta nelle corti italiane e straniere da altri loro concittadini (primo fra tutti il cognato del B. Niccolò Bernardini, maggiordomo di Ferrante Gonzaga). Il voto del Belloni, inviato a Carlo V, per la sentenza, l'8 novembre, definiva pazzo il B. e si limitava a proporne il temporaneo esilio da Lucca e l'interdizione perpetua dalle cariche pubbliche. Ma le ragioni di Cosimo de' Medici, cui era stata già rifiutata la consegna del prigioniero per non urtare al dovere d'imparzialità dell'imperatore verso Stati che avevano in linea di principio la medesima dignità, non potevano ora essere trascurate, e Carlo V decise per la pena di morte che avrebbe dovuto essere eseguita a Milano.

Il B. ormai taceva e appariva quasi assente dalla vicenda che lo riguardava, semmai soltanto preoccupato (secondo una testimonianza di Gherardo Burlamacchi) d'aver notizie di quei maggiori avvenimenti politici e militari che aveva invano sperato di indirizzare a un nuovo corso. Attorno a lui proseguì frenetica l'attività dei familiari, dei concittadini e dello stesso governo per ottenere una commutazione della pena. Mentre Cosimo insisteva nel suo atteggiamento di sdegnoso disinteresse meditando vendette contro Lucca, Carlo V non poté fare altro che offrire la grazia, a patto che il B. fosse consegnato al duca di Toscana o che questi acconsentisse a una sua perpetua reclusione in un castello dello Stato di Milano. Ma prima che a salvare il B. - ormai semplice posta d'un gioco diplomatico che vedeva di fronte, sospettosissimi l'uno dell'altro, i due Stati toscani - Lucca pensava a stornare puntigliosamente ogni tentativo di Cosimo di intervenire nei suoi affari interni; e il gonfaloniere venne abbandonato al suo destino. Consegnato a don Ferrante Gonzaga, questi poté sospenderne l'esecuzione ancora per un anno, ma dopo le congiure di Giulio Cybo e dei Fieschi la condanna per decapitazione venne eseguita a Milano il 14 febbraio del 1548.

La solidarietà di casata ebbe modo di manifestarsi a favore dei numerosissimi figli del B., quasi tutti avviati alla mercatura. Michele, nato nel 1531, aderì alla Riforma e si stabilì a Ginevra. Adriano, che era nato nel 1534, si trasferì in Fiandra nel 1548 con il cugino Tommaso di Pietro Burlamacchi, con cui collaborò fino al 1553. Dal 1553 al 1560 operò, sempre in Fiandra, al servizio di Tommaso Balbani. Rientrato a Lucca, sposò Leonora di Giovanni Arnolfini con dote di 4.000 scudi; rimasto senza discendenza, fece testamento nel 1616 a favore del nipote Cesare di Federico. Stefano, nato nel 1537, fu in Germania dal 1551, passò poi ad Anversa e rientrò a Lucca nel 1559; fu in seguito in Francia e a Francoforte, dove morì. Federico, nato nel 1539, fu ad Anversa nel 1556; di qui passò allo studio di Lovanio, e si laureò a Bologna in legge; tentò la ventura a Roma e infine rientrò a Lucca, dove sposò Camilla di Baldassarre Guinigi da cui ebbe il figlio Cesare. Cesare, nato nel 1542, fu a Lione con il cugino Gherardo Burlamacchi nel 1570, e qui morì di malattia. Ottaviano, nato nel 1546, morì fanciullo. Delle femmine, Camilla, nata nel 1528, sposò prima (1542) Benedetto di Giovanni Samminiati, e poi (1568) Vincenzo Rinaldi; Maria, nata nel 1530, sposò prima Girolamo Guinigi e poi Girolamo Lucchesini; Lucrezia, nata nel 1531, sposò Tommaso Sandonnini.

Fontie Bibl.: Le fonti principali qui utilizzate sono le seguenti: Lucca, Bibl. govern., ms. 1941: Gherardo Burlamacchi, Diario (sec. XVI); Dichiarazione autografa di F. B. alla Signoria di Lucca intorno al suo trattato [26-27 ag. 1546], a cura di L. Del Prete, in Giorn. stor. degli Archivi toscani, IV (1860), pp. 314-317; costituti del B. (28 ag-19 ott. 1546), editi, con molte lacune, da C. Minutoli in appendice a G. Tommasi, Sommario della storia di Lucca, in Arch. stor. ital., X (1847), pp. 146-162. Le pagine dedicate da M. Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino 1965, pp. 190-218, alla congiura sono quanto di meglio si possieda per la biografia del B.; all'apparato bibliografico del Berengo, cui necessariamente, si rimanda, si aggiungano i seguenti titoli: Lucca, Bibl. govern., ms. 1108: G. V. Baroni. Notizie geneal. delle famiglie lucchesi (sec. XVIII), pp. 230, 237, 241 s., 253, 276, 302, 304, 333, 457, 459 ss.; Ibid., ms. 1039: G. Vannulli, Rime (sec. XVI), c. 37v; Arch. di Stato di Lucca, Anziani al tempo della libertà, n. 145, pp. 281 ss. (mutuo del 1532); Catalogue des actes de François Ier, VIII, Paris 1905, p. 54, n. 29730; M. Rosi, Cenni sulla politica lucchese durante l'assedio di Firenze, in Miscell. lucchese... in mem. di S. Bongi, Lucca 1931, pp. 225 s.; R. Collier-J. Billioud, Histoire du commerce de Marseille, III, 1480-1598, Paris 1951, pp. 218, 226, 318 n.; J. Strieder, Aus Antwerpen Notariatsarchiven. Quellen zur deutschen Wirtschaftsgeschichte des16.Jharhunderts, Wiesbaden 1962, pp. 230, 241.

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